visionaria

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A mio padre, a Maria, a Nevia


FALSOPIANO

CINEMA

VISIONARIA IL CINEMA FANTASTICO TRA RICORDI SOGNI E ALLUCINAZIONI

a cura di

Dario Marzola


Ringraziamenti

Desidero ringraziare il direttore Vittorio Boarini, i proff. Remo Ceserani e Giorgio Cremonini per aver sostenuto calorosamente il progetto fin dall’inizio. Esprimo, inoltre, sincera gratitudine a tutti gli studiosi per il prezioso contributo dato a questo volume. Ringrazio tutti i miei collaboratori, in particolare Simona Rota e Laura Piccinini, per l’importante attività redazionale di revisione delle bozze; Luca Casadio e Sandro Toni per l’enorme pazienza e per il confronto stimolante e costruttivo. Sono davvero grato a tutti coloro che hanno reso possibile, a vario titolo, questo progetto: il prof. Gian Mario Anselmi, Pier Paolo Busi, Alessandro Cattunar, Chiara Cavanna, Cheti Corsini, Tanino De Rosa, il prof. Maurizio Giuffredi, il M° Andrea Mannucci, Fabio Matteuzzi, il prof. Roy Menarini, Maria Luigia Pagliani, Monica Pederzini, la prof.ssa Rossella Piergallini, Roberta Ranon, Roberta Romagnoli, Alberto Ronchi, Massimo Storari e Paolo Zanotti. In ultimo, uno speciale ringraziamento va ai compagni di viaggio che mi hanno sostenuto nelle mie sperimentazioni artistiche: Ilaria Avanzi, Antonella Bianco, Michele D’Attanasio, il M° Fabrizio Fontanot, Guido Michelotti e Cristiana Raggi. Questo volume rientra all’interno di Visionaria – Cinema, immagine della mente, progetto ideato e realizzato dall’Ass. Horizon – Centro per la Ricerca dei Linguaggi interattivi. www.centrohorizon.org Con il patrocinio di:

Comune di Bologna Provincia di Bologna Regione Emilia-Romagna Fondazione “Federico Fellini”

Con il sostegno di:

Fondazione della Cassa di Risparmio in Bologna

In copertina: un frame tratto dal film Fuochi fatui © Edizioni Falsopiano - 2008 via Baggiolini, 3 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Falsopiano Stampa: Impressioni Grafiche S.C.S. a r.l. - Acqui Terme Prima edizione - Maggio 2008


SOMMARIO Premessa

di Dario Marzola Introduzione

Il fantastico cinematografico

p. 11

di Giorgio Cremonini

p. 15

La narrazione fantastica e il cinema

p. 16

Le immagini e le cose

Quella parte del fantastico che chiamiamo horror

p. 22

p. 23

Il fantastico e (è) la metafora

p. 27

Note

p. 31

Tutto è a suo modo fantastico

Parte I - LA NARRAZIONE FANTASTICA Capitolo Primo

La letteratura e il fantastico

p. 28

di Remo Ceserani e Stefano Lazzarin

p. 35

I confini del fantastico in letteratura

p. 35

La questione terminologica

p. 35


Genere e modo

p. 40

Moderno e postmoderno

p. 44

Temi e forme del fantastico Il ritardo italiano

Presenze del fantastico

nella letteratura italiana contemporanea Note

Capitolo Secondo

L’infrazione del reale: Tecniche e strategie narrative del fantastico nel cinema contemporaneo

p. 41

p. 43

p. 45 p. 47

di Davide Turrini

p. 49

Come il fantastico si introduce nel cinema

p. 49

L’effetto rottura/sorpresa

La scelta dei titoli che (non) rappresentano il tutto

Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio

Il labirinto del fauno

p. 50

p. 51

p. 52 p. 53

The Descent - Discesa nelle tenebre

p. 54

Note

p. 58

Lady in the Water Conclusioni

p. 56

p. 57


Parte II – RICORDI SOGNI E ALLUCINAZIONI Capitolo Terzo

Il cinema fantastico e il perturbante, tra psicoanalisi e cinema di Luca Casadio

p. 61

Percezione “reale” e altre possibili codifiche

p. 65

Il cinema della mente

Freud e il perturbante

Il perturbante e la ri-trascrizione. Tra memoria e delirio

Memoria, percezione, rappresentazione e genere fantastico Conclusioni

Note

Capitolo Quarto

Ricordi, sogni e allucinazioni nel cinema fantastico.

Tecniche di messa in scena

p. 61 p. 66

p. 70

p. 72

p. 79 p. 81

di Dario Marzola

p. 82

Le immagini della mente

p. 83

Voci e pensieri

Ricordi liquidi e memorie silenziose

Sogni occultati e onirismo diffuso

Metamorfosi audiovisive

Note

p. 89

p. 91

p. 96

p. 103 p. 108


Parte III – I REGISTI Capitolo Quinto

Nel laboratorio della memoria involontaria. Alain Resnais e le visioni di Providence

di Roberto Chiesi

p. 113

La stanza dell’io

p. 116

Nel teatro dell’adulterio

Note

Capitolo Sesto

p. 117

p. 122

Il tempo del cinema e la sua immaginazione. Gli universi del fantastico

di Andrej Tarkovskij e Federico Fellini

di Fabrizio Borin

p. 125

Dissolvenze incrociate

p. 125

Melanconia del passato tra desiderio e visionarietà

Viaggi negati e fantasmi della classicità

Un cinema di specchi pieni d’aria Dissolvenza di chiusura

Note

p. 130

p. 134 p. 137

p. 138

p. 139


Capitolo Settimo

Limes – le soglie del fantastico: David Lynch e

David Cronenberg, figure dell’allucinazione lucida di Roy Menarini

Note

Appendice

p. 143 p. 150

Gli autori

p. 152

Bibliografia

p. 164

Filmografia

p. 156


PREMESSA

di Dario Marzola L’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile.

Paul Klee

Una mappa… Tutto è iniziato dall’idea che ricordi, sogni e allucinazioni siano una specie di mappa in continua trasformazione, capace di dirci da dove veniamo, dove siamo e dove forse andremo. L’immagine mentale può essere intesa come il luogo dell’immaginazione e delle possibilità, lo strumento attraverso il quale costruiamo la “realtà” nell’interazione con gli altri. Da quest’idea è nato “Visionaria - Cinema, immagine della mente”, un progetto di ricerca, formazione e produzione artistica. Il punto di partenza è stato la costituzione di un archivio di sequenze filmiche: una raccolta di ricordi, sogni e allucinazioni, da opere degli anni ’50 fino alle produzioni più recenti. L’analisi di questo materiale ha permesso di sviluppare un particolare approccio espressivo, utilizzato all’interno di un laboratorio per attori e videomaker, da cui sono emerse molte idee confluite poi nel film Fuochi fatui, da me diretto nel 2007. Il presente volume vuole essere un ulteriore punto di vista su queste tematiche, ma anche un diario di bordo di quest’esperienza che mi ha coinvolto per più di due anni. Perché curare l’edizione di un testo sul cinema fantastico? La principale motivazione sta nel rapporto tra la contemporaneità e uno degli elementi costitutivi del fantastico: rappresentare, in un mondo che riconosciamo come “nostro”, un evento inspiegabile o assurdo o sovrannaturale che produce una rottura, una messa in discussione delle abitudini percettive e delle convenzioni culturali consolidate. Il fantastico è infatti legato intimamente con il presente, con le conoscenze scientifiche e tecnologiche attuali, con quella convenzione culturale che chiamiamo “realtà”. Si tratta di una modalità dell’immaginario che affonda le sue radici in una terra di confine in costante movimento. La nostra immagine del mondo si trasforma continuamente: oggi, la scienza ci offre nuove metafore come la coe12


sistenza di più piani di realtà, mentre la tecnologia ci permette di vivere luoghi e identità virtuali. Di fronte a questa realtà “liquida”, mutevole e sfuggente, il fantastico può ritrovare un’inaspettata forza espressiva per la sua capacità di allargare le nostre percezioni, di narrare i percorsi possibili, le contraddizioni della nostra mente, i pensieri che non trovano parole. Il cinema fantastico è dunque un modo narrativo che affronta di petto l’invisibile, ciò che va oltre i limiti del raffigurabile. Buñuel ci riferisce di una sua conversazione con Zavattini. “Per un neorealista, gli dicevo, un bicchiere è un bicchiere e nient’altro; lo si vedrà tirato fuori dalla credenza, riempito di qualche bevanda, portato in cucina dove la cameriera lo laverà o potrà romperlo, il che comporterà il suo licenziamento oppure no, ecc. Ma questo stesso bicchiere contemplato da persone differenti, può essere mille cose diverse, perché ciascuno mette una dose d’affettività su ciò che osserva, perché nessuno vede le cose come sono, ma come i suoi desideri e lo stato d’animo glielo fanno vedere. Io lotto per un cinema che mi farà vedere questa specie di bicchieri, perché questo cinema mi darà una visione integrale della realtà, accrescerà la mia conoscenza delle cose e delle persone, mi aprirà il mondo meraviglioso dell’ignoto […]” 1.

Due sono le caratteristiche principali di questo libro: l’approccio comparato, attraverso il quale il fantastico è visto da più angolazioni con contributi provenienti da discipline differenti; la centralità del linguaggio e della tecnica cinematografica per evidenziare le caratteristiche e il funzionamento di questa particolare modalità dell’immaginario. Per quanto concerne la struttura, il volume consta di tre sezioni, con cui si seguono indirettamente le fasi di costruzione di un film. Nella prima s’affronta il fantastico come narrazione, analizzando quella particolare combinazione di tematiche e strategie su cui si regge, e aprendo una riflessione sulla sua presenza nella contemporaneità. Nella seconda parte ci si concentra su uno specifico tema del fantastico: la proliferazione delle immagini mentali; argomento che viene affrontato sul piano dei modelli di messa in scena e delle strategie registiche. Il volume si conclude con una terza sezione più prettamente “interpretativa”. Senza alcuna pretesa di esaustività, si cerca di analizzare, come il fantastico e la rappresentazione delle immagini mentali abbiano trovato differenti e originali espressioni all’interno di specifiche opere cinematografiche; film realizzati da registi molto distanti tra loro, ma che hanno in comune l’aver reso il fantastico una parte organica del proprio mondo poetico. 13


Con un articolato corpus di saggi, si vuole porre l’attenzione sull’operare di alcuni cineasti, sui problemi linguistici che un autore deve affrontare nel portare avanti una narrazione fantastica. Lavorare “sull’ambiguità” significa cercare un delicato equilibrio all’interno delle strategie del sapere tra istanza narrante-personaggio-spettatore, evitando di cadere nel didascalico, nel ridicolo involontario, ma anche nel non-sense imprevisto. Ad un autore è richiesta un’attenzione maniacale per i dettagli che nel cinema fantastico si caricano di soggettività/emotività, diventando un vero e proprio personaggio. È inoltre necessaria una sensibilità nei confronti di una rete complessa di collegamenti narrativi: nel fantastico tutto torna secondo un meccanismo di sovradeterminazione. Questa ricerca di equilibrio investe anche quel particolare procedere narrativo che potremmo definire con l’espressione di “straniamento empatico”: una combinazione tra meccanismi che immergono lo spettatore nel mondo della storia ed effetti perturbanti, in cui il “gioco”, la struttura, si denuda. Il fantastico si regge dunque su una serie di ossimori, sull’armonia tra contrasti che non devono risolversi, per ritornare in maniera ossessiva secondo un ritmo non lineare ma circolare. Bologna, 15 gennaio 2007

Note 1

A. Cattini, Luis Buñuel, Il Castoro, Milano, 1995, cit., p. 3-4.

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Shining, 1980

Shining, 1980

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INTRODUZIONE Il fantastico cinematografico di Giorgio Cremonini

In tutti gli scritti dedicati al cinema fantastico lo spazio preliminare e propedeutico – quello delle definizioni e delle coordinate generali del discorso – è riservato alla letteratura: quando si parla di fantastico, infatti, si parla di racconto e quando si parla di racconto non si può non parlare anche di letteratura [cfr. Capitolo I – La letteratura e il fantastico, ndr]. In questo ambito la definizione che di fantastico dà Tzvetan Todorov è un assunto preliminare quasi d’obbligo: “In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote […]. Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza […], è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale” 1.

La definizione, per quanto rigorosa, ha un limite, che vale sia per la letteratura che per il cinema: da un lato confina il fantastico in pochissime opere (lo stesso Todorov non abbonda in esempi) rendendola di fatto scarsamente fruibile; dall’altro chiama in causa una nozione inevitabilmente generica come quella di “mondo che è sicuramente il nostro”, che è un po’ come parlare di “realtà” (termine che comparirà per altro più volte anche in queste pagine). Ciò non toglie tuttavia, come vedremo, il fantastico sensu Todorov esiste; semmai si può obiettare che esiste anche un altro tipo di fantastico, in cui esistono spiegazioni che non rientrano nelle “leggi del mondo che ci è familiare”, ma non per questo escludono effetti perturbanti (termine non scelto a caso, com’è ovvio): per esempio, un’invasione della terra da parte di 16


alieni è in sé una spiegazione, ma non rientra certo nelle nostre “leggi” e sposta radicalmente il racconto in un ambito per l’appunto alieno. Per comodità di lettura darò alla prima accezione, quella todoroviana, il nome di fantastico s.s. e alla seconda quello di fantastico l.s. - il che non esclude possibili commistioni. La narrazione fantastica e il cinema

Prima di approfondire la distinzione, insieme a quelle che ne conseguono, è forse opportuno considerare la valenza in più che il cinema introduce nella questione: perché il cinema racconta mostrando o mostra raccontando, che è la stessa cosa. La sua struttura linguistica è in sé complessa, polimaterica, fatta di intersezioni e sovrapposizioni, non piattamente riconducibile all’analisi letteraria, che parla solo di parole. Nel cinema il fantastico è contemporaneamente di ordine narrativo e di ordine figurativo, sintattico e paradigmatico, con combinazioni che possono essere molteplici, a volte predominando l’uno, a volte l’altro dei due ordini. Quando ci troviamo di fronte a mostri, alieni o scenografie avveniristiche, ma in un mondo che tutto sommato continua a seguire, almeno per grandi linee, la logica del nostro mondo, l’ordine narrativo si coniuga con quello figurativo: l’aspetto (ed eventualmente l’orrore) che quelle figure suscitano sono inserite in una storia e questa ha presupposti lontani dal mondo in cui viviamo. Per esempio, La guerra dei mondi [S. Spielberg, 2005] appartiene al fantastico l.s., presentandosi di fatto come un film di guerra in cui i nemici sono alieni mostruosi e aggressivi (il ricordo delle Twin Towers è evidente); il solo momento in cui possiamo riconoscere il fantastico s.s. è un’immagine di pochi secondi in cui un treno in fiamme attraversa lo schermo, improvvisa e inspiegata - immagine che colpisce più di quanto non facciano i “meravigliosi” alieni in guerra: in una guerra in cui torme di umani cercano di sfuggire agli invasori un elemento non necessario alla diegesi irrompe sullo schermo ed è proprio questa sua inutilità a renderlo perturbante. Dracula di Bram Stoker [F. F. Coppola, 1992] racconta una tragica storia d’amore e di morte, innestata da un lato sulla valenza erotica del mito (il fascino del vampiro) e dall’altro sullo schema mélo standard della Bella e la Bestia; ma questo duplice approccio passa anche attraverso immagini che ci portano in un mondo in cui i lupi non sono soltanto lupi e gli uomini possono trasformarsi in pipistrelli, nebbie verdognole, topi o altro, oltre che vive17


Bella di giorno, 1967

Bella di giorno, 1967

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re per centinaia d’anni ed essere di volta in volta giovane o vecchio; il vampiro per eccellenza vive in una sorta di mondo parallelo, ritagliato all’interno del nostro, e riafferma sia la propria personale dimensione del tempo, sia le proprie capacità metamorfiche. È un elemento dichiaratamente alieno in un “nostro mondo” totalmente riconoscibile (anche se datato alla fine del XIX secolo). Se c’è sospensione del senso, essa sta tutt’al più nell’incertezza del comportamento di certi personaggi (Lucy, Mina, ma anche Jonathan) che oscillano fra il rifiuto e l’accettazione - cosa che varrebbe, in quanto tale, anche per personaggi di un film “realistico”. Shining [S. Kubrick, 1980] si offre per la sua quasi totalità ad almeno due spiegazioni: una “realistica” (il protagonista potrebbe essere pazzo) e una fantastica (l’Overlook Hotel potrebbe essere effettivamente infestato da fantasmi). Di volta in volta possiamo propendere per l’una o per l’altra, ma alla fine ci rendiamo conto che nessuna ipotesi regge fino in fondo: il protagonista è folle, ma non vediamo solo i frutti della sua pazzia; allo stesso modo tutta la storia non si spiega con i soli fantasmi. Quando la macchina da presa, al termine di una carrellata apparentemente superflua, giacché la storia si è già conclusa, scopre in una fotografia scattata il 4 luglio 1921 lo stesso Jack Nicholson che abbiamo appena visto morire, inchiodato nel suo freeze al cuore del labirinto, non abbiamo scampo: nessuna spiegazione potrà mai ricomporre il disegno che è appena andato distrutto. Quella coda ci dice che Shining non è la storia di una follia, o almeno non solo quella; che non è una storia di fantasmi, o almeno non solo quella. Ma non ci dice che storia è veramente, è una storia che si autosospende sul piano del senso, perché fra i molti tasselli che si presentano tutti perfettamente conseguenti in sé e che potrebbero essere attribuiti allo strano o al meraviglioso, ce n’è almeno uno che non quadra e contraddice i precedenti. L’immagine finale di Shining esclude a posteriori ogni possibilità ermeneutica della diegesi: ci turba, perché non chiude il racconto, ma lo riapre. Le due sequenze di chiusura di Bella di giorno [L. Buñuel, 1967] ci mostrano due soluzioni possibili, equivalenti, entrambe potenzialmente realistiche (dotate di una oggettiva, anche se diversa, consequenzialità narrativa) e proprio per questo discordanti fra loro in modo radicalmente incomponibile: già più appigli in questo senso li offre Il fascino discreto della borghesia [L. Buñuel, 1972], il cui puzzle a incastri potrebbe essere interpretato come una serie di sogni alla cui origine c’è quello dell’ambasciatore e tutti gli altri sono sogni dentro a un sogno. In Bella di giorno l’esitazione di cui parla Todorov si fa ontologica e perciò, ancora, perturbante. La conclusione non ci 19


rivela alcuna verità, oppure ci rivela due verità, o infine afferma solo una negazione: la verità non esiste. La seconda parte di Mulholland Drive [D. Lynch, 2001] rovescia, riprende, riavvolge la storia della prima parte, invertendo i ruoli delle attrici, in uno slittamento diegetico radicale (l’idea in fondo riprende, con qualche variazione, quella di Quell’oscuro oggetto del desiderio [L. Buñuel, 1977], con due attrici a interpretare alternatamente lo stesso personaggio). Lo sbandamento che induce il salto fra la prima parte e la seconda ha una propria funzione metadiegetica, in cui il confine con la “realtà” proprio di ogni finzione è labile e impreciso: cade ogni regola generale di contiguità, il mondo della fiction diventa un mondo autonomo, in cui tutto avviene solo in quanto enunciato (lo stesso discorso vale, con ancora maggiore evidenza, ai limiti dell’astrazione, se non oltre, per Inland Empire – L’impero della mente [D. Lynch, 2006]). Quello del racconto diventa un mondo che dichiara la propria fluidità autorefenziale sin dalle radici: ciò che viene rovesciato e messo in crisi non è la rassomiglianza con la realtà ma il codice della narrazione, cioè del filtro che ci comunica quella contiguità quanto meno metonimica. Un’altra giovinezza [F. F. Coppola, 2007], racconta una non-storia, simile a un caleidoscopio d’immagini che potrebbe essere attribuito a una sorta di sogno del protagonista, ma allo stesso modo potrebbe essere un racconto fantastico s.s., libero da ogni logica narrativa. Qualunque sia la spiegazione che decidiamo di dargli - e che rimane comunque arbitraria - il fascino perturbante del film rimane immutato, perché sta nella somma dei suoi frammenti. Sono solo alcuni dei molti esempi possibili, ma ci permettono di arrivare a ciò che li lega strettamente, cioè l’esitazione di senso di cui parla Todorov e il perturbante definito da Freud [per una rilettura del concetto di perturbante cfr. Capitolo III – Il cinema fantastico e il perturbante, ndr]: “la parola tedesca unheimlich [perturbante] è evidentemente l’antitesi di heimlich [confortevole, tranquillo, da Heim, casa], heimisch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare. Naturalmente, però, non tutto ciò che è nuovo è spaventoso, la relazione non è reversibile; si può dire soltanto che ciò che è nuovo diventa facilmente spaventoso e perturbante, [ma] bisogna aggiungere qualcosa al nuovo e all’inconsueto perché diventi perturbante. [Infatti] ci troviamo esposti a un effetto conturbante quando il confine fra fantasia e realtà si fa labile. [Tuttavia] il perturbante che appartiene al mondo della finzione letteraria - e cioè della fantasia e della poesia […] - abbraccia un campo molto più vasto del per-

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turbante che si sperimenta nella vita […]. Molte cose che sarebbero perturbanti se accadessero nella vita non sono perturbanti nella poesia [e] nella poesia, per ottenere effetti perturbanti, esistono una quantità di mezzi di cui la vita non può disporre […]; la finzione crea nuove possibilità di sentimenti perturbanti che non hanno riscontro nella vita vissuta” 2.

Quello che in prima istanza interessa qui è la duplicità prospettica del termine: il perturbante può essere interno, cioè mediato e nel testo, in cui i personaggi di un racconto vivono un’esperienza fantastica senza saperlo e di cui invece noi potremmo essere o arrivare ad essere perfettamente a conoscenza (sarebbe quindi il racconto di un’esperienza vissuta come perturbante da uno o più protagonisti); oppure può essere esterno, cioè immediato e del testo, cioè in grado di investire il lettore o lo spettatore, mentre i personaggi potrebbero non trovare nulla di anomalo nel mondo in cui vivono. Nel primo caso ci affidiamo alla mediazione - focalizzazione di un personaggio, a una sorta di garanzia preliminare circa l’attendibilità di quel mondo in cui quel personaggio vive e che egli stesso considera familiare, mostrato come possibile e quotidiano (ciò non toglie ovviamente che ai nostri occhi possa apparire sconvolgente). Nel secondo caso la nostra percezione è immediata, il patto fictional è sconvolto, succede qualcosa che non è più riconducibile a una maggiore o minore rassomiglianza col nostro mondo: vediamo insomma che qualcosa non quadra, indipendentemente da ogni reazione del personaggio. In entrambi i casi vale la conclusione cui approda Stefano Lazzarin: “si dice “fantastico” un testo nel quale [una] apparizione (in senso lato) è il tramite di una percezione “conflittuale” - che mette l’uno contro l’altro il mondo delle nostre certezze quotidiane e (per dirla con Caillois) il mondo dell’Impossibile” 3.

Che sia o meno guidata dallo sguardo di un personaggio, questa “percezione conflittuale” implica come termine di riferimento la nostra rappresentazione mentale e culturale della “realtà” (per quanto riguarda specificamente il cinema, si dovrebbe chiamare in causa anche una rappresentazione fisica, su cui per altro bisognerà aggiungere qualche chiarimento); implica insomma quella sorta di presunzione di realtà che è alla base della nostra conoscenza: una realtà come insieme delle conoscenze ed esperienze di cui disponiamo e in base alle quali organizziamo la nostra esistenza – ciò che sappiamo del mondo, insomma, e che fonda la nostra esperienza, nonché le 21


connesse attribuzioni di possibile e plausibile. In ogni racconto o film i parametri essenziali, per essere compresi, devono essere condivisi, perché sono alla base della sua percezione: le coordinate spaziali sono le stesse in cui ci muoviamo (a parte la terza dimensione, che nessun sistema 3D è fino ad oggi riuscito a conquistare); le coordinate temporali possono essere frammentate e disordinate, ma senza perdere riconoscibilità (i flashback, i sogni, ecc). Per essere precisi, questa presunzione di realtà non è l’impressione di realtà di cui parla Christian Metz a proposito del linguaggio cinematografico (questa semmai appartiene a quella). È un sistema culturale di elaborazione delle conoscenze, l’insieme dei discorsi di cui disponiamo a proposito di quella che astrattamente definiamo realtà: ne è il versante empirico, culturale, retorico e storico. È il fondamento sulla base del quale definiamo come verosimile un avvenimento, anche quando siamo certi della sua natura fictional. Nessun film riproduce la realtà, malgrado ogni fedeltà fotografica e malgrado ogni sforzo di sincerità. Ma il problema non è questo. Decidiamo che le storie di Shining, Bella di giorno e Mulholland Drive ecc. sono fantastiche perché concentrano sensi multipli dove di norma ce ne aspettiamo uno solo perché concentrano più storie in una storia sola, rendendola logicamente indecifrabile, ambigua, sospesa, perturbante appunto. L’ambiguità come doppio senso (o addirittura come senso multiplo) dell’enunciato è alla base sia del fantastico s.s., sia del fantastico s.l.: quello che siamo abituati a pensare come ciò che è si presenta nella forma di ciò che potrebbe essere e quindi, di fatto, di ciò che non è. D’altra parte, se è vero che in ogni riflessione sull’estetico dobbiamo abbandonarci ermeneuticamente al condizionale, è anche vero che qui persino il condizionale viene negato, e semmai recuperato a posteriori nella sua dimensione metaforica. Parafrasando lo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, si può dire che le diverse attribuzione di possibile si escludono a vicenda e quello che rimane è solo l’impossibile (come in Shining, appunto, o Bella di giorno). Possiamo paragonare la presunzione di realtà a un cerchio, all’interno del quale si colloca il possibile, all’esterno l’impossibile: il fantastico, che ha sempre bisogno di una referenzialità da negare o alterare, diventa allora una sorta di tangente, qualcosa che sfugge al contatto, ma al tempo stesso viene definito proprio a partire da quel contatto. Il fantastico cresce sull’interruzione del cordone ombelicale che ci lega alla nostra presunzione di realtà (che non è giusta in sé, ma semplicemente valida): non è un modello chiuso, né dal punto di vista narrativo, né da quello figurativo (non è un genere, insomma), ma semmai una scelta stilistica e poetica, un modo (non a caso, in sin22


tonia con Ceserani, Lazzarin ha intitolato il suo scritto Il modo fantastico). Per questo comprende generi diversi (la fiaba, l’horror, la fantascienza, ecc), ciascuno dei quali ha sottocodici propri, che però continuano a ritagliarsi il loro spazio all’interno di un campo comune, definito sulla base della rottura del confine realistico-fantastico. È vero, come dice Remo Ceserani, che “di fronte alla tendenza di fare del fantastico semplicemente il contrario del realistico ci si sente quasi disarmati” 4: che, insomma, l’opposizione è ovvia e banale, e l’uso di un termine elaborato come presunzione di realtà potrebbe far pensare a un escamotage puramente linguistico. Ma è anche vero che, se non si riconosce una qualche forma di realistico (comunque lo si voglia chiamare) non si può nemmeno giungere al cuore del fantastico. In questa direzione si muovono anche le indicazioni di Lucio Lugnani ricordate dallo stesso Ceserani: esiste un “paradigma di realtà” 5 che corrisponde nelle linee generali al “mondo delle nostre certezze quotidiane” di Lazzarin. D’altra parte, la banalità della semplificazione fantastico vs realistico viene superata nel momento in cui, accettate la genericità delle definizioni, ci si sofferma su quel vs, ovvero sul limite e lo scarto. Le immagini e le cose

Quello che unisce e divide il discorso dalla “realtà” è il linguaggio, cioè un ordine che noi diamo al mondo e alla conoscenza che ne abbiamo. La scrittura è la differenza, anche quando si tratta di una scrittura per immagini – anche quando non è in gioco il lessico, ma l’iconicità. Fin qui, però, tutto sembrerebbe ricadere in un confronto fra i due rapporti parole/cose e immagini/cose, ovvero in un confronto che è sin troppo ovvio definire come alienante o insoddisfacente (ogni linguaggio lo è): le parole non sono le cose, le immagini non sono le cose. In quanto a rassomiglianza, le seconde hanno certamente la meglio sulle prime, dal momento che si fondano su quella “impressione di realtà” che le vincola a una sorta di realismo ontologico del mezzo, ma è altra cosa dal realismo o irrealismo del singolo prodotto. Prendiamo ad esempio un sogno o il semplice fatto di sognare. Non c’è dubbio che la storia sognata, per quanto coerente e/o rassomigliante possa essere, non è la “realtà”; ma al tempo stesso appartiene alla nostra mente, alla nostra psiche; non gli diamo la patente di esperienza, ma non basta dichiararlo ininfluente perché lo sia. Dopo tutto siamo fatti della materia di cui son 23


fatti i sogni, come direbbero Shakespeare e Hammett. Qualunque sia questa materia, in ogni caso, la messa in scena di un sogno è altra cosa dal sogno, come ogni messa in scena “realistica” è altra cosa dalla realtà: implica per definizione una sua razionalizzazione, almeno parziale; è la costruzione o la ricostruzione di una perturbazione. L’arte e l’estetica sono intrinsecamente trasformative: non rappresentano, ma evocano e inventano. La loro eventuale fisicità (come quella che possiamo attribuire appunto all’impressione di realtà del cinema) è solo un mezzo. La peculiarità del cinema sta nel servirsi della realtà più di quanto facciano le altre arti, ivi compresa la fotografia, da cui si distingue per l’aggiunta essenziale del movimento; la sua capacità evocativa è molto più ravvicinata di quella offerta dalla parola, dalla pittura e dalla scultura, che pagano, per così dire, lo scotto della mancanza di movimento. Quella parte del fantastico che chiamiamo horror

In Alien [R. Scott, 1979] o in La cosa [J. Carpenter, 1982] vediamo mostri che non solo si comportano a tratti come esseri umani (lo sdoppiamento della figura materna nel film di Scott), ma li penetrano, s’impossessano del loro corpo e ne escono con forme stridenti (mirabile nel secondo l’evocazione di un’Aracne mutuata da Gustave Doré, vero e proprio simbolo del perturbante). Di fronte alle metamorfosi di La mosca [D. Cronenberg, 1986] siamo orripilati dalle trasformazioni del corpo umano, dal suo diventare connubio rassomigliante e mostruoso al tempo stesso. Lo spazio astratto del viaggio oltre l’infinito di 2001: Odissea nello spazio [S. Kubrick, 1967] non è altro che una variazione sul tema del viaggio in genere, in cui i paesaggi sono ora variazioni fotografiche di paesaggi terrestri, ora veri e propri approdi, con relativo contrasto, all’astrazione geometrica di giochi di luci e colori (come, del resto, in certo cinema di Antonioni, soprattutto Deserto rosso [1964], ma anche le parti finali di La notte [1960] e L’eclisse [1962], o più ancora l’incertezza semantica di Blow-up [1966]: niente di platealmente fantastico, ma una commistione di piani percettivi che è in sé perturbante). In questi casi siamo semplicemente chiamati a rivivere le esperienze dei protagonisti attraverso i loro occhi: l’“esitazione” è nel testo e noi ne siamo testimoni e complici, oltre che destinatari; assistiamo a storie che, date le loro premesse, scorrono perfettamente logiche: esistono dei mostri aggressivi e i personaggi ci raccontano, attraverso le loro azioni, sia le loro paure che i loro gesti, specchio deformato delle nostre paure e dei nostri gesti; esiste un uomo che si 24


contamina incidentalmente con un insetto e noi viviamo la sua angoscia, la sua disperazione per interposta persona, perché ci riconosciamo in lui, nel suo orrore; esiste un astronauta che vede cose che non ha mai visto prima, parafrasi e metafora di un impossibile che diventa possibile davanti ai suoi e ai nostri occhi, che quell’impossibile lo vedono direttamente e con stupore. Si può inventare un mondo visibile e al tempo stesso inesistente, tanto più oggi che le tecniche digitali permettono al cinema di liberarsi dell’obbligo di una referenzialità diretta. Non che sia facile, ma è possibile inventare un futuro - un tempo e uno spazio - popolato di esseri mostruosi e di paesaggi inaspettati, come un’estrapolazione del nostro presente o del passato. Si possono proiettare nel futuro le paure del nostro tempo, usare un linguaggio metaforico per parlare dell’oggi o di quello che riteniamo essere un sempre, ovvero registrare in forme convincenti quelle paure e le figure della nostra presunzione di realtà che possono evocarle. Si può fare ricorso a make-up più o meno sofisticati e a qualche trucco ottico ed ecco che l’impossibile diventa possibile, il mai visto diventa rappresentabile, il futuro o il non-tempo diventa il presente. Le alterazioni e rotture della presunzione di realtà portano il cinema a popolarsi di figure che non abbiamo mai visto prima (definizione in sé insufficiente, dal momento che potrebbe adattarsi anche a molti film “storici”, se non a tutti film: sarebbe forse meglio dire “che non abbiamo mai immaginato prima”, ma anche la differenza fra visione e immaginazione è labile). E qui il fantastico l.s. può rientrare nella categoria dei generi cinematografici, grazie soprattutto alla sua suddivisione in sottogeneri. Per esempio, abbiamo i “film di mostri”, in cui questi sono di volta in volta o umani dall’aspetto mostruoso (il vampiro, l’uomo lupo, a suo modo anche l’uomo invisibile) o alieni dall’aspetto altrettanto mostruoso (anche se esistono, accanto alla Guerra dei mondi e derivati, eccezioni come L’invasione degli ultracorpi [D. Siegel, 1956] o infine qualcosa che si colloca a metà strada, come gli zombi. Caratteristica dominante in molti di questi casi è la trasformabilità, oggi favorita da sofisticati effetti speciali, per cui un volto e un corpo si trasformano in qualcosa d’altro, con un’accelerazione e concentrazione temporale di cui nessuna chirurgia estetica può approfittare. A volte basta la sostituzione, progressiva o drastica, del nuovo corpo al vecchio, come nel Cronenberg di Crash [1996] o eXistenZ [1999]. La riconoscibilità del connubio io-altro emerge con peculiare evidenza nelle storie dei tanti “doppi” che già quasi due secoli fa sconvolgevano i personaggi di Poe. Di lì al carattere perturbante di un’identità ripetuta, clonata, 25


uguale e altra allo stesso tempo, che segna una delle sequenze più angoscianti di A.I. [S. Spielberg, 2001] il passo è breve. In senso inverso funziona la scoperta dello sdoppiamento che, sulla scia del celebre romanzo di Stevenson, rivela per ogni dottor Jekyll il suo mister Hyde. Ci guardiamo allo specchio e vediamo qualcuno che non è più noi, ma che al tempo stesso sappiamo essere noi: paradosso perturbante come pochi, che il cinema non si limita ad evocare, ma rende concreta e visibile. E poi c’è il tempo, anch’esso a suo modo doppio o multiplo, egualmente possibile e impossibile. Da un lato ci sono le mummie che ritornano da un passato troppo lontano per essere plausibile; gli zombi che riemergono da un passato più vicino, ma non meno inquietante; i vampiri, con la loro immortalità, anch’essa a suo modo effimera; i fantasmi, la cui natura ectoplasmatica e incorporea finisce così spesso per essere relegata al mondo della commedia. Dall’altro ci sono le macchine del tempo, inventate da H.G. Wells, ma destinate a rinnovare la loro presa spettacolare grazie al cinema e alla sua capacità di ricostruire un mondo, di qualunque epoca, con sufficiente verosimiglianza, a maggior ragione quando si tratta di macchine “naturali”, cioè di persone in grado di vedere, sia pure per flash, il futuro, come in Shining, in La zona morta [D. Cronenberg, 1983], in The Gift [S. Raimi, 2000], da cui è nata addirittura una series tv, Medium. In molti casi come quelli qui citati, non si può fare a meno di notare che il futuro è in realtà solo uno dei possibili futuri: da questa indecisione nasce in fondo anche il sin troppo accomodante e poco perturbante Minority Report [S. Spielberg, 2002]. Nella fantascienza spaziale il futuro è messo in scena nella forma di un approccio a nuovi mondi più o meno simili al nostro. Il fatto che questo futuro possa essere spostato nel nostro oggi, come in La guerra dei mondi e derivati, non cambia nulla: quello che vediamo non esiste, ma è l’irruzione di una possibilità nell’oggi: su questo in fondo si costruisce l’intero - e questo sì perturbante, sia pure nella forma più logica e conseguente - Il dottor Stranamore [S. Kubrick, 1963] oppure il più “realistico” A prova d’errore [S. Lumet, 1963]. Basta poco per riconoscere nelle distopie celebri di 1984 di George Orwell o di Il mondo nuovo di Aldous Huxley una parafrasi del loro presente e che vediamo in buona parte realizzato oggi. Il fantastico è sia lo scontro fra possibile e impossibile all’interno dello stesso enunciato o sistema di enunciati, sia un modo di scoprire nel presente il possibile, attraverso la forma di ciò che al momento è impossibile 6. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il rispetto delle norme di genere fa sì che ci si trovi di fronte a opere già entrate nella nostra presunzione di realtà 26


e come tali destinate a perdere ogni potenzialità perturbante. Sappiamo già tutto della creatura di Frankenstein o di Dracula, non è la loro qualifica tradizionale che può perturbarci. Cadono i presupposti di ogni contrasto fra possibile e impossibile, perché le fantasie del passato hanno fornito un sistema di riferimento molto elastico, grazie al quale l’impossibile è già diventato possibile, anche se nella sua forma metaforica. Come dire che ci siamo già abituati. Sappiamo che figure o eventi simili non esistono nella realtà, ma al tempo stesso li riconosciamo perché appartengono al nostro immaginario e all’industria culturale che lo plasma: ciò che chiediamo loro è di rispettare le attese, non di stupirci. D’altra parte uno dei pericoli maggiori che corre il fantastico s.l. è quello del manierismo, in cui ogni figura si limita a rivivere nella forma che già conosciamo, come variazione su un tema che è tanto noto quanto appetibile: è questo un fantastico infantile, tipico del bambino che ama sentirsi raccontare sempre la stessa storia. Nel 2006 George A. Romero realizza l’ennesimo remake del suo “classico” La notte dei morti viventi [1968]: si tratta di La terra dei morti viventi [2006], in cui una moderna metropoli si ritrova assediata da una periferia di zombi tenuti tranquilli dai fuochi d’artificio (parafrasi economica delle nostre tv); questi covano istintivamente una rivolta e alla fine riescono a superare ogni sbarramento e a punire come si deve i “cattivi”, ovvero i ricchi padroni della città. Al di là della riuscita del film, spettacolare quanto basta e gore più di quanto basti, gli zombi rivelano e ribadiscono la loro natura “mitica”, cioè rifanno se stessi, come accade ai vari Dracula, Frankenstein, uomini lupo e via dicendo. L’armamentario dell’horror è infatti vasto e ripetuto, non sempre capace di rivitalizzare le proprie origini, ora cannibalesche, ora religiosamente trasgressive: si offre insomma come un catalogo di archetipi cui attingere, con maggiore o minore fantasia, ma sempre legati alla propria e ormai secolare definizione antropologica. L’elemento che caratterizza con maggiore costanza queste rivisitazioni è probabilmente la metamorfosi, dotata di un ampio repertorio letterario, ma capace di esplicitarsi visivamente e con maggior forza perturbante nell’apparente fisicità delle immagini. Soprattutto a partire dagli Anni ’80 gli schermi sono stati invasi da uomini lupo, la cui trasformazione in diretta (e non più secondo l’antiquato procedimento delle sovrimpressioni) acquista una particolare efficacia spettacolare grazie al perfezionamento crescente degli effetti speciali: Un lupo mannaro americano a Londra [J. Landis, 1981], L’ululato [J. Dante, 1981], In compagnia dei lupi [N. Jordan, 1984] instillano nella nostra mente il sospetto, irrazionale ma egualmente credibile, di corpi che 27


sono in sé potenzialmente mutevoli e ostili 7. Lo stesso accade per i corpi che vengono invasi da alieni devastanti (La cosa o Alien) o si trasformano per qualche errore tecnico durante più o meno curiose sperimentazioni tecnicoscientifiche (La mosca). Il referente forse più immediato di queste suggestioni metamorfiche è la diffusione del cancro nelle sue varie forme, ma non ignora la degradazione indotta dall’AIDS: la nostra percezione di fantastico è sempre legata alla nostra conoscenza del mondo, alle ossessioni in cui viviamo. Il fantastico e (è) la metafora

Nel fantastico dell’accezione todoroviana è in gioco non la nostra accettazione di un patto spettacolare (equivalente semmai al meraviglioso, cioè a un mondo che non è il nostro), ma la nostra resa di fronte all’incongruo. Dei mostri sappiamo che sono pedine di un gioco che non ci appartiene, ma è di fronte a noi come uno specchio mediatore, capace tutt’al più di rivelarci la discontinuità del senso, la «modernità liquida» di cui parla Zigmund Bauman, che “significa essere incapaci di fermarsi e ancor meno di restare fermi. Ci muoviamo e siamo condannati a muoverci incessantemente” 8 - e quindi a vedere incessantemente, senza punti fermi o pause di riflessione, in un vortice in cui ogni immagine perde per così dire d’identità e diventa l’altra, le altre. La continua metamorfosi del linguaggio che ci impone il cinema è, a suo modo, l’affiorare di un perturbante che è più implicito che esplicito nella nostra concezione del mondo. C’è forse un film che più di ogni altro lo chiarisce, il già ricordato Dracula di F.F. Coppola 9: le performances metamorfiche del vampiro sono inserite in un flusso di immagini che sfumano tra loro, si richiamano per geometria e luci, per sovrimpressioni e sonorità diacroniche; sono insomma il “cinema, inteso come sintesi vampirica di tutte le arti, immagine e desiderio oltre la morte” 10, come metamorfosi continua e inafferrabile, priva di un centro e di una direzione. In un’epoca in cui il senso si riconduce continuamente allo spaesamento e alla crisi d’identità, in cui ogni cosa è se stessa e altro contemporaneamente, il metamorfismo che segna la nostra percezione di realtà implica e rivela un’incertezza di fondo e mette in crisi ogni attribuzione d’identità: non vediamo più cose o persone, ma processi, una fluidità in divenire - di volta in volta apparizioni, sogni, incubi, squarci di un’indecisione del senso che appartiene 28


al film come a noi, e soprattutto a ciò che, come il corpo o il volto, implica sia il massimo di familiarità, che di conseguenza la sua interruzione. L’attimo fuggente della trasformazione-sostituzione trasforma l’esitazione todoroviana in necessità, ne fa la chiave di una conoscenza sempre in fieri perché legata al dubbio, anche laddove i dubbi sembrano cancellati a priori da costruzioni narrative in sé rigorose: di qualunque tipo o sottogenere sia, il fantastico ci rivela come ambiguo anche o soprattutto ciò che la conoscenza ci ha abituato a pensare come univoco. Questa potenzialità rivelatrice dell’instabilità dell’essere, attraverso lo slittamento metamorfico dell’apparire, riguarda non solo la dimensione diegetica, ma l’intero pensiero che la produce. Le cose non sono, ma avvengono e, quindi, si trasformano, anche quando il loro percorso si trasforma da lineare a circolare: non è più il tempo di un labirinto osservato dall’alto, come accade al protagonista di Shining, parafrasi di una modernità antropocentrica ormai esaurita, bensì di un labirinto apparentemente sempre-uguale che osserviamo da vicino senza vedere che il suo principio è la sua fine. Il falso movimento della spirale che apre L’uomo che non c’era [J. & E. Coen, 2001] ne è un simbolo convincente: non dichiara la fine della storia, ma il suo avvilupparsi visivo su se stessa. Tutto è a suo modo fantastico

Esistono insomma, più o meno rari, lampi in cui il cinema si riappropria di una possibilità allusiva e al tempo stesso ambigua che è l’anima del suo essere linguaggio e che la precisione mimetica del digitale tenta oggi ossessivamente di rinchiudere in un genere: in una parola, si riappropria del modo fantastico, anche laddove non è diegeticamente pertinente. Sono questi i momenti in cui l’ambiguità come categoria dominante del reale non si esaurisce manieristicamente nel rispetto di alcune regole, ma attraversa tutto il cinema rivelando quella natura fluida del pensiero e della mente cui si accennava - momenti in cui vediamo il pensiero non come forma-formula “che il mondo possa aprirci”, ma come sospensione, spazio che è al tempo stesso da riempire e impossibile da riempire (per completare la citazione montaliana: “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”). Per esempio, il cinema di Alain Resnais [un approfondimento lo si trova nel Capitolo V – Nel laboratorio della memoria involontaria, ndr], “inesauribile inventore di forme sempre nuove di racconto [la cui] complessità […] investe il concetto di forma rendendola paradossale” 11, approda molto sal29


Alien, 1979

Alien, 1979

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tuariamente al mondo narrativo del fantastico, eppure fa di questo modo lo strumento per mostraci «ciò che non siamo». È la forma a segnare il passaggio dal “realistico” all’immaginario, parafrasi estensiva e vaga del fantastico; ed è al tempo stesso lo strumento con cui il cinema si appropria della realtà trasformandola in pensiero. Il cinema di Resnais ci insegna a non cercare rassomiglianze, ma semmai divaricazioni, tanto più provocatorie e suggestive quanto più i suoi materiali sono citati con apparente fedeltà. In L’anno scorso a Marienbad [A. Resnais, 1961] il tempo della diegesi si arrotola come un labirinto, termini come inizio e fine scompaiono per lasciar posto a un flusso ondivago e dai contorni incerti (il non-tempo della mente). Providence [A. Resnais, 1977] si costruisce sulle stesse diramazioni possibili che segneranno la genesi del dittico Smoking e No Smoking [A. Resnais, 1993], cioè sul non-tempo della fantasia (come spiegare altrimenti la comparsa incongrua di un giocatore di calcio che con la diegesi a ben poco a che vedere? Oppure i continui slittamenti fra diversi livelli di “realtà” della prima parte?). Il cinema di Resnais gioca spesso sull’impertinenza degli accostamenti: in L’Amour à mort [A. Resnais, 1984] una neve dall’apparenza irreale invade lo schermo con tutta la sua glaciale labilità (il non-tempo della trasformazione), come, in forme più realistiche ma allo stesso tempo ossessive, accadrà in Cuori [A. Resnais, 2006]: l’impalpabilità della neve ha tutta la sostanza di un mistero. In Mon Oncle d’Amérique [A. Resnais, 1980] non solo la giovinezza dei personaggi raccontata in apertura da speaker anonimi si accompagna a oggetti e luoghi che non sono (almeno non necessariamente) la loro memoria, ma le intromissioni didascaliche di Henry Laborit sfociano nella sostituzione ironica di cavie life size ai personaggi stessi (il non-tempo e il non-luogo della teoria). In Parole, parole, parole [A. Resnais, 1997] non solo un generale nazista canta J’ai deux amours con la voce di Josephine Baker, ma un velo di meduse ondeggianti si sovrappone nel finale ai volti e ai sentimenti incerti dei personaggi (il fantastico, in quanto messa in scena dell’impossibile, ha molti punti di contatto con l’ironia e il gioco degli ossimori). Attraverso i continui slittamenti della “realtà” fra un piano e l’altro della sua trasformazione in immagine 12, il cinema di Resnais - scelto qui per la sua esemplarità, ma certo non l’unico, e oltre tutto affrontato alquanto rapidamente - ci pone di fronte anche alla labilità della coscienza e della memoria, come in uno specchio: ciò che vediamo è ciò che avviene nella nostra mente, la quale a sua volta è fatta di riconoscimenti, associazioni e memoria. Ma quest’ultima è a suo modo un non-tempo per eccellenza, in cui passato e pre31


sente diventano un tempo solo, una coordinata tutt’altro che fissa, ma suscettibile di contaminazioni non oggettive: in Notte e nebbia [A. Resnais, 1956] è la possibile e tragicamente paradossale ripetizione a sconvolgerci, come se le immagini che vediamo nel presente del film fossero le orme di un mostro che continua malgrado tutto a uscire dalla Storia per abitare nella nostra mente. Non ci inquieta, semmai ci raggela la sospensione da cui non sappiamo uscire, quella fra non-possibile e non-impossibile; il suo essere perturbante si rivela in tutta la sua ironica, crudele e stupefacente familiarità 13. La diversità delle forme e della loro portata, assieme alle evidenti rotture dei codici di rappresentazione realistici, non impediscono di riconoscere nel cinema di Resnais un percorso coerente quanto esemplare nei labirinti della mente, una loro messa in scena che si distacca dalla concretezza delle storie e dona alle immagini una peculiare capacità straniante: conclusione che a ben guardare vale per tutto il cinema, ma trova un’occasione particolare e specifica nel fantastico, messa in scena privilegiata di una mente alla ricerca perenne - e vana - dei propri confini e delle proprie conflittualità. Note

T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 1983, p. 28. Per un esame di questa definizione rimando al mio Viaggio attraverso l’impossibile. Il fantastico nel cinema, ETSCineforum, 2003, cui del resto queste pagine sono in parte debitrici. 1

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S. Freud, Il perturbante, Theoria, Roma-Napoli, 1984, pp. 6-17, 61-62 e 73-77. S. Lazzarin, Il modo fantastico, Laterza, Bari 2000, p. 14. R. Cesarani, Il fantastico, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 9.

L. Lugnani, Verità e disordine, in Ceserani et al., La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa, 1983, p. 181. 5

L. Lugnani, Verità e disordine, in Ceserani et al., La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa, 1983, p. 181. Concludo questa breve e schematica rassegna con il fantastico magico o soprannaturale. Accanto al Vangelo e alla Bibbia, testi entrambi attribuibili a questo sottogenere, si possono citare i casi di Superman, l’Uomo-ragno e tutti i supereroi per eccellenza, i cui poteri superano largamente ogni presunzione di realtà, attuale o futura che sia - oppure le streghe, i maghi, gli anelli fatati che abbondano nel mondo meraviglioso della fantasy, cioè del “meraviglioso”. Ma l’irruzione in questo caso non esiste, come la contaminazione: quello messo in scena è letteralmente un altro mondo, le cui caratteristiche possono ricordare in parte le nostre, ma le cui leggi sono radicalmente diverse: è quanto accade del resto nella maggior parte delle fiabe. 6

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Sulla natura corporea di questa ostilità e della conseguente “crisi d’identità”, si veda in particolare: AA. VV., The Body Vanishes, a cura di F. La Polla, Lindau 2000. 7

8

Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2002, p. 19.

Per un’analisi più dettagliata del film e del mito del vampiro, rimando al mio Dracula, L’Epos, Palermo 2007. 9

10

R. Venturelli, Storia del cinema horror in cento film, Le Mani, Genova 1997, p.168.

R. Zemignan, La maestria del bricoleur, in AA.VV. Alain Resnais. L’avventura del linguaggio, Il Castoro, Milano 2008, pp. 11 e 15.

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Si veda al riguardo le interessanti pagine che J.-P. Berthomé dedica all’uso della scenografia nel cinema di Resnais, il cui punto d’approdo è “una semplice immagine la cui artificiosità ne afferma la distanza con il reale” (in AA.VV., Alain Resnais. L’avventura del linguaggio, cit., p. 53). Nasce anche di qui “un intreccio, abile e potente, che permette di associare universi regolati da norme differenti, e di unificare realtà eterogenee” (V. Amiel, Di quale montaggio parliamo quando si parla del montaggio nel cinema di Alain Resnais?, ivi, p. 35). 12

Per un esame più dettagliato del film rimando al mio Senza fine. Notte e nebbia: il tempo e la memoria, «Cineforum», n. 469, novembre 2007, pp. 2-5.

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