FARCORO 2-2024

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Analisi Anton Bruckner

FARCORO

Quadrimestrale dell’AERCO Associazione Emiliano Romagnola Cori Maggio-Agosto 2024 Edizione online: www.farcoro.it

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IN COPERTINA

The choral network, immagine creata con l’AI.

ERRATA CORRIGE

Nel n. 2/2024 la foto pubblicata a p. 12 ritrae Lambert, Hendricks & Ross.

FarCoro n. 2 / 2024

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Il cuore del volontariato: le forme associative per i Cori

La didattica dell’ascolto e il coro gospel

DI NAVID MIRZADEH

Il gospel… secondo noi!

DI NILO PACENZA

«Se vuoi capire davvero il gospel vieni con me in America…»

gospel: una bussola per orientarsi

La Windhaager Messe di Anton Bruckner

La Leggenda del Piave

Le

per coro di Bruno Maderna

Josquin: il più moderno tra gli antichi

INTERVISTA A WALTER TESTOLIN A CURA DI CHIARA LEONZI

Concorso Corale Giuseppe Savani

I Don’t Feel No-Ways Tired

Editoriale

Direttrice responsabile

direttore@farcoro.it

Avevamo lasciato il n. 1 di FarCoro 2024 con un ampio focus sulla vocalità ‘leggera’ dei cori pop e jazz : proseguiamo idealmente, per affinità, dedicando il dossier di questo secondo numero al repertorio spiritual e gospel . Alessio Romeo ci aiuterà nell’inquadrare le origini e il significato questi due termini e nel comprendere esattamente a cosa si riferiscano, e quali siano le loro differenze, ma il fascicolo che avete fra le mani è innanzitutto un racconto, una piccola partecipatissima summa di esperienze narrate dalla viva voce di alcuni fra i tanti cori che nella nostra Regione si dedicano a questi generi musicali. Un repertorio solo apparentemente ‘leggero’, in realtà intenso, storicamente intriso di dolore, resilienza e di fede: analizzarne i testi e farli propri è fondamentale, come pure esplorare tecniche vocali non classiche, più ‘libere’ e vicine all’improvvisazione, abituali al di là dell’Atlantico ma spesso inedite nella coralità europea di estrazione ‘colta’; apprezzeremo così il diverso uso del vibrato (combinato ad una straordinaria espressività della mimica facciale) e noteremo come l’idea di alternare ‘domanda e risposta’ fra solista e coro, una delle più antiche forme del ‘nostro’ canto liturgico, è attestata anche nei campi di cotone durante la schiavitù afroamericana, per alleviare la fatica e sostenere il ritmo del lavoro. Leggeremo dell’incontro e degli anni di canto passati insieme al maestro Nehemiah H. Brown da parte di realtà come il Faith Gospel Choir di Carpi e della testimonianza di Rossana Bonvento, che ha seguito il maestro Brown negli Stati Uniti, alla ricerca dei luoghi, dell’essenza e della quotidiana funzione del gospel ; ancora, la storia del ReGospelCoro di Reggio Emilia, fondato da Navid Mirzadeh nel 1997 e che nel 2024 prosegue la sua vivacissima attività. Seguiremo il filo dipanato da Alessio Benedetti nello scorso numero con l’articolo dedicato alla vocalità dei canti dei soldati nella Grande Guerra: Monica Sighinolfi ci racconta le vicissitudini di uno dei canti più noti della storia musicale del ‘900, La Leggenda del Piave ; un canto d’autore ma

C‘popolare’ per ispirazione e forma, diffusione, efficacia e funzione, pubblicato nel 1918 e inizialmente pensato per infondere coraggio nei soldati al Fronte – ancora una volta, musica corale che unisce e reca conforto in un presente doloroso. Leonardo Ian Vergari, mio allievo nell’annuale corso di polifonia rinascimentale incentrato su lettura e analisi delle fonti originali a stampa e manoscritte, ci riporta un incantevole esperimento da lui condotto dirigendo il coro di un liceo romano, in cui ha riproposto il medesimo lavoro di studio di uno strambotto quattrocentesco a 3 voci cantandolo e studiandolo esclusivamente dal manoscritto antico, senza far ricorso a partiture moderne. Di fronte ai suoi occhi i giovani coristi si sono così tramutati in pueri cantores , e ciò che sembrava difficoltoso si è rivelato un esperimento non solo possibile, ma arricchente e appassionante – tanto che i ragazzi, con questo progetto, hanno addirittura vinto un secondo piazzamento in concorso! Il repertorio polifonico ‘classico’ è protagonista dell’analisi della Windhaager Messe di Bruckner a firma di Marco Guidorizzi, in cui scopriremo l’attualità di questo piccolo lavoro corale giovanile, oggi come allora ottima opzione di studio per una realtà corale che ha iniziato da poco il suo percorso o che desideri cimentarsi con un’opera d’autore lineare, agile e non troppo complessa. La rubrica Musica dell’anima è poi dedicata alla musica protestante, dal semplice corale – elemento fondante del rito liturgico luterano – ad oratori come Membra Jesu nostri di Buxtehude, di cui Margarita Yastrebova ci regala la guida all’ascolto; e sul versante della polifonia d’autore proseguono i nostri articoli alla scoperta delle opere corali del Novecento italiano, con un focus di Diego Tripodi dedicato a Bruno Maderna. Ancora, l’importanza della musicoterapia fra anziani e malati di demenza Alzheimer nell’articolo del musicoterapista Francesco Delicati, e il notiziario delle iniziative di AERCO (dal successo del Concorso Nazionale Giuseppe Savani alla masterclass tenuta da Walter Testolin su Josquin, ‘il più moderno tra gli antichi’); ricollegandoci al dossier iniziale, nelle pagine finali troverete pronto da sperimentare l’arrangiamento di uno spiritual americano per coro a 4 voci e pianoforte di Giovanni Bataloni, dagli accenti funky e vicini al jazz . Infine, in questo numero debutta la rubrica Note legali : uno spazio in cui appunteremo consigli e procedure (spiegate in modo chiaro) sulla gestione amministrativa, economica e legale delle associazioni corali. Chi avesse domande e curiosità da sottoporci scriva ad aercobologna@gmail.com, risponderemo nel prossimo numero! Buona lettura!

Progetto ‘AERCO, la rete corale’

il tempo fugge e sono trascorsi tre anni dall’ultima assemblea elettiva. Possiamo definire questo periodo come il triennio della ripresa dopo il devastante impatto del covid, che ha costretto i gruppi corali a sospendere le loro attività? Sì e no, a nostro avviso... Un evento così devastante ha lasciato un segno che sarà difficile rimarginare. Naturalmente, le difficoltà legate alla nostra passione, la musica corale, sono di minore importanza rispetto a tutte le sofferenze che le famiglie hanno dovuto affrontare: lutti, difficoltà economiche, problemi lavorativi, depressione dovuta all’isolamento e molto altro ancora. I cori hanno ripreso, con fatica, ma hanno ripreso; tuttavia, alcuni di essi hanno dovuto interrompere le loro attività per vari motivi, tra cui l’età avanzata dei coristi che consigliava cautela nel riunirsi, la mancanza di luoghi di incontro che sono spariti durante i mesi più difficili, la mancanza di obiettivi e di nuovi stimoli. Ogni volta che ricevevamo una mail con la quale si comunicava la chiusura di un coro provavamo rabbia e delusione perché si vanificava quella speranza di luce in fondo al tunnel. Successivamente, gradualmente, le circostanze sono migliorate e siamo rimasti sorpresi quando venivano annunciate nuove formazioni. Nel corso del tempo, questa tendenza di crescita si è stabilizzata e attualmente sono 235 i cori iscritti ad AERCO, rispetto ai 230 di tre anni fa. Quindi un piccolo aumento nei numeri ma forse un leggero calo di entusiasmo che persiste. Ce ne accorgiamo quando parliamo con presidenti e direttori.

AERCO ha dimostrato che trattare di cori è questione di competenza e creatività, ma anche di capacità di leggere i contesti che della coralità sono radici e che dalla coralità traggono linfa vitale d’identità, d’eccellenza e di importante paesaggio umano e culturale.

L’Associazione è stata presente nei tempi difficili, organizzando diverse opportunità online e lo è di più, ora, per sostenervi. Molti cori hanno capito le opportunità che vengono loro offerte, come i festival e le rassegne ( Voci nei Chiostri, CantaBo, Spiritus, World Choral Day, Soli Deo Gloria , le rassegne provinciali…), la formazione in presenza e online per direttori e coristi (tramite le attività dell’ AERCO-

Academy e della Scuola di Canto Gregoriano ), le possibilità concorsuali per cori, direttori e compositori ( Concorso Savani, Concorso Gandolfi, Concorso Corinfesta ), la partecipazione a tre gruppi corali AERCO ( Coro Giovanile Regionale, Coro Regionale, Schola Gregoriana Ecce ), l’informazione di qualità prodotta (tramite la Rivista FarCoro, RadioAERCO, le newsletter, i social), i patrocini semplici e con contributo economico. A tutto questo si aggiunge quella micro-attività giornaliera di relazioni con gli associati, con gli enti pubblici e privati con cui tessiamo una fitta corrispondenza atta ad assicurare il sostegno economico necessario per continuare un lavoro così complesso e capillare. Detto ciò, ci dispiace constatare a volte come ancora persista in alcuni cori l’idea che l’adesione ad AERCO sia utile solamente per ottenere riduzioni SIAE o per stipulare un’assicurazione a favore dei propri coristi. Dovrebbe emergere con ancora più forza l’importanza della ‘rete corale’! Un coro non è un’entità isolata nel suo mondo, che sia polifonico, popolare, lirico, gospel o giovanile, ma rappresenta un tassello fondamentale di un sistema culturale che, nel suo insieme, incarna la continuazione di una tradizione, lo sviluppo di nuovi linguaggi espressivi, l’inclusione sociale delle fasce più vulnerabili e molto altro ancora. Lo sta capendo finalmente anche la politica, almeno nella nostra

Regione (vedi LR n. 2/2018), con la quale abbiamo oramai raggiunto un livello di collaborazione e di credibilità molto elevato. Anche Roma comincia a capire l’importanza di sostenere economicamente le realtà corali mediante appositi bandi rivolti al nostro settore. La rete corale di AERCO ha il suo naturale proseguo nazionale ed internazionale attraverso FENIARCO (con la quale avvieremo molto presto importanti progetti nella nostra regione) ed ECA-European Choral Association (della quale vi invito a dare un’occhiata al sito perché ha progetti davvero importanti per tutti). Inoltre siamo membri di International Music Council e della sua ‘rappresentativa’ europea European Music Council . Questo nuovo triennio sarà proprio dedicato al concetto della ‘Rete Corale’, affinché i cori associati possano conoscersi fra di loro, non solo per tipologia di repertorio ma affinando la contaminazione esecutiva e generazionale. Il territorio ha trovato una ribalta ed una valorizzazione senza precedenti sul piano nazionale, in particolare nel coinvolgimento di AERCO quale “regione partner” in Legami Corali voluto da FENIARCO e che vede la nostra Associazione protagonista di eventi di alto profilo e didattica corale e musicale di caratura nazionale. Questo conferma la valenza dell’unità, delle relazioni con le associazioni regionali federate sul territorio nazionale nella cifra comune di FENIARCO. In tanto vigore brilla il talento corale delle nostre delegazioni provinciali, capaci ciascuno di essere riferimento e sostegno per l’innovazione e la tradizione ma anche testimoni di volontà e generosità. È nostra idea portare la musica corale nei borghi più belli della regione con una nuova rassegna dal titolo Borghi in…cantati. Ci piacerebbe anche riprendere la rassegna Di Cori un altro Po che, come molti ricorderanno, consisteva in una serie di concerti in quelle province bagnate dal grande fiume; essendo però questo un progetto interregionale, che coinvolge anche Piemonte, Lombardia e Veneto, ci dev’essere la volontà di farlo anche da parte delle altre Associazioni Corali Regionali coinvolte. Lavoreremo perché questo accada. Vorremmo dare anche grande impulso alla coralità infantile e giovanile tramite attività proprie di quel settore. Riteniamo fondamentale sostenere le bellissime realtà corali quali il consolidato e apprezzato Coro Giovanile Regionale e il più recente Coro Regionale AERCO. Per la coralità giovanile del CGER che è nostro stimatissimo ambasciatore desideriamo operare per il consolidarsi dell’adesione dei territori, con il coinvolgimento dei delegati

provinciali, della Commissione Artistica e dei cori AERCO; inoltre sosterremo iniziative di collaborazione e scambi con gli altri Cori Giovanili regionali.

La collegialità, la collaborazione, l’interregionalità e la valorizzazione delle risorse professionali ed artistiche del nostro territorio sono per noi imprescindibili, come lo è il concreto supporto alle realtà dei nostri cori, dei nostri talenti, che nel rispetto della storia dei gruppi, della specificità dei contesti, della centralità delle persone veda l’AERCO propositiva, coinvolgente e in costante attitudine all’ascolto.

Da questo la nostra proposta di realizzare La presidenza in delegazione ossia la partecipazione alla vita delle delegazioni provinciali anche mediante la partecipazione del Presidente o del Vice in presenza nei momenti ritenuti necessari e allo scopo di contribuire a costruire alle relazioni con i contesti anche amministrativi, e rappresentare pure in modo tangibile l’attenzione verso ogni nostro coro. Cercheremo di mantenere, compatibilmente con il budget a disposizione, anche tutti gli altri eventi sino a qui creati. Ci occuperemo anche della collaborazione del mondo professionale della musica, nella fattispecie i Conservatori, con quello dell’amatorialità, quale AERCO rappresenta: è già in essere una convenzione con il Conservatorio di Parma che sta portando benefici ad entrambi; nei prossimi mesi proporremo un accordo simile anche agli altri Conservatori della regione.

La nostra idea di coralità emiliano romagnola guarda all’accessibilità, all’inclusione e alla socialità, per questo rinnoviamo la volontà a proseguire nel solco dei progetti che facciano dei nostri cori e dell’AERCO tutta, dei punti di riferimento nel vivere la cultura musicale attraverso la cultura dell’umanità equa e solidale. La coralità è una scelta di vita, la rinnoviamo con la nostra AERCO perché tutti insieme possiamo continuare ad incarnarla nel segno dell’eccellenza, della condivisione e del talento coraggioso.

Vi invitiamo a partecipare attivamente e a condividere le vostre idee per contribuire alla crescita della nostra comunità corale. Solo attraverso il dialogo e la collaborazione possiamo realizzare le buone idee necessarie per il nostro sviluppo.

Grazie per il vostro sostegno continuo.

Bologna, 18 maggio 2024

Andrea Angelini e Gabriella Corsaro Presidente e Vicepresidente AERCO triennio 2024-2027

Il cuore del volontariato: le forme associative per i Cori

DI ANDREA ANGELINI

Presidente AERCO, insegnante e direttore di coro

Aderiscono ad AERCO circa 230 cori di tutte le province della regione. La maggior parte di essi è costituito in una delle forme associative previste dalla normativa vigente: Associazione Culturale, APS – Associazione di Promozione Culturale, Fondazione , ma alcuni non sono… nulla . Si tratta, quasi esclusivamente, di quei cori nati all’interno di una Parrocchia, dove il referente (o responsabile) è il Parroco stesso. Quest’ultima è una situazione pressoché ed oramai insostenibile dopo la grande riforma operata sul Terzo Settore dal D.lgs. 117/2017. Vediamo perché ogni coro dovrebbe avere una forma associativa che lo cauteli e lo inserisca a pieno titolo in quel mondo del volontariato che è ora regolato da una serie di norme giuridiche, economiche e fiscali.

Aprire un’associazione culturale consente di svolgere attività culturali, formative ed educative avvalendosi dell’impegno di un gruppo di persone accomunate dagli stessi interessi e obiettivi. Ma quali sono le regole alle quali devono sottostare le associazioni culturali? Quali sono i requisiti e i passaggi per avviare una no profit culturale, e quanto costa questa procedura? In questo articolo vedremo tutti gli step necessari per costituire un’associazione culturale. Inoltre, parleremo dei cambiamenti previsti per questo tipo di categoria associativa che, con la riforma del Terzo Settore, andrà di fatto a essere inglobata nella categoria delle Associazioni di promozione sociale (APS). Diamo subito la definizione di associazione culturale. Con questo termine si indica un ente privato senza scopo di lucro (cooperativa, ODV o APS) il quale riunisce un gruppo di persone desiderose di utilizzare risorse

comuni per raggiungere degli obiettivi nel campo della cultura, dell’educazione e dell’insegnamento. Lo scopo di questo gruppo non può dunque essere quello del guadagno, parlando per l’appunto di un ente no profit. Un’associazione culturale può agire in diversi ambiti, come quello musicale (nel nostro caso), del cinema, del teatro, dell’educazione civica, dell’arte, dello sport e della protezione ambientale. Tra le varie attività può organizzare corsi, eventi, gite, e raccolte fondi. Le attività sono riservate prevalentemente ai soci dell’associazione e non devono avere come scopo il guadagno.

È ancora possibile aprire un’associazione culturale?

Affrontiamo ora una questione importante, ossia il futuro di questa categoria associativa. La riforma del Terzo Settore ha infatti introdotto importanti novità riguardo alle associazioni culturali. Con l’art. 89 del D.lgs. 117/2017, infatti, il legislatore ha rimosso questa categoria dall’art. 148 del TUIR dedicato alla gestione fiscale degli enti non commerciali. Questa modifica ha importanti ripercussioni sulle associazioni culturali in quanto le priva di un’agevolazione fondamentale per lo svolgimento delle loro attività.

Con la nuova normativa, infatti, queste associazioni non potranno più beneficiare della de-commercializzazione delle entrate provenienti da:

• I corrispettivi specifici versati dagli iscritti, associati, partecipanti, o di altre associazioni che svolgono la medesima attività, per partecipare alle attività svolte dall’associazione in diretta attuazione degli scopi istituzionali.

• Le cessioni (anche a terzi) di proprie pubblicazioni cedute prevalentemente agli associati.

Le disposizioni contenute nel titolo X del D.lgs. 117/2017, tra le quali troviamo il sopra citato art. 89, entreranno però in vigore solo dal periodo d’imposta successivo all’autorizzazione da parte della Commissione Europea. Per il momento, quindi, ci troviamo in un periodo di “gap legislativo” in cui è ancora possibile aprire un’associazione culturale e gestirla godendo dei benefici fiscali pre-riforma del Terzo Settore.

Quando verrà attuato l’art. 89 del D.lgs. 117/2017, però, le associazioni culturali dovranno decidere se:

• continuare ad esistere ma al di fuori del Terzo Settore, perdendo i benefici fiscali e iniziando a considerare come commerciali le attività elencate sopra, attività che fanno parte del loro “DNA”;

• assumere la veste di Associazione di promozione sociale (APS) adeguando il proprio statuto e iscrivendosi al RUNTS, cosa che permetterà loro di continuare a usufruire dei benefici fiscali legati alla decommercializzazione delle attività.

Per potersi qualificare come APS, un’associazione dovrà soddisfare questi requisiti:

• presentare almeno 7 soci persone fisiche o 3 associazioni di promozione sociale;

• avvalersi in modo prevalente dell’attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati;

• assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo o di altra natura, anche dei propri associati, solo quando questo sia necessario ai fini dello svolgimento dell’attività di interesse generale e al perseguimento delle finalità;

• avere un numero di lavoratori impiegati nell’attività non superiore al 50% del numero dei volontari o al 5% del numero degli associati.

Prima di proseguire con i passaggi per creare un’associazione culturale, vale la pena sottolineare che chiunque condivida i valori dell’ente può fare richiesta di diventare socio, a patto di accettare le regole che vengono stabilite nello statuto.

AP POSTA

Hai domande, curiosità sulla gestione finanziaria e amministrativa del tuo coro?

Scrivici e risponderemo nel prossimo numero!

aercobologna@gmail.com

Come aprire un’associazione culturale: i requisiti

Quali sono i requisiti fondamentali per costituire un’associazione culturale? Si parte dal numero di persone necessarie: per dare il via a un ente di questo tipo è necessario poter contare su un minimo di 3 persone disposte a diventare soci fondatori nel caso delle associazioni e delle cooperative, mentre il numero sale a 7 persone fisiche o 3 associazioni per costituire una ODV o un’APS.

Per quanto riguarda il tipo di attività, al di là della già menzionata assenza dello scopo di lucro, per essere tale un’associazione culturale deve impegnarsi a promuovere e a organizzare delle attività culturali. Dopo aver individuato i soci fondatori e aver delineato le finalità di stampo culturale, sociale e ricreativo, le persone che intendono costituire un’associazione culturale sono chiamate ad affrontare dei precisi passaggi burocratici,

che daranno effettivamente vita all’ente: vediamoli.

I passaggi per costituire un’associazione culturale

Per aprire un’associazione culturale ci sono degli step burocratici obbligatori da affrontare. Si parla nello specifico della redazione dello statuto e dell’atto costitutivo, della relativa firma, e dell’eventuale registrazione fiscale. Approfondiamo ogni singolo passaggio.

Redazione dello statuto dell’associazione

È il documento fondamentale del nuovo ente, quello che spiega come funzionerà l’associazione a livello amministrativo e operativo e qual è il suo obiettivo. All’interno dello statuto devono essere presenti tutte le informazioni più importanti, ovvero la denominazione, il rappresentante legale e tutti gli impegni che dovranno essere presi dai soci. Si parla quindi dell’assenza dei fini di lucro, dell’impossibilità di dividere i proventi, del rispetto dei principi d’uguaglianza e democrazia, e via dicendo. Lo statuto dell’associazione riassume inoltre le regole relative dell’elettività delle cariche sociali, la sovranità dell’assemblea dei soci e così via. Chi desidera diventare un socio deve impegnarsi a rispettare regole, diritti e doveri qui riportati.

Redazione dell’atto costitutivo

Si tratta del documento che rappresenta l’accordo tra i soci fondatori e che deve essere da questi firmato. Al suo interno dovranno essere presenti dati come la sede della nascente associazione, le informazioni sui soci fondatori e il loro ruolo, lo scopo dell’ente, il nome e l’eventuale patrimonio (quest’ultimo non sempre obbligatorio, come nel caso delle cooperative). All’atto costitutivo bisogna allegare anche lo statuto dell’associazione.

Registrazione fiscale

L’attribuzione di un codice fiscale è uno passaggio necessario per poter aprire un conto corrente a nome dell’associazione e per altri eventuali passaggi successivi. Per richiedere il codice fiscale è necessario presentare il modello AA5/6 compilato presso l’Agenzia delle Entrate, per poi registrare l’atto e lo statuto con la presentazione del modello 69.

Richiesta partita Iva

L’associazione ha la facoltà – ma non l’obbligo – di aprire una partita Iva, passaggio necessario nel caso in cui l’associazione culturale intenda svolgere un’attività commerciale in modo continuativo (fermo il fatto che questa attività non dovrà mai diventare principale e non dovrà avere scopo di lucro, restando sempre ausiliaria alle attività istituzionali indicate nello statuto). Questi sono i passaggi chiave da affrontare per aprire un’associazione culturale, a cui si aggiunge la possibilità di iscriversi al RUNTS, il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, iscrizione che permette di ottenere la qualifica di Ente del terzo settore e di accedere a benefici fiscali e altri vantaggi.

Quali sono i costi per aprire un’associazione culturale

Per prima cosa, va detto che per la creazione dell’atto costitutivo e dello statuto non è obbligatorio rivolgersi a un notaio: se ne deduce quindi che è possibile in molti casi evitare questo costo iniziale. Sarà invece necessario l’intervento di questo professionista nel caso in cui ci sia la volontà di conferire personalità giuridica all’associazione. Non si tratta di una possibilità da trascurare, soprattutto considerando che in questo modo eventuali creditori potranno aggredire unicamente il patrimonio dell’associazione stessa, e non quello personale dei singoli amministratori. In questo caso, oltre ai costi del notaio, sarà necessario versare anche un patrimonio minimo di partenza, il quale può variare in base alle disposizioni regionali: in linea di massima si parla di un fondo minimo di  15.000 euro. Per quanto riguarda la registrazione dello statuto presso l’Agenzia delle Entrate, che può essere effettuata anche dalle associazioni prive di personalità giuridica e senza fare ricorso a un notaio, è da calcolare il costo di una marca da bollo da 16 euro per ogni 4 facciate (oppure ogni 100 righe). È poi necessario effettuare un versamento da 200 euro per l’imposta di registro. Ulteriori costi possono presentarsi nel caso della richiesta di apertura della partita Iva, spese che possono aumentare se si sceglie di affidare la contabilità a uno studio professionale.

I vantaggi delle associazioni culturali

Per loro natura, le associazioni culturali rientrano tra i soggetti normati dal Codice del Terzo Settore, il quale

riconosce la possibilità di accedere a finanziamenti pubblici e a sgravi fiscali. Va peraltro detto che possono essere iscritte al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, e quindi possono accedere a benefici fiscali, sia le associazioni riconosciute che quelle non riconosciute (senza personalità giuridica), a patto di essere senza scopo di lucro. A livello concreto, gli enti del terzo settore definiti non commerciali (ossia che svolgono attività a titolo gratuito o anche dietro versamento di corrispettivi, purché i ricavi di tali attività non superino il 5% dei relativi costi di gestione) possono aderire al regime fiscale forfettario (con annesso esonero del versamento dell’Iva). A questo bisogna aggiungere che eventuali contributi ricevuti dalle amministrazioni pubbliche, le quote associative e altri contributi versati dai soci (ad esempio per l’iscrizione a corsi), le eventuali donazioni ricevute e i fondi raccolti durante occasioni pubbliche non sono considerate attività commerciali e quindi non sono soggette a tassazione.

AERCO ha predisposto alcuni statuti tipo per coloro che desiderano darsi una forma associativa regolamentata dalle norme vigenti:

Modulistica per Associazioni di Promozione

Sociale:

• Fac simile Atto costitutivo APS: https://shorturl.at/oRoZi

• Fac simile Statuto APS: https://shorturl.at/f1xon

• Ricevuta per erogazioni in denaro da privati o imprese: https://shorturl.at/NvWCy

Modulistica per Enti del Terzo Settore:

• Fac simile Statuto ETS: https://shorturl.at/FNdf5

Modulistica per l’Agenzia delle Entrate:

• Richiesta codice fiscale: https://shorturl.at/Z1b08

• Registrazione atti: https://shorturl.at/yCaux

• Modulo per comunicazione IBAN per 5 per Mille: https://shorturl.at/6cjUk

Schemi di Bilancio:

Gli Enti del Terzo Settore con ricavi, rendite, proventi o entrate comunque denominate inferiori a 220.000,00 euro possono predisporre un bilancio in forma di:

• Rendiconto per cassa: Mod. D: https://shorturl.at/zeM9N

Gli Enti del Terzo Settore con ricavi, rendite, proventi o entrate comunque denominate non inferiori a 220.000,00 euro devono redigere un bilancio di esercizio secondo il principio di competenza, formato da:

• Stato Patrimoniale: Mod. A: https://shorturl.at/Ue4a0

• Rendiconto Gestionale: Mod. B: https://shorturl.at/avMUm

• Relazione di Missione: Mod. C: https://shorturl.at/Ob6i1

Iscrizione al Registro Unico

Le associazioni non ancora inserite nei precedenti registri e che quindi non sono state oggetto di trasmigrazione, potranno chiedere l’iscrizione ad una delle sezioni del RUNTS,  il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore. L’iscrizione può essere fatta esclusivamente online ed è necessario lo SPID o la CiE, la firma digitale del legale rappresentante e la pec dell’associazione. Si accede al Registro da questo link: https://servizi.lavoro.gov.it/runts/it-it/

La didattica dell’ascolto e il coro gospel

Direttrice di coro e fondatrice del ReGospelCoro

«L’ascolto dona a chi è ascoltato il potere di ascoltare se stesso»

Maurice Bellet

Noi tutti possiamo apprendere una nuova qualità di ascolto in relazione al suono della nostra voce. Questa qualità sottile è in grado di modificare la qualità della nostra voce in direzione della semplicità e dell’autenticità e di renderci più presenti nell’atto del parlare e del cantare.

Ho iniziato a studiare al conservatorio di Teheran a 9 anni, prima violino e poi composizione, quindi sono

entrata all’Università delle Belle Arti. A quell’epoca una stimata musicista iraniana, Golnoush Khaleghi, dopo aver studiato in Austria e Stati Uniti, fece delle audizioni per il primo coro da camera della radiotelevisione iraniana; passai le selezioni ed entrai a far parte di un coro veramente straordinario, di soli 16 e successivamente 20 cantanti. Grazie a un repertorio prestigioso – dai canti antichi alle composizioni contemporanee, dai madrigali alle messe, con musiche di Monteverdi, Palestrina, Dseprez, Händel, Bach, Mozart, Britten, Nono, oltre a brani di musica persiana – ho potuto, a soli 19 anni, scoprire la gioia immensa che mi dava il canto corale, una gioia che mi è rimasta dentro e che mi ha portato ad approfondire e realizzare tutto ciò che è seguito.

La nostra amata direttrice ci propose anche alcuni

ReGospelCoro - foto © Lorianna Claudia

spirituals arrangiati per 8 voci, un’impresa tutt’altro che semplice, che ci permise però di scoprire con stupore la grande ricchezza ritmica e armonica di quel genere di musica.

È con questo bagaglio che, giunta in Italia dopo un periodo difficile a causa della situazione in Iran, nel 1982, entrare a far parte del coro del Teatro Municipale di Reggio Emilia mi ha fatto sentire a casa, tra amici. Dopo questa prima esperienza e alcune peripezie nel 1991, insieme ad alcuni amici musicisti ho fondato l’associazione “Cantiamo in Coro”, con cui ho portato l’amore per il canto corale fuori dai luoghi canonici –nelle scuole, per esempio –, creando prima un coro di voci bianche, poi uno femminile e infine un coro misto. Già nel repertorio dei miei primi cori avevo inserito uno spiritual, Go down Moses , e subito notai l’entusiasmo e la vivacità con cui i coristi accoglievano questo brano per l’epoca un po’ diverso, molto ritmato. Così, quando ho fondato il coro misto ho scelto di optare per questo tipo di repertorio. Nacque il ReGospelCoro, che quest’anno compie 27 anni. In tutti questi anni si sono

Navid

avvicendate più di 200 persone, che hanno partecipato per periodi più o meno lunghi, magari interrompendo e poi tornando… alcuni sono con me da sempre, alcuni hanno iniziato bambini, tutti sono parte di questo che amo definire “un fiume che scorre”, perché è sempre lo stesso ma non è mai uguale.

Io non avevo una formazione specifica sulla musica afroamericana, o jazz , dovevo studiare ogni brano con grande attenzione riscrivendolo secondo la mia sensibilità e conoscenza e adattandolo al livello musicale del gruppo. Il fatto che questo repertorio offrisse la possibilità di trovare soluzioni e fare scelte creative mi permetteva di sentirmi libera di arrangiare i brani passo dopo passo, e anche di insegnarne solo i frammenti per i quali il coro era pronto in quel momento, in una sorta di puzzle , che poi, quasi magicamente, si componeva in un inatteso concerto. Tutt’altro che irrilevante è il fatto che io non abbia mai fatto selezioni, chiunque avesse desiderio di partecipare al coro e si impegnasse a farlo era da me accolto. Questo naturalmente ha creato a volte difficoltà nel

Mirzadeh direttrice del ReGospelCoro - foto © Lorianna Claudia

lavoro collettivo e ha determinato la necessità di lavoro individuale o a piccoli gruppi.

La mia didattica dell’ascolto mi ha poi permesso di cogliere il momento giusto per scegliere le voci che erano in grado di sostenere delle parti solistiche dei brani e, quando le condizioni lo permettevano, molti di loro sono riusciti agevolmente a superare l’ostacolo della prestazione e la paura del pubblico cantando con piacere e gioia la parte solistica assegnata.

Di nuovo, alcune caratteristiche peculiari di questo repertorio mi hanno consentito di adattarlo a gruppi di persone così eterogenee.

Da una parte la ricchezza ritmica offre innumerevoli spunti per lavorare sul corpo, sul coordinamento, sull’affinamento della lateralità e in generale sul piacere del movimento.

Da un’altra i contenuti sacri, ma non legati a una religione specifica, invitano a una maggiore libertà di adattamento alla sfera sacra dei partecipanti, senza irrigidimento dogmatico, ma secondo il credo di ciascuno.

Io sono convinta che per poter cogliere le opportunità di questo come di qualunque altro repertorio continuando a crescere e direi anche a divertirsi, non basta certo aver fatto il conservatorio, è necessario continuare a esplorare, essere in formazione permanente, che è una caratteristica essenziale della mia attività professionale.

Così, dopo aver letto alcuni libri di Alfred A. Tomatis, affascinata dal potere dell’ascolto sulla produzione vocale («l’uomo non è altro che un orecchio che parla e canta»), nel 2005 ho seguito a Parigi il corso di formazione sul suo metodo che innanzitutto mi ha fatto intitolare la mia tesi di laurea, nella facoltà di scienze della formazione come “Esperto in Processi Formativi”, Risvegliare l’ascolto ; e in secondo luogo mi ha permesso di introdurre il metodo nelle mie lezioni, con risultati molto incoraggianti, non solo nelle capacità vocali all’interno del coro ma anche nella vita privata dei singoli partecipanti, come loro stessi mi riferivano.

Già da molti anni studiavo il metodo funzionale della voce, oggi noto come Metodo Lichtenberger® , che si focalizza sui fondamenti fisiologici della voce e si pone come obiettivo non solo di formare al canto ma anche di fornire un itinerario volto all’acquisizione della conoscenza di sé, della propria corporeità attraverso la scoperta del proprio suono e l’utilizzo funzionale dell’apparato vocale. La visione è quella del

Alfred Tomatis (Nizza, 1920 – Carcassonne, 2001) fu medico otorinolaringoiatra e dedicò la sua vita a studiare gli stretti legami tra voce, cervello e orecchio. Il suo lavoro ha avuto un impatto rivoluzionario per capire come l’individuo comunica con se stesso e gli altri. Pioniere nel campo delle scienze cognitive, Alfred Tomatis ha lasciato un segno indelebile sia per le sue scoperte sia per la sua straordinaria personalità. Oggi misuriamo l’entità della sua eredità alla luce delle recenti ricerche sulla plasticità del cervello.

corpo umano come strumento musicale, se il corpo/ mente non è in armonia il suono non riesce a vibrare liberamente dentro.

Dal 2006 al 2010 ho seguito la formazione, introducendo anche questo approccio, orientato all’esplorazione del movimento vibratorio e oscillatorio sia all’interno che all’esterno del corpo, nelle mie lezioni oltre che naturalmente nel mio modo di cantare.

Durante le lezioni mi ritrovavo a toccare alcune parti del corpo dei miei allievi o a suggerire loro di modificare una postura, ottenendo spesso un miglioramento nella produzione del suono, ma non sapevo ancora qual era il richiamo, cosa mi portava in quella direzione; l’ho compreso seguendo la formazione del Metodo Feldenkrais®, che individua nel movimento consapevole uno strumento per migliorare lo stato di benessere, fisico e mentale; il principio della sua ricerca si basa sull’ottenere la massima efficienza con il minimo sforzo (in quanto lo sforzo muscolare ostacola una chiara percezione dei cambiamenti), ogni movimento, anche minuscolo, coinvolge tutto il corpo e ne cambia la

qualità.

Ogni scelta di approfondimento, ogni formazione ha preso il via da una mia esigenza personale, talvolta da una necessità, ma sempre ha trovato eco e risonanza nel lavoro, dimostrandomi che non si trattava solo di miglioramenti tecnici ma di percorsi di crescita che facevano evolvere me e le persone che lavoravano e studiavano con me. Il repertorio che ho scelto, poi, ben si adatta a essere un contenitore, un luogo di sperimentazione, potremmo dire un pretesto per utilizzare queste tecniche, o meglio, visioni, insieme al gruppo. Un gruppo che non è composto di coristi, ma di individualità, ognuna delle quali, con le sue qualità, ma anche con le difficoltà e i bisogni, è comunque un dono per tutti gli altri. Negli anni ho capito che lo sviluppo delle qualità intrinseche di ognuno è nel mio lavoro essenziale per poter creare un’armonia complessiva a vantaggio di tutti.

Credo che la longevità del ReGospelCoro, fondato e diretto da me a Reggio Emilia nel 1997, possa confermare che si è trattato di una buona scelta.

Il gospel… secondo noi!

Esperienza spirituale, didattica e concertistica del Coro Faith Gospel

Choir di Carpi (MO), grazie al direttore Nehemiah Hunter Brown

In questo racconto cercheremo di condividere un’esperienza che non è solo una bellissima storia corale, ma un percorso che ha rappresentato una crescita importante dal punto di vista tecnico e artistico.

Il primo contatto con la cultura gospel

Non tutti i cori gospel italiani hanno la possibilità di essere diretti da un pastore afroamericano. Questo va detto perché evidenzia un livello di esperienza più profondo, più autentico e, senza ombra di dubbio, più stimolante e complesso.

Viaggiare nel mondo del gospel è prima di ogni cosa un incontro culturale straordinario, quasi magico. L’energia e la passione che è possibile emanare da questa musica è l’elemento di attrazione che ha portato molti cori italiani ad affrontare questo percorso. La prima sfida di un coro italiano che si approccia alla musica gospel è immergersi nelle sue profonde origini, radicate nella tradizione afroamericana, al punto da sentire il battito del cuore di una comunità che, attraverso la musica, ha saputo trasformare il dolore in speranza e la sofferenza in una forza senza confini. Spesso il punto di partenza, come nel caso del Faith Gospel Choir, è partecipare a un workshop di un grande maestro afroamericano: questa è una prima occasione per incontrare cori e musicisti gospel , che permette di vivere un’esperienza di arricchimento culturale e umano senza pari. Ogni incontro, ogni storia condivisa, aggiunge un tassello al proprio mosaico di comprensione e rispetto verso una cultura che celebra la resilienza e l’unità. Nel nostro caso specifico, al primo incontro con Nehemiah H. Brown e successivamente per tutti gli anni di canto insieme, la sensazione era quella di portare a casa con noi non solo nuove conoscenze musicali, ma anche frammenti di un’umanità vibrante e profonda.

L’importanza del significato delle parole nella musica gospel

Le parole delle canzoni gospel sono come preghiere cantate, invocazioni che sollevano l’anima e risvegliano emozioni profonde. Cantare Amazing Grace o Oh Happy Day non è solo una performance musicale; è un viaggio spirituale che ci avvicina alla nostra essenza più autentica. Ogni parola, ogni verso, racchiudono un mondo di significati che ci invita a

Nehemiah H. Brown

riflettere e a sentire.

Analizzare i testi del gospel è stato un processo rivelatore. Abbiamo scoperto che queste canzoni non solo raccontano storie bibliche o esperienze di fede, ma sono anche un grido di speranza, un’espressione di gratitudine e una celebrazione della vita. La semplicità e la potenza delle parole riescono a toccare corde profonde, evocando immagini e sensazioni che risuonano dentro di noi.

Questo repertorio ci ha permesso di entrare in contatto con queste emozioni in modo intenso e autentico. Sentivamo la connessione con le comunità afroamericane, con il loro dolore e la loro speranza, e questa consapevolezza ha reso ogni nostra esibizione un atto di condivisione e di empatia. Per queste ragioni, prima di imparare un nuovo pezzo, analizziamo con molta attenzione il testo, discutendo e cercando di interiorizzare il significato sia dal punto di vista dell’autore, che dal nostro. Attraverso questa disamina, la canzone prende forma nella sua intensità e comincia a fissarsi nella mente del corista che ne assume pienamente l’intenzione.

Dal belcanto alla vocalità afroamericana, all’improvvisazione

Dal punto di vista tecnico, il gospel ha aperto un nuovo universo di possibilità espressive per noi.

La nostra tradizione corale italiana, con la sua precisione e la sua struttura formale, ha dovuto fare spazio a una modalità di canto più libera dai vincoli e che si spinge spesso fino all’improvvisazione. Questa

Faith Gospel Choir diretto da Anna Ferrari
Nehemiah H. Brown

transizione è soprattutto mentale, e rappresenta uno dei principali ostacoli per chi si approccia a questo tipo di canto, ma nello stesso tempo è la sfida più stimolante e addirittura liberatoria.

Il gospel si muove nella norma su una struttura a tre sezioni – soprano, alto e tenore – e la sua enfasi sull’improvvisazione ci ha insegnato a lasciare andare le nostre inibizioni e a seguire il flusso della musica. Improvvisare armonie e melodie è diventato un modo per esprimere la nostra individualità e la nostra creatività, trasformando ogni esibizione in un’esperienza unica e irripetibile.

L’improvvisazione, in particolare, ci ha permesso di esplorare nuove forme di espressione musicale. Ci siamo sentiti liberi di sperimentare, di giocare con le dinamiche e le armonie, e di creare qualcosa di nuovo e di emozionante ogni volta. Questa libertà espressiva è diventata una parte fondamentale del nostro approccio. Su questo aspetto si gioca un delicato equilibrio tra l’espressività individuale e quella corale.

L’improvvisazione nella musica gospel è paragonabile agli assoli che si possono ascoltare nella musica jazz. Il virtuosismo del singolo è un esercizio di libertà che però non può reggere se non esiste alla base una tecnica che permette di rispettare l’armonia del gruppo. Inoltre, dimostra un livello di competenza tecnica

notevole, se si pensa che tutto avviene “sul momento”. Per questa ragione, improvvisare non è pratica comune dei cori gospel in Italia, poiché richiede un allenamento costante da parte del coro, e un atteggiamento di totale fiducia verso il direttore, che deve guidare la vibrazione del momento e portarla ogni volta verso una strada inesplorata, ma senza mai perdersi.

L’intensità del vibrato alla base della tecnica vocale

Le tecniche vocali utilizzate in questo genere sono una fonte inesauribile di ispirazione e di sfida. I cantanti afroamericani, con la loro espressività e potenza, hanno sviluppato uno stile vocale unico che incanta e coinvolge: studiare e adottare alcune di queste tecniche è stato un viaggio affascinante e trasformativo.

Il vibrato è la tecnica vocale probabilmente più distintiva del gospel. L’uso del vibrato nel gospel permette di sostenere l’intensità della musica, e si raggiunge lavorando anche su l’elasticità dei muscoli facciali, in particolare le guance, che fanno da cassa di risonanza naturale. Al vibrato si aggiunge potenza con l’espressività, cantando letteralmente a “bocca aperta” e seguendo i suoni con la mimica facciale. È possibile osservare questa modalità guardando con attenzione i cantanti afroamericani (anche

Faith Gospel Choir

Faith Gospel Choir

Il Faith Gospel Choir nasce nel 2005 a Carpi (MO) a conclusione di un seminario sulla musica gospel tenuto dal maestro Nehemiah H. Brown (Virginia, USA), attuale direttore artistico del coro. Come associazione di promozione sociale e culturale ha come intento principale quello di diffondere attraverso il canto, sia a cappella che strumentale , il profondo messaggio di gioia e speranza contenuto nel repertorio spiritual e gospel di origine afroamericana. Il perfezionamento musicale dei coristi e la trasmissione ad essi dell’autentica cultura gospel, unitamente alla specifica tecnica vocale che la caratterizza, sono affidati alla competente opera e al talento del maestro Brown. Oltre alla formazione musicale, le principali attività del coro sono i concerti, l’animazione di celebrazioni liturgiche, matrimoni e feste. Il coro organizza anche seminari di canto gospel per ragazzi e adulti e si propone per esperienze di team building . Nello spirito che anima il gruppo, sono appuntamenti fissi ogni anno i canti nelle corsie degli ospedali a Natale, nelle case protette e nelle strutture che accolgono disabili. Accompagnato dal Maestro Nehemiah H. Brown e oggi diretto da Anna Ferrari, nel 2011 il coro si è recato in tournée a San Francisco (California), cantando in chiese, strutture sociali e tenendo un concerto al National Shrine of St. Francis per la Leonardo Da Vinci Society. Nel 2008 ha inciso il CD The long road to freedom e nel 2015 l’omonimo DVD con la registrazione del concerto tenuto all’auditorium Rita Levi Montalcini di Mirandola, insieme alla Filarmonica “G. Andreoli”. Nel 2022 ha realizzato il progetto Sant’Anna Gospel Choir presso la Casa Circondariale “Sant’Anna” di Modena. Nel 2023 ha presentato lo spettacolo Looking for Freedom sotto la direzione di Anna Ferrari, una gospel opera in tre atti che racconta del collegamento tra le origini del gospel e la musica contemporanea. Nel 2023, in collaborazione LILT Italia, (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori) ha presentato il Celebration Mass Gospel Choir al Teatro Comunale “Pavarotti-Freni” di Modena.

Faith Gospel Choir

Nehemiah H. Brown

Nehemiah H. Brown è cantante, pianista, compositore, arrangiatore, direttore, insegnante di canto e tecnica vocale. Nato nel 1951 a Charlottesville (USA), è cresciuto in Virginia nella chiesa di suo padre, The Holy Temple Church of God in Christ, dove ha ricevuto il training sia spirituale che musicale. Ha cantato il suo primo brano solistico all’età di sei anni. A undici anni ha iniziato lo studio del pianoforte con Victoria Perkins, ha diretto il suo primo coro gospel a quindici anni e ha successivamente partecipato a numerosi programmi radiofonici e televisivi negli Stati Uniti. Ha studiato teoria della musica alla University of Virginia, tecnica vocale afroamericana all’Università del Massachusetts con Horace Boyer (docente di Composizione ed Etnomusicologia), e pianoforte e voce con Martin Grusin a San Diego (California). Negli anni ’70 ha fondato e diretto alcuni tra i migliori gruppi gospel americani, come i Dimensions of Gospel (Virginia), The Black Voices (University of Virginia), i Genesis allo Smith College (Northampton, Massachusetts). Dal 1977 ad oggi ha partecipato a numerosi concerti in Europa e negli Stati Uniti con Walter ed Edwin Hawkins, Andrae Crouch, Shirley Caesar e Ron Kenoly, e continua le sue collaborazioni e partecipazioni a eventi nazionali e internazionali. Nel 1996 ha fondato a Firenze The Florence Gospel Choir School, la prima scuola di musica e cultura afroamericana, una delle scuole più importanti in Italia diretta da un artista afroamericano; nel 2000 ha partecipato al concerto alla Sala Nervi in Vaticano e allo Stadio Olimpico di Roma, alla presenza di Giovanni Paolo II. Nel 2006 ha creato il Celebration Gospel Choir che racchiude tutti i cori da lui diretti in Italia, dando vita ad una serie di concerti che continuano ancora oggi. Numerose le partecipazioni televisive: tra queste, nel novembre 2008, ad Uno Mattina per celebrare la vittoria elettorale di Barack Obama interpretando vari brani gospel, tra cui il suo successo Time to Heal. Attraverso i suoi progetti, le sue collaborazioni e numerose iniziative in campo artistico sia negli Stati Uniti che in Europa il maestro Nehemiah H. Brown prosegue nella missione di portare il messaggio autentico del gospel nel mondo.

Nehemiah H. Brown

contemporanei), che accompagnano le note allargando e muovendo labbra e guance che diventano effettivamente elementi della tecnica vocale.

Al vibrato si aggiunge la tecnica del call and response (letteralmente chiamata e risposta), un dialogo musicale tra il solista e il coro, che nasce nei campi di cotone durante la schiavitù afroamericana per alleviare la fatica attraverso il canto e per sostenere il ritmo del lavoro. Questa tecnica ha un’importanza fondamentale poiché crea una dinamica di coinvolgimento e risposta tra il coro e il pubblico, rendendo ogni esibizione un evento interattivo e partecipativo.

La respirazione e il controllo vocale sono altri aspetti cruciali del canto gospel. La resistenza e la capacità di controllo richieste per sostenere note lunghe e potenti, e per passare rapidamente da una dinamica all’altra, sono una complessità che spesso viene sottovalutata da chi non conosce il genere. Il controllo della respirazione, in particolare, è essenziale per mantenere l’energia e la potenza necessarie durante un’intera esibizione.

Il nostro vissuto

La nostra esperienza come coro italiano nel gospel è stata un viaggio emozionante e arricchente, che ci ha toccato profondamente e ci ha trasformato. Abbiamo scoperto una nuova cultura musicale, ci siamo immersi nelle parole e nei significati del repertorio, abbiamo esplorato le differenze tecniche tra la nostra tradizione e quella afroamericana, e abbiamo studiato le tecniche vocali di cantanti esperti.

Questo percorso ci ha permesso di crescere come coristi e come individui, e di condividere con molte persone la bellezza e la potenza del gospel. Ogni esibizione è diventata un momento di connessione e di emozione, un’opportunità per celebrare la vita e l’umanità attraverso la musica. Abbiamo visto che il gospel non è solo musica; è un linguaggio universale che parla al cuore delle persone, indipendentemente dalla loro origine o cultura, una celebrazione della vita, della fede e della speranza, e siamo grati di poterlo condividere con il nostro pubblico. Ogni esibizione è un’opportunità per creare un legame profondo e significativo con chi ci ascolta, e per portare un messaggio di amore e di unità attraverso la musica.

Il nostro viaggio continua, e siamo entusiasti di scoprire nuove sfumature e nuove emozioni in questa meravigliosa forma d’arte. Speriamo che la nostra esperienza possa ispirare altri cori e musicisti, e a

scoprire questa bellezza e potenza trasformativa. Il gospel per noi è un dono prezioso, e siamo onorati di farne parte, di contribuire alla sua diffusione e di portare la sua luce e la sua gioia a tutti coloro che ci ascoltano.

Abbiamo imparato quindi che non è solo una forma d’arte, ma una filosofia di vita, un modo di essere e di sentire il mondo: un invito a vivere con passione, a credere nella forza della speranza e a trovare la bellezza nelle piccole cose. Cantare gospel ci ha insegnato a guardare oltre le difficoltà, a trovare la forza nell’unità e a celebrare la vita in ogni sua sfaccettatura.

Ma al di là dell’aspetto emozionale, speriamo si colga anche attraverso queste riflessioni l’incredibile valore tecnico di questo genere che troppo spesso viene ridotto a uno stereotipo, e che invece merita rispetto per il profondo contributo che ha dato a tutta la musica moderna. Senza i canti nati dalla tradizione degli schiavi africani in America, probabilmente molti generi musicali non si sarebbero mai potuti sviluppare nelle modalità che noi oggi conosciamo: pensiamo al blues , al rock , al jazz e a tutto ciò che questi generi hanno a loro volta ispirato e generato.

Ecco perché ci auguriamo (e questo articolo è stato una grande occasione) che nuovi momenti di confronto nel mondo corale possano aumentare la consapevolezza sul valore assoluto del gospel sia dal punto di vista culturale e spirituale, ma soprattutto come genere musicale dalle sue origini e in tutte le sue evoluzioni a livello internazionale.

Continueremo a cantare, a imparare, a crescere e a condividere questa meravigliosa avventura con il nostro pubblico e con tutti coloro che, come noi, amano la musica e credono nel suo potere di trasformare il mondo...

www.faithgospelchoir.it

«Se vuoi capire davvero il gospel vieni con me in America…»

Cantante e direttrice di coro

Non mi sento certo in grado di scrivere un ‘trattato’ sul mondo del gospel , ma vi posso portare la mia esperienza di canto durata 13 anni con il maestro e pastore, nonché amico, Nehemiah H. Brown. Questa esperienza inizia proprio col titolo di questo personale resoconto: «se vuoi capire davvero il gospel vieni con me in America…». Apperò! Beh, andai a sperimentare ‘sul campo’ la forza e il valore di questo genere

musicale che mi aveva preso da subito ‘di pancia’ durante il seminario di canto gospel tenuto a Carpi nel 2005 proprio dal maestro Nehemiah H. Brown. Così a novembre dello stesso anno andai in America insieme a Nehemiah e al suo coro di Firenze, il Florence Gospel Choir. Ci recammo dapprima in una chiesa evangelica a Charlottesville in Virginia, quindi in una chiesetta nella campagna frequentata principalmente da persone di colore, e ancora in una scuola elementare, infine nell’enorme ospedale di Charlottesville. Pur nella sua brevità, questa esperienza mi ha insegnato che

Nehemiah H. Brown, Rossana Bonvento e altri cantori nella hall dell’ospedale di Charlottesville, Virginia (USA)

non tutto è codificato, ma che è fondamentale avere la capacità di improvvisare e dialogare nel canto con l’assemblea.

Ho capito che i gospel non sono solo “canzonette allegre”, ma profonde preghiere che vengono dall’anima. E mi ha pure insegnato l’importanza degli inni: dopo aver intonato nella grande hall dell’ospedale uno degli inni più importanti e noti nella chiesa americana ( Great is Thy faithfulness , tratto dal libro delle Lamentazioni 3, 22-23) un gran numero di persone (pazienti, parenti e anche personale medico) si unì a noi nel canto. Quindi quello che genericamente definiamo gospel, racchiude in realtà una varietà di composizioni che spaziano dagli spiritual, ai gospel e agli inni, questi ultimi così prepotentemente attuali... pensate per esempio a Joyful Joyful dal film e musical Sister Act 2.

Ecco qualche appunto sul mondo musicale che ho incontrato nel mio viaggio, cantando…

• gli spiritual (genericamente in tonalità minore e cantati a cappella): sono i canti della schiavitù. I padroni delle piantagioni ‘acquistarono’ questi poveri schiavi dai mercanti che provenivano da varie parti dell’Africa e del Sud America, e le loro famiglie venivano smembrate e divise nelle varie piantagioni. Ma gli schiavi avevano un “difetto”: non erano macchine, ma uomini ognuno con la propria lingua, e questa disgregazione delle famiglie di fatto generò una vera e propria Babele! Come impartire ordini, come farsi capire? Così, i padroni convenirono su quanto fosse di prioritaria importanza insegnare agli schiavi la lingua inglese e per fare questo scelsero come testo la Bibbia, ma - ahi loro - nella Bibbia gli schiavi trovarono sì una lingua comune, ma soprattutto la speranza! E devono averla letta davvero bene, perché la maggioranza dei testi degli spiritual proviene proprio dalla Bibbia, una esperienza profonda

nei testi sacri - per esempio, Balm in Gilead canta di un balsamo che lenisce tutte le ferite («There is a balm in Gilead To make the wounded whole; There is a balm in Gilead To heal the sin-sick soul», in riferimento a Geremia 8, 22) o Swing low sweet chariot , che rimanda al carro di fuoco che portò Elia in cielo, un carro evocato per poter tornare liberi a casa (Libro dei Re 2, 11-12).

• i canti di lavoro: così come nei canti delle mondine o nei canti della tonnara che conferivano ritmo al lavoro e, nel contempo, ne alleviavano la pesantezza, allo stesso modo funzionavano i work songs degli schiavi americani nelle piantagioni.

• i canti che annunciavano una fuga imminente, come un codice cifrato non comprensibile agli schiavisti, ma ben chiaro agli schiavi, come Wade in the water che, pur ricordando il brano dell’Esodo quando gli israeliti attraversarono il Mar Rosso, presagiva una fuga organizzata verso territori dove la schiavitù era già stata bandita.

• ho inoltre appreso che i canti gospel (ricordo che

African American Heritage Hymnal (2001) e Songs of Zion (1981)
Rossana Bonvento e Nehemiah H. Brown

gospel significa Vangelo, letteralmente una contrazione di God spell ) nacquero dopo la fine della schiavitù e si diffusero rapidamente per il paese attraverso i camp meetings. Sono originari del Nord America e divennero la controparte settentrionale agli spiritual del Sud. Nacquero quando le popolazioni di colore provenienti dal Sud arrivarono a Chicago, New York, Detroit e in altre città del Nord e si ritrovarono, di fatto, in una terra straniera. Ancora una volta però i canti erano sulle loro labbra, ed erano una combinazione di pura gioia di vivere e profonda fede religiosa. Cito dal testo Songs of Zion : «è stata la fede a ispirare i canti. Esprimono una teologia profonda, non accademica o da seminario, ma una teologia legata all’esperienza, la teologia di un Dio che manda il sole e la pioggia, un Dio molto vivo che non ha abbandonato i poveri, gli oppressi e i disoccupati... Questi canti della tradizione religiosa nera hanno arricchito il cristianesimo occidentale, fornito forza spirituale e resistenza morale per affrontare le realtà presenti senza soccombere, presentando nel contempo una prospettiva eterna».

I testi sono pieni di significato, di fede e per la maggior parte sono ispirati alla Sacra Scrittura. Se vi capita fra le mani un innario della chiesa americana (ad esempio

l’ African American Heritage Hymnal ) troverete nelle pagine finali indici dettagliati per autore, per titolo, metrica del testo, argomento e citazioni bibliche. Anche i canti spiritual come i canti gospel vengono utilizzati nelle celebrazioni: sempre nel volume Songs of Zion troverete indicazioni molto precise circa il ruolo del direttore, dei solisti, dei musicisti, come e quando inserire un controcanto e sulla modalità di improvvisazione.

«Questi canti possono arricchire il culto di tutta la Chiesa. È la musica che ha nutrito un popolo, lenito e curato le sue ferite, sostenuto le sue speranze. È la musica che amplierà i generi musicali nel culto in qualsiasi chiesa cristiana.

Sono i canti di Sion che devono essere cantati dal popolo di Dio, che è sempre straniero e pellegrino in qualunque terra abiti.

Ogni terra in cui abitano è loro e ogni terra è straniera. Questi canti sono offerti sull’altare della chiesa da un popolo che, mentre si trovava in questa terra straniera, ha cantato i canti di Sion alla gloria di Dio. (Salmo 136)».

Nehemiah H. Brown

CantaBO, Festival Corale Internazionale, Musica per la Città!

L’autunno corale bolognese si apre con CantaBO, il Festival Corale Internazionale organizzato da AERCO che si tiene ogni anno tra ottobre e dicembre in splendide location della città petroniana.

Direttrice artistica: Elide Melchioni

Spiritual, gospel : una bussola per orientarsi

Compositore

Spiritual

L’espressione spiritual song è attestata in America fin dal Seicento per indicare in modo generico i canti sacri su testi dell’Antico e del Nuovo Testamento; a partire dal XX secolo, tuttavia, il termine spiritual è stato associato pressoché unanimemente ai canti di ispirazione religiosa degli schiavi africani deportati in America. In questa accezione, è difficile individuare in modo univoco l’origine di tale genere musicale; quel che è certo, invece, è che lo spiritual sorse dal contatto

tra il sostrato musicale africano e la cultura musicale di matrice europea del luogo di deportazione, cultura con cui gli schiavi furono forzati a convivere. Non è infatti lecito affermare che la mescolanza culturale posta a fondamento dello spiritual sia stata frutto di uno scambio spontaneo, poiché si trattò piuttosto di un processo emerso, tra le maglie della violenza subita, da un compromesso attuato di necessità dagli afroamericani al fine di coltivare in qualche forma il legame con la cultura di provenienza. A partire dagli inizi del Seicento l’economia americana aveva iniziato a fondarsi in larga parte sullo sfruttamento di masse di schiavi provenienti dall’Africa impiegati principalmente in piantagioni di cotone, tabacco o caffè, in special modo nel Sud degli Stati Uniti. Venduti alla pari di qualsiasi

Edwin Hawkins Singers

merce, le condizioni di vita degli africani deportati erano durissime: soggetti a turni di lavoro massacranti, impossibilitati a far valere i propri diritti che venivano soffocati con le ragioni della frusta, furono costretti ad abbandonare gran parte dei costumi della loro cultura d’origine, inclusa la religione, per cosciente volontà degli schiavisti. Costoro, mossi tanto da un’etica condivisa che non poteva tollerare culti pagani quanto dalla necessità di ammansire gli schiavi attraverso i messaggi edificanti della religione cristiana, costrinsero gli africani a convertirsi al protestantesimo, obbligandoli a seguirne le funzioni sia in zone appartate all’interno delle chiese, sia in black churches appositamente allestite. Di fronte a tale sradicamento coatto, la musica rappresentò all’inizio l’unico strumento di coesione identitaria tollerato dai dominatori, benché fosse vietato l’uso dei tradizionali strumenti a percussione africani: la musica era esercitata soprattutto nelle riunioni serali in cui gli afro-americani si riposavano dalle fatiche della giornata esercitando vita di comunità e per sostenere le estenuanti ore di lavoro nei campi. Eseguito in forma responsoriale da un solista e dalla massa di lavoratori con il sostegno, quando possibile, del battito delle mani o dei piedi, se non da oggetti d’uso comune impiegati quale surrogato delle percussioni, il repertorio musicale che scaturì da queste manifestazioni musicali non era esente da canti di preghiera e di ispirazione sacra, il cui credo era oramai cristiano: gli afroamericani, convertiti al protestantesimo, interpretarono i princìpi cristiani infondendovi i tratti della spiritualità africana che era stata soffocata dalla soppressione forzosa dei loro culti. Ad esempio, già agli inizio del Settecento è attestata negli Stati Uniti la pratica del ring shout, in cui gli africani ballavano per ore in cerchio, accompagnati da battiti di mani, di piedi o dalla percussione di legnetti, in modo progressivamente più veloce fino a quando, invasati dallo Spirito Santo, cadevano esausti a terra. Come si può facilmente intuire dalla descrizione appena fatta, si trattava di

una manifestazione religiosa squisitamente africana, combinata tuttavia con la spiritualità di matrice cristiana. Una simile attitudine investì verosimilmente ogni aspetto della vita degli afroamericani, e non è difficile immaginare che da un simile incontro non fu esente anche la musica, dando così vita al genere dello spiritual. Dapprima gli afroamericani fecero propri gli inni che ascoltavano durante le liturgie cristiane adattandoli alla propria sensibilità musicale, dando poi vita ad un proprio repertorio originale di canti. All’interno dell’innodia americana furono dunque importate strutture melodiche fondate su scale difettive, portamenti vocali e pratiche ritmiche, come quella di marcare il tempo debole della battuta con battiti di mani, di origine africana, fenomeni del tutto estranei alle consuetudini locali. I testi degli spiritual provenivano dalla Bibbia, tuttavia con una spiccata predilezione nei riguardi dell’Antico Testamento. Gli schiavi d’America vi trovavano infatti personaggi e situazioni affini alla propria sensibilità e in cui potessero rispecchiare la propria condizione di vita immaginando una forma di riscatto: non a caso tra i personaggi prediletti vi sono David, il pastore che sconfisse il gigante Golia con una fionda e, soprattutto, Mosé, colui che aveva posto fine alla condizione di cattività del popolo ebraico in Egitto. Tali episodi erano infatti letti alla luce della propria condizione di schiavitù e al tempo stesso, dell’aspirazione a una condizione migliore. La diffusione dei canti spiritual fu, vista la natura del fenomeno, essenzialmente orale fino a quando, nel 1867, William Francis Allen pubblicò Slave Songs of the United States, la prima raccolta a stampa di spiritual. Il passaggio alla scrittura non è casuale ed è sintomo di un mutamento radicale nella vita degli afroamericani: appena due anni prima, nel 1865, la vittoria nordista nella guerra di secessione aveva portato all’abolizione della schiavitù in tutto il territorio statunitense. A partire da tale momento lo spiritual cessò per certi versi la propria funzione storica ma non estetica; lungi dall’esaurire la propria vitalità, tra fine Ottocento e inizi Novecento confluì nel gospel, nel blues e nel primo jazz innervandone lo spirito e le strutture musicali.

Gospel

Il termine gospel abbraccia un considerevole corpus di canti religiosi americani con testi di ispirazione sacra, frutto dell’esperienza religiosa personale di gruppi protestanti evangelici, sia bianchi che neri. Dopo i primi esempi degli anni Cinquanta dell’Ottocento, è solo a partire dalla fine del XIX secolo che il gospel ha assunto una propria fisionomia, divenendo progressivamente

centrale negli innari della maggior parte dei protestanti americani. L’ispirazione evangelica dei canti è denunciata sin dal nome del genere, dal momento che in inglese il termine gospel, frutto di una contrazione tra God, Dio, e spell (sillaba, per metonimia parola), significa vangelo; i testi non attingono tuttavia solo ai vangeli, ma in generale a tutta la Bibbia e ai salmi in particolar modo. Fu impiegato per la prima volta in Gospel Songs di P. P. Bliss (1874) e in Gospel Hymns and Sacred Songs (1875) dello stesso Bliss e Ira D. Sankey, pubblicazioni che testimoniano i primi esempi del white gospel. È opportuno precisare infatti che, nonostante i molteplici punti di tangenza, white gospel e black gospel vanno considerati fenomeni differenti: il white gospel, sviluppatosi precedentemente, mantenne caratteristiche di maggiori semplicità ritmica e armonica rispetto al successivo black gospel. Dal momento che in Italia è essenzialmente quest’ultimo ad essere associato al genere gospel, ci si soffermerà in particolare su di esso. Il black gospel trovò la propria fisionomia soltanto a partire dagli anni Venti del Novecento. Praticato in origine nelle chiese da grandi cori, presto uscì fuori dalle sue sedi incontrando il favore popolare trovando spazio anche in occasioni laiche. Anche il black gospel sorse dall’incontro tra matrice culturale africana e americana come lo spiritual, da cui per certi versi prende le mosse: dallo spiritual ereditò, ad esempio, la scrittura responsoriale, in cui alla domanda del solista segue la risposta della compagine corale. Ciò che lo differenzia dallo spiritual è tuttavia la maggiore complessità musicale. Il gospel così come lo si intende oggi è infatti il frutto dell’incontro tra lo stile innodico di compositori come Lowell Mason e i suoi seguaci e i loro adattamento al gusto afro-americano, che arricchì i canti preesistenti ed elaborò un nuovo repertorio a partire da caratteristiche precipuamente africane. Personaggio centrale in questa prima definizione del black gospel fu il predicatore metodista Charles Albert Tindley, che compose egli stesso degli inni gospel che definirono alcuni aspetti essenziali del genere: scrittura responsoriale in alternanza di versetto e refrain, struttura pentatonica, armonizzazioni semplici. Il black gospel assunse la piena maturità solo tra gli anni Trenta e Quaranta quando, ormai divenuto parte essenziale dei canti comunitari delle black churches, fu soggetto agli influssi del blues e del jazz, che arricchirono il genere con abbondante uso di sincopi, oscillazioni microtonali, armonizzazioni per quarte o quinte. La diffusione del gospel fu tale che nel 1977 fu elevata a rango di principale repertorio innodico nel The New National Baptist Hymnal. Fin dalle origini il gospel era accompagnato

da strumenti, dapprima esclusivamente a percussione (tamburi, triangoli, tamburelli), poi a corda pizzicata quale il banjo e, a partire dagli anni ‘20, dalla chitarra, cui si aggiunse presto il pianoforte; a partire dagli anni ‘50 fece la propria comparsa anche l’organo Hammond. Per quel che concerne lo stile vocale, il timbro tipico del gospel è a voce piena, a tratti rauca o sforzata; in special modo le voci femminili sono spinte verso il registro più acuto al fine di proiettare la voce al di sopra degli strumenti o, nel caso dei solisti, al di sopra della compagine corale, anche attraverso l’uso esteso del vibrato. La maggior parte dei pezzi gospel sono di andamento lento o moderato: i pezzi lenti sono caratterizzati da una scrittura ampiamente melismatica del solista sostenuta dal coro sullo sfondo; i pezzi di andamento moderato hanno invece carattere ritmico-percussivo e impiegano la scrittura responsoriale. A partire dagli anni Quaranta si diffuse una nuova organizzazione musicale, in cui al di sopra di una frase musicale reiterata in secondo piano si ergono le improvvisazioni testuali e vocali del solista, che introduce variazioni sul tessuto musicale dello sfondo: a questa categoria appartiene, ad esempio, Oh Happy Day di Edwin Hawkins del 1969.

Slave Songs of the United States (1867)
Slave Songs of the United States (1867), p. 55

Alla vecchia maniera

Cantare polifonia antica dalle fonti originali con i ragazzi del liceo

Compositore e direttore di coro

Mentre seguivo il corso “La polifonia rinascimentale in coro” dell’AERCO Academy, tenuto da Silvia Perucchetti, non avrei mai immaginato di riuscire a far cantare musica rinascimentale a dei ragazzi di liceo. Durante il corso studiavamo lo strambotto Alta Regina, da una raccolta conservata nella Biblioteca Estense Universitaria di Modena, e mi ha subito affascinato la possibilità di riscoprire musica perduta grazie alla capacità di leggere le fonti originali. Ero impaziente di poter cantare ancora quella musica rimasta a lungo celata, volevo farla vivere ancora e per sempre… e quale modo migliore se non affidandola alle prossime generazioni?

Poco dopo la fine del corso mi sono trovato a dover scegliere un nuovo brano rinascimentale per il coro del Liceo Scientifico “Keplero” di Roma, che attualmente dirigo assieme a Claudia Nizzica, e così, armato di buone intenzioni e matite colorate, mi sono presentato alle prove con le riproduzioni del manoscritto tardo-quattrocentesco di Alta Regina sottobraccio. Distribuendo le fotocopie trattenevo a fatica le risa vedendo le facce preoccupate dei giovani coristi, mentre tentavano di capire a quale barbara tortura li avrei sottoposti. Per prima cosa ho dovuto fare chiarezza su ciò che avevo loro appena dispensato, intessendo una breve spiegazione su metodi di esecuzione e di scrittura del Rinascimento. Ho fatto subito notare la diversa forma delle note, la differenza delle chiavi e la mancanza delle battute, che ha provocato non poco scalpore. Pian piano sempre più incuriositi, piuttosto che spaventati, hanno cominciato a notare stranezze e bellezze della fonte, chiedendomi di spiegare loro ogni segno anomalo e

I ragazzi del Liceo Scientifico Keplero di Roma studiano in polifonia dalle fonti originali con Leonardo Ian Vergarir

rimanendo colpiti dalle rappresentazioni che decorano il manoscritto. Terminata questa fase di imprinting con la fonte, li ho guidati nell’individuare l’unità di misura del brano e, matite alla mano, abbiamo riflettuto sulla possibile disposizione delle linee di battuta, scontrandoci con ligaturae che mi hanno procurato ironiche promesse di vendetta. A questo punto, li ho fatti imbattere nella collocazione del testo sulla musica, spiegando quanto fosse importante che gli accenti tonici delle parole coincidessero con gli accenti musicali e dopo poco hanno disposto correttamente il testo. Già soddisfatto di questo iniziale lavoro, ho proceduto speranzoso nella spiegazione delle parti, che i coristi hanno subito apprezzato. Notavo però che trovavano grandi difficoltà nel seguire il tempo durante piccoli melismi e cadenze, così ho deciso di ricorrere a un metodo che avevo visto applicare con efficacia da Silvia durante il corso, ovvero far mantenere ai coristi un certo tempo schioccando

loro le dita a occhi chiusi, per poi tentare un’esecuzione senza direttore; fatto entrare il coro in sintonia ritmica, l’esecuzione è diventata improvvisamente più chiara e precisa. Passata qualche prova, il carattere del pezzo ha cominciato a permeare i coristi, facendo sì che le parole acquisissero il giusto significato nella musica e che i ragazzi fossero in grado di ammirarne la bellezza. Inoltre, presa confidenza con il brano, sono uscite simpatiche osservazioni sul testo e sulla sua calligrafia oltre a battute sulla somiglianza del carattere della ‘s’ con quello della ‘f’, cominciando qualcuno così a chiamare i bassi baffi. In generale possiamo dire che i ragazzi avevano cominciato a giocare con la fonte e a districarsi facilmente con essa. Stavano apprezzando il lavoro di squadra per recuperare quel prezioso tesoro e ogni mia richiesta interpretativa era vista come un tassello per raggiungere l’obiettivo comune di un’esecuzione ricca di significato e dinamica. Finalmente era arrivato il momento di interpretare il brano ‘alla vecchia maniera’, e così li ho fatti avvicinare e ho fatto posare loro la propria mano sulla spalla del vicino, per scandirvi il tempo con il dito. Erano come chiusi in una tiepida bolla, tenuta intatta dalla musica. Qui è accaduta la magia: è stato in quel momento che ha ripreso vita un gruppo di pueri del ‘500 intenti a eseguire uno strambotto scritto da un compositore coevo, nella fumosa penombra di una chiesa illuminata da poche candele. Terminato il brano ho cercato di rendere i ragazzi consapevoli di ciò che era successo, di quanto meraviglioso e unico fosse che dei giovani del secondo millennio avessero passato pomeriggi interi con il naso tra manoscritti di secoli prima, a studiare la scrittura di un anonimo copista che ci ha permesso di dare nuovamente voce a quell’antica melodia. Ma non mi bastava la soddisfazione di aver riportato alla luce questo strambotto nella ristretta cerchia del mio coro: volevo condividerlo con più persone possibile, volevo che il suo spirito si facesse strada tra coloro che potevano catturarne un po’ e conservarlo con sé. Così abbiamo deciso di portare questo brano a un concorso regionale di cori liceali, dove centinaia di ragazzi hanno potuto sentire della musica altrimenti morta; finalmente eretto impavidamente sopra la propria tomba, Alta Regina ci ha fatto conquistare una classifica in fascia argento. Orgoglioso dei miei giovani musicologi, sono uscito dalla sede del concorso con l’attestato in pugno, felice di aver per sempre impresso in quei ragazzi un’esperienza tanto indelebile quanto irripetibile. Mi avevano detto che non avrebbe funzionato, che far leggere vecchie pagine impolverate a degli adolescenti li avrebbe solo annoiati; ma ci sono dei momenti in cui è preferibile dare ascolto a ciò che si prova, piuttosto che agli

scettici. Ho presentato ai coristi lo studio delle fonti come un’occasione per scoprire qualcosa con il quale probabilmente non avrebbero avuto più a che fare, ho spiegato che quella polvere che ricopre i manoscritti li rende accattivanti e non noiosi, ho detto loro che niente come la musica può incarnare i gusti di un’epoca e che con quel brano saremmo tornati indietro nel tempo. In poche parole li ho fatti appassionare mostrandomi appassionato, senza mettere le mani avanti come a volte si vede fare a direttori che timidamente propongono brani dal Barocco in giù. Non c’è niente da fare, i ragazzi fiutano il bello, si rendono conto quando vale la pena fare qualcosa. Noi direttori non dobbiamo avere il timore di presentar loro musica antica, anzi, dobbiamo spronarli ad esplorarla. Siamo tutti costantemente bombardati da musica di ogni genere, dal rap al rock, dal pop al jazz, ma non dalla musica antica, ed è bene che i giovani abbiano l’opportunità di osservare da vicino un ambiente musicale al quale non sono altrimenti esposti. Diamo loro la possibilità inusuale di toccare con mano quella musica che ha gettato le fondamenta di tutto ciò che quotidianamente ascoltiamo in radio. Credo intimamente che sia fondamentale far sperimentare ai giovanissimi coristi il repertorio e la prassi esecutiva rinascimentale, specialmente se in un contesto amatoriale, così da poter lasciare in loro una notevole impronta musicale che gli permetta di vivere la musica in modo differente. Grazie al corso di Silvia ho compreso quanto fosse sviluppato il senso di musicalità negli esecutori del ‘500 rispetto ai giorni nostri e ritengo sia fondamentale sviluppare questa musicalità anche nei nostri coristi, magari – perché no – proprio con lo studio della musica rinascimentale. Ricordiamoci sempre che per i ragazzi non musicisti che decidono di partecipare a un coro scolastico non è importante tanto imparare brani per rendere contenti genitori e insegnanti, bensì rendere quell’esperienza un’occasione di crescita per entrare a contatto con mondi che meritano di conoscere. Immergiamo i ragazzi nel bello, poiché un giorno lo renderanno al mondo.

La Messa Corale in do maggiore WAB 25 Windhaager Messe di Anton Bruckner

Una proposta d’autore per corali liturgiche e amatoriali

Direttore di coro

Afferma Werner Wolff, biografo di Anton Bruckner: «L’inizio della sua carriera è stato duro e amaro… Ma la musica ha potere magico. Premia i suoi seguaci e rende felici coloro che lottano sinceramente per lei. Ha un potere unificante generale; unisce le persone. Bruckner era così nonostante tutto… Difficile essere nelle sue stesse condizioni alla scrittura della sua prima Messa in do maggiore»1.

Nell’anniversario dei 200 anni della nascita del compositore austriaco Anton Bruckner (Ansfelden, 1824 - Vienna, 1896) sicuramente tante potrebbero essere le proposte corali che ben ne esemplificherebbero lo stile e la vena compositiva. Ma in questa particolare sede si vuole cogliere l’occasione per dare uno spunto di repertorio ad un bacino corale estremamente ampio. L’opera presa in considerazione è la Messa in do maggiore WAB 25 denominata dall’autore Choral Messe (la prima delle tre messe giovanili), e nota come Windhaager Messe dal nome della città in cui Bruckner si trovava al momento della sua composizione. Nel 1841, all’età di 16 anni, Anton Bruckner completò la sua formazione come assistente scolastico e iniziò il suo primo lavoro a Windhaag, nell’Alta Austria. Sicuramente

le aspettative su ciò che il piccolo comune ai confini della selva boema avrebbero potuto offrirgli non furono alte, ma le reali condizioni furono sicuramente molto peggiori di quanto avesse immaginato. Sempre Werner Wolff ci restituisce una condizione piuttosto pietosa della posizione di assistente scolastico a quel tempo: «uno stipendio di pochi fiorini, una stanza povera, cibo scarso, molto lavoro, a volte umile». Oltre alle quotidiane attività che il ruolo scolastico comportava, al giovane Bruckner vennero affidati gli incarichi di organista presso la chiesa del villaggio e la guida del coro locale, oltre ai compiti di sacrestano, che includevano il dover suonare le campane fin dalle primissime ore del mattino. Se tutto questo non fosse già sufficiente, troviamo nelle sue notizie biografiche

DI MARCO GUIDORIZZI
1. Questa e la citazione seguente sono tratte da Werner Wolff, Anton Bruckner. Rustic genius, New York, Dutton & Co., 1942.
Anton Bruckner ritratto da Ferry Beraton (1889, Wien Museum)

ulteriori lavori alquanto lontani da ciò che troveremmo adeguato ad una figura di ‘maestro dotto’: lavori nei campi, raccogliere patate e trebbiare il grano.

È in questo clima che nasce la sua prima Messa, dedicata ad Anna Maria Jobst, solista del coro della chiesa, la cui voce probabilmente ispirò Bruckner a comporla. L’opera si presenta come una sintesi della professione di insegnante e di organista operante durante il servizio liturgico, non suggerendo sicuramente alcuna ambizione artistica, quanto proponendo invece un lavoro allo stesso tempo funzionale e didattico. Scritta per contralto, organo e due corni, ma già pensata dall’autore per l’esecuzione alternata fra coro all’unisono e voce solista, le parti fisse della comune liturgia della Messa sono rese con una struttura estremamente semplice, ma efficace. Dal punto di vista compositivo l’organo si presenta principalmente come sostegno armonico al canto, quasi totalmente raddoppiato, e la parte dei corni funge unicamente da nota di colore e rafforzo in taluni punti, mentre la scrittura per voce di contralto genera una linea vocale dalla tessitura centrale, senza eccessi ovviamente nel registro acuto ma nemmeno in quello grave.

Nella pur estrema semplicità della forma si notano elementi di interesse, quali una certa consapevole attenzione alla drammaticità del testo e modulazioni talvolta ardite, sicuramente non di convenzionale facilità, verso tonalità lontane.

Il Kyrie si sviluppa in 32 battute, proponendo una pia e accorata melodia molto vicina al canto gregoriano, principalmente costruita sul declamato, che acquista particolare enfasi nelle continue oscillazioni tra tonalità maggiore e minore (seguendo l’alternanza tra Kyrie eleison e Christe eleison ).

Nel Sanctus e Benedictus troviamo già nel manoscritto l’idea dell’autore di eseguire le due parti alternando coro e voce solista. Questa distinzione effettivamente accresce l’efficacia del brano, che vede per il Sanctus (esteso per 20 misure) un andamento piuttosto solenne e rigoroso, contrapposto in maniera piuttosto netta (anche a causa di un cambio di tonalità a mi bemolle maggiore non preparato) al Benedictus , che si presenta invece come un cantabile dal respiro più lirico e intimo, basato principalmente su scale discendenti e progressioni.

L’ Agnus Dei (33 battute) trova la sua forza espressiva nell’intensificarsi delle modulazioni armoniche e

nell’innalzarsi della linea vocale verso l’acuto in concomitanza delle ripetizioni dell’invocazione e del miserere nobis , creando notevole pathos

Infine, è bene spendere alcune parole sugli importanti movimenti del Gloria e del Credo , volutamente qui analizzati in ultimi. Usanza diffusa nella prima metà del XIX secolo, soprattutto nelle zone periferiche e rurali, era quella di eseguire queste parti ‘tagliando’ diverse sezioni rispetto all’ampio testo previsto, accorciando le esecuzioni delle messe cantate e rendendole molto più scorrevoli.

Il Gloria è costituito da 60 battute; vi troviamo un grande uso dell’unisono alternato all’accompagnamento più ricco dell’organo e una melodia caratterizzata da perentori intervalli di quinta e ottava, il tutto per conferire grande rigore e drammaticità al testo. Per il motivo notato sopra, il Gloria risulta mancante dei versi Domine Fili unigenite, Jesu Christe, Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris.

Il Credo è il movimento a presentare i tagli più vistosi: sono assenti infatti le intere porzioni di testo Et in

Werner Wolff, Anton Bruckner. Rustic Genius (1942)

unum Dominum Jesum Christum, Filium Dei Unigenitum. Et ex Patre natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero. Genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt, ed Et iterum venturus est cum gloria, judicare vivos et mortuos, cuius regni non erit finis. Et in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem: qui ex Patre Filioque procedit. Qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur: qui locutus est per prophetas. Et unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum. Et exspecto resurrectionem mortuorum. L’assenza di queste sezioni piuttosto corpose ne semplifica - ed allo stesso tempo limita molto - la struttura e la possibile resa musicale, togliendo, come è ben facile immaginare, la possibilità di ulteriori soluzioni dagli accenti drammatici.

Principalmente per sopperire ai tagli applicati in fase di gestazione e per poter quindi utilizzare compiutamente la musica di questa Messa all’interno della liturgia, nel 1927 Kajetan Schmidinger e Joseph Messner ne realizzarono un arrangiamento per coro misto a quattro parti, quintetto d’archi, due corni e organo. In questo caso le parti mancanti del Gloria e del Credo vennero musicate ex novo , completando così i movimenti. Per quanto vi si ispiri, questo arrangiamento è da intendersi come un rimaneggiamento che ben poco ha a che vedere con l’opera di Bruckner, pur mantenendo una forma e carattere assolutamente coerente con il testo originale.

Se per il Credo non ci sono altre soluzioni per poterlo eseguire completo all’interno della liturgia, nel caso del Gloria si è proposta anche una seconda strada: essendo le parti mancanti più ridotte e con struttura metrica simile, è possibile ripetere le battute 21-35 (corrispondenti ai versi Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam, Domine Deus, Rex cælestis, Deus Pater omnipotens ) sostituendo al testo i versetti altrimenti mancanti. Una soluzione che, per quanto artificiosa, rimane certamente più coerente. La scelta di dedicare spazio alla Windhaager Messe significa offrire una proposta pratica alle corali amatoriali che svolgono il proprio operato sia in ambito liturgico che concertistico, senza escludere le realtà corali che affrontano di rado il repertorio classico, che magari si possono definire ‘alle prime armi’. La Messa di Bruckner può infatti essere adottata come ‘proposta d’autore’ da eseguirsi all’interno di una liturgia (ben sapendo che il Credo ormai non viene più cantato, bensì recitato dalla totalità dell’Assemblea, eliminando così il problema

Windhaag bei Freistadt (Austria), Chiesa parrocchiale di S. Stefano (Wikipedia)

delle mancanze testuali), che come valida proposta di repertorio concertistico.

Già la genesi compositiva di questo lavoro dimostra oltre ad uno scopo funzionale anche quello didattico, obbligando gli esecutori, al fine di studiarla, a lavorare su numerosi aspetti musicali che è bene non trascurare nel canto corale.

La perfetta intonazione dell’unisono e degli intervalli (siano essi ampi o per grado congiunto), la gestione di interventi più cantabili o melismatici e delle scale discendenti: sono tutti elementi a cui doversi necessariamente dedicare per una buona e corretta esecuzione dell’opera, senza tralasciare altri aspetti altrettanto importanti come la vocalità e il suono, qui aiutati dalla tessitura centrale (che rende questa Messa affrontabile da parte di cori di vario livello).

L’attenzione che si è voluta riservare a questo lavoro di Anton Bruckner, sicuramente modesto, non trova quindi giustificazione solo nel fatto che si tratti della prima composizione in forma di Messa in cui presagire il suo genio compositivo, ma anche e soprattutto per riproporla esattamente secondo gli scopi per cui venne ideata, validi oggi come allora.

Musica dell’anima

La musica protestante

Dal corale luterano all’oratorio Membra Jesu nostri di Buxtehude

DI MARGARITA YASTREBOVA

Studentessa di Storia medievale

(Università Ca’ Foscari, Venezia)

È straordinario come l’interno di una chiesa protestante sia ‘autoesplicativo’ della sua dottrina: uno spazio spoglio, privo di qualsiasi frivolezza e ornamento (poiché ogni cosa visibile può indurre in tentazione e diventare un idolo), e in cui due sono i punti focali: il pulpito e l’organo. Essi, infatti, svolgevano un’azione complementare per Lutero, che pose come centro nevralgico della liturgia il commento alle Sacre Scritture e la partecipazione più genuina dei fedeli ai riti sacri.

Nonostante la molteplicità dei movimenti riformistici attivi in quell’epoca, Lutero si distingue anche perché non solo ‘tollera’ la musica, ma la ritiene anzi una fondamentale alleata all’edificazione spirituale; altri teologi riformatori, come Calvino (1509-1564) e Zwingli (1484-1531), tentarono invece di circoscriverne radicalmente il ruolo all’interno della liturgia, limitandolo al canto corale dei salmi tradotti in lingua volgare e all’unisono, su melodie a volte di nuova composizione, a volte attinte da repertori più antichi. In particolare, pur coltivandola personalmente e considerandola di fondamentale importanza nell’educazione dei Pastori, Zwingli era talmente convinto della necessità di dover ridurre lo spazio occupato dalla musica liturgica (vista come una fonte di distrazione) da proibirla completamente durante il rito, sia vocale che strumentale, e durante gli anni della sua attività si ha addirittura notizia di organi completamente smantellati. In ogni caso, non deve stupire l’atteggiamento di Lutero verso la musica, arte che lui stesso, in uno dei suoi Tischreden (‘discorsi a tavola’) definisce seconda solo alla teologia; Lutero infatti non era un monaco qualsiasi, bensì un monaco agostiniano, e Agostino, riferimento assoluto di teologia non solo per la Chiesa cristiana ma per l’intera civiltà occidentale, tratta approfonditamente della musica nelle sue Confessioni, dove definisce il linguaggio musicale una pedagogia ‘lenta e paziente’, e comparando l’esperienza musicale ad una di tipo estetico.

‘Prendi un canto, trattalo male’: le principali caratteristiche del corale luterano

Il corale è senza dubbio l’emblema del canto liturgico protestante: intonato da celebranti, coro (se presente) e

Lucas Cranach il Vecchio, ritratto di Martin Lutero, 1528

Martin Lutero affigge le sue 95 Tesi al portone della Schlosskirche di Wittenberg il 31 ottobre 1517 (xilografia colorata ottocentesca)

assemblea, il corale è un brano strofico costituito da una melodia estremamente semplice e con ripetizioni nella struttura, eseguibile anche semplicemente all’unisono da tutti i presenti ma spesso arricchito da un arrangiamento a quattro voci (in cui il tema occupa tipicamente la parte più acuta, rimanendo così perfettamente riconoscibile).

Considerando la musica come un mezzo, Lutero si era presto reso conto che, ‘fatta la chiesa’, bisognava occuparsi anche di una ‘nuova’ musica da impiegare nella liturgia protestante; i requisiti che doveva soddisfare non erano molti: innanzitutto doveva essere in lingua volgare, comprensibile da molte più persone rispetto al latino (anche se la lingua ufficiale della Chiesa di Roma non scomparve immediatamente dal repertorio dei paesi riformati); doveva poi essere facilmente memorizzabile ma, ancora meglio, si poteva utilizzare una melodia già conosciuta e amata dalla popolazione – ad esempio, un inno gregoriano molto noto o un canto popolare. In quest’ultimo caso sarà sufficiente sostituire il testo profano con uno sacro, rendendolo così christlich corrigiert (‘cristianamente corretto’) e realizzando quello che in gergo musicologico si definisce contrafactum. Più che di “nuova musica”, nel caso di Lutero, sarebbe quindi meglio parlare di musica “abilmente modificata”. Diversi sono i contrafacta famosi. Un caso celebre è la

melodia popolare Mein G’muth ist mir verwirret (‘La mia mente è confusa [da una bella ragazza]’) di Hans Leo Hassler1, pubblicata nel 1601 e il cui testo cantato subisce successivamente diverse sostituzioni: essa si trasforma in

• Herzlich tut mir verlangen (‘Il mio cuore langue di desiderio’), ad opera del teologo Cristoph Knoll, divenendo uno Sterbelied, ossia un canto per accompagnare la serena dipartita dell’anima dal corpo;

• O Haupt voll Blut and Wunden (‘O capo coperto di sangue e ferite’), il cui testo è una traduzione tedesca ad opera del poeta e teologo Paul Gerhardt (1656) della parte finale (Salve caput cruentatum) del lungo poema medievale di meditazione mistica Salve mundi salutare ; il poema era in origine diviso in sette parti, una per ciascuna delle parti del corpo di Cristo crocifisso (piedi, ginocchia, mani, costato, torace, cuore e testa)2

1. Hans Leo Hassler (1564-1612), originario di Norimberga, a Venezia fu allievo di Andrea Gabrieli e amico del nipote Giovanni.

2. Il poema fu in origine attribuito a Bernardo di Clairvaux, mentre attualmente l’autore è identificato nell’abate cistercense Arnolfo di Lovanio (1200-1250).

Il corale Vom Himmel hoch in un’edizione a stampa del 1567 (Digital Image Archive, Pitts Theology Library, Candler School of Theology, Emory University)

La melodia del corale, con o senza il testo di Gerhardt, godette di enorme popolarità e venne arrangiata in polifonia da moltissimi compositori, fra cui Dietrich Buxtehude nell’oratorio Membra Jesu nostri, diviso in sette cantate sempre per seguire l’impianto del poema Salve mundi salutare e rispecchiando le parti del corpo di Cristo (ciascuna delle cantate è poi ulteriormente suddivisa in sonate, concerti e arie).

Ancora, O Haupt voll Blut and Wunden risuona nella celebre Passione secondo Matteo di Bach, dove è presente più volte in varie tonalità (l’ultima è posizionata subito dopo che il Cristo è spirato); la melodia si presenta proponendo via via diverse stanze della traduzione di Gerhardt, e se si considera che in un’occasione ne vengono cantate due strofe invece di una sola, in totale la melodia di questo corale – nato più di 120 anni prima come canto profano – viene cantata sette volte, numero come abbiamo visto altamente simbolico.

Frontespizio di Membra Jesu nostri di Buxtehude, BuxWV75 (Uppsala Universitetsbibliotek, vokalmusik i handskrift 5012, fol. 1r)

Il corale Vom Himmel hoch

Un altro corale a cui la sorte donò grande popolarità è Vom Himmel hoch (‘Vengo dall’alto dei cieli’). Il testo fu composto probabilmente dallo stesso Lutero la sera della vigilia di Natale del 1534 (o 1535); quanto alla melodia, ricorrendo allo stesso metodo che permetteva di trasformare canzoni popolari anche licenziose in inni e corali di argomento sacro, Lutero fece della canzone Ich kumm aus frembden Landen her und bringt auch viel der neuen Mär (‘Vengo da Paesi stranieri; portate a molti la nuova notizia’) un rifacimento appunto natalizio, che manteneva anche parte del testo tedesco originale ma convertendolo in senso spirituale: Vom Himmel hoch, da komm ich her, ich bringe euch gute, neue Mär (‘Vengo dall’alto dei Cieli, portandovi la buona nuova notizia’).

Tuttavia, la fortuna del brano deriva principalmente

3. Nella prolifica produzione sacra di Bach le opere riconducibili al genere oratoriale sono tre: l’Oratorio di Natale (composto nel 1734), l’Oratorio di Pasqua (1725) e l’Oratorio dell’Ascensione (1735).

dall’inserimento di questo corale da parte di Bach nel suo Oratorio di Natale (Weihnachtsoratorium)3, un’opera che ricorre più volte al reimpiego di musica precedente con nuovo testo, anche attingendola da altre cantate sacre dello stesso compositore (come i cori della prima, terza e quarta parte dell’Oratorio, che ripropongono brani delle Cantate BWV 213 Hercules auf dem Scheidewege e BWV 214 Tönet, ihr Pauken!). L’Oratorio, inoltre, utilizza numerosi testi del già citato Paul Gerhardt: nella prima parte, dopo il raffinato coro iniziale (Jauchzet, frohlocket! Auf, preiset die Tage, ‘Esultate, gioite! Glorificate i giorni’), con fiorite imitazioni sulle parole Lasset das Zagen, verbannet die Klage, nel V movimento ecco la melodia di O Haupt voll Blut and Wunden sulle parole Wie soll ich dich empfangen (‘Come devo riceverti’) di mano di Gerhardt4. Nel IX movimento troviamo infine la delicata melodia del corale Vom Himmel hoch, intonata sul testo della tredicesima strofa Ach, mein herzliebes Jesulein!

Buxtehude e il primo oratorio luterano

Il già citato oratorio Membra Jesu nostri ha una struttura complessa e sofisticata, e viene considerato il primo oratorio di ambiente luterano. Dietrich Buxtehude (16371707) lo compone nel 1680 dedicandolo a Gustaf Düben, maestro di cappella e organista della chiesa tedesca di Stoccolma5

Come vedremo più avanti, la prospettiva ideata da Buxtehude immagina il fruitore della sua opera come un penitente inginocchiato davanti al Cristo crocifisso, partendo dai piedi alle ginocchia, alle mani, al costato, al petto, il cuore e solo infine alzando gli occhi al volto. La struttura è simile in ciascuna delle sette cantate che compongono l’oratorio: i passaggi biblici tratti dall’Antico Testamento sono affidati al coro, e fanno da ‘separatori’ tra le arie vere e proprie; queste sono

4. Gerhardt aveva composto anche un Kirchenlied sullo stesso titolo, pubblicato per la prima volta nel più importante e diffuso innario luterano del ‘600, Praxis pietatis melica (Johann Crüger, 1647), edito ben 45 volte. Fra 1647 e 1661 sono ben 90 le composizioni di Gerhardt, amico di Crüger, ad apparire a stampa in queste antologie – fra queste, proprio Wie soll ich dich empfangen e O Haupt voll Blut und Wunden.

5. Il ruolo di Gustaf Düben è di grande importanza anche come collezionista di musica: la sua vasta biblioteca privata, nota appunto come “collezione Düben”, contiene ben 105 opere di Buxtehude; l’autografo di Membra Jesu nostri è oggi conservato alla Biblioteca dell’Università di Uppsala, donata dal figlio del collezionista, il barone Anders Düben.

invece tratte dalle strofe del citato poema Salve mundi salutare , ulteriormente separate fra loro da ritornelli strumentali eseguiti dall’orchestra. La maggior parte delle cantate utilizzano lo stesso organico sia vocale sia strumentale (cinque voci, due violini, un violone e il basso continuo), eccezion fatta per la quinta e la sesta cantata (a tre voci); nella sesta l’organico strumentale è sostituito da un quintetto di viole da gamba.

Guida all’ascolto di Membra Jesu nostri

I - La prima cantata del ciclo, Ad pedes , è l’elemento motore di tutto l’oratorio, e ne espone la circolarità della composizione stilistica, formata dalla struttura sonata - coro - aria 1 - aria 2 - aria 3 - coro. La prima parola del testo cantato, Ecce (fig. 5), è evidenziata dalla tonalità di do minore, che conferisce alla narrazione un tono drammatico e solenne. Un’altra figura retorica impiegata con raffinatezza è l’anabasi (ossia una melodia ascendente) per Ecce super montes nel primo coro e ad te clamo nell’aria del basso solo, realizzata con una serie di note veloci che dipingono lo sguardo del fedele prima verso le vette, poi rivolto a Cristo sulla Croce, nonché a Dio padre in Paradiso. Per simmetria, ne repellas me indignum, nella calda e avvolgente voce del basso, presenta una catabasi (profilo discendente), per meglio ricordare al fedele che il suo punto di vista nell’oratorio coincide con quello di un umile peccatore in ginocchio. La prima cantata si conclude in tonalità maggiore, come a preannunciare la gloria della vittoria di Cristo sulla morte.

II - La seconda cantata, Ad genua, introduce il simbolismo trinitario che sarà presente anche nei movimenti successivi: il passo ad ubera portabimini et super genua blandicetur vobis viene infatti ripetuto tre volte, e la terza aria della cantata (Ut te quaeram mente pura) è a tre voci (due soprani e basso).

Alla battuta 81 dell’aria del tenore si nota un’altra curiosa figura retorico-musicale, l’ipotiposi, ossia una rappresentazione vivida, diretta ed immediata della parola da musicare: in questo caso l’ipotiposi descrive l’instabilità delle ginocchia del Cristo tramite una

Fig. 5 - Buxtehude, Membra Jesu nostri, cantata n. 1, batt. 14-18 (ed. Martin Straeten, 2009)
Fig. 6 - Buxtehude, Membra Jesu nostri, cantata n. 5, batt. 71-82 (ed. Martin Straeten, 2009)

serie di note veloci (semicrome); le stesse semicrome verranno poi riprese nella seconda aria per la parola dupla (‘doppia’), riferito alla morte sia fisica che spirituale, forse reiterando l’idea che proprio le ginocchia malferme del Salvatore ci salveranno da una morte duplice. Con la stessa intenzione descrittiva, la sonata strumentale d’apertura è significativamente intitolata Sonata in tremulo.

III - Nella terza cantata, Ad manus, il sangue di Cristo viene interpretato, nell’ottica del misticismo molto in voga nella Germania luterana, come un mezzo di trasmissione dell’amore divino verso tutti i fedeli. A questa interpretazione si prestano sia il testo di Arnolfo di Lovanio che il versetto di Zaccaria, Quid sunt plagae istae in medio manuum tuarum? (‘Cosa sono queste piaghe nel mezzo delle tue mani?’, Zaccaria, 13,6). Il coro iniziale è tripartito, creando la struttura simmetrica ABA; ogni episodio presenta una parte a poche voci (Quid sunt plagae istae) e una parte a tutti che completa il versetto; in totale la domanda sulle piaghe viene reiterata sei volte. L’uso, soprattutto nella prima e nella seconda aria, dell’armonia consonante (cioè priva di dissonanze o tensioni armoniche) trasmette una sensazione di pace e tranquillità che, però, non ha corrispondenza nella sezione strumentale che utilizza sospensioni ripetute, cromatismi, e armonie sorprendenti. Il testo della cantata è organizzato in due parti: la prima concentra la propria attenzione sui chiodi e sulle loro caratteristiche, la seconda tratta del languore intriso di cordoglio e sensi di colpa. Anche qui è presente un gioco retorico: la parola fatigatus nell’aria del soprano Salve Jesu pastor bone è allungata nello stesso modo di ‘gemendo’, presentando un melisma identico poiché i due termini appartengono allo stesso immaginario emotivo.

IV - Nella quarta parte Ad latus, nonostante il testo biblico (Cantico dei Cantici, 2:13-14) possa far intuire che il tema sia l’equazione ‘amore divino - amore fisico’, secondo la musicologa americana Kerala J. Snyder in realtà simboleggia lo spirito del peccatore che entra fisicamente nel costato di Cristo.

In più, questa quarta cantata è sviluppata in modo differente da tutte le altre: l’introduzione strumentale è vivace e dinamica, quasi ballabile, e poco dopo il coro intona con fiducia Surge, amica mea (‘alzati, mia amata’), come ulteriore promemoria del coronamento del sacrificio del signore. Il secondo coro Surge, surge amica mea presenta un cambio di tempo rispetto alla parte strumentale che era impostata in 6/4, diventando

in 3/2 e segnando così ancora una volta la presenza di un tema sacro secondo l’analogia tempo ternario – figura trinitaria. Inoltre, il ritornello strumentale di Ad latus è quasi identico al ritornello di Ad manus.

V - Nella quinta, Ad pectus , Buxtehude si sofferma sull’immagine del seno femminile interpretandola come forma di conforto e di cibo, paragonando l’uomo in cerca di ‘latte spirituale’ al bambino che in seno alla madre cerca il latte materno. Un repentino cambio di tempo avviene in coincidenza di ut in eo crescatis in salutem , interrompendo la precedente struttura contrappuntistica; un passaggio omofonico viene riservato al delicato passo quoniam dulcis est Dominus. Ripetendo il tema della sonata iniziale, nella prima aria, le parole Jesu dulcis, amor meus simboleggiano il latte che dal petto di Gesù nutre la sua chiesa. La figura retorica già vista prima, l’ipotiposi, è presente anche qui nella parola tremore, che viene ripetuta con diversi abbellimenti in note veloci frazionate da pause (cfr. fig. 6).

VI - La sesta cantata, Ad cor, è il vero ‘cuore’ di tutta l’opera. All’inizio vi è un variopinto susseguirsi di parti lente e veloci (adagio, allegro), per continuare con la sezione a tre voci Vulnerasti cor meum. L’organico è diverso rispetto alla formazione precedente ed è costituito da cinque viole da gamba; il numero cinque dovrebbe rappresentare l’umanità, dotata di cinque sensi, oppure attraverso le cinque parti del corpo. Questa cantata è inoltre l’unica a presentare un ritornello con stile concertante (Viva cordis voce clamo), dove il basso dialoga direttamente con le viole da gamba. Nelle ultime battute il coro ripete sommessamente cor, cor meum, mentre le viole da gamba diminuiscono via via il volume suonando sempre più piano.

VII - La settima e ultima cantata, Ad faciem, non costituisce solo il vertice nevralgico dell’opera: la sublima e al contempo la conclude circolarmente tornando alla tonalità iniziale di do minore. È sia la vetta che una summa delle tecniche di composizione musicale allora in uso, al servizio della devozione del pietismo luterano.

In questo capolavoro contrappunto e scrittura vocale, ‘servi della parola’, si intrecciano, a simboleggiare la transizione estetica in atto a quel tempo nello spirito tedesco.

La Leggenda del Piave

Elaborazione e armonizzazione corale di un canto d’autore

DI MONICA SIGHINOLFI

Studentessa di Clarinetto barocco

(Conservatorio di Parma)

«Il canto è una naturale tendenza dell’uomo: esso si ricollega a tutte le manifestazioni della nostra vita in quanto rappresenta il più spontaneo mezzo per esprimere i sentimenti. Uno stato sentimentale o passionale […] è uno stato musicale e aspira ad esprimersi e riesprimersi mediante note»1

Con questa citazione si apre l’introduzione del libro Canti delle Trincee di Cesare Caravaglios. In riferimento in modo specifico al canto di guerra, l’autore sottolinea che il canto ha la funzione di esternare l’anima interiore del soldato e, quando si canta in gruppo, la coralità sviluppa un senso di solidarietà e collaborazione, unendo uomini provenienti dalle più svariate regioni in un destino comune2 . Anche se il libro è stato pubblicato nella prima metà degli anni Trenta, le parole di Caravaglios sono un ottimo spunto per affrontare il tema della coralità popolare. Per questo motivo è necessario ripercorrere brevemente la storia dell’evoluzione del coro di canto popolare. La prima fase della coralità popolare potrebbe definirsi “spontaneistica”. All’inizio, infatti, il coro popolare era formato da pochi uomini, che non avevano sempre una preparazione musicale specifica ma erano intonati, avevano orecchio e conoscevano i canti popolari della zona di riferimento. L’abilità di questo tipo di coralità

1. E. Romagnoli, Musica e poesia dell’Antica Grecia, Laterza, Bari, 1911, p. 210.

2. C. Caravaglios, I canti delle trincee. Contributo al folklore di guerra, C.C.S.M., Roma, 1934, p. 5.

consisteva nell’improvvisare il canto sulla base di tre/ quattro linee sonore. La seconda fase, iniziata dopo la fine della Grande Guerra e ancora oggi in atto, è quella dell’armonizzazione e dell’elaborazione. Già negli anni Venti infatti i direttori dei cori popolari cominciarono a prestare attenzione alla semplicità e alla linearità del canto “dilettantistico”, decidendo di trasformare questa spontaneità in una trascrizione armonica più articolata. Inoltre, dopo gli anni Cinquanta, cominciarono a formarsi cori non più solo maschili, ma anche solo femminili o misti3. Le parole chiave che hanno segnato la storia della coralità popolare, dunque, sono tre: gruppo spontaneo, armonizzazione, elaborazione. Il maestro e compositore Giacomo Monica fornisce una chiara spiegazione dei tre termini in riferimento alla pratica corale: con canto spontaneo si intende un’esecuzione musicale libera, priva di regole musicali, esecutive ed interpretative fisse. L’armonizzazione, processo colto e meno spontaneo, è la forma più semplice per arricchire una melodia: infatti, l’impianto prevede l’andamento omoritmico delle voci. Infine, per elaborazione si intende un procedimento compositivo che prevede una scrittura più articolata, inserendo imitazioni, modulazioni o entrate a canone delle voci.

La Leggenda del Piave

Anche se è entrato a pieno titolo nel repertorio popolare, in realtà la Leggenda del Piave è un canto di ispirazione popolare, in quanto un autore specifico si è occupato della melodia, del testo e della prima elaborazione del brano, ricalcando tuttavia moduli e

3. P. P. Scattolin, Un secolo di canto popolare, in «Choraliter», anno XI n. 33, settembre-dicembre 2010, pp. 2-7.

La Leggenda del Piave, ed. a stampa del 1918

tematiche popolari a tal punto da valorizzare quella semplicità che contraddistingue il canto popolare. Si è scritto molto sul testo della Leggenda del Piave e sulle sue varianti, mentre si è dedicata meno attenzione alla musica. Una breve introduzione di contesto: l’autore della canzone, E. A. Mario, nome d’arte di Giovanni Ermete Gaeta, all’epoca lavorava in un ufficio postale, in quanto esente dal servizio militare perché ultimo figlio di madre vedova. Tuttavia, il lavoro non impediva al compositore di andare al fronte con un mandolino tascabile e fornire conforto musicale ai soldati. L’autore scrisse note e versi della canzone di getto. Nel 1917 l’Italia subì la dolorosa sconfitta di Caporetto e si narra che, proprio uscendo dall’ufficio, a seguito della vittoria della battaglia del Solstizio (22 giugno 1918), su un foglio per telegramma (oggi conservato al Museo Nazionale delle Poste e delle Telecomunicazioni) Gaeta scrisse di getto le prime tre strofe della canzone, con l’intento di recarsi poi al Fronte ad insegnarla ai soldati, per fornire coraggio e per rendersi utile alla Patria. La quarta strofa, invece, venne improvvisata e scritta durante uno spettacolo il 9 novembre 1918, cinque giorni dopo la fine della guerra4 .

La sua Leggenda ebbe un successo enorme. Come detto sopra, tuttavia, se si è dedicata fin troppa attenzione al

testo, minor considerazione è stata riservata alla musica. La prima versione della Leggenda del Piave fu per canto e mandolino. Piccola curiosità: la scelta dello strumento non è casuale. Il mandolino era lo strumento da lui scelto per portare la sua musica al fronte ma anche quello grazie al quale si era avvicinato al mondo musicale. Infatti, all’età di dieci anni, Gaeta trovò nel negozio di barberia del padre un mandolino abbandonato, e da quel momento iniziò a studiare musica. Un altro elemento da segnalare è che la prima trascrizione musicale della Leggenda contiene le indicazioni per eseguire il brano tre volte, mentre non si accenna alla quarta strofa, anche se il testo di quest’ultima viene riportato. Questo perché la versione originale della canzone prevedeva tre strofe, non quattro.

Il brano La Leggenda del Piave per canto e mandolino è in sol maggiore, in 2/4, da eseguire in modo piano e allegro; l’introduzione è particolare, poiché le ultime quattro battute dell’introduzione sono costruite sulla dominante (re) e le ultime due sono a distanza di un’ottava rispetto alle prime due.

La versione per canto e pianoforte

La musica del Piave fu elaborata o armonizzata? A dire la verità, entrambe: fu elaborata per canto e pianoforte e, sulla base di quest’ultima, fu armonizzata prima per coro maschile e poi per coro misto. La versione per canto e pianoforte, pubblicata già nel 1918 dalla casa editrice E. A. Mario, è interessante perché contiene più informazioni sulla modalità di esecuzione; il brano è nella tonalità di la bemolle maggiore, il tempo rimane sempre 2/4. La linea melodica del pianoforte è all’unisono con il canto e, anche nell’introduzione, le ultime quattro battute sono impiantate sulla dominante della scala (mi bemolle, ovvero la quinta nota della scala di la bemolle), e le ultime due sono a distanza di un’ottava dalle prime due.

La linea del basso, invece, è un po’ più articolata. Nelle prime due battute il basso realizza, sia per il primo che per il secondo quarto, un accordo spezzato: prima viene suonata la fondamentale (la bemolle) e poi le altre due note dell’accordo (do e mi bemolle). Nelle ultime quattro battute prima dell’inizio del canto la linea dell’accompagnamento segue un ritmo diverso rispetto alla linea melodica: parte sempre dalla quinta (mi

4. Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, E. A. Mario: La leggenda del Piave, Roma, Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, 1984, pp. 9-10.

La leggenda del Piave per canto e mandolino bemolle) e finisce con la quinta, ogni battuta contiene due semiminime e ciascuna semiminima prevede la stessa nota trasportata all’ottava sotto (es. mus. 1). La prima e la terza battuta sono a distanza di un’ottava mentre la seconda e la quarta sono a distanza di ottava solo per il primo quarto perché il secondo quarto torna sulla dominante. Per il resto del brano la linea del basso procede con questo ritmo spezzato, tranne in alcune battute dove il canto è fermo e il basso sembra quasi commentare la linea melodica (es. mus. 1).

La Leggenda del Piave nasce per essere diffusa in un contesto militare e, a tal proposito, è tanto significativo quanto doveroso sottolineare che, solo nello spartito per canto e pianoforte, esiste un’indicazione che avvalora questa ipotesi: la dicitura cassa sola, precisamente a battuta 32 (es. mus. 2). È probabile che la versione per canto e pianoforte sia stata elaborata

5. La Leggenda non è l’unico brano in cui Gaeta inserisce indicazioni che rimandano a precisi strumenti. In un altro suo brano famoso, Soldato Ignoto, scritto nel 1921 in occasione della tumulazione della salma del Milite Ignoto, inserisce l’indicazione tamburo scordato, uno strumento caratterizzato dai tiranti allentati e utilizzato per segnare il passo durante le cerimonie rituali.

pensando al brano come a una marcia5. Le indicazioni dinamiche, invece, sono mantenute inalterate in tutte le armonizzazioni ed elaborazioni: tutto il canto è pp (pianissimo), mentre le ultime due battute sono ff (fortissimo). È particolare l’indicazione usata da E. A. Mario nella battuta che avvisa chi ascolta dell’arrivo dei fanti: sotto alla battuta, infatti, è riportato il termine “misterioso”, quasi volesse enfatizzare l’arrivo furtivo dei soldati (es. mus. 2).

Armonizzazioni ed elaborazioni corali

Dalla versione per canto e pianoforte si passa, successivamente, alle armonizzazioni ed elaborazioni corali. Molte di queste sono scritte per coro maschile, ma è doveroso segnalare che, seppur meno frequenti, esistono anche armonizzazioni per coro misto. L’armonizzazione per coro maschile di Patrizio Paci presenta qualche modifica rispetto all’originale; l’introduzione del brano è più corta, vengono riprese solo le prime due battute della versione per canto e pianoforte, poi inizia direttamente il canto. Il brano si presenta prevalentemente omoritmico, anche se con un’entrata a canone: iniziano prima i tenori I e II, e dopo 2/4 entrano i baritoni e i bassi. Solo la linea del basso prende un respiro “all’arrivo

Esempio musicale 1
Esempio musicale 2

perfettamente al passo. Ci vogliono parecchie prove. Soprattutto non scoraggiarsi alle difficoltà. Perseverare. Il popolo che ha saputo creare tanti bei canti, saprà anche imparare quelli che gli sono insegnati. I miei soldati erano seggiolai e minatori dell’Agordino, eppure in quattro lezioni cantavano la Marsigliese a tre voci disuguali: e in francese» .

Partitura scaricabile al sito http://labachecadellepartiture.blogspot.com/2010/07/patrizio-paci-11.html

dei fanti” per fare una sorta di bordone poco prima che le altre voci inizino la frase tacere bisognava andare avanti. Anche le dinamiche sono meno rilevanti: il brano continua a prevedere un’alternanza di pp e f ma senza enfatizzare i momenti più salienti della canzone, come l’arrivo dei fanti. A differenza della versione per canto e pianoforte, l’armonizzazione corale del maestro Paci è in 4/4, in tonalità di do maggiore e l’introduzione del tenore I inizia con la terza della scala (ovvero con la nota mi), mentre il tenore II inizia con la fondamentale (do). La stessa analisi vale per l’armonizzazione per coro misto, sempre del maestro Paci6, con l’unica differenza che il brano è in tonalità di sol maggiore. Anche in questa versione i soprani iniziano con la terza dell’accordo (ovvero la nota si) e i contralti con la nota sol (fondamentale). A differenza, quindi, della versione per canto e pianoforte del 1919 manca completamente la quinta nota della scala.

Infine, la versione elaborata del maestro Gianni Malatesta è decisamente interessante: quasi ad occhio si capisce che il brano non è tutto omoritmico; è per tenore e basso, in tonalità di do maggiore ed ha un ritmo di 2/4. Il brano inizia con l’introduzione del tenore, che riprende la versione per canto e pianoforte, mentre il basso inizia a battuta 7, cantando una melodia diversa da quella del tenore. Entrambe le voci, in modo alternato, imitano alcuni squilli di tromba. Infine, il basso canta da solo la seconda parte della strofa ( Muti passaron quella notte i fanti) , e il tenore lo segue in modo omoritmico circa quattro battute dopo ( Tacere bisognava e andare avanti).

A differenza delle altre versioni fin qui analizzate, non v’è traccia di indicazioni dinamiche. Inoltre, una curiosità sul testo nell’elaborazione di Malatesta: la versione originale prevede la frase Ma in una notte triste si parlò di tradimento; in questa, invece, troviamo scritto Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento . Questa censura risale agli anni del fascismo, e più precisamente al 1928, quando il ministro Belluzzo scrisse a E. A. Mario di modificare tutti i versi che facevano riferimento al presunto tradimento dell’esercito durante la disfatta di Caporetto. Per questo motivo anche il verso dell’onta consumata a Caporetto fu sostituito con poiché il nemico irruppe a Caporetto. La Leggenda del Piave nacque con l’intenzione di

Ascolta La Leggenda del Piave armonizzata da Patrizio Paci ed eseguita dal Coro S. Ilario di Rovereto

essere suonata in un contesto militare, ma questo non ha impedito che la musica venisse armonizzata ed elaborata per coro, sia maschile che misto. Le armonizzazioni corali del canto hanno sicuramente mantenuto il senso di marcia militare con il loro andamento omoritmico, ma hanno forse perso di vista il rapporto tra musica e testo: quest’ultimo non viene enfatizzato con dinamiche precise, come invece spesso espresse da Gaeta. L’elaborazione corale, in questo caso, è la forma che più si avvicina all’intento originale dell’autore, in quanto le voci si alternano nell’imitare quelli che sembrano squilli di tromba.

Le armonizzazioni e le elaborazioni corali, quindi, mantengono intatta solo in parte la spontaneità della musica e del canto nati, in quella notte di giugno 1918, dalla mente e dalla penna di Giovanni Ermete Gaeta.

6. https://issuu.com/pacipatrizio/docs/voci_e_storie_d_altri_tempi_ pacir?utm_medium=referral&utm_source=www.patriziopaci.it, pp. 130-133 (consultato il 15/06/2024).

Giugno, Luglio, Agosto, Settembre 2024

Organizzazione: Mirco Tugnolo e Delegazioni Provinciali Informazioni e Calendario completo alla pagina

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Le opere per coro di Bruno Maderna

All’interno della storia delle avanguardie musicali del secondo Novecento, Bruno Maderna è il protagonista al quale, forse, è più complicato imporre schematiche definizioni. Questo perché tutto in lui fu vocato a un eclettismo, solo in apparenza dispersivo, e che, invece, gli produsse un’individualità rara, ancorché mai rinchiusa nell’isolamento. Maderna è nato a Venezia il 21 aprile del 1920 e, dunque, era solo di qualche anno più grande dei compagni di viaggio Nono, Berio, Boulez e Stockhausen - che assieme costituiscono la vetta delle esperienze artistiche di quegli anni -, tuttavia quanto bastava perché rappresentasse un punto di riferimento, sorta di pacifico primus inter pares, specialmente negli anni iniziatici e in quelli dei famigerati Ferienkurse di Darmstadt.

Cenni biografici

Attorno alla figura di Maderna, si sono convogliate tutte le caratteristiche biografiche necessarie perché il suo caso, ancora oggi, appaia velato di un fascino romanzesco. Già l’infanzia, segnata dal mito arcaico dell’ enfant prodige, ricalca i contorni di tanta letteratura d’appendice. Durante i primi anni, cresciuto nell’alveo ruspante della locanda del nonno paterno, nei dintorni di Chioggia, Brunetto stupisce tutti con la sua abilità al violino ed è trascinato in ogni dove dal padre Umberto, che ne fa la vedette della sua orchestrina, la Happy Grossato Company. Richiestissimo, ben presto si esibisce come direttore con importanti complessi sinfonici nel Nord Italia e, dopo anni movimentati e di successi, nel 1934

viene adottato da una facoltosa ammiratrice, Irma Manfredi, che diverrà a tutti gli effetti la vera madre di Maderna. I passaggi fondamentali nella sua educazione musicale sono, dal 1937 al 1940, lo studio a Roma 1 con Alessandro Bustini, già maestro di Goffredo Petrassi, e successivamente l’incontro e la frequentazione di Gian Francesco Malipiero 2 , il quale lo inizia alla passione per il lascito rinascimentale e barocco, specie di scuola veneziana. Gli anni della guerra rallentano e disperdono le sue attività musicali e, chiamato alle armi, negli ultimi mesi del conflitto entra nella Resistenza. Nel dopoguerra, non più bimbo prodigio che entusiasma le folle oceaniche delle manifestazioni benedette dal regime, Maderna fatica a trovare un suo posto nel mondo musicale in ricostruzione; tuttavia, grazie all’appoggio di Malipiero, ottiene a più riprese, fra il 1946 e il 1952, degli incarichi di docenza presso il Conservatorio di Venezia, integrando i guadagni con altre due attività importanti: la composizione di musiche per film 3 e la trascrizione di lavori vivaldiani

1. Dallo stimolante ambiente romano nasce la prima stagione creativa, fatta di lavori quali il Concerto per pianoforte ed orchestra, l’Introduzione e Passacaglia “Lauda Sion Salvatorem”, un Quartetto per archi, tutte opere degli anni 1941/43, fino alle Liriche su Verlaine, alla Serenata per 11 strumenti e al Concerto per due pianoforti e strumenti, lavori che, per dirla con Massimo Mila, segnano «l’ingresso in una zona di cosciente responsabilità» (Massimo Mila, Maderna musicista europeo, Torino, Einaudi, 2013, p. 9).

2. Gian Francesco Malipiero (1882-1973), della cosiddetta generazione dell’‘80, assieme ad Alfredo Casella (1883-1947), fu l’esponente certamente dalla cultura più internazionale e che promuoveva un personale ideale artistico di eguale sentimento per la conservazione della lezione degli antichi e per le esigenze di svecchiamento del linguaggio tardo ottocentesco.

3. Fra gli altri, Sangue a Ca’ Foscari di Max Calandri (1947), Le due verità (1951) e Noi cannibali (1953) di Antonio Leonviola.

per conto dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi e di Casa Ricordi. Infine, sempre per intercessione di Malipiero, il 21 settembre 1946, la sua Serenata per 11 strumenti figura nel programma della prima Biennale Musica del dopoguerra, occasione indubbiamente importante dato che, infatti, negli anni a seguire egli ritornerà al festival sia in veste d’autore che di direttore.

Il Requiem

Se il nostro resoconto biografico si ferma ai primi ventisei anni di Maderna, estromettendo dunque il grosso della sua vita e carriera - che, fra l’altro, è quello più conosciuto e corrispondente all’immagine storica del compositore, essendo esso legato ai linguaggi della Nuova Musica - è perché a questa data troviamo il maggior oggetto del nostro interesse qui, ossia il completamento del grande Requiem per soli, coro e orchestra. La storia di quest’opera è avventurosa. L’idea di una grande missa defunctorum si affaccia nella mente di Maderna in pieno corso del conflitto mondiale. Ne possiamo ripercorrere a fatica la composizione piuttosto lunga e travagliata, ma sappiamo che Malipiero, cui per primo il Requiem viene menzionato in una lettera alla fine dell’estate del 1945, entusiasta, da un lato sprona periodicamente l’allievo a concluderlo e dall’altro mette in moto una serie di manovre di promozione. Quella apparentemente più promettente è la presentazione a Maderna del compositore e critico musicale statunitense Virgil Thomson, che rimane profondamente colpito dalla partitura e, oltre a parlarne entusiasticamente in un articolo sull’edizione europea del New York Herald Tribune, si adopera, ricevutane copia, per organizzarne una prima in patria. Ormai compiuto, dal settembre del 1946, il destino del Requiem rimarrà appeso a questa illusione. L’esecuzione infatti, per la difficoltà e il costo della produzione, non avverrà mai né in America né tanto meno in Europa

così, dimenticato per anni, superato negli interessi dallo stesso autore, di questo primo capolavoro se ne perdono le tracce, tanto che nel 1970 in un’intervista radiofonica, Maderna deve confessare a malincuore di averne perduto anche la partitura. Soltanto un recente lavoro di vera e propria investigazione è riuscito a rintracciare proprio la copia americana, la quale, dopo una serie di passaggi di mano, era finita accantonata nella biblioteca del Purchase College della New York University, dove adesso è conservata.

Sottoposto a un lavoro di revisione musicologica e poi alla pubblicazione a cura di Veniero Rizzardi, il Requiem è stato finalmente eseguito per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia, il 19 novembre 20094

La struttura della messa, salvo alcune omissioni del testo quali l’Hostias o versi dal Benedictus e dal Libera me, non presenta grandi libertà formali rispetto la tradizione ed è divisa nettamente in due grandi parti, la prima composta da Introitus, Kyrie e tutta la Sequentia, la seconda dal Domine Jesu, Sanctus et Benedictus, Agnus Dei, dal Lux Aeterna e, in aggiunta come nel corrispettivo verdiano, dal Libera me. Più interessante, invece, è notare che Maderna operi senza soluzione di continuità fra i movimenti di ogni singola parte e che anche la cesura fra le due sia tutt’altro che netta, affidata com’è ad una rivisitazione di cadenza sospesa, scelta chiaramente dettata dal desiderio di imprimere organicità.

Diversa questione pone l’organico strumentale scelto dal compositore, certamente peculiare e formato, assieme agli archi, da ottoni (8 corni, 4 trombe, 4 tromboni, tuba) e percussioni (piatti, piatti sospesi, tamtam, 2 tamburi, grancassa, 3 timpani), oltre che da ben tre pianoforti. Questa scelta sembra guardare abbastanza chiaramente alla nuova sensibilità timbrica portata dal

Solisti

4.
erano Carmela Remigio, Veronica Simeoni, Simone Alberghini, Mario Zeffiri; l’Orchestra e il Coro del Teatro erano diretti da Andrea Molino e Maestro del Coro era Claudio Marino Moretti. LE OPERE PER

Novecento in orchestra, con richiamo ai lavori di Bartók ( Concerto per due pianoforti e percussioni; Musica per archi, celesta e percussioni; Sonata per due pianoforti e percussioni ) e soprattutto di Stravinskij ( Les Noces in cui troviamo il coro, i quattro solisti, un set molto ampio di percussioni e ben quattro pianoforti; Oedipus Rex con coro, solisti e grande orchestra tra cui percussioni e pianoforte; la Sinfonia di Salmi, per coro, orchestra con grande prevalenza di strumenti a fiato, percussioni e due pianoforti); ma è da tener conto anche di almeno due lavori recenti e dall’organico similissimo a quello del Requiem maderniano, ossia il Salmo IX del 1934/1936 (per coro, ottoni, percussioni, archi e due pianoforti), e proprio un Coro di morti del 1940/1941 (madrigale drammatico per coro maschile, ottoni, contrabbassi, percussioni e tre pianoforti), opere di Goffredo Petrassi, un autore, come abbiamo visto, piuttosto limitrofo al giovane Maderna.

Inoltre, come suggeriscono Baroni e Dalmonte, la scelta di escludere i legni e ricorrere ai soli ottoni potrebbe essere il tentativo di alludere ad una certa sonorità rinascimentale, come non vi è dubbio che la presenza del doppio coro, articolato variabilmente dalle otto alle quattro voci, sia omaggio alla policoralità veneziana del Cinquecento5. Anche il linguaggio generale di Maderna riceve spunti e stimoli stilisticamente assai vari, tuttavia prevale nell’opera un grande senso di continuità e di coesione. Laddove la scrittura si coagula in nuovi disegni, ciò non è mai traumatico, e la varietà, che d’altronde è dettata dalle situazioni suggerite dal testo, si realizza

5. Mario Baroni - Rossana Dalmonte, Bruno Maderna. La musica e la vita, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2020, p. 28. Troviamo il doppio coro nei passaggi di Kyrie, Dies Irae, Lux Aeterna e Libera me; il coro a otto voci nel Dies Irae, mentre a sei voci anche in Domine Jesu Christe, Sanctus, Benedictus e Libera me; a cinque voci vi è solo il Requiem Aeternam, mentre a quattro voci vi sono interventi nel Dies Irae, nell’Agnus Dei e nel Libera me; infine, nel Liber scriptus, all’interno della Sequentia troviamo l’intonazione di un coro a quattro voci femminili.

Boulez, Maderna e Stockhausen a Darmstadt nel 1955

con alternative metriche, timbriche e figurali molto studiate. Il discorso viene condotto come un diaframma di punti apicali e di distensioni; e così la scrittura, sostanzialmente contrappuntistica, reagisce con maggiore e minore densità al trasporto emozionale e alle necessità coloristiche del momento. Prevale nella scrittura del coro l’adesione allo stile neomadrigalistico piuttosto comune nella generazione italiana precedente, con particolare riferimento proprio a Petrassi e alla scuola romana; mentre più in generale l’ambientazione armonica oscilla elegantemente fra un diatonismo, forse di derivazione malipierana e di ascendenza debussiana, e una più marcata presentazione di dissonanze.

Ecco una panoramica delle situazioni primarie della messa:

Requiem aeternam: inizio spoglio del solo coro a cinque parti, le quali vanno stratificandosi dai bassi ai soprani con spunti di pedalizzazione e imitazione. Scrittura madrigalistica, armonia diatonica che si increspa sul piccolo melisma armonizzato in corrispondenza della parola Domine. Una prima breve concitazione polifonica si ha in corrispondenza di Te decet hymnus. Senza soluzione di continuità si passa al

Kyrie: ingresso degli strumenti (i tre pianoforti, gli archi scuri divisi e quattro soli di violino, poi addirittura otto) e del doppio coro con sostegno degli ottoni su grande pedale degli archi gravi. Vi è un primo apice sonoro in corrispondenza della quinta enunciazione del Kyrie da parte del secondo coro, cui segue una transizione imitativa degli ottoni al Christe, quindi la nuova transizione al Kyrie basata sulla scansione ritmica dei timpani e su una cantilena degli ottoni, i quali anticipano il soggetto stentoreo dei tenori, che poi passa alle altre voci e agli strumenti con un parossistico crescendo, la cui ombra armonica negli archi lega senza soluzione di

Bruno Maderna a Darmstadt

continuità al

Dies Irae: apre lo stridulo e raggelante flutter della tromba, subito seguito dall’inevitabile scatenarsi di tutte le forze in gioco, con particolare sdoganamento dei pianoforti. Caratteristica principale è l’instabilità metrica, aumentata dagli interventi irregolari della grancassa.

L’improvviso vuoto del Quantus tremor è spiegabile come passaggio madrigalistico in cui il terrore per il giudizio finale è reso dal dilagare del ribattuto fra i soli degli ottoni - con sordina a eccezione della tromba - e nei contrabbassi divisi e “al ponte”, nonché dal continuum inesorabile dei colpi leggeri di grancassa “al bordo”. Il tutto mentre il coro canta incisi sparsi fra le sue sei parti. Grande congestione - di nuovo affidata primariamente ai pianoforti che si producono in avventurosi glissando, tremoli e volatine - sul Tuba mirum, dalla segnaletica apertura sull’intervallo armonico di quinta la - mi, distribuito fra coro e ottoni. Qui a prevalere è l’uso di un modulo reiterativo e intensificante, contro il quale si muove la spinta cromatica degli archi in tremolo, quasi un alito che cerchi di spazzare via la tempesta sonora circostante.

Il Mors stupebit ancora una volta presenta una reiterazione imitata fra le parti, una figura trocaica, cromatica e discendente, vagamente verdiana.

Nel Liber scriptus troviamo il primo solo affidato al tenore e accompagnato da un coro femminile.

L’atmosfera, originata da reminiscenze pucciniane, è quella del primo momento estatico, reso limpido dalla scrittura infranta in un mosaico di parti reali di ottoni e di archi divisi. Presto l’inquietante tema del Tuba mirum seziona quest’aria con un minaccioso quanto fugace ritorno, sicché è uno choc la pulizia dello spazio sonoro presente nel successivo Quid sum miser, ridotto ad un rullante, un acufene acutissimo dei violini primi e alla mesta corda di recita del tenore.

Seguono il Rex tremendae e il Recordare Jesu pie, questo, il secondo momento solistico della messa, un’aria per basso bachianamente accompagnata dai soli di tre violini e una viola.

L’Ingemisco entra perentorio con un duetto di tenore e basso modellato sul neoclassicismo stravinskiano, straniante e quasi buffo se non si stemperasse immediatamente e venisse superato dalla scolpita drammaticità del Confutatis Maledictis: ancora una volta visitato dallo spettro del Tuba mirum, questo episodio sfoggia bene la policoralità in passaggi squisitamente responsoriali.

Il Lacrimosa è un mottetto imitativo in cui tutte le forze entrano un passo alla volta e, pervaso da una commossa

severità, viene chiuso con la sovrapposizione maestosa di una grande fuga, in un coro, al soggetto d’apertura del brano, nell’altro coro.

La Sequentia si chiude con la ricostruzione fatta da Giorgio Colombo Taccani, il quale sulla base di quanto suggerito dal manoscritto, ha scelto una conclusione speculare al grande crescendo da cui era nata dopo il Kyrie.

La seconda parte si apre con cinque rintocchi a piena orchestra prima dell’ingresso del coro, che pure si uniforma omoritmicamente a questo scampanio figurato. In maniera molto suggestiva, Maderna musica ogni frase due volte, ricorrendo prima alle voci femminili e ai pianoforti e poi alle voci maschili sostenute dalle percussioni e dagli ottoni, il che dona un inquietante dualismo a un testo in effetti diviso fra l’accorata preghiera di salvezza e le orride immagini infernali.

La seconda metà del Domine Jesu è il primo solo del soprano nella messa, interrotto senza soluzione di continuità dalla giubilatoria del

Sanctus: nel Pleni sunt caeli vi è un nuovo duetto di tenore e basso sopra un fugato degli archi. L’Osanna finale appartiene sempre a quei passaggi incagliati nella loro circolarità più volte riscontrabili nell’opera, che pure rimandano a pratiche simili in Stravinskij. Si passa direttamente al

Benedictus: apre un’inquieta linea degli archi scuri, cui si sommano le altre parti divise per andare a creare una lunga introduzione a quella che si configura come un’aria del contralto, fino a questo punto non ancora destinatario di un momento solistico. Si scorre senza interruzioni all’

Agnus Dei: tornano il coro e il soprano. Bisogna soffermarsi sulla poetica Siciliana affidata al carillon di pianoforti, costruita attorno alla seconda ripetizione del testo e in cui il soprano duetta con il contralto. Sempre senza interruzioni, il

Lux aeterna: si apre con un suggestivo solo del trombone. Si segnala anche il parlato sull’invocazione finale Requiem aeternam dona eis, Domine; et lux perpetua luceat eis. Infine, usualmente senza pausa, si passa all’ultimo numero, il

Libera me: secondo la consuetudine antica, recupera parte del materiale musicale dell’Introitus e della Sequentia.

Altre opere per coro

Occorre dichiarare subito e apertamente che i lavori destinati da Maderna al coro non solo sono letteralmente contabili sulle dita di una mano, ma, ad esclusione del Requiem già visto, hanno ruolo ancillare all’interno di più vaste e composite opere. Tuttavia, seppur pochi, esistono esempi che testimoniano la considerazione di Maderna verso il coro come mezzo complementare e utile alla caratterizzazione drammatica della composizione.

Il primo esempio che incontriamo cronologicamente è Tre liriche greche, raccolta del 1948 per soprano, coro da camera e strumenti, ricordata fondamentalmente per essere uno dei primi avvicinamenti di Maderna alla tecnica dodecafonica. Tra il 1963 e il 1970, Maderna lavora a più riprese a versioni di un’idea che si configura come una vera e propria ossessione compositiva, ossia la storia di Hyperion, protagonista del romanzo epistolare di Friedrich Hölderlin. Nel 1970, l’autore dirige a Vienna Hyperion für Sopran, Chor und Orchester, una suite in cinque parti massimamente costruita dall’aggregato di brani e di esperimenti scenici precedenti6, ma vivificata dalla composizione di nuovi interventi corali: Psalm e Schicksalslied. Il primo ambienta la preghiera che segue alla morte di Diotima e alla frustrazione dei progetti di Hyperion, utilizzando testi di Auden e Lorca; il secondo è il finale “canto del destino” del protagonista in riva al mare, che anche Brahms aveva messo in musica. Ma non stupisce che il riferimento stilistico principale di Maderna sia invece la polifonia imitativa cinquecentesca. Il lascito più interessante con presenza corale rimane Ages, composizione del 1972 dal curioso titolo di “invenzione radiofonica” e libretto di Giorgio Pressburger,

su spunto del monologo di Jaques da As you like it di Shakespeare. Un coro femminile entra nella quarta e ultima parte di questo lungo lavoro pensato per la trasmissione in radio e che mette assieme strumenti, voci maschili, femminili e infantili, un ampio ricorso all’elettronica e, per l’appunto, il coro7. Questo canta le parole iniziali del testo, «All the world’s stage» con un effetto spettrale di remotissima provenienza, un secondo piano sonoro rispetto al primo della declamazione delle voci e degli strumenti manipolati dall’elettronica. È suggestiva la proposta di Massimo Mila, il quale, trattandosi il lavoro di una riflessione sulle età della vita e trovandosi il coro in ultima posizione, suggerisce un parallelo fra quel «tutto nel mondo è palcoscenico» col «tutto nel mondo è burla», a chiosa del Falstaff - non a caso ancora Shakespeare - di un Verdi per l’appunto ormai vegliardo8. Tuttavia nulla della spumeggiante polifonia operistica verdiana è riscontrabile nella pagina di Maderna, che ancora una volta affonda nelle risorse del neomadrigalismo con una scrittura episodica e una condotta delle parti di severa matrice contrappuntistica. Naturalmente, non si pensi più alle sonorità del Requiem: il linguaggio è quello maturo dell’autore, segnato dalle esperienze del serialismo e persino della sua iniziale crisi.

6. A una precedente versione scenica in lingua fiamminga, Hyperion en het Geweld (Hyperion e la violenza), allestita nel 1968 a Bruxelles, appartiene inoltre un coro parlato (Zombieschorus): strettamente legato alla trama dell’azione e alla precipua e diversa rivisitazione del racconto hölderliano, non è poi confluito nella suite del 1970.

7. Il coro esiste anche come All the world’s stage, pubblicazione autonoma e a cappella, con titolo proprio il motto shakespeariano su cui si basa.

8. Massimo Mila, Maderna musicista europeo, Torino, Einaudi, 2013, p. 94.

Bruno Maderna

La musicoterapia umanistica

Per il risveglio delle energie vitali di anziani e malati Alzheimer

Musicoterapeuta, danzamovimentoterapeuta, trainer e art-counselor

La Musicoterapia Umanistica applicata ad anziani e a malati di demenza Alzheimer prende le mosse dal riconoscimento dell’unicità di ogni persona umana e del valore e della significatività che ogni vita rappresenta, anche quella vicina all’età della morte e quella colpita da malattie devastanti come l’Alzheimer. L’invecchiamento porta con sé tutta una serie di problematiche che possono creare difficoltà, disagio e sofferenza alla persona, accelerando così il decadimento e il deterioramento fisico, mentale e psicologico. Se a questo si aggiunge il ricovero in istituti e residenze protette, la situazione si può complicare ulteriormente: si possono verificare, allora, condizioni di calo vitale, di apatia, depressione, relazioni conflittuali e di tensioni tra gli ospiti e il personale che li assiste. In questa situazione la musica, e la musicoterapia in particolare, sono un intervento di sostegno (preventivo, riabilitativo e/o terapeutico) alle difficoltà di chi vive le problematiche dell’invecchiamento associate a quelle

del ricovero. La musica, infatti, può offrire alle persone anziane un valido aiuto perché allontana la depressione, la noia, l’ansia, l’insicurezza, la svalutazione di sé, e aiuta a recuperare le capacità intellettive e affettive.

Scopo centrale della musicoterapia: “risvegliare” il gruppo di anziani e malati ricoverati, riattivarne le energie sopite, aprire canali di comunicazione che permettano di accedere alle proprie risorse nascoste, di riattivare le funzioni intellettive, fisiche e affettive residue, di favorire una migliore sintonia con l’ambiente e migliorare, pertanto la qualità di vita. La musicoterapia, come forma di terapia riattivante, oltre a rappresentare un’esperienza privilegiata di ascolto della sofferenza, funziona come un contenimento, una rassicurazione, e un sostegno laddove la persona vive e “sente” la sua esperienza come una perdita delle coordinate spaziali, temporali ed affettive. Nelle persone malate Alzheimer la risposta alla musica si conserva anche quando la demenza è molto avanzata: la musica può determinare miglioramenti dell’umore, del comportamento e perfino della funzione cognitiva. Per questi malati, per quanto persi nella demenza, la musica è una «necessità, e può avere un potere superiore a qualsiasi altra cosa nel restituirli, seppure soltanto per poco, a se stessi e agli altri»1. Gli stessi malati sottolineano gli effetti benefici del fare musica assieme e il potere della musica di “dare nuova vita” o di “rifare nuove” le persone, destando in loro la vitalità e la volontà di vivere.

In genere l’intervento di musicoterapia con anziani si attua in residenze protette e centri diurni per malati Alzheimer. Il lavoro è di gruppo (piccoli gruppi da 5 a 10 unità per malati di demenza) ma all’interno del gruppo è comunque possibile attuare interventi individuali. La

1. Oliver Sacks, Musicofilia. Racconti sulla musica e il cervello, Milano, Adelphi, 2008, p. 393.

frequenza degli incontri è di uno o due a settimana, per la durata di un’ora o un’ora e mezzo, a seconda delle esigenze e dei bisogni delle persone e della gravità della malattia di demenza.

Un programma di lavoro di musicoterapia prevede molteplici attività musicali per andare incontro alle esigenze e ai bisogni di ogni persona che frequenta il piccolo gruppo. Nel lavoro vengono integrate tecniche attive e ricettive, tra cui: il canto di canzoni del repertorio della musica leggera e popolare, l’ascolto di brani musicali, l’associazione musica/movimento, l’improvvisazione strumentale. Queste attività musicali (integrate anche da terapia del ricordo e da attività extra-musicali) vengono usate singolarmente o in combinazione tra loro, a seconda dei soggetti, dei loro bisogni e degli obbiettivi da perseguire. Per quanto riguarda l’atto del cantare canzoni, la prestazione della memoria della persona anziana ed anche di quella malata di demenza Alzheimer può migliorare nettamente. Tale miglioramento riguarda soprattutto il materiale cantato rispetto a quello parlato: persone che non sono più capaci di parlare coerentemente, infatti, possono essere in grado di cantare abbastanza correttamente le strofe di canzoni conosciute.

Nella nostra esperienza ormai trentennale abbiamo

visto e udito come molti anziani riescano a ricordare perfettamente le singole parole, le frasi o un intero testo di canzoni, sia declinandole in modo parlato, sia cantandole. In certi casi, laddove la memoria e il ricordo sembravano vacillare o venire meno, l’anziano smetteva di cantare (come se durante il canto svanissero le parole della canzone) e ricercava le parole recitandone in modo cantilenante o ritmico la struttura del testo, favorendo spesso con successo il recupero del testo parlato. In altri casi, invece, si verificava spontaneamente l’accesso alle parole favorito dal cantare. Questo forse ci informa sulla diversa modalità di recupero di un materiale a seconda della tipologia delle persone. Questo materiale canoro e canzonettistico è accostabile ad altri materiali imparati nelle fasi precoci della vita dall’individuo anziano, come ad esempio, preghiere, filastrocche, cantilene, ninnenanne, scioglilingua. È molto frequente la recita di questo materiale durante incontri di musicoterapia, quasi che l’atmosfera creatasi nell’incontro predisponga l’emersione di tale materiale, forse anche per una sorta di somiglianza e di accostamento di esso alla musica. Sembrerebbe che il materiale canoro recitato e cantato sia direttamente riconducibile al periodo dell’infanzia e della giovinezza di colui che cantava: si tratterebbe di

un materiale appreso in una fase della vita dove giocava l’apprendimento e la motivazione e impressosi in modo permanente; allo stesso tempo, sembrerebbero entrare in gioco le funzioni dell’emisfero destro, di carattere evocativo: la lingua dell’immagine, della metafora, della pars pro toto, della globalità; la lingua del pensiero indiretto che ha alla base i sogni, le fantasie, le vicende del mondo interiore, con le sue illogiche regole che si esprimono nello scherzo, nel gioco di parole2. Lavorando con le canzoni con malati d’Alzheimer emerge come dato di fatto un miglioramento delle prestazioni della memoria per quanto riguarda il materiale cantato rispetto a quello parlato: a fronte di una facoltà del parlare coerente molto colpita, permane o è molto meno colpita la capacità di cantare abbastanza correttamente le strofe di canzoni conosciute. Cosa significherebbe questo?

1) Innanzitutto che tali malati ricordano un materiale appreso da giovanissimi, nelle fasi precoci dell’apprendimento in cui erano molto motivati.

2) In secondo luogo, che tale materiale apparteneva sicuramente ad un ricordo piacevole, in grado non solo di stimolare il pensiero e la parola, ma anche di influire positivamente sull’affettività: i ricordi connotati emotivamente consentono alle persone di coinvolgersi emotivamente nel ricordo e di riprovare le stesse emozioni vissute nel passato3

3) Tale materiale “familiare” dimenticato o abbandonato da molti anni viene recuperato, così come si recuperano con facilità le competenze relative alla memoria procedurale come il muoversi su stimolo musicale e la pratica del ballare.

2. Cfr. Paul Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica, Milano, Feltrinelli, 1991.

3. Cfr. Joseph E. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle radici delle emozioni, Milano, Baldini & Castoldi, 1998.

Con i malati d’Alzheimer, poi, è importante continuare a cantare e a farli cantare, mantenere lo stimolo canoro, perché attraverso il cantare passa sempre la relazione: un canto è fatto di musica e parole, ma anche di contatti con lo sguardo, con il tatto; un canto viene condiviso e si può dialogare assieme; il cantare è fatto anche di sintonia e di complicità. Fin quando cantare? Perché la persona comincia a perdere colpi: tralascia parole, perde pezzi importanti della struttura della frase, antepone parole o intere frasi perdendo la sequenza originale, scambia le parole… Nonostante questa ‘perdita di pezzi’ la persona malata d’Alzheimer, se incoraggiata, può sempre cantare, e nonostante non abbia più la capacità di mantenere informazioni e dati di carattere linguistico, conserva ugualmente una buona memoria musicale che le consente di riconoscere la melodia di molti brani. Il riconoscimento di una melodia implica piacere, anzi, compiacimento in quanto c’è relazione tra i diversi soggetti che cantano e che provano piacere insieme a farlo; e inoltre, significa anche “familiarità”: è un sentirsi a casa, in un ambiente conosciuto e quindi rassicurante.

A fronte di una perdita generalizzata di coordinate spaziali temporali e affettive, il cantare canti conosciuti tranquillizza e rasserena: per il malato di demenza significa sentirsi a proprio agio, integri, con un senso di identità. Cantare una canzone, che il malato ne abbia consapevolezza o no è ritrovare integrità, non sentirsi frantumato al proprio interno: il cantare, infatti, favorisce l’integrazione e l’armonizzazione dell’io e delle sue funzioni.

Notizie

Josquin: il più moderno tra gli antichi

Intervista a Walter Testolin

Il 28 gennaio 2024, in una domenica di nebbia umida e fredda, presso la Casa della Musica di Parma, abbiamo avuto il piacere di ascoltare la lectio di Walter Testolin su Josquin. Tra i presenti non solo gli allievi della scuola per direttori di coro di AERCO, ma anche studiosi, musicologi e amanti di musica rinascimentale. Tutti accomunati dalla volontà di conoscere uno dei Padri della musica rinascimentale. Walter Testolin ha, come di consueto, incantato l’uditorio con la sua narrazione fluida e profonda, che non rinuncia a tuffarsi in citazioni letterarie, dispacci, lettere, bolle di pagamento e dipinti per completare ed esaltare il racconto della musica e dei suoi protagonisti. La seconda parte della giornata di studi ha avuto il prezioso apporto del coro polifonico Santo Spirito di Ferrara che ha permesso ai direttori presenti alla Masterclass di praticare la musica di Josquin sotto lo sguardo attento e la guida di Walter Testolin.

Abbiamo posto qualche domanda al Maestro in merito a Josquin e alla sua musica, ben sapendo che l’argomento è tanto vasto e profondo da non poter essere costretto in poche righe.

Ci racconta da dove nasce la sua devozione per la figura di Josquin?

Fu un incontro casuale, avvenuto ormai trentacinque anni fa, con un disco preso il giorno del mio diploma in fagotto. Inserito nel lettore si manifestò immediatamente come la musica che avevo sempre cercato, quella che speravo esistesse da qualche parte e in qualche epoca. Decisi in quel preciso momento che a quella musica avrei dedicato la mia vita.

La ricerca musicologica oggi, in un mondo tecnologizzato, in cui sembra che tutto il sapere sia a portata di mano, segue strade diverse rispetto al passato?

Senza dubbio a guadagnarci è la velocità con la quale si possono trasmettere le informazioni, così come l’ampiezza delle stesse. Poi però bisogna rimettersi in viaggio, guardare le cose direttamente con i propri occhi, ogni qualvolta possibile. Vedere un documento in rete, vagante nell’etere elettronico, oppure vederlo da vicino, sapere in che scaffale è custodito, qual è il suo odore e che aria respira, sono due cose davvero imparagonabili.

Molti documenti relativi alla biografia e ai rapporti sociali di Josquin sono andati perduti o sono ancora avvolti dal mistero, ma è rimasta la sua musica. Crede che si possa abbozzare un ritratto emotivo di

Josquin attraverso le opere giunte fino a noi?

Viviamo in epoche davvero molto lontane, il significato stesso delle parole scritte sembra molte volte diverso ora rispetto ad allora, e tutto è potenzialmente equivocabile. Ma la musica stabilisce, almeno tra alcuni esseri, una comunicazione a sé stante, attraverso la quale le sensibilità possono trovare un linguaggio comune. In conclusione sì, ritengo che ponendosi in una certa maniera di fronte alla sua musica, da essa si possa ottenere questo ritratto emotivo del suo autore, per quanto estremamente complessa doveva essere la sua personalità.

Durante il seminario ci ha mostrato documenti e cronache risalenti a decenni dopo la dipartita di Josquin in cui si riportava che la sua musica veniva ancora eseguita in occasioni particolarmente significative, come l’incoronazione di un sovrano. Caso rarissimo in un’epoca in cui quanto già ascoltato non aveva più alcun motivo di essere rieseguito. Eppure possiamo dire che Josquin e la sua musica, per noi moderni, siano stati una riscoperta relativamente recente. Cosa ha determinato questo temporaneo oblio?

Come tutta l’opera musicale antica, fatta forse eccezione per quella di Palestrina, che è stata ininterrottamente eseguita almeno presso le istituzioni musicali religiose romane, il repertorio rinascimentale è scomparso pressoché totalmente per almeno due secoli, cancellato

dal mutare del gusto e delle esigenze artistiche e pratiche. L’amore per l’antico, peraltro mai del tutto scomparso nella cultura europea, ricevette però un enorme slancio dalla cultura neoclassica e poi dal pensiero romantico, per il quale l’Antico assumeva un’importanza capitale: basti fare a questo proposito i nomi di Winckelmann prima e di Schliemann poi. La musicologia cominciò in maniera più costante nell’Ottocento a svolgere un lavoro di ricerca archivistica sui repertori musicali rinascimentali, ricerca che sfociò poi nei grandi progetti di recupero del repertorio antico messi in atto durante il Ventesimo secolo. Oggi a questo riguardo viviamo un momento unico nella nostra storia, nel quale possiamo essere a conoscenza di una parte davvero cospicua del patrimonio musicale europeo degli ultimi sette secoli. Una enorme fortuna, frutto di un lavoro altrettanto enorme. Quella di Josquin, proprio grazie al riconoscimento della straordinarietà della sua levatura artistica nei decenni successivi la sua morte e la conseguente presenza documentaria, è stata

Walter Testolin

una di quelle figure le cui opere sono state ricercate, rintracciate, trascritte, studiate, edite ed eseguite in maniera particolarmente capillare, come testimonia la quantità di registrazioni della sua musica disponibile ai giorni nostri.

Le sue lezioni sulla figura di Josquin dimostrano anche una profonda conoscenza della letteratura, della pittura, della storia delle corti europee e della storia della liturgia, frutto di grande studio e attività di ricerca grazie alle quali oggi tutti noi possiamo accostarci a Josquin con una nuova consapevolezza, collocandolo all’interno della cultura del suo tempo e comprendendo il preziosissimo apporto che egli ha dato alla storia della musica successiva. Nonostante questo, Josquin resta ignoto alla maggior parte degli italiani che pure saprebbero dare un volto e collocare storicamente Mozart, Beethoven e Verdi. A cosa crede si possa attribuire una simile lacuna?

Questa è una grave lacuna della cultura moderna, purtroppo non solo in Italia, secondo la quale il Rinascimento fu un’epoca artisticamente dominata dalla pittura, mentre sappiamo (ma lo sappiamo solo se ci informiamo per conto nostro) che alla musica erano riservate energie economiche perfino superiori a quelle

Josquin, Missa Pange lingua (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Handschriften- und Inkunabelsammlung, Ms. 4809, fol. 1v)

destinate alle arti visive, con inoltre un enorme ruolo dal punto di vista della rappresentazione politica del potere. Non solo, la musica possedeva il particolare dono di essere diffusa tra tutte le classi sociali nelle sue diverse forme: se nelle chiese dominavano Messe e mottetti, nelle corti madrigali, chansons e mottetti, nelle strade forme di musica più semplici, come villanelle, villotte e altre di spiccato carattere popolare, ma non per questo non frequentate anche dai più prestigiosi compositori dell’epoca. Conoscere la cultura del periodo storico cui ci si rivolge per una particolare disciplina artistica è un elemento necessario, se a questa forma artistica ci si vuole avvicinare tentando di coglierne l’essenza più intima. Non si può fermarsi al sapere qualcosa sulla musica: il musicista viveva immerso in un mondo culturale fatto di filosofia, religione, arte, difficoltà quotidiane, non solo di segni su un pezzo di carta. Dunque bisogna immergersi totalmente nel suo mondo, tentare di respirare l’aria che respirava il musicista che si studia e si esegue, se si ha il desiderio di volerne fare una lettura filologicamente il più corretta possibile.

Dallo studio iconografico di tele, dipinti e affreschi dell’epoca di Josquin traspare che la moderna tecnica vocale è probabilmente molto più raffinata di quanto non fosse quella del periodo a cui ci riferiamo. Riportare in vita musica rinascimentale con una prassi storicamente informata e non in maniera strettamente filologica equivale alla creazione di un falso storico?

Alcune rappresentazioni ci dànno l’idea, confermata da alcune cronache, che il modo di cantare potesse essere

più duro di quanto il nostro orecchio è abituato. Ma del resto ci sono anche immagini e cronache che dicono l’esatto contrario: dunque bisogna trattare la materia con molta prudenza. Di certo si tratta di un’epoca durante la quale al cantare a libro, che comporta il piegamento indietro della testa con conseguente alzamento della laringe e abbassamento del palato, si affianca il canto da libri parte, dunque da parti staccate che consentono una posizione completamente diversa, di testa, faringe e palato, con conseguente maggiore possibilità di gestione del suono vocale. Non posso però non considerare in fondo, che molta della musica di quell’epoca mostra una potenzialità che una lettura legata esclusivamente al segno scritto o a una presunta interpretazione di un’iconografia peraltro né esaustiva né univoca, rischia di sminuirne drasticamente e drammaticamente la portata artistica.

La fitta simbologia che sottende i componimenti di Josquin era una pratica raffinatissima e comprensibile probabilmente solo a pochi ‘iniziati’. Quanto un pubblico moderno potrebbe comprendere i meccanismi simbolici della sua musica senza una guida all’ascolto e in che misura è necessaria una penetrazione tanto profonda nella simbologia per poter apprezzare la musica di Josquin?

La bellezza indiscutibile della musica di Josquin è tale che può essere apprezzata, goduta e compresa completamente a diversi livelli. Josquin scrive chiaramente per diversi livelli di comprensione, è una musica iniziatica ma nel contempo talmente perfetta da essere anche emozionale. A qualunque livello si riesca ad entrare nella sua arte la si può comprendere con la sensazione della completezza.

Le giovani generazioni sono sempre affascinate da figure che raccontino di trasgressione, rifiuto delle regole imposte e dell’autorità. Josquin, pur piegandosi alle richieste di re (a suo modo) e papi, ha avuto condotte diverse da quelle dei suoi colleghi contemporanei, come dimostrano i versi di Serafino Aquilano. Si può passare attraverso questa narrazione per avvicinare i giovani alla sua musica? Come far rotolare il masso del pregiudizio sulla musica antica e permettere la scoperta di un tesoro tanto grande?

Credo che la più grande forza della musica antica risieda in essa stessa, nell’impressionante fascino sonoro che emana, nella sua capacità di far coesistere delle armonie a noi pressoché totalmente familiari con sistemi compositivi che invece sembrano alieni. Né adesione né trasgressione servono, serva la volontà di mettersi in sintonia con un linguaggio che ci è lontano solo in apparenza, perché comunica direttamente con il nostro essere interiore, col nostro essere umani, cresciuti dentro un mondo in perenne equilibrio tra modernità e natura, tra immagini di solida tangibilità e altre invece che proiettano il nostro essere dentro un mondo rarefatto, nel contempo onirico e reale.

Per coloro che volessero approfondire lo studio della figura di Josquin e del suo tempo, può fornire una bibliografia e dare i riferimenti di prossime sue lezioni, masterclass, concerti a riguardo?

Ci sono alcuni libri, pochi ma buoni. La biografia, l’unica in italiano, scritta da Carlo Fiore edita da L’Epos, però non più disponibile. Poi la grande biografia di David Fallows edita da Brepols, disponibile solo in inglese. Poi i testi di Willem Elders, tra i più grandi studiosi dell’opera di Josquin, anch’essi reperibili in lingua inglese. Su tutti Josquin Legacy edito da Leuven Univesity Press. Ma in fondo, più che letto va ascoltato, studiato, cantato. Per quanto mi riguarda, Josquin cammina sempre al mio fianco, dunque non mancheranno certo occasioni!

Leonardo da Vinci, Ritratto di musico, 1485 circa (Milano, Pinacoteca Ambrosiana)

Notizie

Concorso Corale Nazionale “Giuseppe Savani”

A Carpi, la III edizione

Direttore Generale AERCO

Nel mondo affascinante della musica corale, dove le voci si uniscono in armonia, ogni evento è un’occasione di scoperta, crescita e celebrazione dell’arte vocale. La terza edizione del Concorso Corale Nazionale

Giuseppe Savani, tenutasi a Carpi dal 3 al 5 maggio 2024, ha pienamente incarnato questa visione, offrendo ai partecipanti e al pubblico un’esperienza unica e indimenticabile.

Origini e scopo del Concorso

Il Concorso Giuseppe Savani nasce con l’obiettivo di

promuovere e valorizzare il repertorio corale, offrendo un prestigioso palcoscenico alle migliori formazioni italiane nel magnifico Teatro Comunale di Carpi. Dopo la pandemia, la prima edizione del 2022 ha visto la partecipazione di pochi cori, ma l’interesse è cresciuto: nel 2023 si sono iscritti quindici cori e nel 2024 la partecipazione è esplosa con 29 gruppi in competizione e 8 cori al Festival non Competitivo. Quest’ultimo ha permesso a cori non interessati alla competizione di esibirsi in un ambiente rilassato e concentrato sulla qualità del repertorio.

Giuseppe Savani: un tributo alla passione corale

Giuseppe Savani, compositore e direttore corale di Carpi, ha lasciato un’importante eredità nella musica

Coro di voci bianche di San Bernardino di Chiari (BS)

modenese. Le sue composizioni, sia sacre che profane, sono celebri, in particolare l’oratorio La Desolazione di Maria Santissima , eseguito ogni anno sin dalla fine dell’Ottocento. Il Concorso intende onorare la sua memoria e il suo duraturo impatto sulla musica corale.

L’atmosfera del concorso – la competizione

Fin dall’inizio, l’atmosfera del Concorso era elettrizzante. Gruppi provenienti da tutta Italia hanno riempito le strade di Carpi con la loro energia e passione per la musica corale. Il Festival non Competitivo ha aperto l’evento il venerdì presso l’Auditorium “San Rocco”, con cori provenienti perlopiù dalla nostra regione Emilia-Romagna. Il sabato mattina ha visto l’inizio del Concorso con i cori Spiritual-Gospel-Pop (cat. C), seguiti dai cori di ispirazione Popolare (cat. D) nel pomeriggio. Anche se il

Concorso rappresentava una sfida, è stato caratterizzato da uno spirito di collaborazione e supporto reciproco, creando un ambiente di crescita e apprendimento. Sabato sera, il secondo appuntamento con il Festival non Competitivo ha visto l’esibizione di altri quattro cori, proponendo una varietà di stili che hanno entusiasmato il pubblico. Domenica è stata la volta della categoria “regina” del Concorso: Voci Miste/ Voci Pari (cat. A), con 15 cori partecipanti, seguita dalla categoria B-Voci Bianche con due cori di bambini.

Il Gran Premio

I due cori con i migliori punteggi in ogni categoria si sono sfidati per il Gran Premio, eseguendo liberamente il repertorio più congeniale nel tempo massimo di 12 minuti.

Coro Libercantus Ensemble di Perugia

La Cerimonia di Premiazione

La cerimonia di premiazione è stata un momento di grande tensione ed emozione. Il Gran Premio è stato assegnato a Libercantus Ensemble e al loro direttore Vladimiro Vagnetti, che hanno ricevuto un trofeo e un premio di 3.000 euro. Gli altri vincitori nelle varie categorie hanno ricevuto riconoscimenti per il loro impegno e talento.

La Giuria

Il Concorso ha posto grande attenzione sulla qualità delle performance, con una giuria presieduta da Giorgio Susana e composta da esperti come Elisa Gastaldon, Dario Piumatti, Ilaria Poldi e Juan Pablo de Juan Martin. La giuria ha fornito valutazioni dettagliate e critiche costruttive, contribuendo alla crescita dei partecipanti.

Esibizioni Memorabili

Le esibizioni sono state memorabili, con ogni coro che ha portato la propria unicità e creatività sul palco, dai classici ai brani contemporanei. Ogni performance ha catturato l’attenzione e l’emozione del pubblico, creando momenti di pura magia musicale.

Conclusioni e Prospettive Future

La terza edizione del Concorso Corale Nazionale Giuseppe Savani è stata un trionfo di musica, collaborazione e arte, finanziata dalla Regione EmiliaRomagna, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi, patrocinata dal Ministero della Cultura, da FENIARCO ma soprattutto con la preziosa collaborazione del Comune di Carpi e del suo Teatro Comunale. Ha dimostrato il potere unificante della musica corale, unendo persone di diverse provenienze e culture. Guardando al futuro, possiamo solo immaginare le meraviglie che le prossime edizioni porteranno, continuando a ispirare e incantare il pubblico di tutto il Paese.

Il Concorso Giuseppe Savani è molto più di una competizione musicale; è una celebrazione della bellezza e della diversità della musica corale italiana, un omaggio al talento e alla passione dei partecipanti e all’eredità di un grande maestro. Che la melodia continui a risuonare attraverso le voci di coloro che amano e apprezzano la magia della musica corale.

Per chi vorrà partecipare all’edizione 2025, il sito di riferimento è www.concorsocoralegiuseppesavani.it.

3° CONCORSO CORALE NAZIONALE

GIUSEPPE SAVANI

Gran Premio Giuseppe Savani: Libercantus Ensemble di Perugia

Categoria A - Voci pari, Voci miste:

1°: Libercantus Ensemble di Perugia

2°: Gruppo vocale maschile giovanile Vihar di Trieste

3°: Coro del Liceo musicale Carlo Sigonio di Modena

Categoria B - Voci bianche:

1°: Coro di voci bianche di San Bernardino di Chiari (BS)

2°: Coro Aurora di Mirandola (MO)

Categoria C - Spiritual, gospel, pop:

1°: Compagnia della Gru di Varese

2°: Coro giovanile Diapason di Ardea (RM)

3°: One Soul Project Choir di Brescia

Categoria D - Musica corale popolare:

1°: Coro Farthan di Marzabotto (MO)

2°: Coro giovanile Vogliam Cantare di Trento

3°: Coro Alpino Nives di Premana (LC)

Premi speciali

Foto di Marco Marani - Fotografix (Carpi MO)

Repertorio

I Don’t Feel No-Ways Tired

Per coro a 4 voci e pianoforte

Compositore, direttore di coro, docente

Fin da bambino sono stato affascinato dalla bellezza, dalla forza espressiva e dalla profonda spiritualità delle melodie del repertorio dei cosiddetti negro spirituals , che ascoltavo suonati al pianoforte in casa o nelle registrazioni di storici gruppi vocali, come il Golden Gate Quartet. Diventato direttore di coro e compositore ho continuato a frequentare quel repertorio, sempre trovandovi nutrimento e prezioso materiale melodico a cui attingere per l’educazione musicale e corale, o da sottoporre a elaborazione polifonica. Questo brano, I Don’t Feel No-Ways Tired, è una scoperta piuttosto recente: lo trovai alcuni anni fa in una raccolta americana risalente alla metà del Novecento e ne feci subito una prima trascrizione, con un abbozzo di elaborazione corale modellata sull’armonizzazione, molto interessante, realizzata dallo stesso curatore della raccolta. In seguito tornai diverse volte sul brano, realizzando una versione a 3 voci dispari per un mio coro e poi una versione a 3 voci bianche, sempre con accompagnamento di pianoforte, per il Coro Calicantus di Locarno. Nella versione che presento in questa occasione, invece, mi sono distaccato dal vecchio modello americano, sia per il trattamento ritmico, qui più moderno e funky, sia per le armonie, più vicine alle sonorità jazzistiche. Il brano si articola in due sezioni: una parte A, antifonale, in cui alle frasi proposte dai bassi rispondono le altre voci con l ’hallelujah ; segue poi una parte B, corale, a mo’ di ritornello. La struttura si ripete dall’inizio con una seconda strofa per la sezione A e la chiusa al termine

della sezione B. Il mio consiglio per l’esecuzione del brano è di abbandonare spartiti e cartelle subito dopo la fase di studio per lasciare al coro la libertà di assecondare con il movimento il carattere festoso e squillante della melodia e la particolare verve ritmica di questo arrangiamento.

SCHEDA TECNICA

Arrangiamento di un tradizionale spiritual americano

Anno di composizione: 2017 (rev. 2024)

Organico: SATB con accompagnamento di pianoforte

Durata: 2’ circa Mai eseguito nella presente versione

Prima pubblicazione

Dopo la Maturità Classica si è diplomato in Musica Corale e Direzione di Coro (1998) e in Composizione (2000) al Conservatorio G. Verdi di Como, dove ha seguito anche corsi di Musica Elettronica. Ha studiato Composizione con Ivan Fedele al Conservatorio di Strasburgo e Direzione di Coro con Morten Schuldt-Jensen alla Musikhochschule di Freiburg e ha ottenuto un CAS (Certificate of Advanced Studies) in didattica musicale della Societé Suisse de Pédagogie Musicale. Ha studiato tecnica vocale con Daniela Panetta, Isabella Tosca e Lorenzo Pierobon. Dal 2015 è Docente a Contratto di Educazione Musicale e Tecnologie Informatiche per la Comunicazione al Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. Tiene corsi di Musica e Comunicazione per gli insegnanti e gli alunni nelle scuole d’infanzia, primaria e secondaria di primo e secondo grado. Nel 2018 ha fondato a Milano il Random Notes Jazz Choir e a Como il gruppo vocale Voix des Lisières . Dal 2024 dirige il gruppo vocale The Sweetie 8 . Collabora con scuole e altre realtà milanesi per l’attività corale e la vocalità di gruppo. Nel 2023 ha pubblicato il saggio Musica ed educazione vocale per una didattica inclusiva per l’editore Giacovelli di Bari. Nel 2022 ha pubblicato il romanzo Entanglement, l’aggrovigliamento (Giacovelli Editore), presentato al Salone del Libro di Torino 2023. Le sue composizioni sono state eseguite da diversi solisti ed ensemble in Italia e all’estero. Nel 2022 l’Ensemble Contemporaneo del Teatro alla Scala di Milano gli ha commissionato una nuova composizione per il concerto d’esordio della formazione. Il brano C’è ancora luce per ensemble di 7 strumenti è stato eseguito in prima assoluta dall’ensemble nel Ridotto dei palchi “A. Toscanini” il 9 ottobre del 2022, nell’ambito della stagione da camera del Teatro alla Scala.

JUNE 28 - JULY 6, 2025

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