JOHAN FRISò
JJOHAN F FRISò testo critico Carolina Lio testo biografico Elsa Gipponi progetto grafico STILEarte edizioni copyright © Johan Frisò © STILEarte edizioni
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catalgo digitale ideato e realizzato da edizioni nel giugno 2013 www.stilearte.it, redazione@stilearte.it
JOHAN FRISò
JJOHAN F FRISò di Carolina Lio La scultura è sempre stata il mezzo dell’arte più propenso alla celebrazione. L’arte come monumento si addiceva, infatti, alla consacrazione di grandi personalità, che venivano spesso riprodotte in fattezze naturali nella materia immortale: la pietra. Le divinità, i reggenti, i protagonisti della Bibbia, i grandi condottieri assumevano grazie all’abilità degli scultori la possibilità di non perdere in eterno le loro fattezze, salvando anche la propria fisicità tridimensionale. La scultura contemporanea a volte segue questa eredità concettuale (ricordiamo la Kate Moss di Marc Quinn, per esempio), altre volte allarga il concetto della scultura all’installazione, creando ambientazioni e nuovi mondi (dalJohan Frisò le architetture di Tony Cragg agli animali ironici di Jeff Koons), altre volte ancora cerca di mettere in atto una contro-celebrazione, mettendo a testa in giù l’operazione celebrativa che la scultura ha sempre rappresentato nel senso comune. Una scultura, quindi, dei deboli, che crei scenari in cui parlare delle sconfitte umane e non delle vittorie. E’ il caso, ad esempio, di Berlinde de Bruyckere, i cui personaggi sono scarni, raccolti su se stessi, protesi verso il basso e con dei lineamenti che si stanno come sciogliendo. Ed è il caso anche di Duane Hanson che realizza delle copie perfette di persone comuni nella loro quotidianità
sciatta e in degrado. Tra questi e altri, in questa nuova filosofia scultorea, troviamo anche la linea in cui si sta identificando sempre di più la ricerca di Johan Frisò. Nelle sue opere, ad essere rappresentati sono i gruppi emarginati e/o i gli anti-eroi civili, quelli che vivono sotto il peso di un’ingiustizia sociale, che sia di derivazione economica, razziale, religiosa, sessuale o altro. In realtà, c’è sempre stata all’interno della storia dell’arte una linea sottile che ha rappresentato nella scultura anche queste “classi” sfavorite, dando luogo a tutto un percorso parallelo, discontinuo ma identificabile, che raffigurava il lato B, quello che si trovava al di fuori del cono aureo dello sfarzo. Alcune delle prime testimonianze le ritroviamo nella civiltà Egizia, dallo Scriba seduto (2500 a.C.) che ora si trova al Louvre di Parigi, a La Birraia (2400 a.C) del Museo Egizio de Il Cairo. E’ però importante notare che l’approccio con cui la civiltà antica riproduceva questi soggetti era del tutto diversa dallo spirito contemporaneo. Il servo era legato all’essere schiavo anche oltre la morte e il suo compito era quello di farsi seppellire metaforicamente insieme al suo padrone per accondiscendere alle sue richieste nell’aldilà. Era quindi più che altro un accompagnamento, alla stregua degli oggetti che venivano inclusi nelle tombe per essere utilizzati dallo spirito del defunto. Il vero soggetto continuavano quindi a restare i potenti e divini, mentre gli umili erano rappresentati solo come simboli del loro potere. Una prima spaccatura di questo ordine di cose si ebbe già nel mondo romano, con l’arte plebea che si opponeva all’arte patrizia cercando di raccontare e non solo di celebrare, e che poteva
Lapidazione, 150 x 50 x 50 cm
utilizzare anche strumenti e materiali più poveri, per sottolineare che il fulcro del lavoro stava nel messaggio e non nell’esaltazione iconica. E’ in questo tipo di sperimentazioni che il Medioevo trovò una sua continuità, con delle opere in cui finalmente il lavoro umano e chi lo realizzava iniziava ad acquisire in qualche caso una sua indipendenza, come nei piloni interni del Duomo romanico di Piacenza in cui troviamo il famoso Ciclo dei mestieri. Ancora più famosi sono poi lo Schiavo ribelle e lo Schiavo morente
di Michelangelo, realizzati entrambi nel 1513 e che oggi si trovano al Louvre. Ma il dubbio che la storia dell’arte ha sempre manifestato in questo caso è: quello che interessava all’artista era veramente il tema prigionia/libertà o si trattava solo di un pretesto per studiare la plasticità di un corpo durante lo sforzo? La scultura e gli idealismi sembravano proprio destinati a restare separati. Persino nel 1800, quando con la restaurazione, la rivoluzione industriale e il risveglio delle classi sociali la pittura europea partoriva La Libertà che guida il popolo (1830) di Eugene Delacroix, la scultura restava una fredda e bianca, estetica e magnifica arma di glorificazione. Sono servite tutte le maree delle avanguardie del Novecento, tutte le provocazione dall’orinatoio, Fontana (1917), di Duchamp alla Merda d’artista (1961) di Piero Manzoni, le esperienze dell’arte povera per levare alla scultura della figura umana l’obbligatorietà dell’esaltazione. Anzi, c’è chi come Michelangelo Pistoletto inizia a prendersi gioco delle posizioni classiche, partorendo un’opera dal gusto straordinariamente ironico e decadente: la Venere degli stracci (1967), in cui la famosa Venere con mela (1805) di Bertel Thorvaldsen viene messa di fronte e un alto cumulo di tessuti trasandati.
Luge Macht Frei
Mi interessa parlare di quest’opera perché è un simbolo di come la materia comune possa finalmente diventare scultorea. In particolare, anche Johan Frisò utilizza quelli che potremmo chiamare stracci. I suoi personaggi non sono scolpiti con il marmo, ma sono delle sagome create con dei tessuti o altri materiali variabili non particolarmente nobili e ricoperti dalla resina. Il meccanismo scultoreo dell’artista ha così una doppia – voluta e cercata – svalutazione: soggetto e materiale. Essendo soggetti che passano solitamente in sordina, ecco che il
materiale diventa straordinariamente simbolico. Innanzitutto è più leggero di qualsiasi forma piena in pietra, e questo togliere peso sembra togliere anche importanza e vanità al mezzo. In secondo luogo, la discontinuità della materia, la scultura quasi cava all’interno, l’impermeabilità esterna della resina, sembrano volerci far vedere quell’involucro impenetrabile, sottile e superficiale, ma che riesce ugualmente a nasconderci la vera natura delle cose. La schiavitù contemporanea, il mondo del lavoro di oggi, dello sfruttamento extracomunitario – e non solo – non sono forse nascosti dietro una cortina di contro-comunicazione? Non c’è forse uno strato di condivisa omertà che non ci permette di andare dritto al cuore delle cose e che ci isola in modo impermeabile? Il tema della comunicazione, dell’informazione, del cercare di capire e di sapere, è uno dei fulcri del mondo contemporaneo. Le rivoluzioni violente cedono il passo alle agglomerazioni di idee via internet. E l’artista sa dare la giusta importanza a un mondo di parole e di conoscenze che può portare verso la libertà. Nella barca della speranza di Johan Frisò, l’africano che conduce la barca rivoluzionaria dei nuovi schiavi tiene in mano un quotidiano. Nell’ultima opera realizzata, Internet Point, una donna islamica, coperta interamente da
un burka nero, si ricopre di uno strano marchingegno per portare internet e la televisione in giro con sé per la città. In questa lotta senza quartiere tra istruzione ed ignoranza, comunicazione e omertà, divulgazione e segretezza, chi riuscirà a salvarsi e ad evitare la sorte toccata alla protagonista dell’opera dal titolo più che esplicativo: Lapidazione? L’opera di Johan Frisò si divide tra la constatazione di una realtà che sembra oramai disperata, e la ricerca spasmodica di una via di fuga, molte volte giocata nell’intelligente campo dell’ironia. Da un lato ecco avvicinarsi tre schiavi: un bambino che porta sulla schiena dei sacchi e due uomini in vesti orientali che trascinano rispettivamente un cumulo di cassette di plastica e un gruppo di materassi arrotolati. La fatica, il lavoro fisico, diventano metafora di un’operazione ancora più preoccupante: il togliere la dignità. Contrapposti alla loro sofferenza e ai loro sforzi eccogli, infatti, poco lontano Energia Pura, in cui un uomo atletico, con degli abiti e delle acconciature che ricordano vagamente i nobili colonizzatori di un tempo - simbolo di un Occidente che conquista e che depreda - tiene in spalla sorridente e senza fatica una mucca. La mancanza di sforzo è presto spiegata: l’animale non esiste, è solo un simbolo, la famosa vacca grassa che ha accompagnato il linguaggio allegorico dell’uomo dalle Sacre Scritture in poi. Prosperità, ricchezza, benessere si contrappongono al lavoro dei nuovi schiavi, riproponendo uno schema umano di sudditanza che non ha poi fatto molti passi avanti da quell’Antico Egitto di cui si parlava in apertura del testo. Insisto sull’Egitto come civiltà estremamente metaforica e non solo. E’ proprio da lì che parte e scorre il messaggio di speranza di Johan Frisò, riprendendo una visione contemporanea della
leggenda di Mosè, salvato dalle acque del Nilo per riscattare la sorte degli schiavi ebrei in terra egizia. Il Mosè che oggi salva gli schiavi e li riporta verso una terra promessa di giustizia e di equità è un Mosè ancora bambino dei giorni d’oggi, con un cappellino da baseball calcato in testa, che giunge per le acque dentro un catino infilato in una ciambella che riporta le scritte “SOS” ed “Help” e che può sembrare sia un salvagente (salvezza dalle acque)
Sfruttamento, 300 x 200 x 150 cm
quanto una camera d’aria di una ruota o ancora un gommone in miniatura, simboleggiando i viaggi con mezzi di fortuna di chi emigra. Alla ricerca di aiuto, il Mosè di Johan Frisò, naviga per le acque del tempo cercando riscatto per chi è senza patria, chi è senza appiglio, chi è solo, chi viene sfruttato, chi crede di non avere più orizzonti, portando quella speranza del titolo della mostra e fluendo veloce verso un futuro in cui crede.
JJOHAN F FRISò by Carolina Lio Sculpture has always been the art form most inclined toward commemoration. Art as a monument was appropriate to the consecration of great personages whose natural features were often reproduced in the immortal material: stone. The features of the divinities, the regents, Biblical figures and the great leaders became immortal due to the ability of sculptors who also conserved their three-dimensional physicality. Sometimes contemporary sculpture follows this conceptual heritage (Marc Quinn’s Kate Moss comes to mind). Other times it may widen the concept of sculpture to installation, creating settings and new worlds (from the architectures of Tony Cragg to Jeff Koons’ ironic animals). Or it may try to enact a counter- celebration, turning the celebrative capacity that sculpture has always filled in the common meaning upside down. A sculpture for the weak, that creates scenarios where humanfailures and not victories can be explored. This is the case of Berlinde de Bruyckere whose subjects are skeletal, hunched over with facial features that appear to be melting. It is also the case of Duane Hanson who sculpts perfect copies of normal people in their dowdy daily lives and in decline. Together with this and other sculptors in this new sculptural philosophy, we also find the line in which Johan Frisò’s explorations are continuing to find expression. He represents marginalized groups and/or civil anti-heroes, those bearing the burden of social injustice, whether it be economic, racial, religious, sexual and so on. In actuality, within art history there has always been a thin line that represented these unfortunate “classes” in sculpture, opening up a parallel path that is discontinuous yet visible, that portrays the B side, the one found far from the golden lap of luxury. Some of the first instances were found in ancient Egypt with the Seated Scribe (2500 BC) now in the Louvre in Paris, and the Woman Brewing Beer (2400 BC) in the Museum of Egyptian Antiquities. However, it is important to note that the approach used by ancient civilisations to reproduce these
subjects was completely different from the contemporary one. A servant was bound to servitude even after death and it was his duty was to be metaphorically buried with his master in order to tend to his needs even in the afterlife. It was more than simply accompanying, like the objects that were placed in the tombs to be used by the deceased’s spirit. The real subject continued to be the powerful and the divine, whereas the humble folk were represented as symbols of their power. The first deviation from this order was noted in the Roman world, where plebeian art opposed patrician art in an attempt to recount and not simply commemorate. Poor tools and materials were used to emphasize that the fulcrum of the work was in the message and not in iconic exaltation. The Medieval period found continuity in this type of exploration, with works where human labour and the labourer himself found a certain independence, as seen in the pillars inside the cathedral in Piacenza where we find the renowned Cycle of the Trades. Even more famous are the Rebellious Slave and Dying Slave by Michelangelo, both sculpted in 1513 and today found in the Louvre. But art history has always pondered one question: Was the artist truly interested in the theme of captivity/liberty or was it simply an excuse for studying the plasticity of a body while it toiled? Sculpture and idealism seemed destined to remain separate. Even in the 1800s when the Restoration, the Industrial Revolution and the awakening of the classes gave birth to Freedom Leading the People (1830) by Eugene Delacroix, sculpture had remained cold and white, an aesthetic and magnificent weapon for glorification. All the avant-garde waves of the twentieth century, all the urinal provocations of Fountain (1917) by Duchamp and Artist’s Shit (1961) by Piero Manzoni and arte povera experiences were necessary to remove obligatory exaltation from human figure sculpture. Indeed, even Michelangelo Pistoletto began to play with the classical positions,
creating a work of extraordinarily ironic and decadent taste: Venus of the Rags (1967) in which Bertel Thorvaldsen’s famous Venus with Apple (1805) is placed before a pile of second hand clothes. I wish to speak of this work because it is a symbol of how common materials can finally become sculpture. Johan Frisò also uses what we could call rags. His subjects are not sculpted from marble, but are shapes that have been created with fabrics or other variable materials that are not particularly noble and are covered with resin. The artist’s sculptural mechanism has a dual—deliberate and sought after—depreciation: subject and material. Being subjects that normally go unnoticed, here the material becomes extraordinarily symbolic. Firstly, it is lighter than stone and this reduction in weight seems to remove importance and vanity from the means. Secondly, the discontinuity of the material, a sculpture that is almost hollow inside, the outer impermeability of the resin, seems to want to show us that impenetrable wrapper, thin and superficial, which still hides the true nature of things from us. Contemporary slavery, today’s work situation with the exploitation of migrant workers—and not just—are they possibly hidden behind a veil of counter-communication? Could there be a layer of accorded omertà which does not allow us to go to the heart of the matter and which isolates us impermeably? The theme of communication, information and the attempt to understand and know is one of the mainstays of the contemporary world. Violent revolutions have given way to the agglomerations of ideas through internet. The artist is able to give the right significance to a world of words and knowledge that can lead to liberty. An African holding a newspaper is at the helm of the revolutionary ship with the new slaves on Johan Frisò’s ship of hope. In Internet Point, his latest work, an Islamic woman completely concealed by a black burka covers herself with a contraption to carry internet and television with her throughout the city. In this cut-throat struggle between education and ignorance, communication and omertà, disclosure and secrecy, who will survive and be able to thwart the destiny the protagonist of the work—whose very title is more than explana-
tory—was forced to face: Lapidation? Johan Frisò’s work divides itself between an exploration of a reality that is nearly desperate and the spasmodic pursuit of an escape route, often employing intelligent irony. On one side, we see three slaves approaching: a child carrying sacks on his back and two men in Oriental attire dragging a pile of plastic cassettes and a group of rolled mattresses respectively. Fatigue and physical labour become the metaphor for an even more disturbing operation: the theft of one’s dignity. Incontrast to their suffering and toils, we find Energia Pura, in which an athletic man wearing clothes and a hairstyle that vaguely recall the noble colonists of days gone by—a symbol of the West that conquers and plunders—is effortlessly carrying a cow on his shoulders and smiling. The lack of effort is soon explained: the animal does not exist but is only a symbol—the famous fat cows that have accompanied man’s allegorical language from the Scriptures forward in time. Prosperity, wealth and well-being are juxtaposed with the labour of the new slaves, proposing a human system of subjection that has in reality made little progress since the days of Ancient Egypt discussed in the opening of the text. I insist on Egypt as a civilisation that is extremely metaphoric. Here begins Johan Friso’s message of hope, offering a contemporary vision of the legend of Moses, rescued from the waters of the Nile to save the enslaved Jews in Egypt. A Moses that saves the slaves and leads them to a promised land of justice and equality and who is still a child of our times with a baseball cap on his head, arriving on the waters in a wash basin stuck in a life saver with “SOS” and “Help” written on it. It appears to be a life saver (salvation from the waters) as much as an inner tube or even a rubber dinghy, symbolising the desperate voyages of emigrants. Searching for help, Johan Frisò’s Moses navigates the waters of time seeking redemption for those with no country or foothold, the solitary, the exploited, those who have stopped believing in the future, bringing the hope mentioned in the title and swiftly flowing toward a future in which he believes.
OPERE
Siamo Tutti Assassini 120 x 80 cm
Giro l’America allumnio
Albero Geneologico della mia Famiglia
Effetto Serra, 18 x 150 x 100 cm
Contadino 300 x 200 x 100 cm
Internet Point 200 x 150 x 100 cm
Sfruttamento 300 x 200 x 150 cm
Luge Macht Frei
Siamo Tutti sulla Stessa Barca 600 x 160 x 150 cm
Sfruttamento 200 x 80 x 60 cm
Nella pagina precedente: Speranza 120 x 80, rame a sbalzo
Affitto dell’Utero scala 1
Cina 250 x 120 cm
La Storia Si Ripete 110 x 80 cm
Lapidazione 120 x 80 x 40
Bambino guerriero rame a sbalzo, 150 x 100 cm
Corvo rame a sbalzo 80 x 100
Schiavo 150 x 80 x 80 cm
Dove Andremo a Vivere 150 x 100 cm
Aspetto l’Ora di Pranzo 100 x 80 cm
Il Futuro dell’Enel
Le Prossime Tasse non Saranno Onerose
Lugen Machen Nicht Frei
Mosè 80 x 80 cm
BIOGRAFIA
B BIOGRAFIA a cura di Elsa Gipponi Johan Friso Van Mandeerliwik è nato a Kortrijk il 20.06.1960 da madre italiana e da padre belga. Ha frequentato gli istituti superiori in Belgio e si è trasferito alla fine degli anni settanta in Italia, per studiare presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, non portando, però, a compimento il percorso scolastico. Le sue attitudini artistiche si evidenziarono ben presto, permettendo a Johan Friso di maturare una scioltezza espressiva che continuerà a esercitare. L’artista ha soggiornato per parte della sua vita in Belgio e in parte in Italia, nell’ultimo decennio si è definitivamente trasferito in provincia di Brescia. In questi ultimi anni, a causa di piccole trasgressioni nei confronti della giustizia e a causa delle sue deviazioni nella sfera sessuale è stato costretto a ricoveri in centri di recupero mentale e/o strutture penitenziali. Conosciuto casualmente dal gallerista Ettore Marchina viene subito apprezzato e stimato sia per il suo temperamento sia per la sua vena creativa.
Friso non è mai consapevole delle sue capacità, tanto che negli ultimi anni sarà sempre il suo gallerista a spingerlo in situazioni ufficiali, quali fiere e mostre. Per Friso la comunicazione attraverso un’opera coincide principalmente con una semplice espressione di autoanalisi e di riflessione. Sempre realista e cosciente delle difficoltà e degli ostacoli che l’uomo si crea nella vita odierna, analizza varie tematiche contemporanee in modo satirico, elegante e sottile. L’ironia si accosta a tutte le sue produzioni partendo da “L’albero genealogico della famiglia Friso” costituito da una grande griglia di dentiere umane o come in “Effetto serra” in cui si verificano strani accoppiamenti sessuali tra lepre e gallocedrone. La semplice ironia, però, in molti casi viene accompagnata dall’amarezza data dai fatti odierni di cronaca. Ne sono degli esempi le opere “L’affitto dell’utero” e “Il futuro della Cina”. Due contenuti in oppo-
sizione, come lo sono anche le due culture, orientale ed occidentale. Nella prima il desiderio di maternità è pari al desiderio di una realizzazione nel campo professionale, portando così le donne a non perdere il treno in entrambe gli ambiti, affittando così l’utero di una pecora per la gestazione del loro figlio. La seconda opera tratta il tema delle diversità esistenziali all’interno della Cina, l’uomo in tenuta occidentale che cammina disinvolto e non curante del feto morto di una bambina sul lato di una strada. Il tema dell’indifferenza di fronte alla vita verrà preso in esame anche nell’opera “Vendita degli organi”. Qui si vuole mettere in evidenza il mercato degli organi a cui sono sempre legati i bambini, ben rappresentata dall’immagine di un camion con le “offerte speciali” e la “occasione del giorno” pubblicizzata sul retro come quella di qualsiasi altro prodotto. Quelle dell’artista sono sempre immagini semplici e immediate nella loro lettura, mai legate a difficili e strutturate parafrasi ma nella loro asprezza coinvolgenti. Elsa Gipponi Storico dell’arte