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di Matteo Crestani

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La testimonianza

Tra pochi mesi potremo dire che sono trascorsi ben quarant’anni dal “patto di sangue” stretto con gli amici della Fidas Leccese. A far rivivere quei giorni, di intensa emozione, dal 25 al 28 marzo 1983, ci ha pensato il donatore di sangue Nereo Costa, di Camisano Vicentino, che nel Treno dell’amicizia ha viaggiato ed ha suggellato

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quegli istanti di vita in uno scritto, pervenuto alla redazione de Il Pellicano dal presidente del Gruppo Fidas di Camisano Vicentino, Roberto Pegoraro.

Proponiamo, di seguito, il racconto integrale di Nereo Costa, scritto in treno durante il viaggio di ritorno, e letto a tutti i vicentini mediante gli altoparlanti, dalle cui parole traspare tanto amore, ma anche un grande senso di responsabilità, che accomuna i donatori più convinti nel corso della loro vita dedicata alla solidarietà. “Graziata, una giovane ragazza leccese colpita da incidente stradale, si trovò, dopo tante ore di coma, nella sala rianimazione dell’ospedale di Gallipoli. Una goccia del suo sangue si sveglio, si guardò attorno e vide accanto a sé altre gocce uguali a lei, ma che avevano un profumo diverso. Incuriosita, chiese a quella che le stava accanto: “Ma tu chi sei? Da dove vieni?”. Questa rispose: “Sono Donata e vengo da Vicenza, dal Nord dell’Italia”. “Ma come hai fatto a venire quaggiù, nel Sud?”, chiede Graziata. E Donata: “Allora ti racconto tutto. Con moltissime altre gocce che scorrevano nelle vene di 750 vicentini sono partita il 25 marzo 1983, per andare quattro giorni in Puglia. Mi chiamo Donata perché, appunto, mi sono donata a te per salvarti”. “Grazie, amica mia”, disse Graziata, “mi fai ora venire in mente che c’ero anch’io quei giorni in terra salentina. Sono stata testimone di tutto. Qualche giorno dopo mi sono svegliata qui in ospedale, messa tanto male. Avevo perso quasi tutto il mio sangue, mi hanno iniettato il tuo e mi hai salvato la vita. Ma dimmi un po’, Donata, come mai siete venute qui da noi?”. “Vedi”, rispose Donata, “noi 25 anni fa abbiamo pensato che non era giusto restare sempre nel corpo della stessa persona e abbiamo deciso di uscire dal nostro involucro per andare nel corpo degli altri. Il nostro corpo è uno, ma c’è qualcosa di invisibile, qualche filo sottile che ci unisce gli uni con gli altri e si forma un unico spirito. E poi, se amiamo vivere, perché non cercare di prolungare la vita ad altri?”. “Cara Donata”, rimarcò Graziata, “resto con la bocca aperta ad ascoltarti! Cosa mi hai fatto capire! Ma perché non siete venute qui prima d’ora?”. “Vedi, noi abbiamo scoperto ciò, ma ti assicuro che non è stato facile buttare via il nostro egoismo, il fatto che prima pensavamo solo al nostro corpo, solo ai nostri interessi. Non è stato facile capire che non dobbiamo pensare solo ai soldi, alla casa, al vestito, ma che ci sono tante altre cose che ci possono dare migliori soddisfazioni. Accorgersi degli

Il Treno dell’amicizia rivive nelle parole di uno dei suoi protagonisti di Matteo Crestani Nereo Costa

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altri è come svegliarsi un mattino e scoprire l’aria, che è sempre esistita. E poi, credi che non abbiamo sudato per abbattere quel muro di razzismo che ha separato per tanti anni il Nord dal Sud dell’Italia? Abbiamo sempre visto il sudista come un nullafacente o uno che ruba, facente parte di una razza inferiore, perché solo noi del Nord eravamo bravi e belli; perché anziché parlare con loro li evitavamo, non penetrando così mai nei loro occhi e nei loro cuori, per vedere come sono fatti dentro, che sono uomini come noi, con la stessa nostra natura umana, mortali come noi e fatti dentro come noi”. “Senti, Donata, dal momento che mi hai detto tutte queste cose, mi vuoi dire le tue impressioni sui giorni che hai trascorso in terra pugliese?”. “Certo, Graziata, ti dico tranquillamente che ho passato dei giorni commoventi. Quante volte ho dovuto inghiottire quel nodo che mi saliva in bocca per trovarmi, senza sapere il perché, con le guance bagnate di lacrime. Mi guardavo attorno, diventavo rossa, ma poi ho capito che non dovevo vergognarmi di piangere, perché piangono le persone che vivono la propria vita dal di dentro. Com’è stato bello regalare un distintivo, un pieghevole o una penna ad un bambino. Com’è stato bello strappare un sorriso dalla bocca di un duro vecchietto, reso malfidente dalla guerra, dalle dominazioni, dalla povertà. Com’è stato commovente dimostrare a quella vecchietta che ci guardava dalla finestra che esistono centinaia di persone che si interessano anche di lei. Com’è stato piacevole venire a contatto con la gente della strada, stringere loro la mano, baci e abbracci, fare loro un sorriso. Nessuno aveva insegnato a Francesco, un ragazzino di sette/otto anni, che era solo in mezzo a noi, a dirci “benvenuti”. Ti dico, cara Graziata, che solo ora ho capito com’è accogliente la gente salentina, com’è buona e generosa, come sa donare agli altri quello che ha, così penso ora saprà donare anche il sangue, come l’abbiamo donato loro noi vicentini sul posto. Non l’hanno mai fatto prima, perché nessuno glielo aveva loro insegnato”. “E a te, cara Graziata, così rimasto impresso di quei giorni?”. “Io, cara Donata, ho provato tante emozioni e sensazioni, che non riesco a descrivere con le parole. Penso mi sarà difficile raccontare qualcosa ai non presenti. Mi commuovevo solo a pensare che 750 vicentini sono venuti da noi per dimostrarci la loro

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amicizia e la loro fratellanza. Il “canto del donatore”, che i vicentini cantavano a squarciagola e con tanto entusiasmo, mi penetrava nelle ossa, mi faceva vibrare e mi infondeva quel bruciante desiderio di diventare come loro. Avrei voluto abbracciarli tutti, dire loro grazie. A volte non mi sembrava vero tutto quello che accadeva, mi sembrava di sognare. Cara Donata, mi sentivo un brivido che mi attraversava tutta quando arrivavano gli staffettisti con in mano il sigillo dell’amicizia tra Nord e Sud. Arrivavano di corsa, come avessero il fuoco ai piedi, protesi in avanti come quando si sta tagliando un traguardo, come avessero in mano una fiamma di vita e d’amore, che non deve mai spegnersi. E poi, quante persone parlavano con il cuore in mano. Ed erano le persone, vicentini o pugliesi, che hanno scoperto un significato della vita, che hanno delle mete e che fanno dei sacrifici per raggiungerle, che hanno imparato l’arte di amare e che si danno da fare per insegnarla ad altri. Abbiamo offerto agli ospiti tutto quello che avevamo, nella nostra semplicità, abbiamo fatto loro capire, umilmente, che abbiamo bisogno di loro, che impareremo da loro. Mi sono detta: “come mai non ci siamo chieste prima perché da noi muoiono tante vite senza sangue? Perché abbiamo finora barattato la vita scambiando il sangue col denaro? Perché non abbiamo finora avuto il coraggio di denunciare certi mercanti di sangue, certe irregolarità fatte sulla pelle delle persone malate e bisognose?”. “Beh, cara Donata, tutto si matura al momen-

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to giusto! Importante è diventare consapevoli ogni giorno di qualcosa. In quei giorni i fratelli vicentini ci hanno aperto gli occhi e davanti a noi brilla ora una luce nuova. Pensi, cara Donata, che i vicentini saranno stati contenti di tutto quello che abbiamo fatto per loro? “Certo, non è mancato nulla! Doni, manifesti, fanfare, canti e balli folkloristici, buoni cibi, ottimi vini e tanti volantini lanciati dalle finestre, che svolazzavano come colombe. E poi, ti assicuro, Graziata, che qualche disguido dovuto alla difficoltà di organizzare migliaia di persone, è già stato dimenticato, perché i vicentini ricordano solo le cose belle”. “Senti Donata, sai che ora noi due resteremo unite così per sempre? Non ci divideremo più, abbiamo gli stessi valori, gli stessi scopi, lottiamo per i medesimi ideali”. “Certo, Graziata, e sai il perché di tutto questo? Siamo ora gemelle. Il mio sangue è il tuo sangue, la mia vita è la tua vita, se stai bene tu sto bene anch’io, se soffri tu soffro anch’io”. “Che bello! Che bello! Non ci sono più distinzioni di razza, di cultura, di colore della pelle. Il triste passato che ci divideva è stato dimenticato. Cammineremo ora insieme vero un mondo sempre pieno d’amore”. ●

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