Cinerama 2.4

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The 50 Year Argument di Alice Cucchetti Regia di Martin Scorsese, David Tedeschi USA, 2015, Documentario, 97 minuti Con Timothy Garton Ash, James Baldwin, Mary Beard, Michael Chabon, Noam Chomsky, Joan Didion, Rae Hederman, Norman Mailer, Robert Silvers, Susan Sontag


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"Argument" sta per "discussione", ma anche per "litigio": la "New York Review of Books" fa entrambe le cose da oltre mezzo secolo, 50 anni esatti nel 2013, quando il direttore di sempre Robert B. Silvers chiede a Martin Scorsese di realizzare un documentario sulla storia del magazine. Il cineasta, lettore vorace, lo accontenta volentieri, con l'aiuto di David Tedeschi (montatore dei suoi doc più recenti, da Shine a Light a George Harrison: Living in the Material World) e, come ha sintetizzato l'"Hollywood Reporter", è «un'istituzione newyorkese che ne racconta un'altra». Con fascino, eleganza e ritmo invidiabile, soprattutto se si considera l'argomento (appunto): intellettuali che dibattono e s'accapigliano, faide letterarie, culturali, ideologiche divenute celebri («Susan Sontag vs Leni Riefenstahl sul fascismo; Edward Said vs Bernard Lewis sull'orientalismo; Gore Vidal vs più o meno tutti su più o meno qualunque tema»), un commento costante e inesausto sui fatti del mondo e sul tentativo di penetrarlo, dipanarlo, smontarlo, criticarlo. È un dialogo ininterrotto - che Scorsese & Tedeschi fanno proseguire a dispetto del tempo, intrecciando interviste di oggi e filmati d'archivio su tappeto sonoro jazz - che, per i suoi attori, è cruciale come l'aria, perché l'esperienza dell'esistere è soggettiva e la condivisione del pensiero è l'unica strada percorribile. Certo, il tono è celebrativo: ma non rende il viaggio meno illuminante o coinvolgente.

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PROGRAMMAZIONE dal: 30 Aprile


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I 7 nani di Ilaria Feole Regia di Boris Aljinovic, Harald Siepermann Germania, 2015, Animazione, 80 minuti


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Nel 2004 al botteghino tedesco fece il botto 7 Zwerge, versione live action della favola di Biancaneve con una banda di commedianti nei panni dei nani, capitanati dal celebre comico teutonico Otto Waalkes nel ruolo del più buffo e combinaguai, Bobo. Il successo del film ha prodotto un sequel nel 2006 (7 Zwerge - Der Wald ist nicht genug), ispirato alla fiaba di Tremotino, e infine questa sorta di spinoff d'animazione, dove la maggior parte del cast riprende i propri personaggi doppiandoli nella versione originale (e, soprattutto nel caso di Bobo/Waalkes, anche i tratti dei nani ricalcano quelli degli interpreti). Difficile esportare in Italia i precedenti capitoli, mentre un prodotto d'animazione - per quanto, tecnicamente, terzo episodio di una trilogia - in computer grafica, con protagonisti assortiti dal mondo delle fiabe (il filo della trama si intreccia a quello della Bella addormentata, ma ci sono pure Cappuccetto rosso, Pinocchio & Co., come il pubblico cresciuto a Shrek e C'era una volta vuole) e qualche rapido numero musicale è destinato giocoforza a incontrare il favore del botteghino. Indipendentemente dalla qualità tecnica (qui piuttosto bassa), dall'originalità dello script (pressoché nulla) e dell'impianto visivo (uno dei coautori, Siepermann, ha lavorato alla Disney e la villain del film è ricalcata pedissequamente sull'ossuta Yzma di Le follie dell'imperatore). In mancanza di altro prodotto animato concomitante, i piccini apprezzeranno.

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PROGRAMMAZIONE dal: 30 Aprile


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Adaline - L'eterna giovinezza di Alice Cucchetti Regia di Lee Toland Krieger USA, 2015, Drammatico, 110 minuti Con Blake Lively, Harrison Ford, Amanda Crew, Michiel Huisman, Ellen Burstyn, Richard Harmon, Kathy Baker, Anjali Jay, Mark GhanimĂŠ, Lynda Boyd


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Intelligente, curiosa, appassionata, bellissima: Adaline Bowen, nata nel 1908, ottiene - per una serie di assurde coincidenze che una voce off alla Amélie illustra con fantascientifico e ridicolo puntiglio - pure il dono di non invecchiare; ma invece delle molteplici esistenze dei gatti, vive sola come (e con) un cane, senza amicizie né legami, tranne quello, saltuario, con la figlia, che si fa sempre più anziana lungo il secolo, mentre Adaline conserva intatto il fisico marmoreo di Blake Lively. Ah, i danni di Twilight: nonostante le ambizioni buttate lì nel tentativo di ispessire uno script di carta velina, questa non è davvero una storia sul valore del tempo, ma l'ennesima declinazione di un amore impossibile causa immortalità di uno dei due estremi della coppia. Adaline sembra attraversare senza eccessive difficoltà la sua condizione, il rischio di diventare un fenomeno da baraccone o preda di esperimenti scientifici, nei brevi flashback che la mostrano sempre alla moda del decennio in corso. Ma non può restare indenne all'uomo perfetto: intelligente, curioso, appassionato, bellissimo e per giunta ricco, ricchissimo, ma generoso e caritatevole con i meno fortunati. C'è un presunto conflitto (più imbarazzante che altro) che coinvolge Harrison Ford e un sosia di Indiana Jones, ma qua, più che di lacrime, è una questione di sospiri. Di romanticismo stucchevole e primi piani intensi, raggelati nella confezione elegante da spot d'haute couture.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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Ameluk di Adriano Aiello Regia di Mimmo Mancini Italia, 2015, Commedia, 98 minuti Con Mehdi Mahdloo Torkaman, Mimmo Mancini, Paolo Sassanelli, Claudia Lerro, Francesca Giaccari, Dante Marmone, Roberto Nobile, Cosimo Cinieri, Michele De Virgilio, Rosanna Banfi, Miloud Mourad Benamara


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Folklore pugliese a Mariotto: mentre la città si prepara all'elezione del sindaco (inevitabilmente xenofobo e qualunquista) è venerdì santo. La Via crucis incombe, ma l'interprete di Gesù, il parrucchiere Michele (ovviamente omosessuale), si siede sulla corona di spine. Al suo posto finisce il tecnico delle luci, Jusuf, musulmano e sposato con un'autoctona (aggressiva e petulante), mandato allo sbaraglio dall'amico parroco. Da allora diventa Ameluk, "mammalucco", bersaglio del razzismo, strumentalizzato dalla politica, abbandonato dalla famiglia. Insieme alla voce off - per una volta assente -, le cifre dominanti della commedia italiana che vorrebbe essere indie nei toni e non solo nel budget sono le mortali musichette allegre e parodistiche, il macchiettismo regionale e un conformismo mascherato da cattiveria. Qui il fulcro tematico è la religione e il bersaglio dovrebbe essere la nostra ignoranza, la decadenza politica, la crisi civile e tutto quello che fa riflessione (banale) sull'oggi, gettata nel calderone e raccontata con il solito teatrino dell'assurdo volgare e autoassolutorio, dove buddhisti e musulmani, giordani e marocchini sono la stessa cosa, mentre ci si scalda sulla differenza tra maiale e cinghiale. Perché, si sa, a noi interessa solo mangiare ed è diventato impossibile raccontarci senza invadenti metafore culinarie. Un cinema arido e strillato che si illude di guardare a Germi, ma è più inoffensivo e scentrato di una satira televisiva.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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L'amore non perdona di Mauro Gervasini Regia di Stefano Consiglio Italia, Francia, 2015, Drammatico, 78 minuti Con Ariane Ascaride, Helmi Dridi, Francesca Inaudi


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Bari, oggi. Adriana, infermiera di origine francese che sta per compiere sessant'anni, lavora in ospedale dove incontra Mohamed, tunisino di trent'anni più giovane. Travolti da insana (per gli altri) passione, sono costretti a sfidare convenzioni sociali, occhiatacce, giudizi tranchant. Per Adriana il problema è soprattutto rappresentato dall'ostilità della figlia, convinta fino al ricatto morale che la storia dei due amanti non s'abbia da vivere. Stefano Consiglio, noto documentarista, è stato curatore di "Ladri di cinema", serie di incontri con registi chiamati a confessare "furti" da altri film nei loro. L'amore non perdona è la sua autoconfessione: La paura mangia l'anima di Fassbinder pare infatti più che un semplice riferimento. Tuttavia, il baricentro è sintonizzato sulle contraddizioni contemporanee: il diffuso fastidio verso il "diverso", il razzismo mascherato, lo scandalo di una relazione tra una donna matura e un un uomo più giovane, le rigidità "machiste" di cui peraltro è la figlia (ottima Francesca Inaudi) a farsi carico. Se da una parte Consiglio riesce a valorizzare la dialettica sentimentale tra due attori eccellenti (Ariane Ascaride e Helmi Dridi), dall'altra proprio nell'accumulo degli ostacoli ideologici e moralisti al loro amore inciampa, rendendo programmatica la successione di problematicità "a tema". In un mélo così pensato e scritto, un minimo di visceralità in più non avrebbe guastato.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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The Avengers: Age of Ultron di Alice Cucchetti Regia di Joss Whedon USA, 2015, Fantasy, 142 minuti Con Scarlett Johansson, Chris Hemsworth, Aaron Taylor-Johnson, Robert Downey jr., Elizabeth Olsen, Cobie Smulders, James Spader, Mark Ruffalo, Chris Evans, Jeremy Renner


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Riassumendo: ci sono gli Avengers di The Avengers (Iron Man, Capitan America, Thor, Hulk, Vedova nera e Occhio di falco) e per ognuno di loro una divagazione nella profondità di memorie e paure, impalcature di spessore psicologico, soprattutto per gli ultimi tre, che (ancora?) non possiedono un franchise dedicato. Ci sono le conseguenze della caduta dello S.H.I.E.L.D. e qualche rimasuglio dell'HYDRA. C'è un nemico poderoso (l'Ultron del titolo), immateriale e artificiale come si conviene a questi tempi impalpabili, ma testardamente affamato d'un corpo, oltre che di passione distruttiva. Ci sono i fratelli Pietro e Wanda Maximoff, anche noti (agli esperti) come Quicksilver e Scarlet Witch, che qui si chiamano "potenziati",perché i diritti dei mutanti ce li ha (per ora?) la Fox. C'è la Visione. Ci sono "nuovi" Avengers. Un'apertura in pianosequenza che afferra lo spettatore e lo tira dentro come nelle pagine di un fumetto, un finale grandioso come prescrive la ricetta del cinecomix. C'è tanta carne al fuoco, in Avengers: Age of Ultron (compreso un rovinoso e divertente duello Hulk/Iron Man), che è forse il primo capitolo del Marvel Cinematic Universe nella scomoda posizione di dipendere da ciò che l'ha preceduto e da quel che seguirà. Le risate a cuor leggero del primo The Avengers ne escono sacrificate, ma tutto il resto fila in un equilibrio mirabile, che durante la proiezione neanche si nota e alla fine, a ripensarci, impressiona.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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I bambini sanno di Pedro Armocida Regia di Walter Veltroni Italia, 2015, Documentario, 113 minuti


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La macchina da presa interroga 39 bambini scelti con un casting molto accurato, attento a ogni minoranza, nel tentativo di rappresentare tutti i coetanei, dai 9 ai 13 anni, ma anche l'Italia intera. E i bimbi, come sempre accade al cinema, non deludono. Sono meravigliosi nello spiazzarci nello scarto dell'idea distorta che abbiamo di loro, forse perché non ricordiamo più come eravamo noi. Il problema, però, nella seconda opera da regista di Walter Veltroni dopo l'esordio più convincente di Quando c'era Berlinguer, sta, oltre che nell'utilizzo delle musiche di Danilo Rea a sottolineare in chiave troppo ridondante le emozioni, nello sguardo dietro la macchina da presa. Il regista/intervistatore cerca di annullarsi (una delle poche differenze con il film quasi identico di Stefano Consiglio del 2007 Il futuro - Comizi infantili), nonostante rimangano frasi troppo ricorrenti («cioè, non ho capito bene, mi racconti?»), riducendo al minimo ogni tipo di interazione, anche con l'esterno. Quella che vuole essere una scelta forte di isolare i soggetti nello spazio chiuso delle loro camerette e interrogarli staticamente su tutto quello che accade fuori, si rivela alla fine un limite. Che viene alla luce non appena il regista libera i bambini, quando li disvela nel fare ciò che amano. O come quando li invita a prendere la GoPro in mano per raccontare la loro stanza. Proprio nel momento in cui diventano registi, autentici.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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Basta poco di Alice Cucchetti Regia di Andrea Muzzi, Riccardo Paoletti Italia, 2015, Commedia, 100 minuti Con Andrea Muzzi, Max Galligani, Marco Messeri, Ninni Bruschetta, Paolo Hendel, Daniela Poggi, Daniela Morozzi, Annalisa Aglioti


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Da piccino scagliava gatti "sulla luna" allacciandoli a razzi improvvisati, da grande persegue progetti improbabili per fare soldi in poco tempo e, puntualmente, fallisce, insieme all'amico Fulvio (vagamente tonto: era il proprietario del gatto). Sergio è la tipica maschera toscana, mascalzona ma in fondo non troppo furba e un filo malinconica, e infatti la interpreta Andrea Muzzi, comico grossetano di lunga esperienza, qui anche sceneggiatore e co-regista. Basta poco, un'idea semplice per la svolta: vendere la felicità, materia tanto scarsa quanto richiesta, sottoforma di menzogne, frottole e messe in scena, esaudendo ogni richiesta del cliente, soprattutto se si tratta di fare invidia a qualcun altro. La signora in carne vuole essere "stalkerata" (per finta, eh!) per sentirsi più bella; Paolo Hendel necessita di essere chiamato al cellulare per esibire agli astanti il telefonino all'avanguardia; la vigilessa, odiata da tutti per le sue multe, ha bisogno che qualcuno si mostri suo amico in pubblico e l'accompagni a provare borse. E via così: Muzzi imbastisce una commedia esile cucendo insieme sketch (s)gonfi di comicità annacquata e talvolta discutibile, parallelamente a due usurate vicende padre/figlio che comprendono incidentalmente la riscoperta di Dino Zoff come eroe nazionale e un'accennata love story tra l'immancabile Marco Messeri e Daniela Poggi. Ah, chi l'avrebbe mai detto: le bugie non fanno la felicità. Tenerezza, forse, ma non basta.

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PROGRAMMAZIONE dal: 30 Aprile


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Black Sea di Claudio Bartolini Regia di Kevin Macdonald Gran Bretagna, 2015, Thriller, 115 minuti Con Jude Law, Scoot McNairy, Tobias Menzies, Grigoriy Dobrygin, Ben Mendelsohn, Jodie Whittaker, David Threlfall, Konstantin Khabenskiy, Sergey Puskepalis, Michael Smiley, Sergey Kolesnikov, Sergey Veksler, Bobby Schofield


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L'ingresso è in medias res: la sceneggiatura del televisivo Kelly catapulta in un lampo lo spettatore nella storia. Il capitano di sommergibile britannico Robinson viene licenziato e contattato per un'operazione di recupero top secret: non distante dalle coste georgiane del Mar Nero giace un U-Boot nazista carico d'oro. Robinson sceglie un equipaggio misto (metà inglese, metà russo) e nei primi 15 minuti Macdonald risolve brillantemente la parte preparatoria con reclutamento, elaborazione del piano, briefing, lavori di riparazione del sottomarino e immersione. Tutto molto ritmico, lavorando con la voce off come elemento supplementare per un montaggio audio-video parallelo (mentre fuori campo si presentano il piano e i membri della squadra, le immagini lavorano per illustrare i preparativi). Una volta in mare, però, anche il film rischia di inabissarsi, soffocato dalla questione sociale europea - che emerge nella convivenza tra i due gruppi - come unica chiave drammaturgica, da excursus intimisti in evitabili ricordi soleggiati e da un digitale che, se realizzato in questo modo, nel 2014 non ha senso. Ma proprio quando l'ossigeno sta finendo, ecco un rilancio sulla pista della claustrofobia, del complotto spionistico (un colpo di scena su due va a segno) e della simbiosi capitalista tra vita e denaro. Macdonald ci mette del suo girando con maestria in interni, e ci riporta a respirare.

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


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Cattedrali della Cultura di Giona A. Nazzaro Regia di Wim Wenders, Michael Glawogger, Michael Madsen (II), Robert Redford, Margreth Olin, Karim Ainouz Germania, Francia, Austria, Danimarca, Norvegia, 2015 Documentario, 150 minuti


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I problemi sorgono sin dal titolo. Chi ha bisogno di cattedrali della cultura se non la borghesia che le erige per glorificare se stessa in quanto fruitrice privilegiata della cultura? Inevitabilmente si pensa a quanti non ci metteranno mai piede, in queste cattedrali. Wenders ha concepito un portmanteau per polemizzare con il 3D hollywoodiano, a suo dire poco innovativo. Eppure, al di là di prevedibili giochi prospettici, non c'è molto. Il concept, poi, è da cartellino rosso: i luoghi che parlano in off sciorinando una banalità via l'altra. Il segmento di Wenders sulla Filarmonica di Berlino e quello di Redford dedicato al Salk Institute sono i punti più bassi. Il compianto Michael Glawogger si perde nella National Library of Russia e se non altro riesce a trasmettere un certo piacere per il feticismo dei libri antichi. Il capitolo più rilevante, filmicamente, è diretto dal danese Michael Madsen (autore di Into Eternity: A Film for the Future e The Visit) e dedicato alla prigione supermoderna di Halden progettata da Erik Møller. L'eccellente lavoro alla steadycam di Torben Meldgaard Andersen evoca uno spazio concentrazionario nel quale i secondini si spostano in monopattino. La Oslo Opera House beneficia di qualche barlume da parte di Margreth Olin, mentre il Centre Pompidou (immaginato da Renzo Piano, Richard Rogers e Jean-François Bodin), nelle mani del pur interessante Karim Ainouz, è ridotto a uno spot.

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PROGRAMMAZIONE dal: 21 Aprile


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Child 44 - Il bambino numero 44 di Adriano Aiello Regia di Daniel Espinosa USA, 2015, Drammatico, 136 minuti Con Tom Hardy, Noomi Rapace, Gary Oldman, Vincent Cassel, Paddy Considine, Jason Clarke, Joel Kinnaman, Josef Altin, Fares Fares, Anna Rust, Xavier Atkins, Agnieszka Grochowska


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Decenni a criticare quel tradimento chiamato doppiaggio e finire col rimpiangerlo per due abbondanti ore in un'afosa serata di aprile. Quella in cui viene presentato alla stampa Child 44 - Il bambino 44 (avvincente thriller in costume tratto dal bestseller, caso letterario e altre formule promozionali mortifere), in versione originale, dove un cast internazionale, composto di attori britannici, americani e francesi (ma con regista svedese) si adegua all'ambientazione nella monolitica Unione Sovietica post Seconda guerra mondiale - tutta paranoia, interrogatori e intransigenza comunista - sfoggiando un inglese dall'invadente cadenza russa. Child 44 è anche il film che verrà ricordato per la sua capacità di far rimpiangere Evilenko di David Grieco. Si muove su tematiche analoghe: alla caccia a un serial killer russo piegato dall'atroce "educazione nazista" e diventato torturatore di bambini, aggiunge più azione (confusionaria al limite dell'incomprensibile) e un impianto da melodramma storico, calligrafico e ricattatorio, dove i temi della coscienza e delle brutture dello stalinismo sono strillati con maldestra enfasi. Tra le pieghe dello script, occasionalmente, il film sembra provare a dire qualcosa di meno banale sui risultati psicologici della paura come sentimento totalizzante, sulla brutalità della polizia segreta MGB e sul lato oscuro del potere, ma annega nella retorica. Trascinandosi verso un finale di speranza che ha tutto il sapore della farsa.

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PROGRAMMAZIONE dal: 30 Aprile


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Ci devo pensare di Raffaele Meale Regia di Francesco Albanese (II) Italia, 2015, Commedia, 90 minuti Con Francesco Albanese (II), Barbara Tabita, Shalana Santana, Alessandro Bolide, Ciro Priello, Mariano Bruno, Mimmo Esposito, Francesca Romana Bergamo, Mario Porfito, Antonella Cioli, Stefano Sarcinelli


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Francesco Albanese inizia la sua carriera a fine anni 90 nella trasmissione televisiva Telegaribaldi della napoletana Teleoggi-Canale 9, in coppia con Alessandro Siani. Sempre con Siani, nel 2006, scrive la sceneggiatura di Ti lascio perché ti amo troppo, diretto da Francesco Ranieri Martinotti. Potremmo anche fermarci qui. Ci devo pensare, uscito in poche e mal distribuite sale, sembra voler congelare il tempo: Albanese, per questa sua prima regia, riprende i temi della sua comicità e, in maniera pedissequa, la trama del film di Martinotti. Neanche stesse cercando di trovare il bandolo della matassa di un percorso autoriale (si fa per dire) o di un panorama artistico, Ci devo pensare rimescola elementi fin troppo noti della commedia nostrana contemporanea, affidandosi a un regionalismo asfittico che ribalta in modo (in)volontario lo schema della commedia all'italiana, dove la caratterizzazione linguistica scardinava i meccanismi usurati per aprire molteplici condotti d'aria nei labirinti dell'industria. La Napoli di Albanese, teatro della vicenda che vede il protagonista Davide prima lasciato dalla fidanzata storica e poi alla conquista della bella straniera, è un non luogo privo di interesse, chiuso in un bozzetto, schizzo malriuscito che vorrebbe ambire, più ancora che ai fasti di Siani, a quelli di Massimo Troisi. Ma Albanese, dettaglio non secondario, non ha né lo sguardo sociale e politico di Troisi né la sua verve comica. E fallisce.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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The Circle di Giulio Sangiorgio Regia di Stefan Haupt Svizzera, 2015, Documentario, 101 minuti Con Matthias Hungerb체hler, Sven Schelker, Marianne S채gebrecht, Anatole Taubman, Antoine Monot jr., Marie Leuenberger, Markus Merz, Aaron Hitz, Babett Arens, Maja Stolle, Ruth Schwegler, Ueli J채ggi


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Zurigo, 1956. Tranquillo insegnante di letteratura francese in rigido istituto femminile e talentuoso cantattore en travesti s'incontrano e si amano. Galeotta la sede del "Der Kreis", rivista a target omo con 2.000 iscritti e visto censura. Mentre la loro storia nasce e procede, tra coming out rimandati, amanti abbandonati e d'occasione, famiglie inconsapevoli e amorevoli madri che cuciono vestiario di scena, si testimoniano le vicende della rivista e della locale comunità omosessuale, d'un tratto aggredita dalla pubblica opinione a causa di una serie d'omicidi di frequentanti per mano di marchette (plagiate dal male omosex, secondo la stampa). Le tessere fiction, sotto l'egida dei due reali protagonisti, s'incastonano a interviste per rifinire una storia esemplare, che testimonia un'epoca - buia per la fatica dell'affrontare la propria identità di fronte al pregiudizio, per la repressione sociale del conformismo, e con bagliori umani come il gioioso lavorio clandestino e le figure solidali - e raccontare una storia di lotta per i diritti con lieto fine ai giorni nostri: Ernst Ostertag e Röbi Rapp sono la prima coppia dello stesso sesso sposata in Svizzera. Dove, per parafrasare Il terzo uomo, oltre agli orologi a cucù han raggiunto un altro traguardo. Uno di quelli che in Italia ci scordiamo, nonostante il Rinascimento. Una docufiction pulita, adeguata al compito testimoniale ed emotivo che si prefigge, con inserti drammatici che sanno non essere meramente espositivi.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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Citizenfour

Regia di Laura Poitras Germania, USA, 2015, Documentario, 114 minuti Con Edward Snowden, Jacob Appelbaum, William Binney, Glenn Greenwald


C di Giulio Sangiorgio Nel 2013, Laura Poitras - documentarista figlia del cinema diretto americano, dello sguardo sulle cose, nelle cose, di D.A. Pennebaker, Richard Leacock, Robert Drew - è al lavoro da due anni su un film sui sistemi di controllo della National Security Agency. Il trauma dell'11 settembre 2001, l'estensione del Patrioct Act, il conseguente accesso delle intelligence americane a dati sensibili di cittadini e non cittadini, in ottica di una guerra preventiva, sul territorio, al terrorismo. In quei giorni del 2013, mentre il documentario si sta definendo, la Poitras viene contattata da un whistleblower, gola profonda dei sistemi di controllo, pronta a rivelare dettagli qualitativi e quantitativi sul libero accesso della NSA alla vita tracciata e connessa di ognuno, tra telefonate, email, ricerche su Google, pagamenti con carta di credito, prelievi da bancomat. Quella persona, citizenfour, è Edward Snowden. «Voglio che tu dipinga un bersaglio sulla mia schiena», dice alla Poitras, conscio di stare per sacrificare se stesso nella lotta per un diritto umano dimenticato. La regista lo incontra mentre cerca di fare la Storia nella clandestinità di una stanza d'albergo a Hong Kong, mentre spiega ai giornalisti Glenn Greenwald e Ewen MacAskill la prassi della NSA, mentre consegna loro i file che scateneranno il Datagate. Citizenfour è il ritratto di questo gracile e biondo ventinovenne, a cui in questi giorni han dedicato una statua abusiva a New York e che si è dichiarato non totalmente al corrente del contenuto dei documenti rivelati, nel momento in cui sta infrangendo la legge nel nome di un ideale, mentre sta per raccogliere le conseguenze private di una scelta politica. Il film è il controcanto al presente, in diretta e di parte, della storia elaborata col senno di poi dai media di ogni dove, la risposta al ciarlare su Snowden e sul suo gesto. L'ago della bilancia tra la paranoia come Zeitgeist e l'abuso del potere, tra Democrazia e segreto secondo Norberto Bobbio e la longa manus del Grande fratello di George Orwell. Un grande film contemporaneo, che non ha nemmeno il tempo di lavorare sulla forma, che guarda con occhio scarno e ritmo espositivo, e che (proprio come Blackhat, ma anche Interstellar) cerca di comprendere l'uomo mentre il suo linguaggio s'inoltra in opaci tecnicismi, riuscendo a essere uno sconcertante, tesissimo racconto di genere dal vero, una versione scandalosa perché reale di Minority Report, di Eagle Eye. E anche un film che ci ricorda quanto sia importante, oggi che si sta annullando nell'instant reportage, nel gossip, nella pubblicità, nel "pezzullo"non pagato, il giornalismo. Premio Oscar per il documentario 2015. GUARDA IL TRAILER su YouTube o FilmTv Powered by TCPDF (www.tcpdf.org)

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


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Cobain: Montage of Heck di Roberto Manassero Regia di Brett Morgen USA, 2015, Documentario, 135 minuti Con Kurt Cobain


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Il sottotitolo, Montage of Heck, viene da Cobain stesso, dal nome dato a un nastro che conteneva registrazioni di voci, rumori, pezzi di canzoni e demo. Il documentario diretto da Brett Morgen e dedicato al leader dei Nirvana morto suicida nel 1994 è molto simile: un miscuglio di filmati d'archivio, super 8 casalinghi, tracce inedite, fotografie, appunti, spartiti, disegni... Tutto nato da un'idea della moglie di Cobain, Courtney Love, che sette anni fa diede a Morgen le chiavi dei suoi archivi e sostanziale carta bianca. Il risultato è un lavoro di puro impatto emotivo, un viaggio nell'intimità e nella carriera di Cobain (con la partecipazione dell'ex Nirvana Krist Novoselic, ma la significativa assenza di Dave Grohl) che dà l'impressione di sfogliare le pagine di un diario, che scava soprattutto nell'infanzia del musicista, nelle ragioni della sua depressione e nel suo doloroso rifiuto della celebrità. Il problema è che, per quanto ricco di materiali commoventi e scioccanti (le immagini di Cobain e della Love nella loro casa-accampamento di Los Angeles mettono i brividi, sapendo poi come andò a finire), il film non mette mai in discussione la figura di Cobain stesso. Cerca cioè di far emergere l'immagine inedita dell'artista in quanto figlio e padre, senza approfondire invece quel lato consapevole e vanesio, da vero uomo di spettacolo, che si intuisce dietro i suoi occhi e che è alla base della sua ascesa a ultima star maledetta del rock.

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PROGRAMMAZIONE dal: 28 Aprile


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Cold in July di Adriano Aiello Regia di Jim Mickle USA, Francia, 2015, Drammatico, 109 minuti Con Michael C. Hall, Don Johnson, Sam Shepard, Vinessa Shaw, Nick Damici, Wyatt Russell, Lanny Flaherty, Kristin Griffith, Laurent Rejto, Happy Anderson


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Continua a occuparsi di sangue (e a versarne), Michael C. Hall. Da Dexter al Texas postreaganiano di fine anni 80, dove la sua tranquilla vita di corniciaio viene sconvolta da un furto che finisce con la morte del malvivente. Del suo eccesso di autodifesa non interessa a nessuno, tranne che al padre della vittima, un galeotto uscito su cauzione e bramoso di vendetta. Jim Mickle, a cui sinora sono stati imputati meriti più per la bontà delle intenzioni che per il valore delle sue regie (Mulberry St è un buon esordio, Stake Land e We Are What We Are si adagiano su sentieri molto battuti), si muove bene tra le efficaci pagine di Freddo a luglio di Lansdale, con un adattamento che ne coglie lo spirito, l'ironia beffarda e la palpabile disperazione, tra lande sperdute, vhs e spettri di brutale disumanità, contrappuntati da un azzeccato soundtrack elettronico. Lo fa con pulizia e financo rigore, prima giocando con la pancia reazionaria dell'America, subito dopo usando con perizia la grammatica dell'home invasion, costruendo un clima sporco e minaccioso. Ma provvisorio: ben presto il film, come l'ottimo libro da cui è tratto, sterza dalle parti di un thriller/western di antieroi improbabili e fantastici (d'altronde parliamo di Sam Shepard e Don Johnson) che inseguendo uno strano caso inciampano nel lerciume. E finiscono per fare pulizia, perfino nel proprio albero genealogico. Prima di tornare a casa, tra le lenzuola e l'hard rock melodico dei White Lion.

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PROGRAMMAZIONE dal: 2 Aprile


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Corpo a Corpo di Claudio Bartolini Regia di Mario Brenta, Karine De Villers Italia, Belgio, 2015, Documentario, 90 minuti Con Pippo Delbono, Pepe Robledo


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Documentario di creazioni, trasformazioni, epifanie. Brenta e De Villers, da qualche anno compagni di sguardo, effettuano cinque settimane di riprese presso la Compagnia Pippo Delbono, durante le prove per lo spettacolo Orchidee. Il gesto filmico e quello teatrale a tratti si sovrappongono, incentrati entrambi sull'atto della creazione in palcoscenico: le aperture dei testi di Delbono, che proprio attraverso le prove delinea il proprio lavoro, concedono ampi spazi all'uomo dietro l'attore, alla sua libertà creativa. Il corpo è territorio liquido, mutevole, in perenne moto ondivago tra identità di gender, ricerca di senso e collocazione nello spazio. Ma il punto dell'operazione è soprattutto un altro. Lo spettatore assiste a una trasformazione on stage dalla forma teatrale a quella cinematografica: la macchina da presa seleziona porzioni di scena, di corpi, di emozioni, costruendo un racconto politico, etico, segnico e linguistico che scorre parallelo allo spettacolo e con esso entra in dialogo, in tensione, tra mise en abyme (riprese di attori sul palco, alle cui spalle scorrono immagini di riprese altre) e selezioni arbitrarie di materia umana e scenica. William Shakespeare e Charles Bukowski, Enzo Avitabile e Antony and the Johnsons, Marilyn Monroe e Pier Paolo Pasolini, Ennio Morricone e Diego Armando Maradona, la Roma imperiale e futuri possibili: Corpo a corpo è l'espansione di un testo espanso, tentativo intellettuale di indubbio valore.

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


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La dolce arte di esistere di Ilaria Feole Regia di Pietro Reggiani Italia, 2015, Commedia, 96 minuti Con Francesca Golia, Pierpaolo Spollon, Anita Kravos, Paolo Sassanelli, Francesca Cuttica, Rolando Ravello, Sara Putignano, Pietro Bontempo, Salvatore Esposito


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Dieci anni dopo l'esordio L'estate di mio fratello, Pietro Reggiani torna a raccontare i piccoli grandi traumi dell'infanzia e le modalità, bizzarre e catastrofiche, con cui il mondo degli adulti modella la crescita emotiva dei bimbi. Nel caso di Roberta e Massimo, il problema sta negli occhi di chi (non) li vede: i genitori di lei, progressisti e indaffarati, non la degnano di uno sguardo; quelli di lui, ambiziosi e soffocanti, lo riempiono di attenzione indesiderata. Entrambi sviluppano così una patologia debilitante: l'invisibilità psicosomatica. Roberta sparisce ogni volta che non c'è nessuno a guardarla, Massimo invece scompare quando si sente osservato. Reggiani li segue lungo le rispettive adolescenze tormentate, fino ai guai dell'età adulta, con tutte le complicazioni che l'invisibilità comporta per trovare un lavoro o un partner. Accompagnati da una voce narrante che simula l'oggettività di un documentario sull'immaginaria malattia di cui soffrono, i protagonisti diventano metafore della società odierna, affamata d'attenzione ma deficitaria di concentrazione (l'esibizionismo di reality show e social network è al centro del plot). Metafore, però, solo teneramente abbozzate, in un'opera che pare nata per essere corto e soffre l'espansione di un soggetto troppo esile per reggere la durata, lungo la quale anche la messa in scena si smarrisce (l'apparato da mockumentary affiora con cadenza arbitraria), come le buone intenzioni degli attori.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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Fast & Furious 7 di Giona A. Nazzaro Regia di James Wan USA, 2015, Azione, 140 minuti Con Vin Diesel, Paul Walker, Dwayne Johnson, Michelle Rodriguez, Kurt Russell, Jason Statham, Tyrese Gibson, Ludacris, Jordana Brewster, Djimon Hounsou, Nathalie Emmanuel, Lucas Black, Romeo Santos


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Cambia il pilota, non il risultato. Justin Lin cede il volante a James Wan, forse desideroso di scrollarsi di dosso l'horror. Geniale l'anti-incipit: un nastro che si svolge al contrario rivela la distruzione provocata da Deckard Shaw (Jason Statham) nell'ospedale dove è ricoverato il fratello Owen. New entry: un Kurt Russell che insinua il sospetto che si tratti di Jena Plissken passato alla CIA. In cambio del salvataggio dell'hacker (Nathalie Emmanuel di Il trono di spade) che ha creato l'Occhio di Dio (un sistema di supercontrollo stile Il Cavaliere oscuro), lui aiuta la banda a fermare Deckard. Reinventando il travelogue esotico di 007, Dom e i suoi passano dall'Azerbaijan ad Abu Dhabi in un succedersi di set piece vertiginosamente virtuosistici, montati con precisione scientifica, molecolare. Tutto è sopra le righe. Puro Corman gangsta rap. Con momenti da applausi a scena aperta (le tre torri, il cat fight fra la Rodriguez e Ronda Rousey). E c'è pure Tony Jaa. La presenza di Paul Walker, inevitabilmente, reca gravità e malinconia. Lo scambio di battute fra Tej e Brian è da brividi. Tej: «Basta funerali». Brian: «Ancora uno». E, dopo una pausa che fa sprofondare il cuore, aggiunge: «Il suo». Brian si riferisce a Deckard. In sala si pensa a Paul Walker. In un attimo, siamo in un documentario. Nel finale che omaggia Walker, passa tutta una vita. La nostra, nel buio della sala. Fast & Furious 7 è Il corvo degli anni zero.

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PROGRAMMAZIONE dal: 2 Aprile


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The Fighters - Addestramento di vita di Mauro Gervasini Regia di Thomas Cailley Francia, 2015, Drammatico, 100 minuti Con Adèle Haenel, Kévin Azaïs, Antoine Laurent, Brigitte Roüan, William Lebghil, Thibault Berducat, Nicolas Wanczycki, Frédéric Pellegeay, Steve Tientcheu, Franc Bruneau


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Arnaud ha rilevato con il fratello maggiore (interpretato dallo stesso regista, Thomas Cailley) l'attività di falegname del padre appena scomparso. Poi conosce Madeleine, una tosta che sogna di arruolarsi nell'esercito, nuota con zavorre capaci di demolire un cavallo e beve frullati di sardine. Per non perderla, Arnaud la segue al campus estivo dell'Armée de terre, mentre tutt'intorno spira il vento dell'apocalisse. Sorprendente opera prima francese, romanzo di formazione sentimentale in un contesto che lentamente si disgrega, tra massimi sistemi (come salvarsi da un'eventuale ecatombe ecologica?) e contingenze legate alla Francia di oggi, dove non si capisce chi sia straniero e i giovani partono senza troppe speranze verso il Canada (o si arruolano, appunto). Non, però, un film a tema, anzi tutt'altro. Lo sguardo dell'autore si concentra sulla fisicità contraddittoria (prima si picchiano, poi si amano) di Arnaud e Madeleine (formidabili Adèle Haenel e Kévin Azaïs), questi "combattants" che sarebbe banale definire "senza causa", perché investono emozioni e energia vitale nella sopravvivenza. In Europa, oggi, riescono a scappare e a vivere selvaggiamente per un po', e bisognerebbe riflettere sul fatto che in un film coevo, Vie sauvage di Cédric Kahn, accade la stessa cosa a un padre e ai suoi due bambini. Il ritorno allo stato di natura come futura resistenza, mentre tutt'intorno il mondo brucia.

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


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Il figlio di Hamas di Mauro Gervasini Regia di Nadav Schirman Germania, Regno Unito, Israele, 2015, Documentario, 95 minuti


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Oggi Mosab Hassan Yousef si è convertito al cristianesimo e vive in California in una comunità evangelica. Ma ieri, e per dieci anni, con il nome di Principe verde, è stato uno dei più importanti infiltrati dello Shin Beth (servizio segreto israeliano per la sicurezza interna) in Hamas (Movimento islamico di resistenza, costola palestinese dei Fratelli musulmani d'Egitto). N.B.: Il padre di Mosab, Hassan Yousef, è stato per anni portavoce di Hamas, tra i protagonisti anche di Persona non grata di Oliver Stone. Quindi un infiltrato di particolare peso. Il figlio di Hamas - The Green Prince racconta questa incredibile storia interrogando i due protagonisti: la spia e l'agente israeliano reclutatore (mai convinto della sua fedeltà: «Il dubbio è l'arma più forte di chi fa il mio mestiere»). All'inizio Mosab pensava di fare il triplo gioco (fingere di accondiscendere Shin Beth e intanto lavorare per Hamas, ovvero per il padre), poi qualcosa cambia in lui, e il regista Nadav Schirman glielo fa raccontare, mentre scorrono immagini un po' artificiose di riprese satellitari dei territori occupati. Il documentario è molto interessante, la vicenda che racconta eccezionale (forse anche alla base dell'ottimo Omar di Hany Abu-Assad); purtroppo la messa in scena non è sempre all'altezza della situazione, un po' per l'eccesso di verbosità, un po' per gli artifici di cui sopra. Resta in ogni caso un documento importante per chi voglia tentare di capire cosa stia accadendo laggiù.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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Figlio di nessuno di Ilaria Feole Regia di Vuk Rsumovic Serbia, 2015, Drammatico, 95 minuti Con Denis Muric, Pavle Cemerikic, Isidora Jankovic, Milos Timotijevic, Zinaida Dedakin, Goran Susljik, Tihomir Stanic, Borka Tomovic, Branka Selic


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Si apre coi fucili spianati e sui proiettili si chiude, la parabola del ragazzo selvaggio protagonista dell'opera prima di Vuk Rsumovic. Trovato da un gruppo di cacciatori nei boschi della Bosnia Erzegovina, cresciuto dai lupi senza alcuna cognizione della civiltà umana, il cucciolo d'uomo è affidato alle istituzioni e lentamente (con le buone e con le cattive) educato alla postura bipede, al linguaggio verbale, alle storture della sua razza. Quando viene recuperato dal branco è il 1988: la burocrazia gli affibbia un nome, Haris, e una nazionalità, "jugoslava", che nel giro di pochi anni diventa una parola priva di corrispettivo politico e geografico, mentre il ragazzo passa da un ospedale a un orfanotrofio, dai servizi sociali all'esercito. Vincitore del premio del pubblico alla Settimana della critica 2014, il film mette in scena la violenta disgregazione della ex Jugoslavia senza uscire, quasi mai, dalle mura in cui il protagonista è confinato: Rsumovic, anche sceneggiatore, incolla la macchina da presa al suo ragazzo-lupo e gira con encomiabile rigore, senza una riga di dialogo in eccesso. Il paradossale percorso di (de)formazione di Haris, ispirato a una storia realmente accaduta, è un ritratto di adolescenza dolentemente truffautiano; ma è, soprattutto, una fulminante sineddoche del dramma identitario delle etnie balcaniche stravolte dalla guerra. Haris, lupo a due zampe, bambino col fucile in mano, non sa di chi è figlio, ma prima di questo, non sa chi è.

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


C

Le frise ignoranti di Adriano Aiello Regia di Antonello De Leo, Pietro Loprieno Italia, 2015, Commedia, 100 minuti Con William Volpicella, Nicola Nocella, Davide Donatello, Giorgio Gallo, Dario Bandiera, Lino Banfi, Rosanna Banfi, Eva Riccobono, Francesco Pannofino, Federica Cifola, Rosanna Sparapano, Federica Sarno


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La cosa più sorprendente della commedia italiana dei nostri giorni è la capacità di alzare costantemente il livello dell'infinitamente brutto in una sadica gara a ridefinirne modalità e parametri. Dopo Ameluk, il cinema pugliese si macchia ancora di un'opera micidiale, tutta folklore da quattro soldi e stasi creativa. Qui siamo tra il road movie demenziale e la commedia degli equivoci: la vicenda ruota intorno a Luca, adulto naïf con moglie insoddisfatta, che accidentalmente fornica con il suo migliore amico (perché era irriconoscibile, vestito da Darth Vader), ai suoi amici inetti, con cui suona nelle Frise ignoranti, e al padre degenerato Mimmo (Pannofino in un ruolo suicida). Quest'ultimo è malato di tumore e scompare nel nulla, così la band affitta un furgone (il Pappa Pig, usualmente utilizzato per cucinare bombette) e si mette sulle sue tracce. Se il titolo funge da buon monito sulle intenzioni e sui toni del film, basta la prima seguenza a confermare in che guaio si sia cacciato lo spettatore: un uomo grasso, vagamente somigliante a Zach Galifianakis, esce da una pizza causando l'infarto al suocero di Luca, mentre Mimmo gli ruba 200 euro per giocarseli a poker. Da allora è una continua discesa tra gag stanchi, noiosi e ridondanti, anziane sboccate, metafore sessuali. E un Lino Banfi gettato nella mischia che finisce per fare tenerezza. Dimenticavo: il film ha ricevuto dei finanziamenti in quanto riconosciuto d'interesse culturale.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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GesÚ è morto per i peccati degli altri di Alice Cucchetti Regia di Maria Arena Italia, 2015, Documentario, 90 minuti


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Si apre scrutando dall'alto i tetti di Catania e immediatamente individua uno scarto dalla norma, dall'uniformità, qualcosa che non torna: soffitti sfondati, muri diroccati, poi, più in basso, porte murate e vicoli grigi, spogli, deserti. Dopo I fantasmi di San Berillo (2013), un altro doc torna a visitare le strade del rione a luci rosse catanese: Gesù è morto per i peccati degli altri prende il titolo in prestito a Gloria di Patti Smith, ma anche a una dissertazione teologica di Franchina, la prostituta transgender più devota del quartiere, studiosa del Vangelo e convinta che tutto quel che interessa a Dio sia salvare il cuore degli uomini. Anche Meri, Marcella, Wonder, Santo, Alessia e Totino pregano, molto. La camera di Maria Arena li pedina in una quotidianità ignota e ignorata, quando il giorno toglie il trucco e le parrucche, le famiglie allargate si alternano a una devastante solitudine, le pressioni per lo sgombero e la gentrificazione tolgono il respiro e minacciano notifiche di sfratto, qualche politico promette un'improbabile opportunità di riciclarsi come badanti, loro annuiscono e poi accendono ceri alla Madonna, organizzano processioni, percorrono la via Crucis sgranando il rosario. Qualche volta Arena sembra arrestarsi in superficie, forse per pudore, in altri momenti preme troppo forte sulle metafore religiose: ma non smette mai il coraggio di affondare nella contraddizione, di riportare i margini al centro dell'inquadratura.

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Humandroid di Adriano Aiello Regia di Neill Blomkamp USA, 2015, Fantascienza, 120 minuti Con Sharlto Copley, Hugh Jackman, Dev Patel, Sigourney Weaver, Jose Pablo Cantillo, Ninja, Yo-Landi Visser, Miranda Frigon, Sean O. Roberts, Robert Hobbs


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Concluso Humandroid, mentre si viene assordati da un pezzo di post-gangstaraprobotico, l'unica riflessione che dovrebbe condividere chiunque vada alla ricerca di uno sguardo autoriale nel cinema di Neill Blomkamp è quella di smettere di pensare al suo esordio District 9. Meglio "godersi"lo spettacolo del déjà vu hollywoodiano, in versione società violenta con le forze di polizia sostituite da droni. Il loro creatore, però, decide di fornirli di coscienza, forgiando neonati di titanio come Chappie, con grandi capacità di apprendimento e attitudini artistiche. Ma lì fuori dominano disperazione e lerciume, non musica e dipinti. Dopo la lotta di classe distopica e for dummies, con eroe e villain, di Elysium, il sudafricano passa alla fantascienza heavy metal e nichilista, dove gli uomini sono tutti brutti e cattivi, i nuovi gangster riscoprono l'etica e gli sceneggiatori lo sciopero inconsapevole. Cinema robusto e energetico che sa coattamente intrattenere, ma anche irritare. Humandroid è un'opera centrifuga dove si getta tutto e tutti nel calderone: il tema della coscienza come materia tangibile, la socializzazione alla violenza, l'umanesimo della macchina, l'immortalità. I riferimenti, tematici ed estetici, sono ovviamente molteplici, alti e bassi: dai più ovvi RoboCop, Corto circuito, Il tagliaerbe agli scenari exploitation di Classe 1999 e Hobo with a Shotgun. Mancano pensiero, direzione, un'idea di cinema.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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In the Box di Claudio Bartolini Regia di Giacomo Lesina Italia, 2015, Thriller, 81 minuti Con Antonia Liskova, Niccolò Alaimo, Jonathan Silvestri


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Unità aristoteliche (di tempo, luogo e azione) per un film che vorrebbe essere enigm(ist)a come Saw, che vorrebbe seppellire vivo il suo personaggio come fece Buried, che vorrebbe sfidare lo spettatore nel sadico gioco sulla decodifica degli indizi. Vorrebbe, ma non può. Perché per la costruzione della cattività senza apparente via d'uscita non bastano punti macchina ben studiati, arredi di sicuro impatto (l'auto con i finestrini blindati, la maschera antigas e il crescente fumo di scarico agganciano un immaginario da post-apocalisse, tratteggiando un luogo che è ultima frontiera dell'umana speranza) e una fotografia opprimente. Serve una sceneggiatura capace di scartare quando mai te lo aspetteresti, di intrecciare livelli narrativi in compenetrazione, di costruire un rompicapo per frustrare lo spettatore e relegarlo al rango di inetto. Nella storia di Elena - moglie di un gangster che si ritrova rinchiusa in un garage invaso da monossido di carbonio, provvista solo di un cellulare - l'intreccio è bucato come uno scolapasta: ogni scelta della protagonista è illogica, ogni dialogo con l'esterno grottesco (perché l'ispettore al telefono perde tempo a interrogarla sul marito, quando i minuti sono contati? Perché Elena non comunica allo sbirro ciò che vede fuori dalla finestrella?), ogni motivazione psicologica superficiale. La scrittura del finale, poi, tumula ogni apprezzabile sforzo di Lesina, regista debuttante da tenere comunque d'occhio.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


C

Into the Woods di Alice Cucchetti Regia di Rob Marshall USA, 2015, Musicale, 125 minuti Con Meryl Streep, Emily Blunt, James Corden, Anna Kendrick, Chris Pine, Johnny Depp, Lilla Crawford, Daniel Huttlestone, Tracey Ullman, Christine Baranski, MacKenzie Mauzy, Billy Magnussen, Tammy Blanchard, Lucy Punch, Richard Glover, Frances de la Tour, Sim


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Rischia di affogare nel diluvio di rivisitazioni fiabesche contemporanee, Into the Woods, eppure il musical di cui è (abbastanza) fedele trasposizione cinematografica potrebbe dirsi antesignano di Shrek, Once Upon a Time e compagnia: esordio a Broadway nel 1987, in cantiere a Hollywood fin dagli anni 90, prende una manciata di personaggi iconici (Cenerentola, Cappuccetto rosso, Raperonzolo, Jack e i suoi fagioli magici) e frulla i loro destini con quelli di un fornaio, di sua moglie e della strega Meryl Streep, scaraventandoli tutti insieme in un bosco fatato, onirico e psicanalitico. Tra le fonti d'ispirazione del librettista James Lapine e del compositore Stephen Sondheim (Sweeney Todd) c'è Il mondo incantato di Bruno Bettelheim, rilettura freudiana dei racconti della buonanotte, ed ecco che i protagonisti, gorgheggiando e duettando, si scoprono lontani dagli archetipi manichei, attraversano una selva oscura di evoluzione e addirittura morte, si calpestano vicendevolmente in un groviglio indissolubile di ragioni e colpe, affrontano il dramma dell'atto successivo al lieto fine. Sorprendentemente, la produzione Disney non annacqua troppo le atmosfere dark e conserva (grazie anche alla convinzione degli interpreti) una rinfrescante dose di humour nero. La morale della favola, ovviamente, resta: occhio a quel che desideri e attento, perché i bimbi ci guardano. Ma è meno stucchevole di quel che t'aspetti.

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PROGRAMMAZIONE dal: 2 Aprile


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Janara di Adriano Aiello Regia di Roberto BontĂ Polito Italia, 2015, Thriller, 87 minuti Con Gianni Capaldi, Alessandro D'Ambrosi, Rosaria De Cicco, Noemi Giangrande, Francesco Perciballi, Laura Sinceri, Lorenza Sorino, Fabrizio Vona


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Marta (incinta da sei settimane) e il suo compagno Alessandro arrivano a San Lupo (nel beneventano), dopo la morte del nonno di lei. Il paese è funestato dalla sparizione dei bambini e da un'antica credenza legata a una strega di nome Janara. Qui si imbattono, nell'ordine, in: scenari inquietanti, sorella scorbutica, zia fuori di testa, ambiguo prete americano, paese in preda alla psicosi e usuale campionario di simbologie sinistre per fare risaltare il verbo soprannaturale. L'horror in Italia è un cattivo affare da circa tre decenni, ma al suo esordio nel lungo il napoletano Roberto Bontà Polito (lunga ed eclettica la sua gavetta) si impegna a non cadere nelle trappole esibizioniste e a evitare il ridicolo involontario, spauracchio assoluto di questi progetti. Adatta con mano ferma e regia classica un soggetto folkloristico, operando anche un'interessante, ma indecisa, revisione di una leggenda popolare, con la strega raffigurata come donna emancipata e il furore del popolo e la superstizione come sinonimi di terrore. La messa in scena, spesso appesantita da un commento sonoro invadente, guarda contemporaneamente alla tradizione italiana gotica, alle ghost story di stampo melodrammatico e a un certo horror americano sudista. Mancano però i guizzi a tenere in piedi una scrittura troppo scolastica e il film non decolla, inciampando in uno sviluppo che finisce per annoiare. Effetti (pochi) a cura di Stivaletti, memoria storica vivente del genere.

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PROGRAMMAZIONE pagina Facebook


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MagicArena di Adriana Marmiroli Regia di Andrea Prandstraller, Niccolo Bruna Italia, 2015, Documentario, 84 minuti


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L'Arena, Aida, la Fura dels Baus: nel centenario dell'apertura alla lirica dello storico spazio veronese, la fondazione che ne governa le sorti decise di affidare al gruppo catalano la regia della sua opera simbolo. Nel regno della tradizione e della conservazione (l'Aida del 1913 viene regolarmente replicata in copia conforme), una ventata anarchica e rivoluzionaria: "l'Aida del III millennio", fantascientifica, immaginifica, tale da lasciare senza fiato il pubblico e innescare polemiche. Dopo Polvere - Il grande processo dell'amianto, è questo il campo con cui Prandstraller e Bruna hanno scelto di confrontarsi: documentare la realizzazione di una megaproduzione all'interno di una struttura stratificata e imponente qual è quella veronese, che ogni estate coinvolge migliaia di persone. È ancora una volta una comunità quella che i registi raccontano: non tanto i geniacci Carlus Padrissa e Àlex Ollé o le ugole d'oro Hui He e Fabio Sartori, quanto il "ventre molle", il punto di vista delle invisibili maestranze senza nome, il loro oscuro lavoro, le aspirazioni, l'appartenenza all'istituzione, dal reclutamento alla prova generale. Materia immane: la difficoltà è non disperdersi, documentare umori e amori, soddisfare curiosità di un puzzle tanto complesso. Quando si completa e il pubblico riempie gli spalti, il film finisce. Dopo, è un'altra storia (la registrazione ufficiale dell'Aida della Fura è anche in vendita su Amazon e Arenashop.it).

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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La memoria degli ultimi di Mauro Gervasini Regia di Samuele Rossi Italia, 2015, Documentario, 75 minuti


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Liberazione, 70 anni fa. Il regista Samuele Rossi intervista alcuni partigiani (tra i quali la nipote di Matteotti, nome di battaglia Laura, compagna di Sergio Kasman, mitico "comandante Marco") nati tra il 1920 e il 1927, quindi tutti giovanissimi quando vi fu la chiamata alle armi dopo l'8 settembre 1943. Interviste frontali, montaggio tradizionale: l'apparenza è che film così non riescano a schiodarsi da una certa convenzionalità. E invece no: la forza delle facce, delle parole, delle storie, rende La memoria degli ultimi un documentario epico, imperdibile. Rossi ha una grande idea all'inizio: montare i "lanci"dei tg sulle celebrazioni del 25 aprile. Si va da quello del 1946, grondante «luce limpida ed eroica», a Bruno Vespa che pacifico annuncia come il 25 aprile coincida con l'inizio del ponte di primavera. Più che tutti a casa, tutti al mare. Il secondo elemento formidabile esce invece dai racconti dei partigiani. La loro Resistenza fu preideologica: una reazione ai soprusi fascisti di cui furono vittime i padri costretti a bere l'olio delle macchine (mica quello di ricino) o gli zii, i contadini cacciati dai campi per arbitraria decisione del padrone (in centro Italia accadeva di continuo, con il benestare della Legge), i cavatori trattati come schiavi. Questa, anche questa, fu l'Italia prerepubblicana. Della quale non solo si è persa memoria, come denunciano i partigiani, ma addirittura conoscenza. Oggi, evidentemente, fa comodo così.

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C

Mia madre

Regia di Nanni Moretti Italia, 2015, Drammatico, 106 minuti Con Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini, Stefano Abbati, Enrico Ianniello, Anna Bellato, Tony Laudadio, Lorenzo Gioielli, Pietro Ragusa, Tatiana Lepore, Domenico Diele, Renato Scarpa


C di Mauro Gervasini La regista Margherita accoglie - non senza intoppi - l'attore americano Barry Huggins (John Turturro), star del suo nuovo film dedicato alla resistenza degli operai in una fabbrica in svendita. Nel frattempo, cerca di gestire la difficile degenza della madre (Giulia Lazzarini), ricoverata con gravi problemi di cuore. L'aiuta il fratello Giovanni (Nanni Moretti), che invece sta scegliendo di lasciare il lavoro. Due piani narrativi principali (le riprese del film e la malattia terminale della mamma) si mescolano ad altri non meno importanti (il rapporto di Margherita con la figlia adolescente e con l'ultimo fidanzato, che lavora con lei e non gliele manda a dire) in una commistione tra pubblico e privato mai risolta soltanto a livello di finzione. Moretti ha voluto legare alcuni spunti di Mia madre all'esperienza personale e alla lavorazione di un altro suo film, Habemus Papam, sul set del quale venne a sapere della scomparsa della madre Agata Apicella. A questo si aggiunga che fu il "pontefice"Michel Piccoli ad avere durante le riprese la reazione che in Mia madre ha Turturro nella scena della mensa. L'identificazione tra l'autore e Margherita è pressoché totale, a sorpresa anche autoironica e per nulla assolutoria circa qualche stereotipo che ne circonda la figura («il regista è uno stronzo» grida lei a un certo punto, rivolgendosi alla troupe, «e non ha sempre ragione!»). Una storia in fondo intima e dolorosa risolta con una leggerezza (prima di tutto estetica) straordinaria. Questo nonostante una struttura non lineare, dove realtà e sogno, in maniera ancora più evidente rispetto a Habemus Papam, si compenetrano, a volte senza soluzione di continuità. Margherita gestisce il suo set come le cose della vita, con nervosismo e ansia. L'intuizione è che questa sua condizione non sia semplicemente funzionale al personaggio e al racconto, ma coincida con lo sforzo titanico di organizzare e tenere sotto controllo la realtà, il mondo. La consapevolezza della vanità di questo tentativo crea l'empatia fortissima verso protagonisti nei confronti dei quali è difficile restare solo "accanto",come di solito si chiede a uno spettatore nel suo viaggio attraverso la visione. Rispetto a Giovanni, essenziale e riflessivo, si ha l'impressione che Moretti (con gli sceneggiatori Francesco Piccolo e Valia Santella) abbia voluto definire un alter-alter ego. Margherita è come è, il fratello come vorrebbe essere. Mia madre trasforma questa sorta di bipolarismo autobiografico in romanzo, a tratti, dato il linguaggio, sperimentale. L'elaborazione del film è solo cominciata. Di sicuro, per ora, c'è soprattutto che è bello. GUARDA IL TRAILER su YouTube o FilmTv Powered by TCPDF (www.tcpdf.org)

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


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Il Nemico - Un breviario partigiano di Alice Cucchetti Regia di Federico Spinetti Italia, 2015, Documentario, 80 minuti Con Massimo Zamboni, Angela Baraldi, Giorgio Canali, Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Simone Filippi, Massimo Storchi, Caterina Zamboni


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È, come sempre, una questione privata: creare un gruppo punk per «salvarsi la vita», trasformarlo in qualcos'altro perché è ora, scioglierlo burrascosamente e poi, dopo 15 anni, provare a rimetterlo insieme, in un teatro mezzo ristrutturato mezzo diroccato, vedere se è rimasto qualcosa da dire, qualcosa da fare. È una questione privata anche la scoperta che squarcia la storia familiare di Massimo Zamboni, fondatore (con Giovanni Lindo Ferretti: grande assente alla reunion, emerge diafano dai filmati di repertorio) di CCCP e CSI: cresciuto fissando negli occhi i caduti per la libertà sulle lapidi che punteggiano l'Emilia e percorrendo, tra carriera ed esistenza, il sentiero che collega la Resistenza di ieri a quella odierna, apprende che il nonno materno, fascista, fu ucciso dai partigiani durante la guerra. Illuminando così una verità scomoda e facilmente rimossa, e cioè che il nemico, di frequente, sta dentro e non fuori: i Post CSI lo mettono al centro del proprio cerchio durante le intense sessioni di composizione filmate da carrelli avvolgenti, lasciando sospese, fuoricampo, le discussioni che ancora oggi contrappongono questi musicisti-intellettuali dalle teste e dai corpi così diversi e distanti. Poi si sfogliano i ricordi, memorabilia sbriciolati, documenti d'archivio, e i campi lungo la Linea gotica che, da soli, sanno evocare spari e canti. Con occhi lucidi e testardaggine: una questione privata collettiva.

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PROGRAMMAZIONE dal: 18 Aprile


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Ooops! Ho perso l'arca... di Andrea Fornasiero Regia di Toby Genkel, Sean McCormack Germania, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, 2015, Animazione, 85 minuti


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Coproduzione europea che vede coinvolta la tedesca Ulysses, già partecipe dei due film sulla renna Niko, Ooops! Ho perso l'arca... è una sorta di L'era glaciale dove all'arrivo del gelo si sostituisce la biblica inondazione. I protagonisti sono creature inventate: gli agili ma solitari felini "musoni", gli innocui "nasocchioni"(per certi versi simili alle puzzole, ma senza scadere nello scatologico) e una coppia composta da un enorme lumacone obeso e da una sorta di mollusco. A quasi tutti loro la burocrazia animale ha rifiutato, senza spiegazione, l'accesso all'arca di Noè. È questo elemento a fare del film una metafora delle frontiere del nostro mondo, aperte ad alcuni ma spesso chiuse ai meno fortunati, che devono quindi ricorrere alla clandestinità o a metodi alternativi di fuga tra mille pericoli. Se sull'arca un nasocchione cerca di invertire la rotta della nave per tornare da suo figlio, questi attraversa un'odissea con un gruppo di riluttanti animali tenuto insieme dalla sua gentilezza e spesso salvato dalle sue abilità ingegneristiche. Spassosa la sequenza del doppio immaginario ammutinamento, prima inscenato come un videogame in 16 bit e poi come un gioco in soggettiva di ultima generazione. La tecnica non è quella delle grandi produzioni americane, ma il lieto fine vanta elementi sorprendenti e nel complesso siamo ben al di sopra dell'animazione digitale europea per famiglie.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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L'ospite di Mauro Gervasini Regia di Ugo Frosi Italia, 2015, Drammatico, 80 minuti Con Amerigo Fontani, Luca Guastini, Alessio Sardelli, Sonia Coppoli, Michele Pagliai, Sebastiano Colla, Paolo Giommarelli, Annamaria Iacopini, Marcellina Ruocco, Federico Loddo


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Ultimi giorni di vita di Giovanni Gentile, filosofo e padre della riforma scolastica che porta il suo nome, la più longeva e articolata della nostra storia. Fu fedele al fascismo fino all'ultimo, e venne ucciso a sangue freddo a Firenze il 15 aprile 1944 da un commando gappista. L'opera prima di Ugo Frosi affronta di petto una vicenda rimossa, fin qui priva di una sua narrazione, servendosi della prova maiuscola del protagonista Amerigo Fontani che dà del personaggio un'immagine tormentata ma senza eccessi. Da un punto di vista drammaturgico, il film sceglie soprattutto un luogo, la villa del filosofo, con le sue stanze quiete, dall'arredamento essenziale, teatro di paure e apprensioni (uno dei figli di Gentile, militare fedele a Badoglio, era stato arrestato dai nazisti dopo l'8 settembre). Poi, punta sui dialoghi: quelli tra Gentile e gli ospiti che via via gli fanno visita, prima il figlio Benedetto, poi il prefetto, la cameriera, la moglie, un colonnello tedesco, ma soprattutto l'allievo prediletto che cova sentimenti sinceramente antifascisti. Frosi sceglie un forte understatement espressivo, contrappuntato dalla musica di Béla Bartók. Comprensibile per mantenere la giusta distanza da una così controversa figura storica (anche se l'empatia dell'autore traspare), ma a volte troppo algido, anche un po' didascalico. Resta comunque un'opera prima coraggiosa e tutt'altro che scontata.

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PROGRAMMAZIONE dal: 15 Aprile


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Il padre di Alice Cucchetti Regia di Fatih Akin Germania, 2015, Drammatico, 138 minuti Con Tahar Rahim, George Georgiou, Akin Gazi, Numan Acar, Makram Khoury, Alejandro Rae, Lara Heller, Joel Jackshaw, Shubham Saraf, Dustin MacDougall


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Dalla Turchia della Prima guerra mondiale al North Dakota degli anni 20, passando per la Siria, il Libano, Cuba, la Florida e Minneapolis: Nazaret Manoogian, fabbro armeno, vittima del genocidio del suo popolo perpetrato dai turchi, privato della voce, della casa, del lavoro e della famiglia, scampato miracolosamente al conflitto e alla morte, insegue per mezzo mondo le figlie disperse e forse ancora vive, con la pervicacia di quel ragazzino che chiedeva della madre Dagli Appennini alle Ande. Difficile aspettarsi, da Fatih Akin, un tale polpettone fiacco e didascalico, eppure Il padre (che in originale si intitola The Cut, come il taglio che danneggia le corde vocali del protagonista e contemporaneamente gli salva la vita) è proprio così: intreccia urlando similitudini banali (Nazaret figura cristologica fin dal nome), annacqua subito il fatto storico (peccato ancor più grave, se si pensa a quanto raramente il cinema se ne sia occupato) relegandolo a mero pretesto d'avvio dell'avventura, punta al classicismo da kolossal ma non ne afferra mai la potenza epica ed evocativa, si poggia su una sceneggiatura (inspiegabilmente scritta con lo scorsesiano Mardik Martin) che allinea meccanicamente fallimenti per un soffio, agnizioni da feuilleton, improbabili fortune, fin quando la testarda ricerca delle ragazze non scivola dal drammatico al tragicomico. Le intenzioni e le ambizioni si vedono tutte: è per questo che la caduta suona ancor più fragorosa.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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Il peccatore di Giovanni Olla Regia di Francesco Trudu Italia, 2015, Drammatico, 50 minuti Con Valentina Sulas, Gianluca Sotgiu, Chiara Fanti, Rita Atzeni, Stefania Perda


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Inseguito nel Dopoguerra da Luciano Emmer, che aveva sotto contratto Mastroianni e la Bosè, il romanzo La madre (1919) fu poi incastrato forzatamente nel patchwork deleddiano di Proibito (1954), prima regia di Mario Monicelli senza Steno, che includeva la sfuggente storia d'amore tra Mel Ferrer e Lea Massari. Nel 2014 è stato portato sullo schermo da Angelo Maresca in una versione contemporanea, algida e scarnificata. Riappare, con tutti i suoi nodi drammaturgici difficili da trasporre cinematograficamente, in Il peccatore - che un tempo sarebbe stato catalogato come "non professionale" diretto dall'esordiente Francesco Trudu. Il film ha una cornice narrativa in cui appare la scrittrice, che cerca di accreditarsi, con una lettera, presso un editore. La stessa voce over si trasforma nella voce off che illustra, con le parole del romanzo, la storia d'amore tra Don Paulo e Agnese, una ricca donna «non più giovanissima» (scrive la Deledda), che nel film sembra pronta per una sfilata di moda etnica promossa da un vero stilista. Inadeguati gli interpreti - ovvero anch'essi non professionali, rispetto alla testualità paraletteraria del film, unica bella idea di regia, se fosse stata sviluppata da un autore come De Oliveira - che si muovono in uno scenario non banale, ritagliato tra i vicoli, i portali, le mura, le stradine di qualche paese sardo. Un adattamento meno teatralizzato avrebbe dato migliori risultati.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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Qualcosa di noi di Ilaria Feole Regia di Wilma Labate Italia, 2015, Documentario, 74 minuti


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Come novelli narratori del Decamerone, in fuga dalla piaga della modernità e dell'opinionismo facile, 12 allievi della scuola di scrittura Bottega Finzioni si rifugiano in un borgo di campagna, a Iano (Sasso Marconi). Lì fanno cerchio intorno a Jana, di professione prostituta con specializzazione dominatrice: 46 anni, due figli, una famiglia che, dopo un rancoroso silenzio, è scesa a patti col suo mestiere, un fidanzato spagnolo e clienti affezionati quanto basta da permetterle di guadagnare in due ore quanto prendeva in un mese come operaia metalmeccanica. Con registro pacato racconta i suoi alti e bassi, le umiliazioni e l'orgoglio, mentre i suoi selezionati interlocutori, introdotti da brevi autopresentazioni in odore di reality show per pubblico radical chic, affrontano i Temi: il corpo e la sua compravendita, l'indipendenza e la libertà, il desiderio e le convenzioni sociali. Molto preoccupati di come la macchina da presa di Wilma Labate possa farli apparire troppo conformisti, troppo banali, si impegnano a scovare le rispettive ovvietà, in un rialzo di brillantezza che sembra trasporre in cornice bucolica lo snocciolarsi di commenti su uno status di Facebook. Dove lo status è Jana, personaggio autentico ma circondato dall'artificiosa spontaneità degli aspiranti scrittori, che la regista incoraggia, intessendo piccoli, futili plot amorosi tra loro, informandoci sul loro destino con i cartelli a fine film, dando forma patinata alla loro vacuità.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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Quando dal cielo di Giona A. Nazzaro Regia di Fabrizio Ferraro Italia, 2015, Documentario, 95 minuti Con Paolo Fresu, Daniele di Bonaventura, Manfred Eicher


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Fabrizio Ferraro è un cineasta estremamente interessante. Tra i "novissimi",uno dei più appartati. Nonostante un corpus filmico di tutto rispetto, il cui titolo più noto è Quattro notti di uno straniero, continua a essere un imprendibile. Il suo ultimo Sebastian0, radicalissima rivisitazione del martirio del santo - riflessione sul gesto e sulla forma - è in corrispondenza stretta con questo notevole Wenn aus dem Himmel... Quando dal cielo... La struttura minimale di quel film trova un corrispettivo nel dispositivo osservazionale che il regista mette in atto. In un auditorium vuoto e quasi al buio, Paolo Fresu e il bandoneonista/pianista Daniele Di Bonaventura suonano e improvvisano sotto lo sguardo di Manfred Eicher, patron dell'etichetta discografica ECM. Ferraro osserva il farsi della musica come se tentasse di carpire il segreto stesso della creazione e delle bellezza. Conservando negli occhi la lezione straubiana e il ricordo di One Plus One di Jean-Luc Godard, Ferraro crea uno spazio dove l'interazione fra i due musicisti trova un riflesso nel lavoro del regista. La creazione, e le sue ombre, si riflettono così in quel che Garrel definiva il magistero dell'arte. La creazione come lavoro e, ovviamente, il lavoro come creazione. Un gesto filmico assoluto, che vive nella durata. Un piccolo miracolo, dunque, arduo, ma anche perdutamente attonito, come quando dal cielo cadono segni e gli uomini l'interrogano rapiti.

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


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Ritorno al Marigold Hotel di Ilaria Feole Regia di John Madden USA, Gran Bretagna, India, 2015, Commedia, 123 minuti Con Judi Dench, Maggie Smith, Bill Nighy, Dev Patel, Celia Imrie, Ronald Pickup, Penelope Wilton, Diana Hardcastle, Lillete Dubey, Richard Gere, David Strathairn, Tamsin Greig, Tina Desai


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Per essere un inno al carpe diem, Ritorno al Marigold Hotel soffre di una singolare mancanza di tempismo: anziché cogliere l'attimo, prolunga i languori adolescenziali dei suoi attempati protagonisti oltre ogni durata accettabile, per poi appoggiarvi una chiusa sbrigativa. Il motto di Orazio si applica più congruamente alla capacità di afferrare l'occasione dimostrata da John Madden, che dopo il successo clamoroso del primo capitolo (nel 2012 capace di quadruplicare al botteghino la cifra del suo budget) ha rimesso insieme la squadra - al netto di Tom Wilkinson, graziato dalla morte del suo personaggio - e riaperto i battenti dello scalcinato albergo di Japur, accogliente sede per anziani. Imbastendo per ciascuno dei personaggi nuove trame da soap opera over 70: gelosie e corteggiamenti, tenerezze inseguite o negate, la vecchiaia come età della rinascita e della riscoperta della passione. Alla compagnia di biancocriniti si aggiunge Richard Gere, nei panni di un simil-se stesso che a ogni sorriso pare chiedere scusa per la trasferta alimentare. Maggie Smith e Judi Dench si mangiano il resto del cast in un'alzata di sopracciglio; lo script pare ignorare deliberatamente che esiste un limite al numero di battute su tè e biscotti che si possono far pronunciare alle signore inglesi; Madden confeziona con la consueta, pigra patina esotica da grande pubblico, aggiungendo numeri di ballo bollywoodiani per fare il fiocco al pacco.

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PROGRAMMAZIONE dal: 30 Aprile


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Road 47 di Alice Cucchetti Regia di Vicente Ferraz Portogallo, Brasile, Italia, 2015, Drammatico, 107 minuti Con Daniel de Oliveira, Richard Sammel, Sergio Rubini, JĂşlio Andrade, Francisco Gaspar, Thogun, Ivo Canelas, Daniele Grassetti


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«Ah, perché, ci sono pure i brasiliani?». L'incredulità accomuna spettatori e personaggi di Road 47, contingente carioca compreso: degli oltre 25 mila soldati brasiliani inviati a combattere nella Seconda guerra mondiale a fianco degli alleati, circa 11 mila si trovarono su suolo italico, e un bizzarro quartetto di dispersi - più un giornalista - è protagonista della pellicola di Vicente Ferraz. Colti dal panico e congelati da un inverno durissimo sulla Linea gotica, incarnano con la loro stessa presenza l'assurdità del conflitto, di uno scontro di cui non conoscono le ragioni né comprendono completamente le dinamiche. A un certo punto, si trascinano dietro un tedesco ferito e un disertore italiano, separati dagli schieramenti ma uniti nella disillusione, nella disperazione e nel cinismo. Sembrano davvero alieni, precipitati su un pianeta ostile, con poca esperienza, l'insopprimibile nostalgia del sole di casa, motivetti di samba da improvvisare quando la notte si fa più scura: è solo scegliendo di fare l'unica cosa che sanno fare (sminare la strada 47, perché gli americani liberino il paesino di San Giusto) che recuperano un fievole barlume di senso. E scegliendo la totale anti-spettacolarità, la distanza siderale da ogni epica bellica, Ferraz trova il significato più profondo di Road 47. Che ogni tanto sbanda, si perde, come i suoi soldati, tra le montagne e il gelo, ma in ultimo conserva l'evidenza che nessun conflitto, mai, prevede veri vincitori.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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Run All Night di Marianna Cappi Regia di Jaume Collet-Serra USA, 2015, Azione, 114 minuti Con Liam Neeson, Ed Harris, Joel Kinnaman, Boyd Holbrook, Vincent D'Onofrio, Genesis Rodriguez, Bruce McGill, Common, Nick Nolte, Beau Knapp, Holt McCallany, Patricia Kalember, James Martinez


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La lunga notte dei Conlon affonda le radici nel giorno di Natale, nel salotto di un clan irlandese di New York, costruito su legami di sangue versato. Ma è un Natale che non dura più di mezz'ora, quello di Collet-Serra, poi la corsa alla sopravvivenza e quella al massacro diventano la stessa cosa. Jimmy Conlon e il figlio Mike fuggono dai vecchi amici, dalla polizia corrotta, da un sicario infallibile e dalla loro relazione. Fatta eccezione per l'andirivieni superfluo tra una prospettiva aerea e una vertiginosa discesa nella trappola urbana, il film non insegue la trovata visiva, ma si concentra sull'architettura della tragedia e delle sequenze di tensione, che sono tante e non deludono. La metropoli è un villaggio western, con tanto di ferrovia per gli ultimi fuochi tra Liam Neeson e Ed Harris, perfetti. E poi i block, con il loro teatro di piani (non) comunicanti, e la strada, per l'inseguimento a rovescio tra fuggiaschi e polizia. Si sa esattamente dove si andrà a finire, ma il film è nel percorso. Alla terza collaborazione con Neeson, il regista aumenta il carico pulp del personaggio, insieme a quello morale. L'anima pesa più del corpo per Conlon, il giudizio è emesso, resta una sola opportunità, già postuma: farsi angelo sterminatore e impedire al figlio di mandare a segno anche un singolo colpo. In quest'impresa impossibile c'è tutto lo spettacolo del film, tutto il suo sentimento.

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PROGRAMMAZIONE dal: 30 Aprile


C

Sabotatori di Mauro Gervasini Regia di Nico Guidetti, Matthias Durchfeld Italia, 2015, Documentario, 75 minuti


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Sentieri partigiani è una manifestazione che ogni anno porta i partecipanti a ripercorrere i vecchi sentieri di collina e montagna dove vissero, lottarono e si nascosero i partigiani tra il 1943 e la Liberazione. Sabotatori è un documentario che racconta l'incontro tra uno di loro, Fernando Cavazzini, nome di battaglia Toni, e altri tre giovani antifascisti. Tanja, educatrice di Amburgo, presente ogni anno all'evento; Steffen, tedesco pure lui, nato vicino a Dresda dove è molto forte la presenza di gruppi neonazisti, e infine Stefano, un italiano naturalizzato francese che fa il musicista in una banlieue di Parigi. I luoghi dove si incrociano esperienze così diverse, ma ispirate dai medesimi ideali, sono l'Appennino reggiano e la stessa città di Reggio Emilia, teatro, allora, della guerra partigiana e delle rappresaglie nazifasciste. Sabotatori è un documentario di testimonianza, realizzato da Nico Guidetti e Matthias Durchfeld grazie ai finanziamenti raccolti con il crowdfunding, disponibile anche in dvd con sottotitoli in italiano (per le parti in tedesco), inglese, francese e tedesco. Un'opera divulgativa che ha il punto di forza nel personaggio di Toni, lavoratore della più grossa azienda emiliana dove si produceva il Caproni da bombardamento, aereo, come noto, ammirato da Hayao Miyazaki. Fu "sabotatore"per una causa giusta, quella della Resistenza. Il tempo che passa rende sempre più urgente raccontare la storia di gente come lui.

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


C

Samba di Giulio Sangiorgio Regia di Olivier Nakache, Eric Toledano Francia, 2015, Commedia, 118 minuti Con Omar Sy, Charlotte Gainsbourg, Tahar Rahim, Izia Higelin, Issaka Sawadogo, HÊlène Vincent, Youngar Fall, Christiane Millet, Liya Kebede, Clotilde Mollet


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Come intitolare, se non con un nome proprio, un film a lieto fine su un clandestino in cerca di un'identità riconosciuta? Come aprire Samba se non su un ballo matrimoniale di bianchi legato (via pianosequenza) al ritratto mesto delle cucine e dei lavoratori? Perché non richiamare il sottoproletariato di Pasolini con un poster in metrò che ammicchi alla buona borghesia? Nakache & Toledano questo sanno fare. Un cinema dei minimi termini, dalla retorica chiara ed emotiva, che si sceglie due tipologie di pubblico: 1) quelli in cerca di conferme, di storie che raccontino i propri ideali, che restituiscano la sensazione (retorica, ça va sans dire) di un impegno sociale e 2) quelli da educare a ideali progressisti e diritti umani fondamentali per via di lacrime, risa e divismo, di una commedia drammatica popolare abitata da star, che apre le porte del cinema di massa a luoghi e storie non frequentati. Samba - storia d'amore tra immigrato e assistente sociale in burnout, che riscopre sentimenti e valori a contatto con l'altro - assolve perfettamente a queste funzioni sociali. Dietro c'è comunque un cinema macchiettistico, tra l'ipocrita e l'ingenuo, tra il coloniale e l'utilitarista, incapace di costruire personaggi, figuriamoci comprenderli e rispettarli, figuriamoci emanciparli dall'essere mere funzioni spettacolari (il clandestino, la depressa). Engagé e pavloviano (come le musiche di Einaudi).

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


C

SarĂ il mio tipo? di Pedro Armocida Regia di Lucas Belvaux Francia, Belgio, 2015, Commedia, 111 minuti Con LoĂŻc Corbery, Emilie Dequenne, Sandra Nkake, Charlotte Talpaert, Anne Coesens, Daniela Bisconti, Didier Sandre, Martine Chevallier


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Clément è un professore di filosofia che dalla sua amata Parigi viene trasferito per un anno in un liceo di provincia. È bello, interessante, sicuro di sé e, soprattutto, è uno che lascia le donne prima che - teorizza - il rapporto diventi una prigione. Poi arriva lei, Jennifer, parrucchiera alla ricerca dell'amore vero su cui costruire qualcosa. Proprio per questo, più che per la differente classe sociale di appartenenza, i due sembrerebbero incompatibili. Ma il sentimento sboccia, lento e profondo. Lucas Belvaux, regista (e attore) di origine belga, pedina con la macchina da presa i corpi, i volti, soffermandosi sui dettagli di questa strana coppia, con lui che le legge Kant e lei che gli parla di Jennifer Aniston. Ma più che raccontare due mondi apparentemente distanti, il regista ribalta il concetto tutto maschile di preda e cacciatore. Perché è l'identificazione di un uomo il punto centrale del film. È lo sguardo di una donna, l'immensa Émilie Dequenne (l'indimenticata Rosetta dei Dardenne), che lo viviseziona in tutta la sua fragilità e incapacità di amare veramente e fino in fondo. Da parte sua il regista, nell'adattare il romanzo di Philippe Vilain Non il suo tipo, si prende tutto il tempo che la storia richiede e intesse il film di soluzioni formali ricercate, come l'interessante gioco di raccordi, riuscendo a girare alcune delle sequenze musicali, in chiave narrativa (a lei piace andare al karaoke con le amiche), più belle, emozionanti e intense viste nel cinema recente.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


C

La scelta di Claudio Bartolini Regia di Michele Placido Italia, 2015, Drammatico, 86 minuti Con Raoul Bova, Ambra Angiolini, Valeria Solarino, Michele Placido, Manrico Gammarota, Monica Contini, Gennaro Diana, Marcello Catalano, Mejdi El Euchi, Vito Signorile


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Ci vogliono 20 minuti abbondanti di girovagare confuso nella commedia dislocata (troppi personaggi, ambienti e situazioni privi di senso) per arrivare all'Innesto pirandelliano: Laura viene sequestrata e stuprata per tre ore. Dopo lo shock post-traumatico, vuole ricominciare a vivere e amare. Il marito Giorgio, invece, è ossessionato dal vissuto per interposta persona: vuole conoscere l'accaduto, perciò forza la mano e insiste, tanto più quando la moglie scopre di essere incinta, scontrandosi con l'ermetismo della donna. «È successo qualcosa dentro di me e vi state occupando tutti dell'esterno», afferma lei, in uno tra i mille dialoghi da fotoromanzo che infestano la tonnara di luoghi comuni e ripetizioni imbastita da un Placido ansioso di reimboccare la corrente inerte del suo cinema, abbandonata dopo gli scult Ovunque sei e Il grande sogno che, riletti alla luce di questo trattatello antiabortista da tavola calda, paiono pietre miliari del melodramma. Un'ora di Bova che insegue e si irrigidisce, chiedendo spiegazioni; un'ora di Angiolini tutta sguardi, isterismi e corse, senza mai uno scarto psicologico evolutivo nel personaggio; un'ora di commenti musicali invasivi e didascalici, di svolte ingiustificate, di falle nella continuità di montaggio, di sensualità di coppia inferiore a quella di uno scaldabagno, di visioni dell'uomo e della donna a dir poco medievali (lui non capisce, lei non è capita). Un'ora, ma sembrano cinque o sei.

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PROGRAMMAZIONE dal: 2 Aprile


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Se Dio vuole di Adriano Aiello Regia di Edoardo Falcone Italia, 2015, Commedia, 87 minuti Con Alessandro Gassman, Edoardo Pesce, Marco Giallini, Laura Morante, Ilaria Spada, Enrico Oetiker, Carlo De Ruggieri, Giuseppina Cervizzi, Alex Cendron, Fabrizio Giannini, Silvia Munguia


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Certo che, se non sembrasse concepito nella pause di un Concilio ecumenico vaticano, Se Dio vuole sarebbe un'opera riuscita. Forse, se non fosse una commedia ammaestrata e cerchiobottista, Se Dio vuole avrebbe i suoi meriti. Nonostante tutto, se il regista Eduardo Falcone citasse Muccino, piuttosto che Monicelli, Risi, Germi e Scola, come punti di riferimento, la visione striderebbe di meno. Insomma, quello italiano rimane un cinema di "se". E di macchiette giustapposte pigramente, sempre in debito di immaginario. Immobile e incapace di autoriflessione, figurarsi di graffiare. Con personaggi che sembrano uscire da una pubblicità della Coop, altro che da un film di Monicelli: il cardiochirurgo scientista e autoritario; la moglie di sinistra trascurata, che finisce per occupare il liceo insieme ai ragazzi; il figlio sensibile che sembra gay e invece vuole fare il frate; la sorella svampita e priva d'interessi che ama Gigi D'Alessio perché la fa «sentire una persona migliore»; l'agente immobiliare ignorante e razzista, ma dal cuore tenero, perché noi italiani alla fine siamo meschini solo per diletto. A fare da collante, il prete rock con le scarpe da ginnastica, un passato da criminale e il sorriso smagliante di Alessandro Gassmann. Il verbo comico si alimenta di alcune sequenze riuscite, la scrittura altamente didascalica e la morale qualche tacca sotto la soglia di allarme. Per fortuna c'è la fede, la pizza con la mortazza e le pere che cadono. Se Dio vuole.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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Second Chance di Mauro Gervasini Regia di Susanne Bier Danimarca, 2015, Drammatico, 105 minuti Con Nikolaj Coster-Waldau, Ulrich Thomsen, Nikolaj Lie Kaas, Maria Bonnevie, Thomas Bo Larsen, Peter Haber, Lykke May Andersen, Ole Dupont, Johanna Br端el


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Nessuna solitudine ma molta rabbia per il poliziotto della brigata criminale di Copenaghen Nikolaj Coster-Waldau. Si accanisce contro un brutale tossico che fa vivere la compagna e il bebè in un appartamento-inferno. Lui è papà da poco, c'è da capirlo, ma quando il figlioletto muore per (apparente) SIDS (sindrome della morte in culla), scatta un diabolico piano e saltano i confini morali. Facendo della facile ironia potremmo dire che Susanne Bier, dopo il goffo Una folle passione e al netto di un Oscar vinto con In un mondo migliore (battendo Dogtooth di Lanthimos e La donna che canta di Villeneuve...), abbia sprecato la sua seconda chance. Qui non funziona niente: né la trama poliziesca, ridicola, né le caratterizzazioni falsamente manichee dei personaggi, cui corrispondono relativi ambienti sociali e abitativi che il detour finale rende perfino grotteschi, oltre che schematici. Lo sceneggiatore è Anders Thomas Jensen, regista dell'interessante Le mele di Adamo (2005), che qui però firma un copione con troppa carne al fuoco. E Bier, convinta che il genere e un protagonista macho rendano necessaria una messa in scena enfatica, disdegna le sole cose che invece avrebbero giustificato la sua presenza dietro la macchina da presa: il rapporto tra il poliziotto e la moglie, lo studio psicologico, le motivazioni di gesti e drammi destinati a rimanere misteriosi, se non incomprensibili.

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PROGRAMMAZIONE dal: 2 Aprile


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Short Skin - I dolori del giovane Edo di Ilaria Feole Regia di Duccio Chiarini Italia, Iran, Gran Bretagna, 2015, Commedia, 83 minuti Con Matteo Creatini, Francesca Agostini, Nicola Nocchi, Miriana RaschillĂ , Bianca Ceravolo, Michele Crestacci, Bianca Nappi, Crisula Stafida, Francesco Acquaroli, Lisa Granuzza di Vita


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17 anni e un'estate davanti, Edo ha gli stessi problemi della maggior parte dei suoi coetanei, tra cui: un amico smargiasso che si crede playboy; una vicina di casa troppo carina che forse ci sta, forse no; la verginità. Ma l'illibatezza di Edo non è questione di timidezza: per dirla con Elio e le Storie Tese, «soffre le pene per colpa del pene», un prepuzio troppo stretto che gli causa dolori atroci a ogni sollecitazione. I tentativi di darsi piacere gli provocano solo frustrazione e indolenzimento; di fare l'amore con la ragazza che gli piace non se ne parla nemmeno; d'altronde, il piccolo intervento chirurgico necessario a risolvere il problema dovrebbe essere autorizzato dai genitori e la vergogna è troppa. L'esordio nel lungo di fiction del fiorentino Chiarini ha il realismo schietto di un racconto di formazione di provincia, ancorato al territorio (siamo a Marina di Pisa) senza fare macchietta della sua regionalità; i suoi giovani protagonisti, prede di voglie e di timori, sono scritti con grazia e inquadrati con onestà, perfino quando la lotta di Edo col suo membro inutilizzabile sfiora il grottesco (per fare pratica tenta di deflorare un polipo fresco di giornata). Non c'è umorismo triviale, né la rincorsa di modelli d'oltreoceano, ma un'economia narrativa mirabile: il romanzo agrodolce su un ragazzo in cerca della prima volta trascolora in malinconica parabola sulla tristezza che accompagna la scoperta del desiderio e, con essa, la perdita dell'innocenza.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


C

Soldato semplice di Claudio Bartolini Regia di Paolo Cevoli Italia, 2015, Commedia, 99 minuti Con Paolo Cevoli, Antonio Orefice, Luca Lionello, Massimo De Lorenzo, Matteo Cremon, Nicola Adobati, Beppe Salmetti, Giuseppe Spata, Paola Lavini, Toomas Kaldaru, Massimo Fanelli, Silvana Bosi, Ernesto Mahieux


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Un professore elementare ateo, donnaiolo, svogliato e mammone si ritrova in prima linea in Valtellina nella Grande guerra contro gli austriaci, costretto dal proprio preside all'arruolamento volontario a causa di idee e comportamenti non proprio consoni a un educatore. Una volta al fronte, il Gino Montanari scritto, prodotto, diretto e interpretato da Cevoli si getta sulle tracce di Monicelli (il rapporto con il giovane analfabeta e fervente cattolico Aniello Pasquale, nomen omen), di Olmi (l'attenzione al dato di natura e al rapporto uomo/ambiente), di Avati (l'utilizzo del dialetto romagnolo a scopo grottesco, il gusto per le donne e le sagre, l'elegia per perdenti) e di Buzzati/Zurlini (la Valtellina come un deserto dei tartari, in cui il nemico austriaco è pretesto invisibile per la strutturazione delle dinamiche di politica umana interna). Nella centrifuga di questo piccolo Soldato semplice finisce inevitabilmente anche il one man show televisivo, con reminiscenze di Zelig - luogo di formazione del Cevoli - che affiorano soprattutto in tentativi di satira politica e di costume dal fiato corto. In difficoltà nell'alzare l'asticella della riflessione, quest'opera prima è un tenero e innocuo inno alla purezza, capace di strappare risate grazie a comprimari azzeccati (su tutti, il sergente Mazzoleni interpretato da Lionello) - e pure qualche lacrima. Un film semplice come il soldato che racconta, a cui manca il coraggio per il grande salto nella complessità.

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PROGRAMMAZIONE dal: 2 Aprile


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Squola di Babele di Mauro Gervasini Regia di Julie Bertuccelli Francia, 2015, Documentario, 89 minuti


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Parigi, X distretto. Non è l'inizio di una avventura poliziesca di Nestor Burma, ma il luogo dove si svolge SQuola di Babele, documentario "narrativo"di Julie Bertuccelli, autrice di Da quando Otar è partito, premiato nel 2003 alla Semaine de la critique di Cannes. In una scuola cosiddetta "d'accoglienza",la regista coglie l'attimo riprendendo (per un anno) una classe molto particolare, dove nessuno è straniero perché lo sono tutti. 24 studenti tra gli 11 e i 15 anni di 24 nazionalità diverse alle prese con l'insegnamento della lingua francese e con il sogno (a volte più dei genitori che loro) di diventare presto perfetti citoyens della repubblica. Le asprezze della lingua di Molière, dagli accenti alle desinenze, diventano sfide da superare con l'aiuto di un'insegnante caparbia, Brigitte Cervoni, molto tenace nel confronto serrato con chi, fino a poco tempo prima, ha parlato solo cinese, o cingalese, o inglese. Momenti singolari (come il ragazzino cileno che ha paura di dimenticare, dopo il processo di apprendimento, la sua lingua madre) si alternano ad altri più convenzionali, mentre a nuocere al film sono soprattutto un eccesso di verbosità e l'idea dominante della lezione "frontale", non sempre cinegenica. La correttezza politica, però, lo vedrà trionfare in sede di dibattito e nei cineforum, perché l'idea di cittadinanza in fieri che ne viene fuori è edificante.

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PROGRAMMAZIONE dal: 23 Aprile


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Strange Magic di Ilaria Feole Regia di Gary Rydstrom USA, 2015, Animazione, 99 minuti


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Ultimo progetto rimasto negli scatoloni della LucasFilm al momento dell'acquisizione da parte della Disney, Strange Magic era un sogno di lunga data per George Lucas, qui in veste di produttore e creatore del soggetto. Vagamente ispirata agli amorosi equivoci di Sogno di una notte di mezza estate, la vicenda ruota intorno alla pozione magica capace di instillare il sentimento nel petto di tenere fatine come di orridi goblin: causa incauto spargimento dell'intruglio, i regni rivali dell'ombra e della luce si ritrovano intrecciati da passioni interrazziali inattese. L'idea del babbo di Star Wars (e di American Graffiti) era di realizzare un film d'animazione che combinasse i fasti del musical con la nostalgia per classici Eighties come Labirynth: la colonna sonora giustappone numeri di canto senza soluzione di continuità, mettendo in fila Elvis Presley, Lady Gaga, Burt Bacarach, i Deep Purple e gli Electric Light Orchestra (la cui Strange Magic presta il titolo al film). Nel corso dei lustri in cui Lucas si è baloccato col progetto, però, c'è stato l'avvento dell'ironia targata DreamWorks, le avventure fantasy/boschive di Epic - Il mondo segreto e il ritorno al numero musicale extralarge della Disney: Strange Magic, flop eclatante in patria, in Italia distribuito come uscita "tecnica"prima del lancio home video, risulta superato e derivativo, nonostante il gusto dark di alcune ambientazioni, goffamente sospeso tra parodia e un Glee animato.

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


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Le streghe son tornate di Claudio Bartolini Regia di Alex de la Iglesia Spagna, 2015, Commedia, 112 minuti Con Hugo Silva, Mario Casas, Carmen Maura, Terele PavĂŠz, Carolina Bang, Macarena Gomez, Javier Botet, Carlos Areces, Maria Barranco, Secun de la Rosa, Enrique VillĂŠn


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Uomo in cerca dell'affidamento congiunto del pargolo, negato dalla moglie tiranna, rapina banca travestito da Cristo. I suoi compari lo seguono a ruota, sotto le mentite spoglie di Minnie, SpongeBob e un soldatino di piombo. L'obiettivo? Gli anelli nuziali custoditi da un "compro oro", per saldare fin dall'incipit i due sottotesti sociali srotolati da De la Iglesia lungo questa sarabanda grandguignolesca, grottesca, circense e naĂŻf, a cavallo tra il freak show e 2000 Maniacs, Mario Bava e Mel Brooks, Rob Zombie, Jodorowsky e la commedia demenziale. A un immaginario iconografico vivo ma derivativo fanno da sponda i citati sottotesti. Da una parte, l'attacco iniziale al simbolo del ricatto capitalista da nuovo millennio, compiuto dal simbolo di un cristianesimo sempre piĂš in crisi identitaria. Dall'altra, l'inversione degli stereotipi di genere, in un viaggio compiuto da quattro superstiti cui le donne hanno distrutto la vita, protette dal femminismo legislativo sull'affidamento e sugli alimenti e ulteriormente incoraggiate da uomini divenuti idioti. Il viaggio termina a Zugarramurdi, pueblo tra i Paesi Baschi e la Navarra che fu teatro di pagine ributtanti dell'Inquisizione. Qui l'iperbole grottesca si compie: streghe machiste predicano coprofagia, abuso di droghe e fist fucking invocando la Grande madre in un sabba orgiastico per nulla liberatorio. Mentre i maschi, incatenati, stanno a guardare interdetti.

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PROGRAMMAZIONE dal: 30 Aprile


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Tempo instabile con probabili schiarite di Giulio Sangiorgio Regia di Marco Pontecorvo Italia, 2015, Commedia, 100 minuti Con Luca Zingaretti, John Turturro, Carolina Crescentini, Pasquale Petrolo, Lorenza Indovina, Paola Lavini


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Crisi economica per la cooperativa che a Sant'Ugo, Marche, produce divani: tanto che s'investe sui biglietti della lotteria, pagando la cosiddetta tassa sulla stupidità, per cercar di non tagliare il personale. Al limite si riducon gli stipendi. Poi la fortuna aiuta i compagni: a seguito di un piccolo reato antiecologico da arte di arrangiarsi, trovano nientepopodimenoche il petrolio. Timidi e audaci alla voce imprenditoria si scontrano. E due amici fraterni, colonne della coop, si trovan volenti o nolenti su barricate opposte, mentre gli ideali s'appiccicano per conformismo, gli slogan fraintendono la realtà, l'impresa s'approccia alla politica e s'inaugurano la commedia degli equivoci e la sagra del trasformismo italiota. Il tempo è instabile, in questo bailamme, e le probabili schiarite sono quelle di un futuro incarnato dai figli, che svecchiano gli schemi di pensiero dei padri (e rielaborano il reale di provincia in sognanti inserti manga in cui s'inciampa nel dialetto). Pontecorvo, figlio di e con curriculum da ottimo direttore della fotografia, gira una commedia generosissima e scostante, con stereotipi giocosi, che riflette con leggiadria su certi crucci della sinistra che non c'è e su vizi e vezzi del Belpaese, in una via pressoché Emilia che si fa improbabile West. Ancorato al teatro d'attore, con incedere televisivo e tratto che sposa la facile caricatura sociale, si scioglie con tono fiabesco e autoassolutorio: è tenero quanto innocuo. Rimandato.

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PROGRAMMAZIONE dal: 2 Aprile


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Uno, anzi due di Simone Emiliani Regia di Francesco Pavolini Italia, 2015, Commedia, 88 minuti Con Maurizio Battista, Paola Tiziana Cruciani, Emanuele Propizio, Ninetto Davoli, Veronica Corsi, Claudia Pandolfi, Ernesto Mahieux, Rocco Barbaro, Mago Silvan, Nadia Rinaldi


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Ci sono film fatti su misura per un comico. Che gli lasciano campo libero ma non riescono a sostenerlo. È il caso di Maurizio Battista, qui nei panni di un uomo che ha deciso di farla finita e si trova sul parapetto di ponte Milvio a Roma. Dopo la morte del padre, è sommerso dai debiti; ha infatti dovuto vendere il bar di proprietà ai cinesi e sta per perdere la casa. Ma non ha il coraggio di confessarlo alla sua famiglia. Inoltre, il figlio si sta per sposare con una cerimonia sontuosa e costosissima. Uno, anzi due, anzi tanti Maurizio Battista. Da una parte la sua esuberanza verbale. Dall'altra, un cinema che si adagia sul ritmo e sulla durata dello sketch: i diversi modi per fare il cappuccino, la scena nel ristorante lussuoso o quella nell'ascensore con Ninetto Davoli corpo-manichino sulla scia di Weekend con il morto. L'esterno è solo un palcoscenico teatrale a cielo aperto, un altro luogo di un'esibizione, sempre sospesa tra scrittura e improvvisazione. Dove qualche battuta va a segno e qualche altra a vuoto. L'esordiente Francesco Pavolini cerca di non cambiare le carte in tavola e per certi versi fa bene. Ma Battista al cinema non è ancora Albanese, che in Qualunquemente faceva ruotare attorno a lui i ruoli di secondo piano, come in un fantasmagorico circo. Qui, invece, restano ai margini. Come quello di Claudia Pandolfi, con l'attrice che cerca in modo appariscente di trovare uno spazio autonomo che in realtà non c'è.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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Le vacanze del piccolo Nicolas di Alice Cucchetti Regia di Laurent Tirard Francia, 2015, Commedia, 97 minuti Con Mathéo Boisselier, Valérie Lemercier, Kad Merad, Dominique Lavanant, François-Xavier Demaison, Bouli Lanners, Luca Zingaretti, Judith Henry, Francis Perrin, Daniel Prévost, Bruno Lochet, Fabienne Galula


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La scuola è finita, i ragazzini urlanti che calpestano correndo il bidello sono pronti per le vacanze: anche il piccolo Nicolas che, una volta superata la diatriba genitoriale mare vs montagna, si trova felicemente su una spiaggia linda e ordinata, incorniciata da cabine pastello e ombrelloni simili a gelati di frutta, perfettamente inserito in un nuovo gruppetto di simpatiche canaglie impegnate a far danni. La prima pellicola ispirata ai libri per bimbi inventati dal papà di Asterix René Goscinny e da Jean-Jacques Sempé aveva registrato, nel 2009, incassi record in Francia; il suo sequel, come da trend hollywoodiano, si sposta in ambientazione vacanziera, conservando parte del cast (Kad Merad e Valérie Lemercier), ma obbligatoriamente sostituendo il piccolo protagonista, per ragioni anagrafiche. Formula che vince non si cambia, e Le vacanze del piccolo Nicolas restano intrise di nostalgia per un'infanzia da cartolina (vedi i divertenti titoli di testa e di coda) reimmaginata nelle forme colorate e zuccherose alla Jean-Pierre Jeunet (o all'idea che ci si è fatti, col tempo, di lui). Procedendo per episodi di comicità ingenua, innocua e popolare (fatta di espedienti iper abusati), Tirard sembra divertirsi ad accennare citazioni cinefile (da Tati a Shining, da Tim Burton a Moonrise Kingdom) e gli attori a caricare le interpretazioni di personaggi da fumetto. Impercettibili increspature in un film per famiglie che fila via mite come un pomeriggio d'estate.

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PROGRAMMAZIONE dal: 16 Aprile


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Vincent van Gogh - Un nuovo modo di vedere di Ilaria Feole Regia di David Bickerstaff Regno Unito, Olanda, 2015, Documentario, 90 minuti Con Jamie de Courcey


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Ardua impresa quella di portare la vita e le opere di Van Gogh sul grande schermo: autore di dipinti tanto iconici da essere stampati su ogni tipo di complemento d'arredo, icona a sua volta immortalata in celebri autoritratti e in performance attoriali sopra le righe (una su tutti, il Kirk Douglas di Brama di vivere), è diventato simbolo dell'accoppiata genio & sregolatezza. Confinato nello stereotipo dell'artista folle che si mozzò un orecchio, come i suoi quadri sono confinati su tappetini per il mouse. Lo spunto del documentario di Bickerstaff è proprio il tentativo di resettare una parte dell'immaginario collettivo, mettere da parte la malattia mentale e il suicidio, lasciare in un angolo i Girasoli e la Notte stellata (che non compaiono mai in questo documentario) e raccontare l'uomo Vincent da capo: dalla formazione protestante al tentativo di diventare ministro religioso, dal legame col fratello Theo a quello con i contemporanei Toulouse-Lautrec e Gauguin. Con interviste al personale del Van Gogh Museum di Amsterdam e brevi, poco incisivi frammenti di finzione, il film imbastisce così un bignami audiovisivo patinato e semplificato, che comprima nella durata l'intera vita e il percorso artistico del pittore senza approfondire aspetti tecnici o personali. Un percorso didattico esplicitamente rivolto a un pubblico giovane, non a caso scelto da Nexo Digital per inaugurare il progetto Nexo Educational di collaborazione con le scuole.

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PROGRAMMAZIONE dal: 14 Aprile


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White God - Sinfonia per Hagen di Mario Sesti Regia di Kornél Mundruczó Ungheria, Germania, Svezia, 2015, Drammatico, 107 minuti Con Zsófia Psotta, Sándor Zsótér, Lili Horváth, Szabolcs Thuróczy, Lili Monori, Gergely Bánki, Tamás Polgár, Orsolya Tóth, Kornél Mundruczó, János Derzsi


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Tre ragioni per non perdere questo film: Una: l'inizio. Due: la fine. Si tratta di scene di misteriosa e minacciosa bellezza, piena di angoscia l'apertura, di estasi la chiusura. Possiedono l'irrealtà ipnotica del sogno, invece appartengono al mondo della realtà filmata. Di entrambi sono protagonisti 274 cani (tutti provenienti da canili) e una ragazzina di 13 anni che è un'attrice sorprendente, una minuta divinità cinofila, intensa ed eroica, che ha contro tutto: la famiglia disintegrata, una umanità crudele e remota, i coetanei che la ignorano. Unico alleato, Hagen: un bastardo labrador, forse il miglior cane attore di sempre. A questo punto la vera recensione dovrebbe finire qui: cos'altro si può dire? Che il regista (anche attore: fa qui una particina) è ungherese, avrà 40 anni nel 2015, che il film ha vinto, a Cannes 2014, il Certain regard. Ma nulla spiegherebbe questa spietata parabola dove un cane, abbandonato, vive una tremenda avventura di violenza e degrado diventando, come Spartacus, capo di una ribellione che prende d'assedio l'intera città. Se Polanski facesse un remake di Lilli e il Vagabondo, ecco, verrebbe fuori una cosa del genere. Se non vi colpisce questo film - dedicato a uno dei più dimenticati e originali registi di tutti i tempi, l'ungherese Miklós Jancsó: ed è la terza ragione - lasciate perdere il cinema e dedicatevi tranquillamente a X Factor o a Candy Crush Saga.

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PROGRAMMAZIONE dal: 9 Aprile


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Wild di Alice Cucchetti Regia di Jean-Marc VallĂŠe USA, 2015, Drammatico, 120 minuti Con Reese Witherspoon, Laura Dern, Thomas Sadoski, Gaby Hoffmann, Keene McRae, Michiel Huisman, W. Earl Brown, Kevin Rankin, Mo McRae


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Non sta nella pelle all'idea di aver finalmente incontrato una lady hobo ("donna senzatetto") Jimmy Carter (nessuna parentela), aspirante giornalista che chiede un'intervista ma non concede autostop: in realtà Cheryl Strayed (il cognome se l'è scelto, e indica il deviare dalla propria strada) sta affrontando a piedi e in solitaria il Pacific Crest Trail, 4.286 km dalla California allo stato di Washington. E in effetti, una casa non ce l'ha: ha 26 anni, un'infanzia difficile, una madre morta di cancro in un mese, un matrimonio finito in un tatuaggio, una tendenza autodistruttiva, uno zaino enorme (gli altri escursionisti lo chiamano "il Mostro"), le unghie dei piedi frantumate, qualche libro, poca esperienza e scarpe troppo strette. Mentre procede a piccoli passi colmi di fatica, canticchia canzoni e ammonticchia ricordi: Wild si muove al ritmo della camminata, inseguendo un flusso di coscienza che coincide con il panorama, che si annoda alla natura circostante, intrecciando le urla di rabbia di oggi con le lacrime frustrate di ieri. Reese Witherspoon si carica sulle spalle Mostro e film, Vallée dirige con composta deferenza ma grande abilità di sfogliare le emozioni tramite il montaggio (sotto lo pseudonimo di John Mac McMurphy); e Nick Hornby trae dal memoriale della vera Cheryl uno script capace di salvarsi dallo spettro del "già visto" attaccandosi al personaggio e alla sua semplice, perfino banale, autenticità.

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PROGRAMMAZIONE dal: 2 Aprile




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