Bertrand Tavernier - intervista

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intervista a Bertrand Tavernier

I

nesausto sperimentatore, sempre ansioso di cimentarsi in nuovi generi dal noir al mélo, dal musicale al dramma sociale fino al cinema bellico, Bertrand Tavernier ama reinventarsi. E non poteva farsi mancare l’adattamento di una bande dessinée: I segreti del Quai d’Orsay di Cristophe Blain e Abel Lanzac, pubblicata in Italia da Coconino in due volumi e vincitrice del premio Gran Guinigi a Lucca nel 2012. Iniziamo con il chiedere a Tavernier come è nato questo progetto: «Nel modo meno originale: leggendo il fumetto, di cui mi sono innamorato già all’uscita del primo volume. Mi ha attratto il soggetto, il modo di guardare alla vita negli uffici del ministero, con personaggi che non si vedono mai nei media né nei giornali. I consiglieri che lavorano nell’ombra dietro il ministro, in circostanze difficili, con richieste folli, con turni lunghissimi in piccoli uffici. Quel che mi ha interessato è il caos della politica quotidiana, che pare del tutto irrazionale. Inoltre, mi hanno colpito la 10 FILMTV

In queste pagine, alcune scene di Quai d’Orsay. Sopra e in basso, Bertrand Tavernier (Lione, Francia, 25 aprile 1941) sul set del film

I mille


ABBIAMO INCONTRATO A ROMA, AL RENDEZ VOUS FESTIVAL DEL CINEMA FRANCESE 2014, BERTRAND TAVERNIER, CHE HA PRESENTATO LA SUA ULTIMA FATICA QUAI D'ORSAY ANCORA SENZA DISTRIBUZIONE IN ITALIA DI ANDREA FORNASIERO

volti di Tavernier

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[DIECI FILM DI TAVERNIER]

Farebbe mai un western? La princesse de Montpensier ha un coté western come Il giudice e l’assassino. E anche in Capitan Conan ci sono paesaggi western, anche se soprattutto della Grande guerra mi affascina come ci influenzi ancora, nel fascismo, nel comunismo. Molti politici francesi di oggi si comportano come i generali di allora, in modo inetto, causando sofferenze atroci. Cosa ricorda dell’esperienza di lavoro con star come John Goodman e Tommy Lee Jones su In the Electric Mist L’occhio del ciclone? Con Goodman è facilissimo come con Philip Noiret, è tra i migliori. Lee Jones è più introverso, riservato, ma a suo modo porta delle cose straordinarie al film. È meno conviviale di Noiret o Rochefort, meno amichevole, ma altrettanto creativo. Quando sono arrivato in sala di montaggio ho scoperto tutti i doni che mi ha fatto, ed erano davvero molti. Di quel film ricordo anche che fu terribile vedere la New Orleans devastata da Katrina, con gli hotel pieni di rifugiati. C’erano cartelli che recitavano «Non siamo stati capaci di salvare New Orleans, perché bombardare l’Iraq?». Lei è stato anche un protagonista nella storia della critica cinematografica, cosa

a cura di Giulio Sangiorgio

straordinaria energia del disegno e la qualità dei dialoghi, che mi ha ricordato le invenzioni linguistiche di Age e Scarpelli. Molte scene derivano dall’esperienza dello sceneggiatore che ha lavorato davvero dietro le quinte del ministero ma non erano stato inserite nel fumetto e sono dunque basate sull’osservazione della realtà. Il ministro del film è ispirato a Dominique de Villepin, che ha fatto l’onore della Francia, opponendosi ai neo-con americani. Quali sono le sfide che ha trovato più stimolanti nell’adattamento? Era importante trovare il ritmo del film, basato sui due personaggi principali. Non è un ritmo che viene imposto sulla storia, ma deve scaturire dai protagonisti. Ho detto agli attori: «Voi non sapete di essere in una commedia, le risate non devono essere cercate, ma esplodere dal contrasto tra il ministro irrequieto e il capo del personale impassibile anche nei momenti di crisi». Guardandosi alle spalle, quale fil rouge riconosce nella sua movimentata carriera? L’immaginazione, prima di tutto, e la voglia di conoscere mondi e universi a me ignoti in ogni opera. Non lo faccio per sfida ma per il piacere di apprendere, faccio film per imparare. Per esempio sul mondo del jazz in ’Round Midnight, sulla Grande guerra in Capitan Conan, sulla vita degli insegnanti in Ricomincia da oggi: tutti i miei lavori trattano argomenti di cui in partenza io non so nulla. Non so nulla di quel che succede negli uffici di un ministero, se non ciò che si legge sui giornali, ma non so niente della vita vera di un gruppo di poliziotti. E alla fine di Legge 627 ne sapevo più del ministro dell’interno! Cosa la affascina della cultura americana? Il romanzo nero, la musica, il western pure, ci sono molte opere affascinanti che arrivano dagli States, l’importante però è non copiarli. Anche mentre facevo film in America mi sono sempre sentito un regista europeo. Recentemente, a una proiezione di ’Round Midnight a New York, uno storico del jazz ha detto che era la prima volta in cui veniva mostrato un nero come autore, che riusciva senza l’aiuto dei bianchi. Non c’erano altri film sulla musica americana di quel tipo, in quelli americani c’è sempre un bianco che aiuta un musicista nero: Louis Armstrong è aiutato da Bing Crosby, in Paris Blues Sidney Poitier è aiutato da Paul Newman, il mio Dave Turner invece ha un amico francese che lo aiuta solo nelle difficoltà della vita, non nella sua musica.

pensa della sua funzione oggi? Il ruolo della critica è difficile, perché i giornali sono in difficoltà e allo stesso tempo tutti si improvvisano critici sul web. Ma ci sono anche giovani che scrivono molto bene in rete, con più cultura di professionisti riconosciuti. Ho un blog sul sito della Société des Auteurs e ci sono degli interventi intelligentissimi, su Resnais, su Eastwood, Ford, Becker, Risi. Ci sono commenti fantastici, mentre si leggono articoli sulla stampa disinformati, che contengono inesattezze storiche, come se gli autori si fossero documentati su Wikipedia. Cos’ha imparato lavorando con Melville all’inizio della sua carriera? Come non comportarsi sul set. Perché amava umiliare la gente. Ma ho anche appreso il suo senso di economia narrativa, il suo modo di fare una scenografia con nulla. Viveva il film anche di notte, non dormiva per rivederne il montaggio, lo ritoccava, pensava al film 24 ore su 24. Il montatore impazziva, perché faceva orari assurdi come i personaggi di Quai d’Orsay. Quali sono i suoi progetti per il futuro? Vorrei fare un documentario sul cinema francese dagli anni 30 agli anni 60 Tv

L’OROLOGIAIO DI SAINT-PAUL [L'horloger de Saint-Paul, Francia 1974] Dopo aver frequentato il liceo con Volker Schlöndorff, esser divenuto critico, aver fondato un cineclub, aver lavorato come addetto stampa e aver partecipato come regista in due film a episodi, Tavernier - a 33 anni - esordisce nel lungo. E adatta L’orologiaio di Everton di Simenon alla sua Lione, in un film che sa parlare un linguaggio rigoroso e popolare: spettacolo d’impegno, ritratto esistenziale, critica attuale.

CHE LA FESTA COMINCI... [Que la fête commence..., Francia 1975] Come nell’esordio e nel successivo Il giudice e l’assassino, Tavernier collabora in questo film storico su Philippe d’Orleans, forum morale d’impianto realista, con Jean Aurenche (e nel secondo caso Pierre Bost), tra i responsabili del cinéma de papa odiato da Truffaut & compagnia e personaggio raccontato anni dopo in Laissez passer. Il che ci dice dell’attitudine politica del regista, al di fuori da ogni consorteria.

‘ROUND MIDNIGHT A MEZZANOTTE CIRCA [Autour de minuit, Francia/Usa 1986] Dopo aver documentato, con Robert Parrish, il Mississippi Blues, gira un film su altre (e disperate) note blu, che mentre segue squarci di biografie, racconta lo sbarco del jazz in Europa. Il critico Francis Marmande l’ha definito così: «Non è un film sul jazz. È un film d’amore sull’amore del jazz». Il titolo è quello di un pattern composto da Thelonius Monk.

LA VITA E NIENTE ALTRO [La vie et rien d’autre, Francia 1989] Uno dei due film di Tavernier dedicati alla Grande guerra, insieme al capolavoro Capitan Conan (ne abbiamo parlato sul n° 24/2014), racconta del senno di poi, della morte negli occhi dei sopravvissuti, del suo peso simbolico: ma questo film ferito, necrofilo, parafrasa un verso di Eluard (L’amour et rien d’autre) ed eleva un canto - misurato, malinconico e ferito - alla vita.


LA MORTE IN DIRETTA [La mort en direct, Fra/Rft 1980] Dopo aver fondato una casa di produzione, la Little Bear, Tavernier adatta un romanzo di David Compton e gira un apologo sci-fi sdegnato e umanista (premonitore, sempre attuale) contro la società del consumo voyeuristico: è la storia di una donna malata terminale manipolata da una rete televisiva che vuole smerciare le immagini dei suoi ultimi giorni. Anni dopo il regista si schierò contro la creazione del quinto berlusconeggiante canale tv francese.

COLPO DI SPUGNA [Coup de torchon, Francia 1981] Estratto dalle pagine di Pop. 1280, direttamente dal nichilismo morale di Jim Thompson, e riadattato da Tavernier e (ancora) Aurenche agli anni 30 e al caldo febbrile dell’Africa occidentale francese, un polar alienato e sarcastico, lo sconcertante racconto di uno sceriffo umiliato che scopre l’efficacia della legge dell’assassinio. Diretto con un’abbagliante semplicità, che esclude ogni possibile giudizio, un tour de force etico per lo spettatore.

UNA DOMENICA IN CAMPAGNA [Une dimanche à la campagne, Francia 1984] Tratto da un romanzo breve dell’amato Pierre Bost (M. Ladmiral va bientôt mourir ), e adattato con la moglie Colo, una delicata miniatura incentrata su un vecchio pittore impressionista e la sua famiglia. Non c’è solo, nei gesti silenti, nei tratti sospesi, la descrizione del vivere borghese di inizio Novecento: Tavernier sa cogliere gli slanci trattenuti, gli orizzonti non detti, quel che ancora non c’è, su una tela bianca.

DADDY NOSTALGIE [Daddy nostalgie, Francia 1990] Come Una domenica in campagna, un dolce film d’addio alla figura paterna, come questo scritto dalla moglie ora ex - Colo O’Hagan, mentre il padre di Tavernier moriva sul serio. Un film non sulla memoria della Storia, ma ancora e sempre sulla vita e nient’altro, miniando dettagli e atmosfere, cesellando tensioni emotive, e piccole gioie.

LEGGE 627 [L.627, Francia 1992] Sceneggiato con Michel Alexandre, giovane poliziotto, un’immersione nella quotidianità della narcotici, in quell’ottica di polar d’impianto cronachistico che lega Pialat (Police) a Maïwenn (Polisse), e qui si traduce in un cinema guerrilla, fuor di ideologia, e per questo duramente criticato. Attori non professionisti, mdp sempre al centro del ciclone. La legge 627 equipara spacciatori e consumatori.

L’ESCA [L’appât, Francia 1995] Da un fatto di cronaca: due giovani borghesi in cerca di capitale per il proprio piccolo sogno americano rapinano benestanti, usando la beltà di una giovane donna come esca. Lontano da qualsiasi giudizio, un film lucido - sino a farsi tagliente - sulla genesi del male, sulla sua sconcertante banalità: un’opera che sa riflettere, anche nel limpido linguaggio classico, sul sadismo spettatoriale. Orso d’oro, criticatissimo, a Berlino.

Qui sopra, altri momenti di Quai d’Orsay con Thierry Lhermitte

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