TOURING EDITORE - Play Book WORLD PRINCESSES

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La Principessa Makirù e il Principe del cielo ISPIRATA A una antica fiaba africana

In un villaggio africano viveva la splendida

principessa Makirù che sognava di incontrare il vero amore.

Un giorno, vide una nuvola assumere la

forma di un maestoso castello accanto al quale si trovava un giovane bello dall’aspetto fiero.

Affascinata la principessa

chiese notizie al vento che le sussurrò: «È il principe

Rirundu, figlio del Sole e della Luna, e quel meraviglioso

palazzo è la sua casa. Ogni giorno è lui che sceglie i colori del cielo».

Makirù disse al padre, potente capo tribù: «Sono innamorata di quel giovane principe e desidero conoscerlo!». Il padre cercò di farle cambiare idea perché l’impresa era impossibile e pericolosa: mai nessuno era riuscito a raggiungere il cielo. Makirù però non voleva rinunciare

al suo sogno e sospirando andò nella savana per chiedere aiuto all’antilope: «Ti prego, portami sulla schiena fino al palazzo del Sole!», ma lei rispose: «Corro veloce, ma non abbastanza da raggiungere il cielo». Allora chiese aiuto alla giraffa che le disse: «Il mio collo è alto, ma non abbastanza da raggiungere il cielo!».

Andò infine dall’avvoltoio, ma quello rispose: «Posso volare in alto, ma non abbastanza da raggiungere il cielo!».

Quando oramai stava perdendo le speranze, si presentò Ra-

nocchio dicendo: «Io posso aiutarti! Vivo nell’acqua del pozzo e vedo ogni notte le ancelle del Sole che, per innaffiare le nuvole, scendono silenziose dal cielo ad attingere acqua con

una grossa giara. Fai ciò che ti dico e arriverai al palazzo del principe!». Le porse una boccetta: «Stasera nasconditi dietro al pozzo e, quando vedrai le ancelle, bevi questa pozione magica e subito salta all’interno della loro giara. Senza saperlo, ti porteranno in cielo».

Per quanto incredula, Makirù all’arrivo delle ancelle bev-

ve il liquido in un sorso e sentì il suo corpo rimpicciolire, le

sue braccia diventare lunghe zampe. Si stava trasformando in

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una piccola rana verde! Con un balzo la ranocchia saltò nella giara calata nel pozzo.

Arrivata in cielo, uscì dalla giara a piccoli balzi timorosi.

Entrò nelle maestose stanze del palazzo del Sole, cercò

il bel principe Rirundu e gli andò incontro felice pronun-

ciando il suo nome, ma dalla bocca non le uscì che un gra-

cidio: «Crooacck!» A quel suono Riru-ndu rimase sbalordi-

to: «Com’è possibile che questa piccola rana sia arrivata fino

al cielo?». Makirù disperata cercò di parlare, ma le uscirono

solo una serie di gracidii: «Croack Crockk Crocckk Croack!».

La bella principessa si sentì morire, pianse disperata! Dai suoi grandi

occhi da rana uscirono così tante lacrime che, bagnandola completamen-

te, sciolsero l’incantesimo e Makirù riprese le sembianze umane. Potete immagi-

nare lo stupore del principe nel vedere la bellissima fanciulla!

Anche la sua dolce voce era tornata, così Makirù spiegò al principe l’incantesimo.

Rirundu, colpito dal coraggio della fanciulla, si innamorò di lei. Chiamò subito i genitori e disse: «Questa fanciulla è la principessa Makirù e sarà la mia sposa!».

Il Sole e la Luna sbalorditi furono turbati dalla scelta di una ragazza proveniente dalla terra, ma l’aspetto nobile e la dolcezza di Makirù li conquistarono. Furono così celebrate le fastose nozze del principe del cielo con una fanciulla della Terra.

Arrivarono regali da ogni parte dell’Africa, ma il regalo più bello fu il magnifico arcobaleno che lo sposo innamorato aveva creato per Makirù, per unire tra loro Terra e cielo.

E Ranocchio? Adesso vive in un pozzo tutto d’oro. Ogni tanto si nasconde nella giara delle ancelle per farsi portare fino al cielo.

Se cercate tra le nuvole bianche ne troverete certamente una a forma di ranocchio!


La Principessa Volante ISPIRATA A una antica FIABA indiana

Tanti anni fa in India viveva la bellissima principessa Giawhira. Malgrado fosse la figlia prediletta di un potente sultano che esaudiva ogni suo desiderio, la fanciulla era infelice

perché non aveva il permesso di uscire dalla reggia. L’unica sua consolazione era la com-

pagnia di una furba scimmietta di nome Alia, che era in grado di parlare con lei. Un giorno un ricco mercante si presentò a corte offrendo stoffe e oggetti meravigliosi. Nessuno si accorse che in realtà era Agub il malvagio mago che voleva rapire la bella principessa.

Agub incantò tutta la corte mostrando un sorprendente cavallo meccanico dalle grandi

ali che, pronunciata qualche parola magica, si alzò in volo! Tutti i presenti rimasero a bocca aperta per la meraviglia, ma nessuno aveva il coraggio di cavalcarlo. La principessa

Giawhira pensò che quel destriero fosse una splendida occasione per volare via e vedere il mondo fuori dal palazzo reale. Appena la principessa montò in groppa, il cavallo volò

via come un fulmine scomparendo oltre l’azzurro. La corte trattenne il fiato: fu allora che il mago Agub si rivelò togliendosi il mantello da falso mercante. Alle guardie che stavano per arrestarlo disse: «Se volete rivedere viva la principessa dovrete consegnarmi sette giare piene d’oro. Vi lascio tre giorni di tempo». Detto ciò, Agub sparì.

Intanto Giawhira, ignara di tutto, volava felice sopra il cielo di paesi sconosciuti. Si accorse

troppo tardi che il cavallo alato non ubbidiva ai suoi comandi, ma era diretto verso Can-

bril, la misteriosa terra del perfido mago. A sera finalmente il cavallo alato scese al suolo, ma guardie armate rinchiusero Giawhira, con la sua scimmietta Alia, in una buia cella in cima a un’altissima torre. Giawhira pianse finché si addormentò.

Al suo risveglio, si accorse che l’inseparabile Alia era riuscita a fuggire da una feritoia. La luna era già alta quando vide rientrare dalla stessa piccola apertura la scimmietta, che poteva arrampicarsi agilmente lungo il muro della torre. Dopo un tenero abbraccio Alia le disse: «C’è un modo per salvarti. Appena me ne sarò andata, mastica queste tre foglie che ti faranno salire la febbre. Agub ti vuole sana, così, per curarti,

ti farà uscire da qui. Allora io tornerò. Abbi fiducia in me!».

Giawhira fece come le aveva raccomanda-

to la sua scimmietta e, come previsto, Agub

la fece trasportare in una stanza calda con

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una grande finestra. I medici di corte, dopo averla curata, si allontanarono credendola addormenta-

ta. Giawhira attese Alia. Quando sentì chiamare il

suo nome, si affacciò alla finestra e, con grande

meraviglia, vide la scimmietta sul cavallo volante

planare verso di lei: «Presto, salta sulla sella pri-

ma che le guardie ci scoprano!».

In volo, Alia raccontò alla principessa stupita:

«Dopo essere fuggita dalla cella, mi sono rifugiata

nei sotterranei del castello dov’era ricoverato il caval-

lo di ferro assieme a tutti i tesori del mago Agub. Tra i tanti

oggetti, ho trovato un magico specchio dorato al quale ho chiesto le parole segrete per manovrare l’automa. Così, ho caricato sul cavallo due grossi sacchi di monete d’oro e sono corsa a salvarti!».

La principessa e la scimmietta volarono velocissime verso il castello del sultano Haràn al-Hadàd prima che arrivasse il perfido mago a ritirare il riscatto.

Alla vista dell’amata figlia, il sultano quasi svenne dalla gioia e, con la principessa al sicuro nel castello, ebbe tempo di organizzare la cattura del mago. Quando Agub comparve

pregustando l’oro del riscatto, trovò le guardie che lo afferrarono prima che svanisse.

Agub fu imbarcato su una nave diretta verso l’altra parte del mondo e nessuno lo vide mai più. Il sultano organizzò una sontuosa festa per lo scampato pericolo e, mentre la princi-

pessa raccontava le sue peripezie, Alia si avvicinò al cavallo alato e aprì le grosse borse dalle quali uscì una cascata di monete d’oro!

Il sultano promise alla figlia che avrebbe esaudito ogni suo desiderio! Giawhira si rese conto di avere già ogni cosa, chiese solo di tenere con sé il cavallo meccanico per volare ogni tanto oltre la reggia assieme alla sua preziosa e fedele Alia. E così fu! Da allora i sudditi si abituarono a vedere nel cielo la sagoma scintillante del cavallo meccanico e chiamarono

Giawhira

«la

Principessa volante».

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La Principessa Miria e i Fratelli Lupo ISPIRATA A una antica FIABA europea

Molti anni fa, in un castello della Croazia, dopo nove principini finalmente nacque Miria, una bella bambina. La felicità dei sovrani era grande, ma purtroppo in quel periodo una

terribile carestia si abbatté sul regno. Tutti soffrivano la fame e i nove principini spesso litigavano per il cibo. Nel bel mezzo di una di queste liti per una pagnotta, passò di là una

vecchia strega che, vedendo i principini accapigliarsi, lanciò loro un malvagio incantesimo: «Sembrate proprio un branco di lupi affamati, ebbene ora lo diventerete!». Non fece in

tempo a terminare la frase, che i bambini si trasformarono in nove lupi bianchi e fuggirono nella foresta.Il re e la regina, per paura di altri malefici, ordinarono che nessuno parlasse mai più di questo fatto.

Trascorsero alcuni anni, Miria era diventata una dolce principessa ignara dell’esistenza

dei suoi nove fratelli, finché un giorno venne a conoscenza della maledizione della strega.

La giovane, sconvolta, chiese ai genitori di conoscere la verità su ciò che era accaduto e il giorno stesso partì alla ricerca dei fratelli, decisa a restituire loro la forma umana.

Si addentrò nella foresta, cercando in ogni casolare. Era sera quando, esausta, entrò in una casetta al centro di una radura.

Quando sentì dei passi avvicinarsi e vide entrare nove lupi bianchi si nascose pruden-

temente. Quale meraviglia quando questi tolsero le pellicce e si trasformarono in nove splendidi giovani! Parlavano tra loro: «Ah, che vita terribile la nostra, imprigionati ogni giorno dentro queste pelli di lupo! Potessimo almeno rivedere i nostri genitori!». Miria capì

di aver trovato i suoi fratelli! Uscì dal suo nascondiglio e si rivelò. I ragazzi la abbracciarono colmi di gioia. Lei raccontò che era decisa a rompere il malvagio incantesimo ma i fratelli dissero tristemente:

«Chiunque vor-

rà aiutarci a tornare ragazzi dovrà restare per ben sette anni senza parlare. Anche una sola parola pronunciata ci farebbe morire all’istante!».

La ragazza non ebbe dubbi: «Sono certa che riuscirò a liberarvi! Resterò muta per sette anni!». E, per non cadere in tentazione, lasciò la loro casa e si ritirò a vivere da sola in una capanna.


Trascorsero alcuni anni e un bel giorno passò da quelle parti un giovane re che, colpito

dalla bellezza di Miria, senza pensarci un istante, la chiese in sposa. La ragazza, felice dell’incontro, stanca di tanta solitudine, annuì con il capo senza dire una parola e salì sul suo cavallo fino al castello dove regnava la madre del giovane sovrano.

La regina madre era una donna gelosa e malvagia e subito prese in antipatia Miria. Diceva al figlio: «Non sposare quella sconosciuta, forse è una strega capace di tremendi malefici!».

Ma il re era molto innamorato di Miria e le nozze vennero celebrate comunque! Qual-

che tempo dopo, purtroppo, scoppiò una guerra. Il re dovette partire lasciando Miria in attesa di un bambino, che nacque prima del suo ritorno. La madre

del re, approfittando dell’assenza del figlio, sostituì il bambino appena nato con un cagnolino e ordinò a un servitore di abbandonare il neonato nella foresta.

La ragazza disperata avrebbe voluto urlare, ma rimase in silenzio pensando alla sorte dei fratelli: erano orai passati quasi sette anni, ancora pochi giorni e sarebbero tornati uomini.

Intanto la perfida regina mostrava a tutti il cagnolino gridando: «Mi-

ria è una strega! Guardate, ha dato alla luce un cane!».

I sudditi si spaventarono e, temendo disgrazie, chiesero che la

giovane fosse mandata al rogo.

Mentre il banditore leggeva la sentenza si sentirono squillare

le trombe: il giovane re era tornato al castello.

Lo sposo rimase incredulo alla vista della sua amata in lacrime

sulla pira, il boia pronto ad accendere il fuoco e la folla che gri-

dava: «Strega! Strega!».

Fu allora che nove lupi bianchi uscirono dal bosco correndo verso Miria. Tutti

trattennero il fiato quando li videro trasformarsi in nove giovani e abbracciare la ragazza. La maledizione era finita, erano trascorsi i sette anni di silenzio.

Tra la commozione generale, i fratelli portarono a Miria il figlio che avevano salvato e protetto. Miria allora parlò, svelando di essere una principessa, raccontò la maledizione della strega, le sue tribolazioni, i silenzi, la malvagità della regina madre. Il giovane re, colmo di sdegno, ordinò che la madre fosse privata di ogni avere e cacciata per sempre. Gli sposi felici diedero una grande festa alla quale furono invitati i nove fratelli, i loro genitori e tutto il popolo. Una grande gioia unì i due regni che vissero per sempre in pace.


La Principessa dal Grande Cappello ISPIRATA A una antica FIABA giapponese

Molti secoli fa, su una piccola isola del Giappone, un esercito nemico invase il tranquillo Regno del Nord governato dal re Suzaku e dalla regina Suiko. I sovrani avevano un’unica figlia adorata: la timida principessa Hanaco.

Le sorti della guerra sembravano segnate, così la regina chiamò Hanaco e le disse: «Figlia

carissima, noi rimaniamo per difendere il nostro popolo, ma tu devi fuggire e metterti in

salvo! Un fidato barcaiolo ti accompagnerà in un luogo sicuro». Hanaco pianse, ma la regina fu irremovibile: «Finita la guerra, se tutto andrà per il meglio, tornerai come regina.

Non temere e ricorda: quando ti sentirai in grave pericolo chiama forte il mio nome e io ti

aiuterò!». Suiko fece indossare alla figlia l’umile abito di contadina e le mise in testa un enorme cappello a forma di cono. La piccola Hanaco quasi scompariva sotto quello smisurato cappello, ma ogni sforzo per levarselo fu inutile. Nell’oscurità della sera il barcaiolo e la principessa, nascosti dalle canne, salirono sulla barca che scivolò silenziosa lungo la

riva del fiume. Hanaco era assorta nei suoi tristi pensieri quando il guizzo di un pesce la fece sussultare, cadde nel fiume e fu trascinata via dalla corrente.

La fanciulla era rimasta con la testa incastrata nel copricapo che galleggiava sull’acqua come una foglia. La povera Hanaco era con i piedi in aria in una scomoda e buffa posizione ma… era salva!

Navigando in quel modo, la principessa uscì dai confini del regno fino a quando lo strano copricapo s’impigliò nella lenza di un pescatore che lo tirò a riva. Hanaco, rimessi i piedi a terra, riprese il suo viaggio senza meta. Cammina cammina, la sua attenzione fu richiamata da un chiassoso corteo. Si avvicinò e si confuse tra la folla che festeggiava il Re di Giada. Mentre ringraziava la gente, il re fu attratto dall’aspetto bizzarro di Hanaco. Divertito dal suo grande cappello, le disse: «Povera, buffa ragazza, se lo vorrai, potrai vivere a palazzo reale sotto la mia protezione!».

Così Hanaco ebbe cibo e un letto caldo ma era costretta a svolgere lavori umili ai quali non era abituata.

Era triste perché non sapeva nulla delle sorti della sua famiglia

e del suo regno; in più, gli altri servi la prendevano in giro per i

suoi modi troppo raffinati. La sua unica consolazione era la simpatia che le mostrava Junnin, il figlio più giovane del re.

La loro confidenza fece ingelosire le ancelle del giovane al punto che queste corsero a riferire tutto al sovrano.

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Il Re di Giada era un buon uomo, ma considerava quell’a-

micizia sconveniente. «Caro Junnin non voglio che tu

frequenti quella buffa servetta, domani stesso sarà cac-

ciata!».

Junnin rispose tranquillo: «Voglio molto bene a Hanaco

e la sposerò». Il re urlò in preda alla collera. Accorse la

regina che pensando di giocare d’astuzia disse: «Figlio mio,

è ormai tempo che tu prenda moglie. Daremo una grande festa

alla quale saranno invitate tutte le ragazze del regno compresa

Hanaco, tra loro potrai scegliere la tua sposa».

Uscito il figlio, la regina si rivolse al re: «Stai tranquillo, nostro figlio è un ragazzo ragionevole e vedrà la differenza tra tutte le ragazze eleganti e quella stracciona dal grande cappello!».

Junnin, sicuro di quale sarebbe stata la sua scelta, corse a comunicare la bella notizia a Hanaco. La notizia dell’invito invece mise la disperazione nell’animo di Hanaco. Amava

Junnin e non voleva perderlo, ma come poteva competere con le belle fanciulle presenti alla festa?! Piangendo, si disse: «Verrò umiliata di fronte a tutti e mi cacceranno da corte!».

Per la prima volta si sentiva veramente persa e fu allora che decise di chiedere aiuto alla mamma e la chiamò a voce alta. A quel grido disperato il cappello le cadde dal capo. Girando vorticosamente su se stesso fece alzare un vento impetuoso che sollevò Hanaco. La

principessa volteggiò in aria e quando il vento cessò il cappello era magicamente scomparso, ma i suoi vestiti logori si erano trasformati in un bellissimo kimono e lunghi capelli neri erano acconciati secondo la tradizione giapponese.

Così, al tramonto, Hanaco felice fece il suo ingresso nella grande sala dove si svolgeva la festa. Tutti rimasero a bocca aperta nel vedere quella fanciulla così bella e regale, molti stentarono a riconoscere in lei la buffa serva dall’enorme cappello.

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Il principe Junnin, al colmo della gioia, trascorse con lei l’intera serata. Tra gli ospiti c’era anche l’ambasciatore del Regno del Nord, che riconobbe in Hanaco la principessa

scomparsa. Hanaco venne così a sapere che il suo regno era tornato fiorente come un

tempo e che i suoi genitori non avevano mai smesso di attendere il suo ritorno. Dopo le fastose nozze, Junnin accompagnò la sposa al Regno del Nord dove Suzaku e Suiko felici

organizzarono grandi festeggiamenti durante i quali Hanaco, la principessa dal grande cappello, fu proclamata regina.

La Principessa Delfino ISPIRATA A una antica FIABA POLINESIANA

C’era una volta, su una piccola isola della Polinesia una giovane principessa di nome Kamea. Era figlia del re guerriero Aolani, unica femmina tra dodici fratelli. Kamea aveva due grandi amori: il mare e la nonna Samia. Kamea era la più abile e spericolata nuotatrice tra tutti i ragazzi della sua età. Tuffandosi e immergendosi per ore, era diventata amica dei pesci e degli uccelli marini. La piccola principessa era golosissima! Per questo e per la sua vivacità era spesso sgridata dai genitori, allora Kamea si rifugiava dalla nonna che la consolava. Mentre preparava gustose merende le raccontava le mille leggende dell’isola, le storie magiche della scogliera nera e del mare sottostante considerato luogo sacro e inviolabile. Quella vita spensierata terminò quando scoppiò una guerra tra la sua isola e un’isola vicina. Nei mesi seguenti tutti gli uomini divennero guerrieri e più nessuno coltivava e raccoglieva la frutta. Fu così che il cibo cominciò a scarseggiare. Kamea e la nonna non erano d’accordo con quella guerra, ma nessuno le ascoltava. La giovane principessa, arrabbiata e triste, per consolarsi nuotava a lungo e mangiava più del solito, litigando per il cibo con i fratelli. Il padre allora le parlò con durezza: «Kamea, è una vergogna che tu non abbia a cuore le sorti della nostra isola! Per punirti, rimarrai chiusa nella capanna dei pescatori e riceverai ogni giorno solo mezza porzione di cibo!». Il villaggio rideva di lei, ma Kamea era disperata perché non avrebbe più nuotato fino alla fine di quella interminabile e inutile guerra! Prima di finire prigioniera, chiese di salutare la nonna. Il re e i fratelli la accompagnarono. La videro abbracciare teneramente la nonna e insieme con lei incamminarsi verso la scogliera nera.


Pregavano gli spiriti del mare di far terminare la guerra, di poter lasciare quel popolo ostinato e accoglierle per sempre tra le onde. Così Kamea e nonna Samia insieme, con un improvviso salto, si tuffarono dalla magica scogliera nera nel mare: fu impossibile fermarle. Il gesto aveva sorpreso tutti i presenti che, affacciandosi sopra le rocce, videro solo la spuma delle onde. Nessuno si accorse però che nonna e nipote, ancora prima di toccare il mare, si erano magicamente trasformate: Kamea in un delfino guizzante e Samia in una grande tartaruga verde. Credendole morte furono fatte delle solenni cerimonie funebri. Il re, tra l’angoscia e il rimorso, piangeva e con lui tutti gli abitanti dell’isola. Intanto la principessa_delfino e la nonna_tartaruga si immergevano nelle profondità del mare, per niente spaventate da quella loro trasformazione, felici di stare per sempre tra le onde lontane dalla guerra. Il dolore del lutto non aveva fermato i guerrieri e il conflitto tra i due villaggi si faceva sempre più acceso. In un giorno di burrasca, era in corso una battaglia tra le imbarcazioni quando la canoa del re fu colpita e si rovesciò. Allora Kamea_delfino, vedendo il padre in pericolo, accorse, lo sollevò e lo appoggiò sul dorso di Samia_tartaruga che lentamente raggiunse la spiaggia. Tutto il villaggio sorpreso vide il re uscire dalle onde sano e salvo sul dorso di una tartaruga! Toccata la riva, il delfino e la tartaruga si trasformarono nella piccola Kamea e nella nonna. Grande fu la gioia del re Aolani: «Figlia mia, devo la vita alla tua passione per il mare e al coraggio di nonna Samia. Sia sospesa la guerra e si torni alla pesca e alla terra!», e subito trattò una pace duratura con gli abitanti dell’isola vicina. Con la pace, il villaggio tornò alla sua vita semplice e piena della gioia di un tempo. La principessa Kamea imparò a mangiare solo il necessario e dopo tanti anni divenne una regina molto amata. Non rinunciò mai a lunghe nuotate e di tanto in tanto il suo corpo si trasformava in un sinuoso delfino! La nonna invece lasciò per sempre il suo aspetto di tartaruga per insegnare il dolce canto che aveva imparato dalle creature marine nelle profondità dell’oceano. Ancora oggi la brezza marina porta sulle spiagge le note di quel misterioso canto e, a quella melodia, un delfino sale in superficie per esibirsi in una gioiosa danza!


La Principessa e l’Istrice ISPIRATA A una antica FIABA PELLEROSSA

Molti anni fa nel più grande villaggio della pianura americana viveva Orso Furente, un valoroso capo tribù dal terribile caratteraccio. L’unica persona che osasse sfidare le sue ire era la più giovane delle figlie, la bella principessa Ayana. Ignorando gli ordini paterni, spesso si allontanava dal villaggio a cavallo per esplorare le vaste praterie o per inseguire qualche animale selvaggio. Durante una di quelle cavalcate, Ayana vide tra l’erba un meraviglioso istrice passarle accanto. «Istrice! Istrice!» lo chiamò: «Mi daresti una delle tue spine per cucire i miei mocassini?». L’istrice rispose: «Prova a prendermi e ti darò tutte le spine che vorrai». Ayana fece per avvicinarsi ma l’istrice, rapido come un lampo, si arrampicò tra i rami di un pioppo. La ragazza non si perse d’animo e lo seguì. Più lei saliva più l’istrice si spostava qualche ramo più in alto. Intenta in quella gara con lo spinoso animale, Ayana non si accorse che quel pioppo era magico e che si allungava sempre più fino a toccare le nuvole. Fu allora che l’istrice ridendo sparì in un’apertura del cielo. Ayana avrebbe dovuto scendere piano piano dall’albero, ma non seppe resistere alla curiosità e seguì l’istrice oltre l’apertura. Ma questa si chiuse dietro di lei, l’albero sparì e la ragazza si trovò di colpo in mezzo a un villaggio del tutto simile al suo, ma sopra le nuvole! L’istrice si era fermato e rideva, Ayana fece per acchiapparlo, ma lui si trasformò in un vecchio dall’aspetto orribile che la afferrò e le disse: «Nobile principessa io sono il capo tribù di questo villaggio e ormai sei mia schiava, ogni giorno dovrai raschiare pelli di bisonte per farne indumenti e mocassini». La povera principessa era ormai prigioniera in cielo. Piangeva spesso per la fatica e per la malinconia. L’unica amica era un’Aquila dalla testa bianca che roteava sopra il villaggio e le lanciava richiami affettuosi senza mai posarsi. Ad Ayana bastavano quei suoni perché le tornasse la speranza. Un mattino l’uomo_istrice le affidò un compito diverso dal solito: raccogliere rape selvatiche. Ayana cercò tutto il giorno, ma la sua cesta era sempre vuota, quando finalmente vide spuntare dal terreno una rapa enorme. Scavò con tutte le forze finché riuscì a toglierla e si accorse con grande sorpresa che dal buco lasciato dalla rapa poteva vedere la Terra lontana! Ayana si sentì riempire di gioia!

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Aguzzando lo sguardo riuscì a riconoscere il suo villaggio, le capanne e gli abitanti non più grandi di formiche! Le venne un’idea formidabile: richiuse il buco, tornò al suo tepee e ogni giorno tolse una piccola striscia da ogni pelle lavorata. Con tante strisce fece una lunghissima corda per calarsi fino alla Terra! Passarono tre settimane e, una mattina, non appena l’uomo _istrice partì per la caccia, Ayana corse con la sua corda là dove aveva trovato la rapa gigante. Allargò il buco, fissò un bastone di traverso all’apertura e vi legò un’estremità della corda. Velocemente assicurò l’altro capo attorno alla vita e piano piano si calò nel vuoto ma, arrivata a metà discesa, la corda finì! La povera Ayana si ritrovò appesa per aria ancora troppo lontano dalla Terra per saltare giù! Urlò con tutta la voce che aveva sperando che qualcuno la sentisse. Ahimè, l’unico che accorse fu l’uomo_istrice che, lanciandole sassi e frecce, urlava: «Torna subito su o taglierò la corda!». La povera Ayana era terrorizzata, quando vide l’Aquila dalla testa bianca volteggiare vicino a lei. Disperata la supplicò: «Vieni ad aiutarmi o l’uomo_istrice mi ucciderà. Sono una principessa, esaudirò ogni tuo desiderio!». Aquila impietosita si avvicinò nonostante il pericolo, la fece salire sul suo dorso e, mentre le frecce le sfioravano, le sussurrò il suo desiderio. Dopo un lungo volo planarono salve su un prato vicino al villaggio di Ayana. Fu strano per tutti vedere il terribile Orso Furente correre incontro alla principessa piangendo dalla gioia: «Figlia! Ti abbiamo

cercato dappertutto! Pensavamo che tu fossi morta!». Ayana raccontò la sua avventura, spiegò come la coraggiosa Aquila dalla testa bianca avesse rischiato la vita per salvarla e della promessa fatta. Di fronte a tutti i suoi guerrieri, Orso Furente chiamò Aquila e disse solennemente: «Ordino che da oggi nessun guerriero o cacciatore scagli mai più le proprie frecce contro Aquila e, ogni volta che andremo a caccia, in segno di ringraziamento lasceremo un bisonte sul prato perché possa cibarsene!». Da quel giorno ogni pellerossa sa che uccidere un’aquila porta sfortuna. L’Aquila dalla testa bianca, infatti, è ancora oggi il simbolo degli Stati Uniti d’America.

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