FIND OUT Team - MIKE MANN

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Capitolo Primo L’altra metà della Luna 1 Non ho scelto io di vedere quello che gli altri non riescono a vedere. Come te che stai leggendo questo mio diario, credevo a qualsiasi balla che gli adulti mi avevano raccontato sul nostro mondo. Per qualche mese ho pensato di essere uscito fuori di testa! Invece il mio cervello era reattivo come un computer di ultima generazione. Ho sperato di trovarmi in un sogno per potermi svegliare e ricominciare la vita che avevo prima del viaggio in Nevada. Ora so come stanno le cose: tutti noi osserviamo solo una parte della realtà. Un po’ come succede con la Luna, ne vediamo sempre una metà e l’altra possiamo solo immaginarla. Chi vede anche le parti non visibili delle cose, non è un pazzo, ma è solo una persona che conosce più degli altri. Di cosa sto parlando? Sono poco chiaro? Cominciamo dall’inizio: dal viaggio con mio padre. 2 Mi chiamo Mike Mann e ho quindici anni. Il mio nome non è speciale, non è di quelli che si dà ad un eroe invincibile. In uno dei romanzi per ragazzi che ho letto, il protagonista si chiamava Magnus (che credo voglia dire “grande”) ed era un sedicenne che muore e rinasce immortale. Wow! Ma io non potrei mai essere come lui! Magnus era il figlio di un dio e doveva salvare il mondo. Io, invece, ho come genitori una manager che lavora in un’azienda di pneumatici e un direttore di un quotidiano locale. Piuttosto che salvare il nostro pianeta, mi devo augurare di superare indenne il compito di chimica e di non scontrarmi con uno dei bulli della scuola. Hai capito perfettamente: non sono affatto “magnifico”. 3 Fino a due anni fa studiavo alla South Middle School a New York, poi mio papà ha cambiato lavoro (gli hanno affidato la direzione di un quotidiano locale nell’Ohio) e mi sono trasferito alla Starbuck High School. 3


Vivo a Columbus, la capitale dello Stato, e devo dire che trovo piacevole questo posto, se non altro perché il suo nome è in onore del navigatore Cristoforo Colombo. Amo scoprire e mi piace l’idea di vivere in una città che rende omaggio ad un esploratore. La scuola? Ti stai chiedendo se sono un secchione? Mettiamola così, non sono uno che si mette a correre alla lavagna per nominare ogni tizio greco o romano vissuto sulla terra, né sono uno che alza la mano per dire se Shakespeare era figlio unico. Non sono neanche uno sportivo. Il problema alla gamba sinistra, ne ho una leggermente più lunga dell’altra, non mi permette di correre. La crescita anomala degli arti mi obbliga a fermarmi e mi crea anche un enorme mal di testa, che mi rende complicato studiare e concentrarmi. Trascorro il mio tempo ad hackerare siti e a leggere ogni libro pubblicato sugli U.F.O. Queste due mie passioni mi hanno reso sempre un “diverso”...e se a scuola non si è come tutti, è facile beccarsi l’etichetta di “idiota”. Come mi chiamano i miei compagni di classe? “Alien!” è il “vezzeggiativo” più simpatico che mi hanno appiccicato addosso e quindi potete immaginare cosa pensino di me (quasi) tutti. Che sia per gli U.F.O. o per il mio handicap, per loro rimango E.T. Se credete che questo mio disagio mi abbia reso un nerd, vi sbagliate e di grosso. Non trascorro le mie giornate davanti alle serie tv o a giocare ad Assassin’s Creed. Più che superare i livelli di un game, mi piace entrare nei siti e curiosare. Se poi mi trovo di fronte a siti governativi che parlano di U.F.O., confesso che vorrei spingermi oltre e “dossarli”. Evito però di andare contro la legge o, peggio, di far arrabbiare i miei genitori. Diciamo che sono un Colombo “versione 2.0” e amo esplorare terre poco note. Dopo sei mesi di “Papà, quando facciamo una cosa figa?!!!”, ho convinto il mio “old boy” ad accompagnarmi nell’Area 51. Mia madre non poteva essere della squadra, per via del suo nuovo impiego come marketing manager nell’azienda di pneumatici. In quei giorni aveva un importante meeting a Cleveland, la più grande area metropolitana dell’Ohio, dove c’è l’ufficio dirigenziale. “Amore, vorrei poter essere della squadra! Lo sai che ci tengo e se potessi vivere ogni secondo con voi due lo farei, ma ho anche delle responsabilità sul lavoro”, mi disse Miss Peggy, alias mia madre che, quando vuole, sa sentirsi in colpa come pochi. “Relax, non sono arrabbiato con te e ti adoro lo stesso” le risposi, per tranquillizzarla. In verità, andava più che bene così, perché lei da mamma super apprensiva, probabilmente mi avrebbe messo un guinzaglio e al primo ronzio di mosca, avrebbe urlato all’attacco alieno. E’ la persona più dolce e amorevole dell’universo, ma riesce a trovare inquietante perfino i Griffin (beh, forse Stewie lo è!) “Portati un maglione e un giubbotto pesante!” aggiunse, e senza fermarsi continuò: 4


“Potresti ammalarti. Lo sai che devi riguardarti!”. Trattenni la mia risata di sgomento e tentai di raccontarle cosa avrei trovato nel mondo reale: “Mamma, ci saranno 40 gradi e le notizie meteorologiche dicono che in zona ci sarà più caldo che sabbia!”. La mia allusione al deserto la fece sorridere e desistere. “Andate e divertitevi”, disse di cuore. Ricambiai il sorriso e l’abbracciai, sapevo che se era diventata la “mamma super tesa” era solo per via dei miei problemi fisici. La mia passione per gli U.F.O. è cresciuta quando ho letto dei libri sull’Area 51, che prima era chiamata “Nevada Test Site - 51” e successivamente è stata ribattezzata con il nome attuale. L’area fa parte di una vasta zona militare operativa di 26 000 km² ed è situata vicino al villaggio di Rachel, nel sud dello Stato del Nevada. Dovete sapere che spesso i piloti militari chiamano lo spazio aereo vicino come “La scatola”. La base è super segreta, ma al centro di mille teorie ufologiche. Lo Stato del Nevada ha perfino rinominato la statale 375, nei pressi dell’Area 51, come “L’autostrada extraterrestre”. Ho letto su un sito che è una base militare a circa 100 miglia a nord-ovest di Las Vegas. Per il Governo degli Stati Uniti è una semplice area destinata ai test, ma per la maggior parte dell’opinione pubblica e dei media, la zona sembra nascondere molti segreti sugli alieni e sulla loro possibile presenza nella base stessa. Alcuni esperti ufologi credono che all’interno vi siano corpi alieni con le loro navicelle catturate. Lo spazio aereo viene chiamato dai militari “Dreamland”; è proprio lì che c’è l’Area 51. Quale progetto richiede così tanta segretezza e cosa nasconde? Con mio padre abbiamo affittato un’auto a Las Vegas, dove siamo arrivati in aereo da Columbus. Abbiamo evitato di attraversare il Kansas, il Colorado e l’Utah con la nostra utilitaria. Sarebbe stato un viaggio troppo lungo e faticoso da percorrere in macchina. Anche perché avevamo solo un weekend a disposizione. “Pensi che questo viaggio possa aiutarti a comprendere ancora di più gli U.F.O?”, mi chiese mio padre appena scesi dall’aereo, mentre il tizio dell’autonoleggio ci metteva in mano le chiavi di una vecchia Lotus. Non sapevo cosa rispondergli. A cosa sarebbe realmente servito quel viaggio? Non ci avevo mai pensato. Probabilmente la nostra gita non sarebbe servita a nulla, ma amavo vedere con i miei occhi l’Area 51 perché era il simbolo del mistero ufologico. “Forse mi farà capire qualcosa in più! “, risposi. “Vedere qualcosa senza uno schermo davanti magari ti farà capire meglio la realtà!”, 5


sottolineò mio padre, forse sperando di giustificare la spesa, il tempo e la fatica che comportava quella gita in Nevada. “Credi realmente negli alieni?” Erano mesi che non parlavamo davvero, certo a cena mi chiedeva come andava a scuola e ogni giorno si interessava al mio problema alla gamba, ma da tempo non parlavamo di qualcosa che non fosse la quotidianità. La cosa mi sorprese e pensai che, comunque andasse il viaggio, potevo essere felice perché me lo stavo vivendo con mio papà. “Mr. Mann, non lo so. Penso solo che sia più facile credere in qualche altra creatura che ad un universo disabitato”. Lui sorrise e forse si rese conto che in fondo era folle non prendere seriamente in considerazione la vita su altri pianeti. Andammo in direzione nord, dove c’è la novantatreesima, per dirigerci verso la Lincoln County, lasciandoci alla spalle la Las Vegas Motor Raceway – una figata di pista automobilistica che ospita le gare Nascar e speedway- e dopo una quarantina di minuti eravamo in mezzo al deserto e lontano dal traffico stradale. 20-25 miglia dopo ci siamo fermati ad Alamo. Mio padre doveva sgranchirsi le gambe. Ha quarantadue anni e tutto sommato ha un corpo tonico, ma le sue ernie al disco lo obbligano a frequenti pause quando guida. Fare due passi lo aiuta a non sentire troppo dolore alla schiena. Ha proprio tutti i problemi di chi fa un lavoro sedentario. Ci siamo fermati in una trattoria tenuta malissimo, dove però servivano un ottimo barbecue di carni e verdure e dei marshmallows cotti alla brace in un fuoco da accampamento di frontiera. C’era poco da vedere in un paese di 1000 abitanti, per lo più pieno di ranch, così abbiamo ripreso la US 93 e siamo passati in quello che giustamente viene definito “il centro di niente”, un paesaggio semi desertico, ma pieno di falde acquifere. “Se un alieno decidesse di passare da queste parti, sarei certo che non esiste vita intelligente su altri pianeti!”, disse mio padre. Era una delle sue freddure, tipiche del suo bagaglio culturale. E’ difficile sorridere subito alle sue trovate, ma dopo un po’ arrivano a segno. Aveva perfettamente espresso il suo punto di vista: Alamo non era un luogo entusiasmante! “Papà, sono convinto che gli alieni invece di fermarsi in questi posti andrebbero dritti a Las Vegas, lì chi si accorgerebbe di loro?”, aggiunsi. Lui sorrise, forse immaginandosi gli alieni con in mano le fish dei casinò che riempiono la città. Quando era quasi notte, dopo aver visto un piccolo agglomerato di roulottes, siamo 6


andati a dormire al Little A’le’Inn (“Il piccolo Alieno”), il locale che attrae fans della fantascienza, ufologi e curiosi da tutto il mondo. E’ un hotel dove alloggiano i turisti che amano vedere l’Area 51. I vacanzieri e i peluche con gli alieni mi facevano sentire a Disneyland. Forse l’Area 51 era tutta una grande presa in giro. Non cercavo dei souvenir per ricordo, ma qualcosa che potesse fare chiarezza sull’intera area. Ero proprio triste perché non volevo ridurre gli alieni a semplici gadget da far vedere agli amici. Desideravo che la gita andasse bene anche per mio padre, che aveva fatto dei sacrifici per portarmi in quel posto. E speravo che per, una volta, non mi sarei cacciato nei guai. Cavolo, se mi sbagliavo! Il fatto è che mi succedono sempre cose strane. Nella hall dell’albergo incrociai una ragazza di 14 anni circa che, per via dall’accento, pensavo venisse della California. Portava degli occhiali da sole, nonostante fosse calato il buio da un bel po’. I suoi genitori stavano portando nelle camere dell’hotel i bagagli, mentre lei si era appartata per telefonare. Mi colpì il suo abbigliamento. Indossava un giubbotto che sembrava la versione moderna di quello che McFly non toglieva mai nel film “Ritorno al Futuro”. “Sabry, noi andiamo in camera. Non allontanarti, se un alieno ti rapisce poi dovremmo chiamare la polizia intergalattica”, le disse suo padre con un’ironia abbastanza scontata. Senza farmi notare, mi avvicinai per sentire o vedere quello che stava facendo. Bisbigliava al telefono delle assurdità e non si capiva con chi: “Xioto, ho convinto i miei. Sono al Little A’le’Inn, ma del mistificatore nessuna traccia. Non ho tolto gli occhiali per vederlo...ma devo levarmeli prima che qualcuno si insospettisca”. Mio padre stava con le braccia incrociate davanti all’entrata e mi osservava, senza che io me ne rendessi conto. Faceva uno strano verso con la gola, come un ringhio. Anche senza quel mugugnare, sarei stato comunque nervoso. Lo guardai. “Non pensi sia il caso di farti i fatti tuoi o vuoi un ceffone da quella ragazza?”, disse il mio “moralizzatore”. “Non urlare altrimenti capisce che la sto spiando”, gli risposi stizzito. “Allora la stavi tenendo d’occhio davvero!”, aggiunse lui sbalordito. “Hmmm..sì...è strana!” “Capisco...tutti ci siamo passati alla tua età!” sogghignò, quasi a voler alludere al fatto che mi piacesse quella ragazza. “Non volevo dire quello!” Nel frattempo Sabry, come l’aveva chiamata suo padre, era andata via. 7


Era proprio strana! “Mistificatore”, “Xioto”, “levarmi gli occhiali”, aveva blaterato troppe cose che mi lasciavano perplesso. 3 L’indomani, io e papà Steve, ci siamo spostati verso l’Area 51. Il sole era cocente e ci sparava addosso i suoi raggi ultravioletti. Adesso sì che sarebbero tornati utili gli occhiali di Sabry. Il cartello di avvertimento presente al confine ci ricordava il divieto di fotografare e che “l’uso della forza letale è autorizzato”. Sulla collina era anche parcheggiato un veicolo governativo; da lì, gli agenti della sicurezza osservavano ogni avvicinamento alla base. L’ingresso principale verso l’intera base militare e, quindi, anche l’Area 51, era segnato da una strada sterrata che si staccava dalla statale 375, all’altezza di una grande cassetta per la posta di colore bianco con scritte nere (punto di riferimento per tutti i curiosi di avvistamenti U.F.O. ) . La base era ancora in attività e potrebbe essere l’alloggiamento di un piccolo numero di aerei russi, analizzati ed utilizzati per addestramenti top secret. E’ molto nota per l’attenzione che riceve da alcuni ufologi, i quali sostengono che il governo degli Stati Uniti ha o avrebbe avuto contatti con extraterrestri, mantenuti per diverse ragioni all’oscuro dell’opinione pubblica generale. In particolare, gli esperti pensano che dopo l’incidente di Roswell, che era capitato nel 1947, i resti di un U.F.O. e del suo equipaggio fossero stati trasportati all’interno della base. Sì, Roswell! Hai letto bene. Forse non lo sai, ma Roswell è uno dei primi alieni ritrovati. Che sia vero o falso nessuno lo sa! Sei curioso di sapere se mi è capitato qualcosa di strano? Ovvio che mi è capitato, altrimenti non starei qui a raccontarti questo viaggio. Mentre mio padre con il suo pad prendeva nota su tutto, neanche avesse deciso di dedicare una pagina del suo quotidiano alla nostra avventura, volevo guardare l’area da una prospettiva diversa e andai su una collinetta. Cercavo la posizione giusta, ma inciampai su un’agenda. Pensai che fosse per colpa della mia gamba più corta, ma non era così. L’agenda era conficcata per terra, fra due sassi e aveva creato un gradino. Ringrazio il cielo per non essermi spaccato la testa. Presi in mano l’agenda e lessi gli appunti: “Mercoledì lezione con Xioto, Apollo, Wells, Gray e Wolfgang”. Misi in tasca il taccuino e mi spinsi qualche metro avanti, con i piedi cominciai a smuovere la terra che aveva sotto e scovai gli occhiali neri di Sabry. 8


Mi guardai intorno per essere certo che nessuno si accorgesse di me e con un gesto felino li riposi in tasca. Non sapevo perché li avevo raccolti, ma volevo capire come erano finiti lì e chi aveva portato in quel posto la sua agenda. Era un puzzle complesso da ricostruire e mi mancavano tutti i pezzi principali. Mio padre mi fece cenno con la testa, come per invitarmi ad andare. In effetti c’era poco da vedere. “Come tutte le mete, la felicità non arriva al raggiungimento, ma sta nel percorrere il tragitto”, diceva sempre mio nonno. Annuii a papà e lo seguii. Volevo tornare a casa per tentare di decifrare l’enigma. 4 Il viaggio per l’aeroporto di Las Vegas era lungo e, prima che scendesse il sole, volevo fermarmi per indossare gli occhiali. Mio padre sì fermò in un piazzale della 93 esima per leggere le email di lavoro. Con la scusa di dover fare pipì, li provai. Pensate che avrei visto attraverso i muri o le montagne? Nulla di tutto questo! Quelle cose capitano solo nei film della Marvel. I miei erano semplici occhiali da sole e non mi sembravano neanche di buona qualità, visto che, appena guardai in cielo, la luce mi giunse più forte e piena di intensità, quasi da accecarmi. Nascosi nuovamente gli occhiali e salii in auto. “Cos’hai?”, chiesi a mio padre che stava fisso a guardare il finestrino. Sembrava smarrito nei suoi pensieri. Non rispose. “Hey, vecchietto, ci sei?”, continuai con toni amichevoli. Ma il caro Steve era immobile e non ne voleva sentire di parlarmi. “Papi, mi fai preoccupare!” urlai, sperando di destarlo. “Scusami, “Big Boy”, ho appena letto su internet una notizia scioccante!”, rispose mio padre. “Qualche tornado ha colpito la casa in Ohio?” chiesi, non sapendo cos’altro pensare. D’altronde, i temporali sono molto frequenti nelle nostre zone. “Ricordi quella ragazzina di ieri?” “Certo, Sabry, si chiamava Sabry, la ragazzina che indossava gli occhiali da sole di sera”, risposi. “Sì...è stata rapita! Il padre è disperato! Nessuno sa dove sia finita! Si sono perse le tracce. I genitori giurano che stava con loro, a pochi metri di distanza mentre guardavano l’Area 51”. Non avevo parole. Mi sembrava tutto talmente assurdo! 9


Non riuscii a dire nulla. Come era potuto succedere? Con chi aveva parlato Sabry la sera prima e chi poteva volere il rapimento di una ragazzina in vacanza con i suoi genitori in Nevada? Io e mio padre rimanemmo in silenzio sino a casa. Il volo per Columbus fu infinito e l’unica cosa che ci sembrò naturale fu un tenero abbraccio. 5 Avrei dovuto dormire e lasciarmi alle spalle tutto, ma non ci riuscivo. Non dissi a nessuno che avevo gli occhiali e l’agenda di Sabry. Volevo leggere attentamente i suoi appunti per decifrare qualcosa in più. Alla decima pagina trovai scritto la parola “hime”, che in giapponese vuole dire principessa e in quella successiva: “verspertilio homo”, di cui sconoscevo il significato. Continuai a leggere con voracità ogni suo appunto, quando trovai uno strano indirizzo web composto da 9 numeri. Era proprio inusuale che un dominio contenesse tutti quei numeri. Aprii il mio MacBook e mi collegai alla pagina web in questione, ero proprio curioso di scoprire perché lei aveva appuntato quel sito. Non trovai una home page, ma solo un pop up che mi chiedeva l’username e la password. Provai a scrivere il suo nome come nome utente e come password digitai “Xioto”, ma ovviamente il sistema non mi permise di accedere. Provai ad inserire le altre parole che avevo ascoltato da Sabry. Neanche “mistificatore” mi diede modo di accedere. Andavo a tentoni e così, quando mi ero dato per sconfitto, tornai con la mente a quella sera e pensai a cosa mi aveva colpito di lei. Scrissi: “Occhiali”. Pensate che sia stata un’idea folle? NO! Era l’idea più geniale che avessi avuto negli ultimi quindici anni, ovvero da quando ero nato. Insomma, era l’unica volta che il mio cervello non se n’era andato a sdraiarsi sotto un ombrellone. Finalmente ero riuscito ad accedere al sito e si era aperta una finestra di una strana chat. Pochi secondi dopo Xioto mi scrisse: “Sei riuscita a fuggire dal mistificatore?” Non sapevo di cosa stesse parlando, ma volevo capirci di più e andare sino in fondo. Decisi di stare al gioco e risposi come se fossi stato Sabry. “Ne parliamo appena ci incontreremo. Dove possiamo vederci?” chiesi, con la speranza di ricevere nuovi elementi che mi aiutassero ad unire i puntini del disegno. “Certo, domani ci vedremo a scuola, alle 16 avrò lezione con gli altri ragazzi dell’istituto 10


e ti aspetterò” mi rispose Xioto, via chat. Confermai a Xioto che l’avrei raggiunta a scuola. Dal suo profilo della chat pensai fosse una ragazza carina e l’avrei volentieri conosciuta al di là del mistero. Qualche secondo dopo tornai in me e pensai di smetterla di fantasticare su tutte coloro che mi accennavano un saluto. Dovevo incontrare Xioto per aiutare Sabry. Misi da parte il computer. Ora avevo bisogno di capire dove si trovava l’istituto di cui parlava Xioto e come lo avrei potuto raggiungere, senza sparire di casa, visto che i miei genitori non amavano che andassi lontano (e per lontano intendevano il quartiere vicino), se non accompagnato da loro o da qualche adulto. Poi riflettei sulla mia stupidità e risi come un pazzo. Se Sabry era della California, come avrei potuto spostarmi per vedere l’istituto di cui parlava Xioto? Era meglio lasciar perdere! L’agenda che avevo in mano, nella prima pagina, aveva scritto un indirizzo e la città. Curioso di sapere quale città? Fai bene! Sabry era nata e cresciuta a Los Angeles, in California, ma da qualche mese si era trasferita in Ohio e viveva a Columbus. Che coincidenza, pensai! Dopo quello che vi racconterò, capirete che le coincidenze spesso non sono casuali. Volevo far chiarezza sul mistificatore, Xioto e magari trovare qualche elemento in più sul rapimento. L’agenda della ragazza era piena di appunti e indirizzi, lei viveva a due isolati da me, ma dove stava l’istituto? E che tipo di scuola era? Le domande cominciavano ad essere tante. Pensai di entrare nuovamente sul sito delle chat di Xioto e feci una cosa che mi era stata sempre proibita: forzare la pagina web. Facilmente seguii la conversione di un’altra chat. Due ragazze parlavano fra loro di un certo Wolfgang. 6 Ester: “Hai visto Wolfang?” Anne: “E’ proprio bello!” Ester: “Volevi dire strano!” Anne: “Sì, entrambe le cose”. Ester: “Vive sempre chiuso nella sua camera e si affaccia solo quando l’orologio di fronte alla scuola - alle 13- emette il suo Bong!” 11


Anne: “Dicono che sia ricchissimo, perché ha prodotto una serie di brevetti “unici” ed è diventato uno degli uomini più ricchi della terra...” Ester: “Ama passare le sue giornate bevendo acqua, mangiando e guardando tonnellate d’immagini televisive in una specie di videowall composto da televisori che trasmettono in continuazione immagini, notizie, informazioni e video, ventiquattro ore al giorno”. Mi fermai. Non volevo leggere altro o stare ad impicciarmi di cose che non mi riguardavano. L’unico campanile con un orologio che suonava alle 13, assordando tutti, era di fronte alla palestra dove seguivo le fisioterapie per la gamba e non mi sembrava che ci fosse alcun istituto scolastico. Se avessi visto, avrei capito senza problemi.

7 Chiesi a mia madre di accompagnarmi per la fisioterapia alle 15. Durante la palestra riabilitativa sarei sgattaiolato fuori e avrei avuto modo di incrociare Xioto (che aspettava Sabry alle 16) e forse avrei visto l’istituto. “Oggi ho parecchio dolore alla gamba” enfatizzai, per convincerla a lasciarmi in terapia per un bel po’. “Certo, tesoro”, disse mia madre e continuò: “Sei sicuro di non volerti fare controllare dal tuo medico?”. “Via, mamma, i check sono mensili. Che senso ha ripeterli? Mi ha visto dieci giorni fa e ha detto che è naturale in questa fase di crescita avvertire più dolori del solito. Lo sappiamo che ho questo piccolo ‘problema’“, conclusi. Lei dapprima mi guardò intristita, probabilmente le pesava l’idea che io avessi una malattia alle gambe, e successivamente mi sorrise, come se volesse lasciarmi libero di fare quel che era meglio per me. Indossai il mio giubbotto e presi gli occhiali di Sabry. 8 Ero difronte all’orologio. Un gigantesco Luna Park riempiva la piazza. L’ enorme faccia di un uomo, grande come un palazzo, con gli occhi spalancati e un sorriso esagerato faceva da porta di ingresso. I suoi denti erano le luci che accoglievano all’entrata. Ai suoi lati c’erano due riproduzioni dell’Empire State Building, il grattacielo simbolo di Manhattan, illuminati come i casinò di Las Vegas. Lasciai i miei occhi ruotare a 360°, sperando di scorgere l’ingresso dell’istituto di cui 12


parlava Xioto. Per qualche istante, soffermai lo sguardo su un negozio che vendeva smartphone e computer, poi su uno di abbigliamento per bambini. Infine girai gli occhi a destra, incrociai la fermata dei bus e vidi nuovamente il campanile. Poi con lo sguardo tornai al Luna Park. Della scuola, nessuna traccia! Una ragazzina di 16 anni si avvicinò all’entrata del Luna Park. Forse era Xioto, era difficile riconoscerla a distanza. Speravo che lo fosse. Camminava a passo spedito. Per via del mio problema alla gamba, non riuscivo a starle dietro. Ero in un parco divertimenti da brivido e non per l’adrenalina che trasmettevano le sue attrazioni. Il Luna Park sembrava uscito dalla fantasia gotica di Tim Burton, hai presente il regista di “Edward Mani di Forbice”, “Il mistero di Sleepy Hollow” o “Alice in Wonderland”? Era un luogo abbandonato, inghiottito dalla vegetazione, corroso dal tempo ed emanava un’aura spettrale e inquietante. Che ci facesse un parco del genere nel centro della città era un vero mistero. Avevo paura. Dove stavo andando? Ero assalito da una strana euforia, ma allo stesso tempo una fitta mi prendeva il cuore e mi faceva sentire come un Pacman che tenta la fuga nel suo labirinto. Una finta luna, che forse si reggeva grazie a dei fili sapientemente nascosti, si ergeva sopra tutto. Se fuori dal Luna Park erano le 16 del pomeriggio e il sole risplendeva, all’interno sembrava già calata la penombra che anticipava la notte. Ai lati della strada centrale passava lentamente un trenino abbandonato. Non c’erano passeggeri. Il mio sguardo era attento perché volevo scrutare qualsiasi elemento. Ma non vedevo persone e visitatori. Sembrava che fossi entrato all’ora sbagliata. Camminavo, sperando di raggiungere la ragazza giapponese. Ero proprio deluso. Probabilmente mi ero sbagliato e le mie deduzioni erano state solo frutto di una mente che ama troppo la fantasia. Non mi sembrava che ci fosse un palazzo nella piazza e non c’era nessun Wolfgang che se ne stava chiuso a contemplare i suoi schermi o a contare i soldi provenienti dalle sue invenzioni. Erano quasi le 16 e l’unico essere vivente che avevo visto era una ragazza giapponese. Era difficile capire se era la stessa della chat. Si guardava attorno, cercando di scrutare qualche movimento strano. Era molto particolare e ricoperta di fiocchetti a pois, e indossava una minigonna viola come la sua acconciatura coloratissima. Calzava degli zatteroni e indossava dei loose socks (so come si chiamano perché ho letto qualche manga), ovvero dei calzini larghi 13


e pendenti, di colore bianco, che coprono parzialmente le scarpe. Il suo trucco era pesante e probabilmente aveva messo degli ombretti azzurri e un rossetto chiaro che risaltava sulla sua pelle. Aveva anche delle unghie finte. Puoi capire da te che non era una ragazza che passava inosservata! Avevo la sensazione di essere andato troppo in là con la fantasia e la realtà non aveva nulla di eccezionale. Non chiedetemi perché decisi di indossare gli occhiali di Sabry. Da allora nulla fu più come prima. Mio nonno mi ha sempre ripetuto: “Ci sono dei momenti “spartiacque”, dove la vita prende una piega diversa”. Forse voleva dire che ci sono eventi così forti che cambiano la direzione di una giornata, di uno anno o di una vita intera. Il mio momento “spartiacque” fu quello. Appena le lenti arrivarono in corrispondenza dei miei occhi, vidi quel che non avrei mai pensato di vedere. La ragazzina giapponese mi comparve nella sua vera forma: una principessa splendente con addosso una sua stupenda veste fatta di piume magiche che le permetteva di volare. Tolsi gli occhiali e la magica creatura era nuovamente una ragazzina di 16 anni. Con gli occhiali mi avvicinai alla facciona che portava all’interno del parco e vidi che la scritta: “Benvenuti al Luna Park” in verità adesso riportava: “Alone in the light Institute”. Tolsi nuovamente gli occhiali e di fronte mi trovai la scritta: “Benvenuti al Luna Park”. Come poteva essere possibile? Li riposizionai e tornai dentro. Il Luna Park con gli occhiali cambiava forma e diventava pieno di energia, solare vivo e popolato da strane creature. Il treno, che prima avevo visto vuoto, adesso con gli occhiali era ultra tecnologico, sembrava uscito da Star Wars e portava a bordo degli esseri che assomigliavano ai Gremlins. Se prima il treno viaggiava su delle rotaie, adesso si librava come un aereo. Erano una decina i suoi passeggeri e squittivano. Precisamente erano dodici creature alte poco più di 70 cm e parlavano freneticamente fra loro. Ricoperti da lunghi peli e con le orecchie aguzze, a macchie o strisce nere e bianche, non si interessavano di me. Alcuni di loro erano calvi e di colore verdognoli con grandi orecchie, il colore degli occhi spaziava tra il rosso acceso e il bianco, ed erano più alti, penso intorno ai 120–150 cm. Avevano arnesi da caccia o da combattimento come bastoni, scudi o piccole asce. Appena tirai giù gli occhiali, il Luna Park tornò ad essere nuovamente abbondanato, vuoto e tenebroso. Ero diventato matto? Con gli occhiali vedevo una realtà che senza non riuscivo a scorgere! Guardai il labirinto degli specchi e mi trovai di fronte ad una residenza fortificata, comprensiva di torri difensive e di una torre più grossa, ma tutto era rigorosamente in vetro 14


e acciaio. Non sapevo cosa pensare. Ero confuso e disorientato. “Se stai scorgendo qualcosa di particolare, non sei pazzo, sei solo una persona in grado di vedere qualcosa in più degli altri”, mi disse con toni cupi e grevi una voce dietro di me. Mi girai di scatto e saltai in aria quando un uomo pipistrello mi planò accanto. Urlai! “AIUTOOOO!!!” Ero finito in un incubo. Mi tolsi quei terribili occhiali e vidi un signore sui quarant’anni, con il pizzo e i capelli ricci, che indossava un gilè e dei pantaloni a quadretti molto british. Era divertito di quello che mi stava capitando. “Calmo ragazzo, gli occhiali ti permettono di vederci nelle nostre vere forme, ma non avere paura...mica siamo mostri, siamo solo alieni!”, mi disse Apollo. A quel punto svenni e mi svegliai qualche minuto dopo all’interno di una strano e super tecnologico edificio. 9 I miei occhi fecero fatica a riaprirsi e il mio cervello ci mise qualche secondo per ricollegare tutti gli avvenimenti. Quando cominciai a capire, un anziano, sui settant’anni, che indossava giacca e cravatta, con i capelli tutti bianchi e un lungo ciuffo che gli copriva l’occhio destro (solo successivamente avrei scoperto che si chiamava Gray), disse ad alta voce: “Mi sa che abbiamo un nuovo studente”. “Studente di cosa?”, chiesi. Gray mi ridiede gli occhiali e mi fece il gesto di indossarli. Eseguii! Non credo avessi il coraggio di ribellarmi al suo invito. Sai cosa mi trovai di fronte? Il classico alieno grigio che avevo visto in mille documentari su History Channel. Non era possibile! Parlavo con un alieno! “AIUTOOOO!!!” Svenni nuovamente. 10 Mi risvegliai. La ragazzina giapponese si avvicinò a me e con il suo sorriso coinvolgente si presentò: “Io sono Xioto, sono la tutor dell’istituto e per qualche ora è meglio che tu non indossi 15


gli occhiali”. Tremavo dalla paura. “Ma siete davvero degli alieni?”, domandai. “Siamo i rappresentanti di tutti gli alieni in missione sulla Terra e tu sei all’interno dell’istituto che forma gli umani per proteggere le razze dell’universo”. “Proteggere da chi? E come? Come posso vedervi?” “Calma, con calma capirai tutto. Per adesso posso dirti che se ci hai visto con gli occhiali è perché il tuo cuore è sensibile e la tua mente evoluta”, mi disse Xioto. Ero un cuore sensibile e una mente aperta! Wow! Non lo sapevo. Che fossi un fifone interessava a qualcuno visto che avevo le mutande inumidite? 11 Lo dicevo prima: siamo delle persone capaci di vedere solo una parte delle cose. Un po’ come succede con la Luna, ne vediamo sempre una metà e l’altra possiamo solo immaginarla. Chi vede anche le parti non visibili delle cose, non è un pazzo, ma è solo una persona che conosce qualcosa in più degli altri. Io avevo conosciuto l’altra metà delle cose che in genere nessuno di noi vede o vuole vedere. Ed era meraviglioso! Semplicemente meraviglioso!

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Capitolo SECONDO LA PRIMA LEZIONE NON SI SCORDA MAI

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1 Pensi sia facile tornare a scuola con i tuoi amici di sempre sapendo che a poche centinaia di metri è nascosta una base aliena? Ti concentreresti durante una lezione di matematica mentre delle creature extraterrestri hanno bisogno di te? È complicato nascondere un grande segreto. Lo è come tentare di svuotare un oceano con un bicchiere. Mi verrebbe voglia di urlare a squarciagola per la felicità di essere uno dei fortunati studenti della scuola per giovani “salvatori di alieni”! Essere stato all’interno di un’area di addestramento gestita da extraterrestri è come aver fatto una vacanza a Disneyland e aver scoperto che, dietro le maschere di Mickey Mouse e Minnie, non ci sono delle persone. Li ho visti con i miei occhi, anzi, con i miei occhiali. Ho parlato con gli extraterresti! Esistono! Sono fra noi, ce ne sono a migliaia e girano in incognito nel nostro mondo. Sono capaci di camuffarsi e, cosa incredibile, non sono sbarcati sul nostro pianeta per ucciderci, ma solo per conoscerci. Se questa non è una notizia da prima pagina, quale lo sarebbe? “Il problema, come sempre, non sta nello scoprire le grandi verità, ma nel convivere con la terribile normalità”, diceva sempre mio nonno. Aveva ragione! La mia quotidianità si consumava nei corridoi della scuola superiore, dove Ted e Bruce dovevano farmi scontare le loro idiozie. Sembra una regola scritta, ma non credo sia possibile aprire una scuola senza dei bulli. La mia è sottomessa a questi due scansafatiche, che sembrano due criminali di “Grand Theft Auto”. Ted è già alto un metro e ottanta centimetri e le sue spalle sono quelle di un playmaker di football. Sua madre avrà messo del concime dentro al suo cibo e avrà firmato un patto con qualche mostruoso essere che gli ha garantito un corpo da cyborg. Il cervello di Ted non si è sviluppato in parallelo al corpo, ma a lui non gliene serve una grande porzione per gli sgambetti o per rubare degli zaini. Gli occhi azzurri e i capelli biondi, oltre che i suoi muscoli da Hulk, lo rendono molto popolare fra le ragazze della scuola. Ma non a tutte, per fortuna. Hai presente le ragazze dei licei? Non sono tutte come quelle che si vedono nei film per teenager. Per esempio, Elen non è proprio convenzionale e non gliene frega nulla del carisma di Ted.


Se ti immagini Elen brutta e secchiona, ti sbagli. È un po’ dark, mette sempre dei vestiti neri, come se dovesse mimetizzarsi nel buio, ma è proprio bella e dalla sua bocca escono senza mediazioni molte cose intelligenti. La lezione era finita. Eravamo tutti nel corridoio e Ted mi gettò giù con una spallata. Per quale ragione? Forse si diverte quando sente un altro gridare. O più semplicemente crede di essere cool solo quando riesce ad essere al centro dell’attenzione. Urlai a pieni polmoni e cadendo sbattei la gamba destra, quella che non ne voleva sapere di crescere. Bruce, il suo fedelissimo amico, rise per dovere, come se fosse previsto dal “contratto” che lo legava al capo. Quando cado tirarmi su è molto complicato, perché l’unico piede di appoggio non riesce a sostenere il mio intero peso. Ero come una coccinella che prova a rimettersi in posizione per spiccare nuovamente il volo. Tutti mi guardavano e John, un mio compagno di scuola, sembrava volesse aiutarmi. Era evidente dal suo sguardo dispiaciuto. Ma non ci tentò minimamente! Probabilmente, come tutti, aveva paura delle ripercussioni di Ted. Annaspavo, avrei voluto piangere, però trattenni la mia disperazione perché sapevo che, se avessero visto la mia debolezza, non avrei più avuto una vita sociale a scuola. Tentai di trovare un appoggio per riprendere il mio zaino e dissolvermi. Dalle stelle degli alieni ero passato alla stalla di una scuola che non mi digeriva proprio. “Alien, telefona casa”, disse Ted, imitando la voce di E.T. del film di Steven Spielberg. Lo guardai con disperazione. In quel momento dai miei occhi sbucarono fiamme. Non avevo il potere e la forza per farmi valere. Mi aggrappai all’apertura di un armadietto. Il bullo con uno sgambetto mi fece ricadere con la testa sul pavimento. Tutti correvano. In molti sgattaiolavano via per evitare di vedermi per terra. “Non sei di questa città, non sei neanche normale e ci rompi con le tue cavolate sugli alieni. Prova a vedere se Alf viene a darti una mano” sentenziò Ted, mentre se la rideva come un folle. Alf? Il simpatico alieno protagonista di una vecchia sitcom. Si era anche documentato per insultarmi! “Sei solo un perdente del cavolo!”, urlò dal fondo della scuola Elen. Ora ne avevo la controprova: Elen era diversa da tutti. “Tu, rimani fuori da questa faccenda!”, comandò Ted con il dito puntato verso la ragazza, mentre Bruce si avvicinò a lei, come a far da muro. “Perché? Cosa mi faresti?”, chiese con supponenza Elen. 19


“Se ci tieni al tuo bel visetto, smamma! È una cosa fra noi!”, aggiunse di nuovo il “simpaticone”. Nonostante gli avvertimenti, Elen dribblò Bruce e si avvicinò a me. Lanciò un’occhiata di fuoco al playmaker e con la mano mi tirò su. “Pensi che te la passerai liscia perché sei una donna?”, le disse Ted, mettendo il suo viso a cinque centimetri da quello di Elen. Elen aprì la mano sinistra e gli lanciò sul volto della polvere. Gli occhi di Ted si riempirono di terra. Cosa fosse davvero la sostanza che la mia amica gli scaraventò in faccia, non lo sapevo! Mentre il bullo urlava dalla disperazione, tentando di pulirsi per rivedere, io ed Elen filammo via. Bruce rimase a guardarci, non aveva potere decisionale (lui era solo il fedele assistente) e senza i comandi del suo capo rimase come un bus senza il suo autista: fermo e incapace di muoversi. Io ed Elen andammo a sederci in un fast food vicino alla scuola. 2 “Sei una pazza, non ti lascerà mai più in pace!”, le dissi. Elen non sembrava preoccuparsene. Anzi continuava a mangiare beata il suo BigBacon. “Ti ringrazio per quello che hai fatto, ma lui è vendicativo e non la smetterà di rovinarci le giornate. Tu avresti potuto evitare il suo odio. Perché mi hai difeso?”, continuai. “Non esiste solo il “tu” o “l’io”, ma anche il “noi”. È un concetto che presto imparerai”, rispose Elen mentre sorseggiava la sua bibita. “Cosa vuoi dire?” “Lo imparerai più tardi a “scuola”. Siamo compagni di corso, ci hanno già detto che oggi avrai la tua prima lezione!” Guardai Elen stupito. Anche lei era una dell’“Alone in the light Institute”. “Non posso crederci. Tu sei...?”, esclamai stupito. “Io sono nel tuo stesso corso, semplicemente sarò il tuo tutor umano. Ho cominciato sei mesi prima di te e, come capirai oggi, c’è sempre un umano, oltre che un alieno, al tuo fianco, a seguirti”. Non avevo parole. Ero rimasto senza fiato. Ora ero parte di un’altra “famiglia” oltre alla mia. “Quindi...quella roba che gli hai gettato negli occhi, non era terra?”, domandai. “No...robetta aliena che serve per piccoli imprevisti. Domani tornerà a vederci normalmente, oggi starà a riposo”. “Figata!”, urlai. Come avremmo poi combattuto Ted e Bruce lo avremmo capito nei prossimi giorni, 20


intanto era cominciata la mia avventura con gli alieni e sentivo che presto sarebbe cambiato ogni cosa dentro e fuori di me. 3 Ti stai chiedendo come potevo assentarmi due ore da casa senza renderne conto ai miei genitori? Xioto mi aveva inviato una mail con le istruzioni per l’uso su come “convincere” i miei. Purtroppo avrei dovuto ricordarmi tutto a memoria, perché la mail era stata mandata con un’app in stile Snapchat, e quindi si era cancellata immediatamente dopo la lettura. Gli occhiali neri, che mi avevano spiegato si chiamavano Bler, avevano nelle aste un piccolo bottoncino, in entrambi i lati. Avrei dovuto premerli contemporaneamente e dopo guardare in volto i miei genitori, al che un raggio sarebbe partito per ipnotizzarli. Ero impaurito, se non funzionavano, i miei mi avrebbero riempito di prediche e insulti. Già me li immaginavo a dirmi cose tipo: “Mike, sei fuori di testa”, “Sei sicuro di non avere la febbre?”, “Te lo dicevo che tutti quei libri sugli U.F.O. alla fine ti avrebbero fatto male al cervello!”. Dovevo provarci perché volevo cominciare il mio primo giorno di lezioni e conoscere tutti i miei compagni di classe. Chiamai a raccolta la mia “ciurma”, mi piaceva pensare che la mia famiglia fosse come una nave dove tutti remavamo verso la stessa direzione. Mio padre, come sempre, era preso dagli articoli che doveva rivedere e borbottava contro un suo collaboratore su Skype. Era evidente per tutti che lui avrebbe voluto dirigere un magazine letterario piuttosto che un quotidiano locale che si occupava di cronaca. Era puntiglioso sulle forme letterarie dei suoi giornalisti e questo non si addiceva a quel tipo di pubblicazione dove la faceva da padrona la cronaca. Mia madre invece aveva finito di mettere a posto la sua borsa, nella quale aveva riposto il suo immancabile Pad. “Scusate, vi posso parlare due minuti?”, chiesi ai miei. “Qualche problema?”, domandò subito la mia top mamma, con la sua solita apprensione esagerata. Mio papà riuscì solo a dire: “Sbrighiamoci, devo rivedere degli articoli e poi andare in redazione!”. “Niente di cui preoccuparsi!”, lì tranquillizzai subito, “guardatemi negli occhi per un attimo”. Ci fu un momento di pausa. Per loro ero diventato matto! Mi osservarono perplessi, come se avessero scoperto che ero un robot. Indossai gli occhiali e pregai che fossero veri i poteri ipnotici dei Bler. Altrimenti mi 21


avrebbero rinchiuso in qualche posto per verificare che fossi mentalmente sano. Entrambi si sedettero sul divano di fronte al mio e incrociarono le braccia, pronti alla rivelazione che avrebbe cambiato per sempre le loro vite. Indossai gli occhiali e senza pensarci dissi: “Oggi andrò all’Istituto Alone in the light, credo che sarà necessaria la vostra approvazione!”. Premetti entrambi i bottoncini dei Bler e incrociai le dita. Se entro 10 secondi non mi avessero risposto, avrei dovuto cercare un buon medico o forse un ottimo avvocato. Una luce uscì dagli occhiali ed entrò nelle iridi dei mei genitori. Inspirai... e devo dire che quelli furono i dieci secondi più lunghi della mia vita. Mia madre sorrise e qualche attimo dopo anche mio padre fece un cenno di consenso con la testa. “Vai pure!”, sentenziò la signora Mann. WOW! Aveva funzionato. Gli occhiali erano ipnotici. Mitici! Quante cose avrei potuto farci!!! Ma cosa stavo pensando? Mi erano stati dati solo per tirarmi fuori dai guai e non per usi personali. “Fai come meglio credi”, aggiunse mio padre. Non ci credevo, i miei non erano stati così simpatici con me da anni. Per una volta, entrambi erano d’accordo con me. E vai! Adesso ero solo curioso di partecipare alla prima lezione. 4 Xioto era bella e lo era ancor di più quando si trasformava in una splendida principessa con le ali. Svolazzava sul Luna Park con una leggerezza che appartiene solo alle aquile. Gli occhiali erano la mia finestra su una realtà che non riuscivo ancora a comprendere pienamente. Era complicato capire. Ero entrato in un tendone da circo, mentre in verità mi trovavo in un palazzo super tecnologico. L’aula studio sembrava la capsula di una pillola e un tavolo rotondo occupava gran parte dello spazio. Dodici sedie virtuali, realizzate con uno speciale laser che si conformava secondo la fisicità di ogni studente, giravano intorno al tavolo e al centro di esso c’era un enorme buco dal quale saliva una luce che raggiungeva il soffitto. 22


La luce portò trionfalmente Xioto all’interno dell’aula e lei rimase lì dentro. Circondata da questo fascio di energia, la principessa ci spiegò: “Senza luce non si può insegnare”. Non capimmo. La luce aiutava il loro sapere? C’erano tante cose che non era facile decifrare e solo il tempo le avrebbe potute chiarire. Ai lati dell’aula erano presenti delle vetrate che si affacciavano proprio sulla piazza del campanile. “Benvenuti ai sei nuovi studenti e ai sei tutor umani”, con queste parole ci accolse Xioto, che rimase all’interno del suo tubo di luce. Mi girai e vidi altri cinque maschietti e sei ragazze. Pensai che fossimo tutti quindicenni, o lì vicino, ma forse uno di loro doveva essere anche più piccolo. “Ognuno di voi comincerà un percorso che lo porterà a lottare per proteggere l’unica grande razza dal mistificatore e dai suoi fedeli servi. Prima di lasciarvi alla lezione di Apollo, che voi umani chiamate comunemente uomo pipistrello, vi voglio regalare il Pors, un piccolo auricolare che potrete utilizzare in caso di pericolo per chiamare il vostro tutor o me. L’auricolare è come un telefono, ma non serve un numero. È un piccolo giocattolo che si connette al vostro cervello e permette di parlare con gli altri membri del vostro team”. Dal tavolo sbucarono fuori degli ologrammi di mani e ci consegnarono i Pors. Lo misi in tasca e pensai che 007 se li sognava questo tipo di gadget! Xioto lasciò il posto ad Apollo. Le sue ali erano spaventose e la sua forma aliena non era così rassicurante come quella umana. Era imponente, muscoloso e i capelli gli scendevano sino alle spalle. Indossava una tuta grigia molto aderente che enfatizzava i suoi muscoli e anche lui si fermò a parlare da dentro al tubo della luce. Tutti guardammo un po’ impauriti. Lui ci mise a nostro agio con un sorriso sincero e cominciò: “Mi chiamo Apollo, sono venuto sulla Terra nel 1967. Per gli umani sono solo una leggenda, il protagonista di un racconto fantastico, come alcuni di voi lo sono sui nostri pianeti. Come capirete nelle prossime lezioni, sono diventato una leggenda perché uno dei primi mistificatori ha lasciato credere che fossi l’invenzione di un matto. Lui ha reso irreale la realtà. Vogliono che noi extraterrestri rimaniamo, per gli umani, solo delle creature fantastiche e immaginarie. Negli anni, il compito dei mistificatori, è stato quello di rendere gli alieni una storia di fantascienza. Hanno incentivato scrittori, registi e società di produzione cinematografiche a creare l’idea degli extraterrestri cattivi. Sono stati i mistificatori a rendere fantascienza la realtà e a trasformarci in miti. Ci hanno rapito, chiusi in campi e nascosti per non far sapere al mondo che esistiamo. 23


Le ragioni, come scoprirete, sono tante. Loro non vogliono che usciamo allo scoperto. Per questo hanno creato una squadra di cacciatori di alieni. Noi abbiamo trovato il modo di proteggerci. Attraverso uno dei brevetti creati da Wolfang, uno dei nostri alieni pensatori, camuffiamo la nostra identità e ci siamo resi simili agli umani. Solo grazie agli occhiali, gli umani riescono a vedere noi e quel che riusciamo a costruire. Nessuno degli alieni caduti o venuti sulla Terra ha mai fatto del male ad un umano. Nell’universo ci sono razze violente, ma noi, i più evoluti, siamo anche i più buoni. Noi siamo degli esploratori e non dei guerrieri. Adesso i mistificatori sono guidati dal grande Ashtag che gestisce e comanda i cacciatori di alieni. Non sappiamo nulla su di lui. Chi è? Perché ci odia così tanto e dove vive? E’ il peggiore dei mistificatori che si sono succeduti nella storia. Ashtag, oltre agli alieni, ha deciso di rapire anche i nostri studenti, “gli amici della resistenza”. Sabry, una studentessa come voi, di recente è scomparsa, presumiamo sia stata rapita dalla sua squadra. Ritrovarla sarà la vostra prima missione. Avete qualche domanda?” Lenny, un ragazzino in carne e non molto alto, con i capelli ricci e una erre moscia evidente, si fece coraggio e chiese: “Lei è stato vittima del mistificatovrrre? Com’è arrivato sulla tevrrrrra?” Apollo non esitò a rispondere: “Si, i mistificatori e i loro giornalisti, per rendermi incredibile e fantastico, mi hanno definito sui giornali “Mothman”. Erano le 22,30 del 19 marzo 1967, una signora che chiamerò Brenda Smith percorreva in macchina con un’amica la statale 62, dirigendosi verso Point Pleasant. Quando le due donne passarono davanti alla tenuta C.C. Lewis, nei pressi della polveriera abbandonata, osservarono una forma scura nella quale brillavano due luci rosse. Ero io con il mio veicolo. Mi riparavo dietro a un albero. La Smith e l’amica mi videro e dissero a tutti che ero un essere alato un poco più grande di un uomo. Ma subito apparve una luce rossa, molto grande e quasi radente il suolo, che si avvicinò. I due strani oggetti sembrarono fondersi; allora una luce rossastra, ancora più grande, si alzò in cielo. Il grande mistificatore era venuto a prendermi e mi portò in uno dei campi nascosti. Le due donne affrettarono la marcia e arrivate a Point Pleasant, emozionatissime, riferirono quanto avevano visto. Entrambe si dissero sicure d’aver assistito alla fusione di un essere con le ali e di un U.F.O. in un’unica figura. Qualche giorno dopo, i giornalisti scrissero di tutto su quelle donne, sui loro problemi psicologici (che non avevano) e 24


dissero che ero una loro fantasia...e per rendermi come un personaggio di un comic book, mi definirono Mothman”. John, un tutor che assomigliava a Justin Bieber, incuriosito chiese quello che tutti probabilmente pensavamo: “Quindi lei è stato rapito e come è riuscito a salvarsi?” Apollo era entusiasta di parlare della sua esperienza e con molta diligenza raccontò: “Ognuno di noi ha esperienze simili. Io sono riuscito a fuggire dal campo in Nevada grazie ad un assalto della resistenza. Un gruppo di umani è riuscito a liberarmi, ma molti di loro non ce l’hanno fatta a sfuggire alla furia del mistificatore. Erano i primi eroi della resistenza e senza di loro non ci sarebbe quest’istituto”. Anche io volevo dire la mia e domandai: “Perché non apparite in pubblico? Magari se metteste un video su YouTube, per gli umani sarebbe più facile capire la realtà!” Apollo apprezzò la mia domanda e mi spiegò le sue ragioni: “Ovviamente, nessuno di noi può apparire in pubblico, tutti gli alieni prigionieri sarebbero uccisi all’istante...e poi direbbero che il nostro video è un fake, un falso. Lo hanno già fatto in passato. Roswell? Avete presente il video di Roswell? Il filmato era pubblico, eppure il mistificatore attraverso il governo è riuscito ad insinuare il dubbio a tutti. E se dovessimo ripetere l’errore di Roswell, molti alieni finirebbero uccisi. Non possiamo permettercelo!” Lenny, che sembrava il più preso di tutto il gruppo, domandò: “E chi può liberare tutti gli alieni?” Apollo chiuse le ali e rispose: “La nostra unica salvezza siete voi, se capite che siamo un’unica razza, potete aiutarci a sconfiggere il mistificatore e a liberare i prigionieri. Noi possiamo educarvi e partecipare alle missioni, ma non possiamo essere gli eroi della missione. Hanno dei dispositivi che permettono di riconoscere gli alieni camuffati e, se dovessero scoprirlo, ci ucciderebbero. Ma non possono nulla con gli umani. La nostra è una battaglia che vinceremo se siamo uniti. Se impariamo a fidarci l’uno dell’altro. Per questo, nell’Alone in the light Institute formiamo solo i puri di cuore, per conferirgli il potere della luce che portiamo con noi dai nostri pianeti. Ognuno di noi ha un potere e grazie alle invenzioni di Wolfang siamo riusciti ad inventare dei dispositivi che ci permettono di far utilizzare i nostri poteri anche a voi umani. La nostra scuola vi formerà a vivere il potere della luce. Imparerete ad utilizzare i nostri “doni” per vivere in armonia con noi”. “La missione ha un nome?”, domandai. Ero curioso, in fondo nei film ogni caso ha un nome strafigo. “Noi adulti la chiamiamo la “rivoluzione dell’uguaglianza”, voi chiamatelo “Alone in the light”, perché quello che vogliamo è che ogni alieno possa vivere tranquillamente la propria luce”. 5 25


Ero uscito dalla scuola “I love extraterrestri” e la mia mente era come un bicchiere già pieno sotto un rubinetto aperto: traboccava pensieri da ogni lato. Non riuscivo ad afferrare tutte le informazioni che mi erano state date. “Cosa pensi?”, mi chiese Elen. Lenny, il mio compagno di corso, che camminava insieme a me John e Luis, un’altra ragazza della scuola, si intromise: “E’ possibile che ci rvrrapiscano? Se lo hanno fatto a Sabry perrrchè non può capitare a noi?”. Era chiaro che Lenny non sarebbe stato il più coraggioso della squadra. Anche io avevo paura di finire in mezzo ad un grosso problema. Non ero un eroe e come avrei potuto aiutare Sabry e in generale il mondo? Eravamo dei ragazzini e anche i nostri tutor non sembravano rassicuranti. Ma adesso sapevo la verità sugli alieni e i mistificatori e non potevo e non volevo tirarmi indietro. Come avrei potuto rimuovere il grande mistificatore, le bugie che ci insegnano sugli alieni e come potevo disinteressarmi delle vite in pericolo? Molti alieni erano prigionieri dei governi, come tanti adulti e ragazzi della resistenza, chiudere gli occhi sarebbe stato da fifoni. Mi sarei tenuto la paura e avrei provato a dare il mio contributo all’Alone in the light Institute. Eravamo a spasso e io non avevo ancora detto niente a nessuno del diario con gli appunti di Sabry. Perché non l’avevo fatto? Volevo comprendere quanti più elementi per aiutare la ragazza. Elen era simpatica e non era per nulla sciocca. Aveva capito, dal mio prolungato silenzio, che qualcosa non andava. “Cosa pensi?”, mi chiese perplessa. Ero indeciso se cacciarmi fuori la verità. In quel preciso momento, mentre gli altri ragazzi mi salutavano, ricevetti una telefonata. Mi allontanai da Elen. “Pronto?” Non ci fu nessuna risposta dall’altra parte del telefono. “Pronto?”, chiesi nuovamente preoccupato. “Spostati da Elen ancora per qualche metro!”, mi ordinò una voce cupa dall’altro lato del telefono. “Chi sei? E come fai a sapere che sono con lei?”, domandai, guardandomi intorno come un radar. “Se vuoi rivedere i tuoi genitori, non fare troppe domande e portaci il taccuino di Sabry”. Ero spaventato! Non ho mai capito perché la vita tende a tramutare in realtà i nostri peggiori incubi! “Dimmi chi sei? Non parlo con gli sconosciuti!”, urlai. 26


Elen si accorse che qualcosa non andava e mi lanciò un’occhiata, sperando di comprendere cosa stesse accadendo. “Guarda i messaggi!”, mi venne detto dalla voce misteriosa. Allontanai il telefono dal mio orecchio e scrollai i messaggi in arrivo. Non bluffava. Mi aveva inviato una foto dove i miei genitori erano legati ad una sedia, imbavagliati, con dietro un orologio che segnava l’ora attuale. Lo sconosciuto che stava al telefono, non so se da solo o con altri, aveva rapito i miei genitori ed io potevo salvarli solo se gli avessi restituito l’agenda di Sabry. Avrei dovuto tradire la fiducia dei miei nuovi amici della scuola, perché il rapitore non voleva che parlassi con nessuno. “Brutto idiota, se vuoi che non bruci gli appunti, non toccare un capello dei miei genitori”, esclamai con una determinazione che non pensavo di possedere. “Ci vediamo questa sera alle 21, di fronte al fiume... vicino alla ventisettesima! E non provare a fare scherzi! Appena mi accorgo che qualche alieno ti protegge le spalle, diventi un orfano”, sentenziò l’uomo senza nome, mentre riagganciò la linea. Ero perplesso, confuso. In pochi giorni era successo di tutto e adesso anche il rapimento dei miei genitori. Elen si avvicinò a me: “Tutto bene? Mi sembravi abbastanza esagitato”. Non mi piace dire le bugie. Le avrei evitate volentieri con lei, visto che sarebbe stato il mio tutor e quindi anche la mia migliore amica a scuola. Ma c’era in ballo la vita dei miei genitori e non volevo, per nessuna ragione al mondo, essere la causa della loro morte. Se erano prigionieri era di certo per colpa mia: io avevo trovato l’agenda di Sabry, io avevo portato mio padre in Nevada e io facevo parte di una scuola segreta “pro alieni”. Quale soluzione mi rimaneva se non mentire ad Elen? “Sì, i miei si sono arrabbiati per dei voti non eccezionali. Hanno appena visto la pagella on line e credo che finirò in punizione”, improvvisai, augurandomi di essere convincente. Elen sorrise a denti stretti, sforzandosi di credermi. “Ci vediamo domani!”, tagliai corto. “Questa notte, ricordati di attivare il Pors per potermi parlare in qualsiasi momento. Da adesso sei parte di un team molto odiato e devi essere sempre pronto a tutto”, volle sottolineare il mio tutor. Annuii e feci un cenno di saluto con la mano. Mi avviai verso casa. Se avessero inventato un’app per riavviare il cervello, l’avrei acquistata. Perché mi serviva far chiarezza e io non ero tanto lucido per capire la mossa migliore. Giunsi a casa, aprii la porta d’ingresso e trovai tutti i mobili sotto sopra. I mistificatori, o chi per loro, si erano finti ladri e con la scusa avevano rapito i miei. 27


Avevano creato un falso motivo per poter depistare le eventuali indagini della polizia. Per quale ragione volevano gli appunti di Sabry? Decisi nuovamente di sfogliarli, magari avrei capito qualcosa in più. Li guardai con la stessa cura e attenzione con cui un banchiere ricontrolla i soldi da mettere in cassa. Non c’era nulla, pensavo, almeno sino a quando non vidi una mappa. Sopra di essa, Sabry aveva scritto: “Possibile soluzione identità”. Chi viveva in quel posto? E di chi poteva essere “Possibile soluzione identità”? Chi stava cercando e chi aveva scoperto di così importante? Nella pagina successiva trovai scritto: “Barney Hill (1923 – 1969) e Betty Hill (1919 – 2004) sono stati due coniugi statunitensi del New Hampshire che sostennero di essere stati rapiti da entità aliene nella notte tra il 19 e il 20 dicembre 1961. La loro presunta vicenda, soprannominata dai sostenitori dell’ufologia “abduzione degli Hill’” o “incidente di Zeta Reticuli”. Poi nient’altro. Ma chi erano questi tipi? E perché potevano interessare così tanto ai mistificatori? Avevo bisogno di una risposta e prima che scoccassero le ore 21. Fortunatamente mancavano ancora sei ore. Pensai che fosse saggio entrare nel computer di Sabry. Non sapevo se ne aveva uno a casa, allora pensai di accedere in quello che le era stato assegnato a scuola. Lo so che stavo violando la privacy, ma dovevo farlo per salvare i miei e forse anche Sabry. Entrai nel suo computer e cercai attraverso la parola chiave “Hill” dei file che avessero connessioni con loro. Mi si aprì un testo in word. “Gli Hill vivevano a Portsmouth, nel New Hampshire. Barney Hill era impiegato nel servizio postale americano mentre la moglie Betty era un’assistente sociale. Erano anche membri della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People, Associazione nazionale per l’avanzamento delle persone di colore) e dei leader locali. Barney riuscì a ottenere un posto nella Commissione per i diritti civili degli Stati Uniti. I due formavano una coppia rara per l’epoca: Barney era un afroamericano mentre Betty era bianca. Secondo il loro racconto, Barney e Betty Hill il 19 dicembre 1961, verso le 22, stavano attraversando le White Mountains e tornavano nel loro domicilio di Portsmouth, quando l’attenzione di entrambi si concentrò su un oggetto luminoso nel cielo «che assomigliava a un satellite». Ritornati a casa, si accorsero che erano trascorse troppe ore per aver percorso un tragitto così breve ed in seguito accusarono emicrania. Barney sarebbe sceso dall’auto per seguire la luce, temendo che fosse un aereo in difficoltà e che potessero essere necessari soccorsi. Dopo che la luce fu più vicina, l’uomo riuscì a distinguere un veicolo al centro di essa, con oblò e di chiara fattura tecnologica 28


e manovrato da esseri intelligenti. Rientrato in macchina e comunicato alla moglie di aver avuto l’impressione che il veicolo “cercasse di catturarlo”, ripartirono con l’auto, senza tuttavia riuscire a distanziare l’astronave. Dopo alcune decine di minuti di inseguimento, l’auto si bloccò; al che dal veicolo discesero alcuni esseri che li invitarono a seguirli sull’astronave. Dopo i coniugi furono riportati vicino alla loro automobile, ed in seguito l’astronave si allontanò. La signora Hill successivamente avrebbe disegnato una mappa stellare dove affermava che dimorassero gli esseri che li avevano rapiti, che descrisse come esseri umanoidi di bassa statura, con la testa e gli occhi grandi e la pelle grigia”. Perché questo avvenimento era così importante? Al mistificatore interessava la mappa che portava a casa degli Hill? Ammesso che quella mappa fosse dell’abitazione degli Hill. Ma Xioto e gli altri alieni sapevano che Sabry stava indagando su questa coppia? Per comprendere tutto questo avrei dovuto chiamare Elen, ma a quel punto le avrei dovuto spiegare la verità. Quale altre soluzioni avevo? Google. Sì, dove non arriva il comune sapere o gli amici, ci pensa sempre Google. Giusto? Cercai in ogni modo notizie sul presunto rapimento degli Hill, dichiarazioni, fotografie e tutto il possibile, ma venne fuori la solita robaccia. I siti dicevano più o meno la stessa cosa: gli Hill erano considerati dei pazzi. Nient’altro! Non sapevo come Sabry fosse riuscita a rintracciare la mappa della loro casa, ma provai a scrivere l’indirizzo sul motore di ricerca, sperando che sbucasse fuori qualche altro elemento. Scrissi l’indirizzo: “Barne street, Pourtsmouth”. Sai cosa venne fuori? L’esercito! Cosa voglio dire? La casa degli Hill era stata acquistata dall’esercito militare e adesso era diventata un magazzino del Governo. Perché lo Stato aveva acquistato una casa nel Portsmouth, che stava in una cittadina lontano da tutto, da persone che avevano avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo e l’aveva resa un punto militare? Qualcosa non tornava... che fine avevano fatto gli Hill? Di loro sul web non c’erano notizie aggiornate, le uniche informazioni risalivano al presunto contatto che avevano avuto con gli alieni. Continuavo a non capire perché potesse essere una storia così importante per Ashatag e i suoi mistificatori. Guardai l’orologio, erano le 19 e 30. Presto avrei dovuto lasciare la casa per raggiungere il luogo dove consegnare l’agenda. Prima avrei dovuto scansionarla, per tenermene una copia. Ma non lo feci. 29


Avevo paura che ogni tecnologia fosse monitorata. Se la mia supposizione fosse stata vera, qualcuno l’avrebbe potuta vedere in tempo reale senza avere più bisogno dell’originale. Questo non mi avrebbe reso più indispensabile e avrebbe fatto uccidere i miei genitori. Dovevo trovare una soluzione per riprodurla senza tecnologia digitale e in fretta. Il mio cervello correva su una diligenza trainata da cavalli, ma in questo momento avrei avuto bisogno di una Ferrari. Il tempo passava e a me serviva una copia. C’ero! Finalmente cominciavo a pensare con il cervello e non con l’istinto. Mio padre teneva da qualche parte una vecchia macchina fotografica analogica, quelle con il rullino. Dovevo solo augurarmi di trovarla e sperare che il caro vecchio Steve l’avesse caricata con un rullino, così avrei potuto fotografare le pagine. Successivamente le avrei sviluppate da un fotografo che si occupava ancora di stampa analogica. Casa era un caos, i finti ladri nel mettere tutto in disordine, avevano anche gettato per terra la vecchia macchina da scrivere, con la quale mio padre aveva cominciato la sua professione di giornalista. Seguii scrupolosamente la guida trovata su internet. Scattai le foto, utilizzando ben tre rullini per poter immortalare le 78 pagine scritte da Sabry e li nascosi all’interno della lampada della mia camera da letto. 6 Ero fuori casa, il cuore mi batteva come un martello pneumatico. La paura era venuta a farmi visite con le valige e non voleva più andarsene. Per raggiungere a piedi il luogo dello scambio, avrei dovuto percorrere altri 10 minuti di strada e la mia gamba cominciava già a flettersi. Avevo con me l’agenda e l’avrei barattata per riavere i miei genitori. Dopo avrei parlato con Apollo, Xioto e Gray, non prima. Rivolevo i miei genitori e i mistificatori desideravano l’agenda di Sabry, se tutti noi rispettavamo le regole, alla fine della serata saremmo stati tutti più felici. Ero stanco, l’orologio segnava un quarto alle nove. Fra 15 minuti avrei potuto riabbracciare Steven e Peggy e poi gli avrei spiegato tutto e il caos in cui ero finito. Non mi accorsi della fine del marciapiede e caddi a terra. Odiai il mio problema alla gamba. Avrei voluto essere più atletico. Gli occhiali di Sabry scivolarono via dal mio giubbotto. Tentai di rialzarmi. Con la mano destra mi appoggiai per terra e con la sinistra raccolsi i 30


Bler. Li indossai, anche se sapevo che di notte - con degli occhiali da sole- non sarei passato inosservato, ma era più semplice indossarli che riporli in una tasca del giubbotto. Quel che vidi con gli occhiali mi lasciò di stucco. Non era possibile! Tutta la strada era popolata da alieni! Elen aveva capito e aveva chiamato i rinforzi. Adesso i miei genitori sarebbero morti! Urlai a squarciagola: “NOOOO!!! Andate via, vogliono solo l’agenda altrimenti non mi riconsegneranno i miei genitori!”

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