Liberascienza Anno 2012 - Magazine 3 di 6
MOLTEPLICITA.‘ una
rilettura delle lezioni americane.
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Arte
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Repetition adds up reputation, ovvero: Andy Warhol di Fiorella Fiore "Quel che c'è di veramente grande in questo paese è che l'America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero. Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca-Cola, sai che anche il Presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla. Una Coca è una Coca, e nessuna somma di denaro può procurarti una Coca migliore di quella che beve il barbone all'angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone. Liz Taylor lo sa, lo sa il Presidente, lo sa il barbone e lo sai anche tu".1 La zuppa Campbell; la Coca-Cola; il volto di Marilyn; ma anche la sedia elettrica: Andy Warhol, forse l'artista più importante della Pop Art, ha scelto i più significativi simboli americani come prodotti di largo consumo, volti di personaggi dello show business, immagini tratte dai giornali a più larga tiratura, come protagonisti delle sue opere, uniti sotto il medesimo comune denominatore del dio Consumo, costituendo in questo modo uno degli assi portanti di quella che è forse stata davvero l'ultima avanguardia, e di cui gli Stati Uniti sono stati patria, vittima, esaltazione. Se è infatti vero che la Pop Art è nata in Inghilterra, è ancor più vero che è proprio in America essa si è realizzata in pieno: dal fumetto di Roy Lichtenstein, agli arredi surreali di Claes Oldenburg, l'anima Pop si concretizza grazie agli artisti che nascono in territorio statunitense (seppur figli di immigrati), e portano una ventata di profonda diversità rispetto alla prima generazione, di origine europea, della grande arte contemporanea americana, dominata dall'espressionismo astratto e dall'action painting, da una rabbia di sottofondo e dalla più profonda interiorità, frutto del pesante fardello della Seconda Guerra Mondiale (non a caso molti di questi artisti muoiono suicidi, da Gorky a Rothko). Warhol, o meglio Warhola (cambierà successivamente il suo cognome per donargli un accento più yankee), è figlio di immigrati cecoslovacchi, e vive la sua infanzia e la sua giovinezza a Pittsburg, tra privazioni e miserie, dettate anche dalla perdita prematura del padre e da diverse difficoltà familiari; quando esplode come artista negli anni Sessanta, ha alle sue spalle dieci anni di attività come grafico pubblicitario a New York, a
contatto con le redazioni di alcune delle più importanti r i v i s t e d e l l ' e d i t o r i a n e w yo rk e s e ( " H a r p e r ' s Bazaar","Vogue", "Glamour", il "New Yorker"), dove impara il nuovissimo linguaggio di un mondo altrettanto nuovo, quella dei media, che plasma i desideri di una società "pronta" a subire un linguaggio senza alcun intento di storia, ma volto al consumo immediato, dell'ora e subito. Nel 1954 tiene la sua prima importante mostra personale, alla Loft Gallery di New York, che lo avvia alla "carriera" di artista. Warhol capisce bene che quel linguaggio parla del suo tempo: e se è vero, com'è vero, che l'arte altro non è che interpretazione del presente, anche l'arte, allora, può trasformarsi e diventare essa stessa un prodotto. Una degradazione non solo del messaggio, ma prima di tutto tecnica: è in questi anni che egli inizia ad utilizzare il procedimento della "blotted line", che consiste nel tracciare un disegno su un foglio poco permeabile, applicandolo poi, quando è ancora umido, su una serie di altri fogli, caratterizzati da un disegno frastagliato e indefinito. Il concetto stesso di "originale" viene radicalmente trasformato, e trova la sua massima espressione nella serigrafia, utilizzata dal 1962, in cui trasporta la fotografia su un supporto di seta: questo gli permette non solo di utilizzare colori fino ad allora mai utilizzati, tinte forti, fluo, ma anche e soprattutto, di riprodurre, anche all'infinito, la stessa opera. D'altra parte la pubblicità fa esattamente questo: costringe l'immagine a moltiplicarsi, lavorando solo per quantità e non più per qualità. Quello che Warhol fa è una rivoluzione estetica, che incarna l'assioma di Walter Benjamin che già cinquant'anni prima diceva che l’avvento dei mezzi
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tecnici di riproduzione dell’opera d’arte (a partire dalla fotografia, la grande "assassina" del messaggio artistico) non porta alla sua fine, sebbene si abbandoni l'unicità, ma ad una rivoluzione copernicana. Quindi la dissoluzione del messaggio artistico, attraverso la duplicazione, è qualcosa di più che mera provocazione: è il raggiungimento di una nuova consapevolezza. Come afferma Alberto Boatto2, per descrivere l'arte di Warhol non si può che utilizzare la parola "dissoluzione" in tutte le sue sfaccettature: dissoluzione del tono aulico dell'arte, del messaggio, della stessa tecnica grafica. Le immagini, riprodotte serialmente, sono estrapolate e modificate, in parte per errori di macchina, in parte per volontà dell'artista o di chi del suo staff si occupa della produzione di opere. Chiunque può riprodurre un suo disegno bene quanto lui, ed è in base a questo che porta alle estreme conseguenze il principio dell'illimitata riproducibilità dell'opera d'arte. Sì, perchè è proprio attraverso la ripetizione seriale che Warhol esce fuori dal contesto dell'artista demiurgo per divenire altro: come si definisce lui stesso, una "macchina", come quelle che utilizza nel suo lavoro (foto, pellicola, registratore), che realizza nulla di più che un "prodotto":
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"La ragione per cui dipingo in questo modo è che voglio essere una macchina. Tutto quello che faccio lo faccio come una macchina ed è quello che voglio fare. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui
lavoro con la serigrafia: penso che chiunque dovrebbe essere in grado di dipingere ogni mio quadro al posto mio"2. Un assioma che si saprà ben incarnare nella Factory, perno attorno a cui ruoteranno pittori, fotografi, musicisti, modelle, un vero e proprio network di talenti che vedono in Warhol il proprio punto di riferimento, e la realizzazione di una nuova idea di artista, ma che è anche alla base di una precisa volontà di creare una assoluta ambiguità, che nell'arte vera e propria si manifesta nella voluta confusione tra ciò che è dipintostampato-disegnato. Tra ciò che è unico e ciò che non lo è. Warhol rappresenta ciò che lo circonda, creando quella che Boatto definisce "un'enciclopedia iconografica del trentennio che va dagli anni Sessanta agli anni Novanta"; non simboli qualunque, bensì quelli che appartengono alla più popolare realtà americana: pubblicità di parrucche, elettrodomestici, alimenti in scatola in vendita a buon prezzo nei supermercati (immagine 1) i più comuni tabloid e le stelle più popolari, da James Dean a Elvis Presley, da Elizabeth Taylor (immagine 2) a Marlon Brando. Il volto di Mao, da dittatore e temibile nemico del sistema capitalistico, diventa elemento decorativo, da ripetere all'infinito. Liz Taylor non è una patinata attrice, ma una donna consumata dall'alcool e dalla malattia; Jacqueline Kennedy (immagine 3) non è la First Lady d'America, ma la vedova dell'attentato di Dallas, emblema del consumismo del dolore, vittima dalla gran macchina dello spettacolo americana. La divina per eccellenza, Marilyn, è appena stata scoperta cadavere nella sua casa Hollywoodiana quando diventa protagonista di una delle opere più note di Warhol, Gold Marilyn (immagine 5) il volto dell'attrice, estrapolato dal manifesto del film Niagara, è ingrandito, isolato, monocromo, quasi astratto. Non vi sono più i mezzi toni, si usano tinte audaci, fluo, secondo il procedimento della quadricromia, che rende i contorni slabbrati, fuori registro, come a caricare il soggetto di valenze emozionali. Warhol consegna all'America la sua icona, la sua Madonna imperfetta (non a caso il volto è immerso in fondo oro, retaggio dell'arte cristiana ortodossa che appartiene alle sue origini cecoslovacche). Inutile dire che la critica all'inizio lo irride, per poi lusingarlo con un coro di lodi stucchevoli cui Warhol 11
guarderà divertito, consapevole anche della mancata reale percezione del suo messaggio da parte di chi ne osanna aspetti del tutto inesistenti. Ma in cosa consiste, davvero, questo messaggio? Nessun "tecnico" del linguaggio pubblicitario avrebbe potuto accettare gli errori grafici commessi da Warhol. Ma i suoi lavori non sono governati dal caso: la ripetizione dell'immagine è funzionale ad una efficace operazione critica che desemantizza il messaggio, traducendolo in un semplice motivo decorativo. A questa enfatizzazione dell'appiattimento si contrappongono, però, volute distorsioni (annebbiamento, sfocatura, parziale cancellazione dei dettagli) che, pur nella ripetizione, contraddicono quella stessa perdita di significato, e creano nello spettatore un effetto estraniante, frutto del cortocircuito tra ciò che sembra uguale, ma che in realtà non lo è, di ciò che sembra sola ripetizione, e che invece si manifesta essere un unicum. IMMAGINE 3
Ed ecco allora che mettendo insieme un repertorio che unisce fatti di cronaca, incidenti e suicidi nel ciclo Disasters pone sotto i nostri occhi l'agghiacciante quotidiano, quasi mostrandocelo per la prima volta. Su tutti, domina la sedia elettrica, che come ribadisce Boatto: "Fa America almeno quanto la Statua della Libertà all'ingresso di New York"5. Ripetuta decine di volte nelle diverse serie come Orange Disaster ( immagine 5) e Lavander disaster, diviene esempio della banalizzazione del male ma nello stesso tempo provoca in noi un disturbo, un fastidio, da cui non possiamo distrarci, o distogliere lo sguardo: ancora una volta ecco il cortocircuito che si manifesta in ciò che sembra ripetuto all'infinito e che, proprio per questo, diventa ai nostri occhi qualcosa di unico e solo. Warhol ridicolizza il mito. Definisce la presenza nella ripetitività e in questa stessa l'annulla, rimarcandone l'unicità. Non c'è più nessuna differenza tra il volto di Elvis e quello dei ricercati americani, l'Olimpo appartiene a tutti (o a nessuno). Warhol di questo ne è pienamente cosciente, tanto da rendere protagonista di questo vortice la stessa arte per eccellenza, quella del Rinascimento, da Leonardo a Botticelli (che omaggia con la serie sulla Monna Lisa del 1979-80, e quella sull'Ultima cena del 1985-86 ( immagine 6) oltre che la serie sulla Venere del 1982). Non sono opere di provocazione fine a sè stessa, ma frutto di una nuova riqualificazione del messaggio artistico. 12
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Baudrillard afferma che: “un oggetto in immagine vuol dire sottrarre, una ad una, tutte le sue dimensioni [...].
nostra consumata società, di cui diventa specchio e che resta attuale ancora oggi, come dimostrano le quotazioni milionarie delle sue opere, che aumentano di valore nel tempo, pur essendo semplici serigrafie. Il pittore, grafico pubblicitario, illustratore, scultore, produttore cinematografico, videoartista, regista pubblicitario, produttore televisivo, attore, indossatore, romanziere, filosofo (The Philosophy of Andy Warhol), commediografo, direttore e editore di riviste (Interview), fotografo, produttore musicale (Velvet Underground), Andy Warhol ha fuso l'alto e il basso, i ruoli, i linguaggi, stregandoci con un'arte solo apparentemente "facile". Una seduzione che continua ancora oggi, e che incarna alla perfezione il nostro "secolo breve".
Immagini _________________
1. Two hundred Campbell's Soup Cans, 1962 2. Liz, 1964 IMMAGINE 5
3. Jackie (The Week That Was), 1963 4. Gold Marilyn Monroe, 1962, New York, Moma
A prezzo di questa spoliazione, l’immagine acquista una tale potenza di fascinazione da diventare medium della pura obiettività, da cui traspare una forma di seduzione più sottile”4.
5.Orange disaster, 1963, New Y ork, Salomon Guggenheim Museum 6. Last supper Black/green (1986)
Note _________________
1 A.
Warhol, La filosofia di Andy Warhol, 1975, Feltrinelli
2 A.
Boatto, Andy Warhol, Artedossier, ed. Giunti.
3 A.
Warhol, La filosofia di Andy Warhol, 1975
4 A.
Boatto, Andy Warhol, Artedossier, ed. Giunti.
5 J.
Baudrillard, De la marchandise absolue, in Special Andy
Warhol, "Artstudio", 8/1988
IMMAGINE 6
Warhol è la Pop art. Forse nessuno più di lui ne ha saputo incarnare lo spirito, monito perpetuo della 13
presentata qui sul magazine per la prima volta. In fotografia il filtro è un dispositivo che impedisce il passaggio di determinate frequenze della luce. Un filtro rosso ad esempio bloccherà gran parte della luce che lo attraversa facendo passare unicamente la componente rossa. Di solito i filtri utilizzati sono neutri, poco invadenti. Non devono interferire concretamente nell'immagine, ma solo “correggerla”. Massimo e
ARTISTI
Carmen si sono chiesti cosa poteva succedere se il filtro diveniva l'essenza stessa della fotografia, una sorta di "visione". E per farlo hanno utilizzato alcune
Elle plus Elle
vecchie diapositive raffiguranti volti di amici, non “foto artistiche” ma scatti intimi, legati ai ricordi di un
Le immagini che illustrano questo magazine sono di
compleanno, un amico, un fratello, un momento
Massimo Lovisco e Carmen Laurino, uniti nel
privato. Le diapositive si sono trasformate esse stesse
sodalizio artistico del gruppo ElleplusElle. L + L,
in filtro fotografico, i volti sono divenuti medium per
Massimo + Carmen, ovvero, una somma, una
una visione del mondo circostante nuova, uno sguardo
moltitudine di sentimenti, espressioni, passati che si
sul presente, ancora una volta legato alla natura, al
fondono in un'opera. E, in effetti, l'intero corpus
paesaggio,filtrato dal ricordo di un volto caro. L'
artistico è unito da un filo poetico che, proprio nella
espressione artistica di ciò che chiamiamo memoria,
molteplicità, vede una delle componenti più
insomma, di quel sentimento che potremmo definire
interessanti della filosofia alla base del gruppo. Le
romantico che riporta ad un ricordo a noi caro, proprio
opere qui riportate, infatti, fanno parte di due differenti
quando ci abbandoniamo alla visione di un tramonto, di
serie, Ubik e Filtro Persona. La prima, fa parte di ID#,
un cielo luminoso, di un paesaggio particolarmente
un vero e proprio "kit" necessario per organizzare una
intenso. Sono queste,quindi, opere che vivono della
personale di ElleplusElle a casa propria, con tanto di
molteplicità, di chi le crea, certo, ma soprattutto di chi
istruzioni per l'allestimento e inviti. Presentata per la
le guarda, perchè è proprio nei diversi sguardi che si
prima volta in Sardegna, la mostra è stata ospitata da
amplificano i ricordi, i volti, gli orizzonti, trasformando
tre famiglie, volutamente scelte tra quelle più estranee
così il messaggio artistico, ogni volta.
al mondo dell'arte, le quali hanno inteso ciascuna in
Fiorella Fiore
modo differente e in base al proprio background l'esposizione, personificandola di volta in volta. Quelli che sono rappresentati sono infatti paesaggi "mentali", rappresentativi non tanto di un luogo, ma di uno stato d'animo che, partendo da chi fotografa, si diversifica in base a chi si pone, da spettatore, di volta in volta di fronte l'immagine. L'opera vive dell'interazione di chi la guarda, la vive, la studia, cambiando ogni volta prospettiva; un tema che, pur cambiando nei modi, troviamo riproposto anche nella seconda serie, "Filtro Persona", ancora inedita e in fase di lavorazione, e 53
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