Welcome to Palestine

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Welcome to Palestine di Claudia Stoppato

Prima di partire alla volta della Palestina, mi ero interrogata più volte su come sarebbe andata questa nuova avventura e mi ero detta a volte sarà divertente, a volte emotivamente pesante, a volte frustrante, ma sarà un’esperienza affascinante che mi porterò nel bagaglio della vita. Sono rientrata da poche settimane e, per me e Magda, la mia compagna di viaggio, è stato esattamente così. Siamo partite lunedì 7 gennaio da Milano Malpensa per arrivare, via Istanbul, all’aeroporto internazionale di Ben Gurion a Tel Aviv. Già dagli spostamenti aerei avremmo dovuto capire che il tempo, solitamente clemente nei miei viaggi, non sarebbe stato dalla nostra parte ….. Una Istanbul sommersa dalla neve ci ha fatto accumulare un ritardo di 3 ore, e siamo giunte così in Israele soltanto la mattina successiva, infreddolite ma emozionate per questo viaggio nei Territori Palestinesi. Dopo il viaggio solitario e spirituale in India dello scorso anno, nel 2013, per una serie di circostanze, il mio interesse si è spostato in Medio Oriente: Marion,

un’amica comune mia e di Magda, si trovava infatti da diversi mesi per lavoro a Ramallah, quale migliore occasione allora per riempire i nostri zaini ed andare a trovarla, approfittando così della sua compagnia per entrare un pochino più nel profondo in questa piccola striscia di Terra, grande poco più della Puglia, da sempre al centro del palcoscenico della politica mondiale e dei primi titoli dei giornali? Da quando Israele venne riconosciuta ufficialmente come nazione nel 1948, nella Terra Santa la pace è sempre stata un evento occasionale. Per la maggior parte dei palestinesi la creazione dello Stato di Israele, che definiscono al-Naqba (la catastrofe), li ha derubati delle loro legittime proprietà e, fatto ancora più importante, della loro patria, con radici storiche molto profonde. Gli ebrei israeliani, dal canto loro, hanno a che fare con la memoria della shoah, una memoria direi impossibile da cancellare che porta questo popolo a difendersi continuamente, in ogni piccolo gesto e in ogni piccolo attimo della loro vita quotidiana. Come è possibile altrimenti vivere nei settlement? I settlement sono insediamenti israeliani presenti nei Territori Palestinesi, sono delle colonie


ebraiche protette con recinzioni elettriche e con filo spinato dall’esercito della quarta potenza militare mondiale a protezione degli ebrei israeliani che vi abitano. I coloni ebrei, spinti da convinzioni religiose fondamentaliste che ne fanno gli abitanti eletti della Terra dei loro Padri, non si rendono conto di vivere una vita rinchiusi in una gabbia. E questo per me è assurdo, al di là di ogni convinzione politica o religiosa e di ogni presa di posizione netta tra le due parti contendenti, Israele da un lato e Palestina dall’altro. E senza considerare che numerosi organismi internazionali, tra cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, l’Unione Europea, Amnesty International e la Human Rights Watch, hanno classificato questi insediamenti come una violazione del diritto internazionale. Entrambi i popoli considerano come loro patria questo fazzoletto di terra nel cuore del Medio Oriente, e fino ad ora nessuno è riuscito a persuadere entrambi i gruppi a convivere amichevolmente e pacificamente fianco a fianco. Ma è solo una decisione politicoeconomica presa come sempre dai potenti della terra, oppure davvero questi due popoli si odiano a tal punto da vivere una vita così altamente militarizzata e carica di piccole, enormi tensioni quotidiane? Davvero le nuove generazioni di ebrei israeliani e di palestinesi non riuscirebbero, non dico a volersi bene ma almeno a convivere davvero insieme e finalmente in pace? E’ chiaro che, se da entrambe le parti, la classe dirigente e politica dei due Paesi continua a far crescere i propri ragazzi con la paura dell’altro, con un lavaggio del cervello che porta a vedere fuori dalla propria casa i propri vicini come il Nemico e il male assoluto, non andremo da nessuna parte. Ma a qualcuno interessa davvero andare da qualche parte? O questa guerriglia latente, che ancora oggi spesso non è poi così latente, in qualche modo fa comodo a tutti, potenze occidentali e Paesi arabi limitrofi compresi? Ma mi ero ripromessa di non lanciarmi in considerazioni personali, questo vuol sempre e solo essere un modesto diario di viaggio, quindi cercherò di limitarmi a raccontare quello che i miei occhi hanno visto e riportare le storie delle persone che ho conosciuto, anche se credo sarà molto difficile non lasciare trapelare un giudizio. Arrivate a Tel Aviv ed entrate in Israele senza grossi problemi (ma devo dirvi la verità …. A Ben Gurion abbiamo mentito sulla natura del nostro viaggio … “Conoscete qualcuno in Israele? Che giro avete in mente di fare? Sapete che da domani a Gerusalemme

nevica?” “No, non conosciamo nessuno, noi siamo viaggiatrici zaino in spalle, non abbiamo prenotato alcun albergo, pensavamo di fare il classico giro della Terra Santa, ora andiamo a Gerusalemme. Che bella deve essere una Gerusalemme imbiancata!”), io e Magda abbiamo preso uno sherut, una specie di taxi collettivo che ci ha lasciate a Gerusalemme alla Porta di Damasco. Già durante questo piccolo giro in taxi, abbiamo potuto da subito ammirare le spesse mura di antiche fortezze per poi imbatterci, con profondo sgomento e sconcerto, in questo moderno “muro di sicurezza” che gli israeliani stanno da anni costruendo per difendersi dal “Nemico”, che in quanto a lunghezza ed altezza farebbe impallidire il muro di Berlino. A volte credo che la Storia proprio non ci insegni nulla! Da Gerusalemme avremmo dovuto prendere un autobus per Ramallah (e quindi lasciare Israele per la Palestina), da qui un altro mezzo per Nablus e avremmo dovuto raggiungere la nostra amica Marion al villaggio di Khan al-Luban, dove lei si trovava al seguito dell’ISM (International Solidarity Movement) per proteggere la famiglia di Khaled, che aveva la sfortuna di avere una casa molto vicina ad una colonia ebraica e che da diverso tempo doveva sopportare ogni tipo di angheria da parte dei coloni e dell’esercito israeliano. A Khan al-Luban non ci siamo mai arrivate ….


Da Gerusalemme abbiamo preso il pullman per Ramallah e da qui siamo riuscite a prendere un altro mezzo per Nablus, la città più importante della Samaria, nota per la produzione dell’olio di oliva, del cotone e del sapone che ha vissuto i maggiori disordini per la resistenza all’occupazione israeliana. Durante questo ultimo spostamento, Magda si è addormentata mentre io guardavo fuori dal finestrino una pioggia che aumentava progressivamente e l’acqua nelle strade che si alzava in maniera troppo, troppo veloce. Quel giorno la Palestina ha dichiarato lo stato di emergenza e a Nablus sono morte delle persone inghiottite da acqua e fango. Con quel minimo di istinto di sopravvivenza che ogni tanto per fortuna ci contraddistingue, abbiamo deciso di non cercare di raggiungere a piedi questo villaggio causa maltempo e di fermarci a Nablus per la notte, aspettando il sole il giorno dopo (sole che avrebbe rifatto capolino una settimana dopo ….. doveva prima arrivare la neve). Arrivate in questo piccolo e scalcagnato albergo a Nablus, abbiamo fatto la conta dei danni: sotto un diluvio universale, camminando per le strade con l’acqua fin sopra le caviglie, il freddo, un vento forte e uno zaino come bagaglio …. Beh, non avevamo più niente di asciutto. Ed era solo il primo giorno di viaggio. Sai quand’è che ti accorgi che il tuo compagno di avventura è davvero quello giusto? Quando dopo due giorni che non dormi, quando il freddo ti congela le ossa, quando tutto sembra andare storto, è colui che , nonostante tutto, ti fa fare una risata. E quel giorno quella risata è stata davvero preziosa, grazie Magda!

In tutto questo, non riuscivamo a metterci in contatto con Marion da quando eravamo atterrate a Tel Aviv, quindi non avevamo modo di avvisarla che non saremmo arrivate al villaggio ma che stavamo bene e finalmente con un tetto sopra la testa.

Tempo di svuotare interamente lo zaino ed iniziare ad asciugare i pochi abiti pesanti che avevamo (cioè un pile a testa, perché dall’Italia se cerchi temperature in Palestina ed Israele a gennaio trovi indicati 15-20 gradi, non zero!!!) che finalmente riusciamo a comunicare con Marion, la quale era rientrata a Ramallah per il maltempo e ci aspettava nella sua casa con una cenetta araba quasi pronta. Fuori iniziava a nevicare, ma la voglia di raggiungerla, di stare a casa con lei e non in un albergo non particolarmente invitante, di scappare da tutta quella pioggia e quel freddo è stata più forte di tutto, quindi ricomponi tutto lo zaino con i vestiti inzuppati, paga la camera per neanche mezz’ora di utilizzo e via, alla ricerca di un pullman per tornare a Ramallah. Ovviamente pullman non ne passavano più, ma siamo riuscite a convincere un ragazzo più pazzo di noi a portarci in auto fino a Ramallah. No, mi correggo: la nostra poteva essere pazzia, la sua era semplicemente gentilezza e ospitalità, che abbiamo incontrato moltissime volte sia in Palestina che nella nostra settimana giordana. La prima cosa che oggi mi viene in mente ripensando a questo viaggio è proprio l’ospitalità di questa gente, un’ospitalità schietta e sincera, che da noi proprio non sta più di casa.

Siamo rimaste a Ramallah con Marion quattro giorni, bloccate dalla neve con tutto quello che comporta la neve in Palestina: senza riscaldamento in casa, senza la possibilità di farsi una doccia calda perché i container dell’acqua sono posizionati sui tetti delle case e di notte puntualmente ghiacciavano, senza la possibilità di scaldarci una tazza di tè perché siamo rimaste senza la bombola del gas e non se ne trovava in tutta la città, senza la possibilità di muoversi perché taxi e pullman non circolavano …. Ma ripensando a quei giorni, non ho il ricordo del freddo costante che ti penetrava le ossa, né di tutte quelle mancanze che qui avrei patito infinitamente


ma ricordo solo i racconti, le discussioni politiche, le considerazioni fatte con la gente del posto.

A Ramallah, la “sposa della Palestina”, hanno sede i ministeri e il parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, missioni diplomatiche, stazioni televisive e associazioni non governative. A Ramallah si respira quella voglia di fare, quella volontà di riscatto, quella voglia di lottare e di mettersi in gioco, soprattutto tra i ragazzi molto giovani, che non ho respirato in nessuna altra città palestinese.

I ragazzi con cui ho chiacchierato in queste lunghe e gelide serate sono molto informati sulla situazione politica ed economica che interessa il loro Paese, sono direi abbastanza ovviamente molto critici nei confronti di Israele ma lo sono altrettanto nei confronti della loro attuale classe politica: il presidente dell’ANP (eletto ogni 4 anni) è attualmente Mahmoud Abbas (noto come Abu Mazen), che nelle elezioni del 2005 ha ottenuto il 62% dei voti; a gennaio del 2009, tuttavia, quando il mandato di Abbas è scaduto, anche lui si è piegato a un uso consolidato in Medio Oriente, prolungandosi autonomamente il mandato. Quello che chiedono, le nuove generazioni palestinesi, è la possibilità di giocarsi un ruolo nella storia della nascita e del consolidamento di uno Stato palestinese, chiedono alla propria classe dirigente

di essere parte attiva in questa partita e chiedono ad Israele il rispetto dei confini e la restituzione delle terre confiscate. Purtroppo dubito che, oggi, qualcuno sia in grado di ascoltare questa voce. Io e Magda, per quel che conta, lo abbiamo fatto. Appena la situazione trasporti si è normalizzata, da Ramallah ci siamo spostate a Gerusalemme (al-Quds in arabo), la città santa in cui si può percorrere la via che seguì Gesù con la croce fino al Calvario, toccare le pietre sacre del Muro del Pianto e lasciarsi abbagliare dalla dorata cupola della Roccia. Peccato che per raggiungere questa città traboccante di storia e di fede, da Ramallah si debba rientrare in Israele attraverso il check-point di Kalandia, un posto di confine tra Israele e Territori palestinesi che i palestinesi devono attraversare ogni giorno, magari “solo” per andare a lavorare dall’altra parte, magari “solo” per andare a trovare parenti ed amici che vivono a Gerusalemme, magari “solo” per andare a pregare nella moschea di Al-Aqsa. La vita di questi palestinesi, anzi di quei palestinesi che hanno il permesso di recarsi a Gerusalemme, è una vita regolata da un posto di blocco israeliano. I militari israeliani che impartiscono ordini, bloccano appositamente i tornelli per decine e decine di minuti, chiedono praticamente urlando di tirare fuori i passaporti, sono tutti ragazzi e ragazze tra i 18 e i 20 anni al massimo, che impugnano un mitra molte volte persino più grande di loro. A me dispiace anche per loro.

Ho avuto orrore di essere testimone dell’umiliazione di altri esseri umani, bambini spaventati che guardano con occhi sbarrati e gonfi di lacrime i militari, mamme con neonati in braccio, persone molto anziane costrette ad aspettare ore ed ore, persone che devono semplicemente recarsi a lavoro e che troppo spesso, per queste lunghe attese, ci arrivano tardi, un giorno, due giorni, tre giorni e poi perdono il posto.


Ma non ne abbiamo già avuti abbastanza di muri? Come abbiamo potuto permettere che questo venisse eretto quasi silenziosamente? Non lo sapevamo? O preferivamo non saperlo?

Il cuore pulsante di Gerusalemme è la sua Città Vecchia, circondata da un muro e divisa in quattro quartieri: ebraico, armeno, musulmano e cristiano. E, come tutte le contraddizioni che si rispettino, dopo l’esperienza di Kalandia, ecco davanti a noi la splendida Gerusalemme. Lo status di Gerusalemme continua a suscitare reazioni contrastanti, tanto che quasi tutti i Paesi mantengono le loro ambasciate a Tel Aviv. Sia gli israeliani sia i palestinesi considerano la città come la propria capitale e l’ANP, pur avendo sede a Ramallah, aspira a trasferirsi a Gerusalemme Est. Israele, invece, è determinato ad impedire che ciò avvenga e a tal fine ha condotto azioni non troppo velate per isolare la città dai territori palestinesi. L’ultima proposta prevede la costruzione di un nuovo quartiere abitativo a est della città che dovrebbe collegare Gerusalemme con l’insediamento ebraico di Ma’ale Adumim, chiudendo l’ultimo sbarramento tra Gerusalemme e la Cisgiordania.

Ma Gerusalemme, l’unica città che possiede 70 nomi d’amore e di desiderio, non potrà mai essere questa cosa qua: Gerusalemme è una città di guerra e di lotta, di amore ed odio, ricchezza e povertà, distruzione e rinascita, felicità e dolore.

All’interno di queste possenti mura si calpestano la Storia e la sensibilità delle tre maggiori religioni del mondo: il Muro del Pianto sacro agli ebrei, che offrono le loro preghiere e scrivono i loro più nascosti desideri sui frammenti di carta che infilano nelle fessure del muro; la Basilica del Santo Sepolcro sacra ai cristiani, che ha attraversato i secoli fino a noi come triste testimonianza delle ultime ore di vita di Gesù; la Cupola della Roccia sacra per i musulmani, simbolo duraturo della città e sicuramente uno degli edifici più fotografati sulla faccia della terra (almeno per me è stato così!).


ù Quando si passeggia perdendosi nei vicoli della parte vecchia, un sentimento di pace e vicinanza fra gli uomini si percepisce, si vive, si sente: Gerusalemme non è di nessuno, questa Città santa appartiene all’umanità e non può e non deve essere violata da casacche verde militare, da Stati che se la contendono, da giochi di potere che con la sua gente che quotidianamente la ama e la vive proprio non c’entrano nulla. Gerusalemme è un fiore selvatico che ha resistito nei secoli, credo anche grazie alla forza di chi la vive e la respira tutti i giorni, di quei turisti e pellegrini che calpestano quel pavimento acciottolato che trasuda Storia, speranza e voglia di stare insieme, io, tu, noi, voi, tutti insieme. Gerusalemme è un bene troppo prezioso per tutti per essere divisa da stupidi muri di cemento, e solo andando a visitarla, trascorrendo del tempo con i suoi abitanti, non importa di quale fede o di quale origine, che la si può capire e amare davvero. Come ogni viaggio che vuol anche essere un pochino vacanza spensierata ed allegra, io e la mia amica Magda ci siamo regalate, più o meno a metà vacanza, un intermezzo divertente ed avventuroso: la Giordania.

Si può fare il visto per entrare nel regno hascemita della Giordania in poche ore al consolato di Ramallah; abbiamo passato il confine tra Israele, Giorda-

nia e Cisgiordania in sole 3 ore all’Allenby/King Hussein Bridge, che ci ha illustrato perfettamente quanto surreale sia la situazione di calma apparente in Medio Oriente. Abbiamo attraversato a piedi una “terra di nessuno” lunga un paio di chilometri controllate, ripetutamente, da esercito israeliano ed esercito giordano (un grazie particolare alla Palestina che ha controlli decisamente meno invasivi!). Ma, a parte questo piccolo inconveniente logistico, siamo entrate poi in una Terra assolutamente amichevole ed ospitale, anche per due donne sole che scorrazzavano con una macchina con il cambio automatico inchiodando pericolosamente davanti a tutto quello che le si parava davanti.

Ahlan wa sahlam! Questo saluto, uno dei più utilizzati dagli arabi, esprime benissimo il modo in cui i giordani si relazionano con le persone che li circondano, in particolare con gli ospiti. Le parole che costituiscono la radice di questa espressione significano “persone” o “famiglia” (ahl) e “agio” (sahl), quindi questo saluto può essere approssimativamente tradotto come “sii uno della nostra famiglia e sentiti a tuo agio”. E in Giordania è stato proprio così: ci siamo sempre sentite a casa, fra amici, fra persone che, vuoi per lo spirito della maggior parte dei giordani, e in modo particolare dei beduini, fanno dell’ospitalità e della gentilezza una norma di comportamento sociale. Sì, le prime parole che mi vengono in mente ripensando a questa settimana giordana sono proprio di affetto per la popolazione, che ci ha sempre aiutate in tutte le nostre piccole difficoltà. La Giordania, nonostante le sue piccole dimensioni geografiche, vanta due delle mie personalissime Meraviglie del Mondo: Petra, dichiarata ufficialmente e a pieno titolo una delle “nuove” sette meraviglie del mondo, e il Wadi Rum, epico panorama che concorre al titolo di una delle Sette Meraviglie Naturali del mondo.


Le gigantesche ed imponenti montagne rosse e i grandi mausolei di una vita passata non hanno nulla in comune con la nostra moderna civiltà, e non chiedono altro che di essere ammirata per il loro vero valore come una delle meraviglie più stupefacenti che la natura e l’uomo, insieme, abbiamo mai creato.

Siamo arrivate a Petra al mattino molto presto. Davanti a noi il sentiero si snoda scendendo lungo il Siq, l’incredibile fenditura nel terreno che conduce alla città nascosta di Petra. Gli unici rumori che si sentono sono il risuonare degli zoccoli dei cavalli e dei muli che passano nella stretta gola. Uno dei motivi per cui io amo viaggiare non durante l’estate, è che i turisti in giro sono pochi: ero già stata a Petra nel 2006 nel mese di agosto, e il numero impressionante di turisti e gruppi all’interno del sito non mi aveva fatto percepire la pace e la quiete, lo stupore e la meraviglia che invece questa volta mi sono potuta godere appieno.

Questa vasta città, che mi viene così difficile descrivere perché secondo me solo gli occhi possono renderle giustizia, presenta delle caratteristiche uniche: i Nabatei, industriosa popolazione araba insediatasi in questa zona oltre duemila anni fa, la crearono dalla nuda roccia e la trasformarono in uno snodo cruciale per le rotte commerciali della seta e delle spezie. Nel suo periodo di maggiore prosperità, la città ospitava circa 30.000 persone, compresi scribi ed esperti ingegneri idraulici che costruirono dighe, cisterne e canali d’acqua. E oggi, passati più di duemila anni, tutto questo è ancora perfettamente visibile ed immaginabile. Non è straordinario? Una volta attraversato il Siq, si raggiunge finalmente, come Indiana Jones nella sua Ultima crociata, il vero Tesoro nascosto di Petra, la sua immagine più classica di cui è impossibile non innamorarsi perdutamente: Al-Khazneh (il Tesoro appunto). La facciata ellenistica, un trionfo di raffinatezza, simmetria, armonia delle proporzioni e grandiosità, è un capolavoro di maestria, capace di togliere il respiro a chi lo ammiri per la prima volta. Il Tesoro è solo una delle molte meraviglie che Petra può offrire, anche se sicuramente la più famosa: nella nostra escursione di 10 ore, io e Magda abbiamo visto centinaia di tombe scavate nella roccia con intricate incisioni, un teatro in stile romano capace di ospitare fino a 3000 spettatori, obelischi, templi, altari sacrificali e strade colonnate, mentre dall’alto domina la vallata l’imponente monastero di Al-Deir (raggiungibile da una faticosissima scalinata di 800 gradini scavati nella roccia ….. una bella fatica, ma anche per una pigrona come me ne vale assolutamente la pena!!!!).


Petra è affascinante e ti cattura, le dieci ore di cammino sono davvero volate e la fatica (a parte durante la salita al monastero!!!) difficilmente la percepisci durante la giornata. Solo quando rientri in albergo, la sera, e ti butti nel letto la stanchezza prende il sopravvento e ogni muscolo del tuo corpo implora pietà, ma lo stupore e l’ammirazione per le meraviglie che l’uomo, un tempo, era in grado di costruire ti fanno addormentare con il sorriso. E in termini di fascino e magnificenza, il deserto del Wadi Rum, il deserto di Lawrence d’Arabia, non è assolutamente da meno ….

tracciato si staccano numerosi percorsi attraverso la sabbia soffice del Wadi Rum, in direzione di un’area aperta dove convergono diverse vallate. Da qui, i percorsi conducono a diversi punti di interesse, come le formazioni rocciose dovute all’erosione del vento, che ha creato archi di roccia e funghi di pietra; le dune di sabbia, spettacolari soprattutto all’alba e al tramonto, sulle quali correre e ruzzolare scacciando via pensieri e preoccupazioni; i numerosi Siq e Canyon; la formazione rocciosa battezzata in onore del libro di Lawrence, I sette pilastri della Saggezza. Io, Magda e Walid, la nostra guida beduina, ci siamo divertiti un sacco: Walid avevi proprio ragione tu. Ripensandoci, non c’è nulla che il deserto non ti possa dare. E non c’è nulla che nel deserto non si possa fare. L’importante è lasciarsi trasportare, strapparsi di dosso ogni orpello, andando all’essenziale della nostra anima. “Il giorno nascente ci colse in marcia fra due grandi cime di roccia arenaria, diretti verso il confine di un lungo e dolce pendio che sembrava quasi rovesciarsi giù dai monti torreggianti davanti a noi. Tutto era coperto di tamerici: mi informarono che qui iniziava la vallata di Rumm. Guardammo verso sinistra, una lunga parete rocciosa che avanzava verso il centro della valle come una lunghissima onda infinita. A destra, la valle terminava invece con una sequenza di rossi colli aspri e frastagliati.

Il Wadi Rum offre esattamente ciò che ci si aspetterebbe da un deserto: caldo durante il giorno, molto freddo durante la notte. Siamo rimaste due giorni in un accampamento beduino, e anche questa è stata una bellissima esperienza: abbiamo aspettato il tramonto del sole con i beduini, quando i margini fra roccia e sabbia si confondono e tutto si colora di rosso; abbiamo cenato davanti al fuoco con loro, suonato, cantato e ballato durante la notte; dormito in una tenda beduina aspettando la fine della notte più silenziosa della mia vita. Di notte il deserto non parla e il silenzio è indiscusso protagonista, ma un silenzio assoluto e violento. La gita in fuoristrada è stata emozionante: oltre il villaggio di Rum, il fondo stradale si fa sterrato e dal

Risalimmo pian piano il pendio, aprendoci la strada crepitando attraverso le fratte secche e aride. Con l’avanzare della strada, i cespugli si raggrupparono in macchie, le cui foglie diventarono di un color verde più carico, e più puro, a contrasto dei contigui spazi sabbiosi di un delicato colore rosa. Il declivio si fece più dolce, fin quando la valle si ridusse ad una pianura inclinata e limitata. I monti a destra divennero più alti e ardui, in buona risposta alla sinistra che si drizzava ormai in un unico massiccio bastione purpureo. Le due pareti si accostarono e la valle rimase larga non più di tre chilometri; poi si alzarono sempre di più, fin quando i loro parapetti paralleli corsero sopra di noi, proseguendo per svariati chilometri come una lunga via dritta. Non erano pareti rocciose ininterrotte, ma composte da diversi strati con blocchi simili ad edifici giganti. Spaccature profonde, larghe cinquanta metri, dividevano i blocchi, le cui superfici erano state levigate e scavate dalla pioggia con alte absidi e scanalature, e presentavano fenditure e cesellature come in un


lavoro di arabesco. Caverne rotonde, lungo le pareti a strapiombo, occhieggiavano alte come finestre; altre, alla base, si aprivano come porte. Striature scure si allungavano giù verso le rocce in ombra, come macchie dovute ad una lunga usura. I picchi erano striati verticalmente nelle loro rocce granulari, il cui ordine primo poggiava su stratificazioni di blocchi infranti, alti duecento metri, di colore più intenso e di pietra più dura. Questo zoccolo non si presentava disposto a pieghe, come la roccia arenaria, ma frammentato in strati di pietre sciolte orizzontali, come la base di un muro. I blocchi culminavano in cumuli di guglie rosse, ma meno vivaci del resto dei monti, anzi alquanto grigie e non molto alte, che servivano a dare l’ultimo tocco di parvenza bizantina a questo luogo affascinante, una strada di pellegrini più lunga di quanto non si riesca a immaginare. La nostra carovana si rese conto della propria piccolezza, e divenne silenziosa, timorosa e vergognosa di ostentare la propria pochezza alla presenza della maestosità delle montagne. Solo le visioni di paesaggi in un sogno fanciullesco si affacciano talvolta così immense e silenti. Ripercorremmo il viatico della memoria per ritrovare quel prototipo di strada dove tutti gli uomini si avviano

fra due pareti simili a queste, verso uno spiazzo aperto come quello che ci stava dinanzi e dove la strada sembrava esaurirsi. Più tardi, durante le nostre frequenti scorribande, il ricordo mi convinse spesso ad abbandonare la via diretta, per schiarire i miei sensi con una nottata a Rumm, cavalcando giù per la vallata rischiarata dall’aurora, verso le pianure luminose, o percorrendola all’insù, nel tramonto, verso quello slargo luminoso che la mia timida anticipazione non mi permetteva mai di raggiungere. Cavalcammo per molte ore, mentre si ingrandivano le montagne e diventavano stupende nella loro geometrica disposizione, fin quando una fenditura nella superficie rocciosa, a mano destra, non ci permise di scorgere un nuovo prodigio. La frattura era poco più che una fessura in una parete di quel genere, e conduceva a una specie di anfiteatro di forma ovale, piatto di fronte con lunghe pareti a sinistra e a destra. Le pareti laterali si levavano a picco, come tutte le rocce di Rumm, ma sembravano più grandi, perché il pozzo era situato al centro del colle incombente, e la sua piccolezza faceva ingigantire tutte le alture circostanti. Il sole era tramontato dietro la parete sinistra, lasciando in ombra l’anfiteatro, ma i suoi bagliori morenti inondavano di clamorosa luce rossa le ali ai due lati e all’ingresso, e il massiccio infuocato dell’altra parete, dal lato opposto della grande vallata. II fondo dell’anfiteatro era ricoperto da una coltre di sabbia umida, sparsa di macchie scure di cespugli legnosi; alla base delle pareti si vedevano blocchi più grandi di case, talvolta simili a fortezze precipitate dall’alto; di fronte a noi, un sentiero, dal tracciato pallido per il lungo uso, saliva zigzagando su per lo zoccolo, al punto da dove partiva la lastra più grande, e lassù tendeva all’improvviso verso sud, lungo un argine basso segnato da occasionali alberi dal fitto fogliame. Da alcune fenditure nella roccia, celate dalle piante, uscivano strane grida: gli echi convertiti in musica delle voci degli Arabi che abbeveravano i cammelli alle sorgenti che sgorgavano lassù, a cinquecento metri d’altezza. Le piogge, cadendo sulla cima grigia del monte, parevano aver lentamente impregnato tutta la roccia porosa. Accompagnai con il pensiero il lento filtrare delle gocce, tratto dopo tratto, giù per quei monti di pietra arenaria, fin quando andavano a picchiare contro gli impenetrabili strati orizzontali dello zoccolo,


e pressati dall’alto, proseguivano la loro corsa sulla superficie, prorompendo in getti, alla congiunzione. Il buio ci avvolse rapidamente in quel luogo alto e chiuso, e l’aria pregna d’acqua ci parve fredda a contatto con la nostra pelle bruciata dal sole.” Lawrence d’Arabia. Dopo la piccola parentesi giordana, Magda ed io siamo rientrate in Israele e nuovamente in Palestina, alla volta di Betlemme. Qui siamo rimaste alcuni giorni ospiti di Aia, una ragazza palestinese che Marion aveva conosciuto a Roma lo scorso anno. Per me Betlemme è stata la sorpresa più bella della Palestina: le sue guglie magiche, il mercato che durante il giorno brulica di persone, le strade acciottolate del centro storico, la sua gente cordiale ed espansiva. Costruita lungo antichissimi sentieri carovanieri, la piccola città in cui Giuseppe e Maria si recarono per il censimento e dove nacque Gesù è uno dei centri più antichi della Cisgiordania. In Manger Square (la piazza della “mangiatoia”), eterno simbolo della cristianità, pregano insieme monaci e suore ai musulmani che si recano in pellegrinaggio all’unica moschea della città vecchia di Betlemme, la moschea di Omar. Come a Gerusalemme, anche nelle strette stradine di tufo di questa piccola e graziosa cittadina si respirano pace e tolleranza. La domenica mattina la Basilica della Natività è gremita di persone, per lo più palestinesi, monaci residenti e suore provenienti da ogni parte del mondo, ma tutti i visitatori sono i benvenuti se vogliono unirsi alle celebrazioni o fermarsi per qualche minuto di raccoglimento. Ma Betlemme, per me, rimarrà la città del muro, rimarrà la città della pace e della guerra, dell’uguaglianza fra gli uomini e della loro enorme distanza. Io e Magda abbiamo fatto una lunga passeggiata dal lato palestinese del controverso muro israeliano, abbiamo chiacchierato e raccolto le numerose testimonianze delle famiglie palestinesi che si sono rifiutate di abbandonare le loro case e convivono con la presenza ingombrante delle torrette presiedute dai militari israeliani, abbiamo sorriso di come i piccoli imprenditori locali sfruttano la presenza del muro per disegnare colorati murales, slogan e persino per affiggere i menù dei ristoranti. Le buone recinzioni fanno i buoni vicini. A meno che non vengano costruite nel cortile del vicino, come ricordano l’Onu e la Corte Internazionale di Giustizia. Purtroppo Israele non è della stessa opinione. Il governo israeliano continua infatti a costruire questa barriera, che mi spiegavano essere

in parte recinzione in parte muro, che corre approssimativamente lungo la Linea Verde stabilita nel 1967, che è il confine de facto tra Israele e un futuro stato indipendente palestinese (che esisterà mai?), con una serie di tortuose circonvoluzioni intorno agli insediamenti ebraici, che separano i palestinesi dalle loro comunità, dalle scuole, dalle imprese commerciali e dai terreni agricoli.

Per i palestinesi si tratta della sottrazione di risorse idriche e fondiarie. Lo chiamano il “muro dell’apartheid” e lo considerano parte di una continuativa e logorante campagna di pulizia etnica. Il governo israeliano, per contro, afferma che questa barriera è necessaria per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani. Questa brutta struttura consiste in larga parte di recinzioni con fossati e filo spinato; altre parti sono invece formate da una serie di lastre di cemento, disseminate di telecamere, sensori e torrette di guardia dove stazionano soldati armati. Sul lato palestinese del muro, si possono ammirare alcuni murales dell’artista inglese Banksy, uno dei


maggiori esponenti della Street Art, secondo il quale “alcune persone diventano dei poliziotti perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore. Alcune diventano vandali perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore da vedere”. Roger Waters dei Pink Floyd vi ha scritto simbolicamente i testi del suo brano “The wall”. Molti palestinesi, turisti, osservatori internazionali, studenti lo hanno poi riempito di messaggi dipinti sulla sua liscia superficie che parlano di pace, di rabbia, di giustizia, di orrore, a semplice testimonianza di quello che abbiamo permesso che accadesse in questa piccola striscia di terra. A Betlemme abbiamo conosciuto, fra le altre persone, la famiglia di Claire e Johnny Anastas, una delle più antiche famiglie cristiane di Betlemme. Claire e Johnny, con i loro cinque figli, abitano nell’unica casa in Palestina circondata su tre lati dal muro.

Prima che il muro di separazione venisse costruito, la strada davanti casa loro era la via principale che collegava Betlemme a Gerusalemme; prima del muro, questa era una strada trafficata, ricca di attività, ristoranti e negozi. Poi, dopo la sua costruzione, le famiglie palestinesi piano piano se ne sono andate via, hanno scelto di abbandonare la loro terra, hanno chiuso le attività, i negozietti, i ristoranti. E sono rimasti solo Claire e Johnny, con le loro figlie e i loro figli, costretti ad una vita in gabbia per non aver voluto abbandonare la loro Terra; costretti a vivere perennemente al buio, per non permettere ai militari israeliani di sbirciare nelle loro stanze, nelle loro vite. Costretti ad una vita da reimpostare e reinventare per sopravvivere: hanno aperto sotto casa un negozietto di souvenirs e all’interno della casa una guest-house, per quei tanti turisti attirati da un paio di notti in cella di fronte al muro. Loro però non ci passano solo un paio di notti; loro ci passeranno la vita, con quella volontà degna solo

di ammirazione per non aver abbandonato la loro terra, nonostante tutto. E’ questa famiglia il ricordo più bello di Betlemme.

E siamo così giunte ai nostri ultimi giorni di viaggio nella martoriata Hebron, uno dei gioielli nascosti della Cisgiordania, con una stupenda città vecchia, che ha dovuto affrontare e ancora affronta tragiche vicende. Secondo la tradizione islamica, Adamo ed Eva vissero qui dopo la cacciata dall’Eden; la presenza della Tomba dei Patriarchi (dove sono sepolti Abramo, Isacco e Giacobbe), invece, la rende un sito sacro per ebrei, cristiani e musulmani. Tutti questi elementi, anziché promuovere legami fra i popoli delle tre differenti religioni, hanno trasformato Hebron in una zona calda delle violenze religiose, culminate nel tristemente famoso massacro di Baruch Goldstein che, nel giorno della festa ebraica del Purim e durante il mese sacro del Ramadan nel 1994 aprì il fuoco sui palestinesi che pregavano nella moschea, uccidendo 29 persone e ferendone altre 200.

Ciò che distingue Hebron dalle altre città palestinesi è la presenza di insediamenti ebraici nel centro vero e proprio della città. Ci sono 5 insediamenti nel centro e altri, più vasti, nella periferia: la città è praticamente divisa in due zone, note come H1 (l’80% della


città, sotto il controllo palestinese) e H2 (circa il 20% della città, sotto il controllo israeliano). La zona a controllo militare israeliano comprende la Tomba dei Patriarchi e alcune aree della città vecchia, con una popolazione di circa 400.000 palestinesi e 500 (ripeto, 500!!) coloni ebrei.

Passeggiando per la città vecchia, oltre ad essere soffocati dalla presenza ingombrante dell’esercito, capita spesso di dover passare dei check-point (come quello tra Ramallah e Gerusalemme), solo che qui devi attraversarli nella stessa città, magari anche solo per attraversare un mercato di frutta e verdura. E i palestinesi, con quella calma che li contraddistingue e che personalmente non capirò mai, si mettono in coda e aspettano l’apertura dei tornelli e il controllo dei passaporti.

A causa dei diffusi atti di violenza e vandalismo, diversi gruppi internazionali di peacekeeping sorvegliano l’area e stilano rapporti sugli abusi perpetrati dai soldati israeliani e dai coloni ebrei. Secondo il Christian Peacemaker Team (CPT) nella città vecchia di Hebron sono presenti circa 4000 soldati israeliani per proteggere 500 coloni ebrei. Ci rendiamo conto dell’esagerazione, della prepotenza e dell’arroganza di questo Stato? A 500 fanatici religiosi è stato permesso di appropriarsi, facendosi sberleffo del diritto internazionale

e delle sanzioni imposte dall’ONU, di terre non assegnate a loro e uno stato come Israele invia, a tutela di queste persone, un dispiegamento così esagerato di militari?

Passeggiando tra le bancarelle del mercato palestinese, la mia attenzione viene catturata da delle grate poste sopra la frutta e la verdura, a protezione della mia testa perché i coloni sono soliti gettare l’immondizia dai balconi delle loro case appositamente per ferire le persone che stanno facendo la spesa.

Con tutta la buona volontà che ci posso mettere, come posso, come possiamo, giustificare questa


violazione dei più semplici diritti umani? Come posso considerare Israele una moderna e giustissima democrazia, come può uno Stato al centro della vita politica internazionale prestarsi a questo gioco al massacro? E per che cosa poi? Per la scellerate convinzioni di pochi fondamentalisti religiosi? Cosa può insegnare un padre palestinese alle sue bimbe se non a lottare per la loro Terra, per il loro futuro, nella speranza che un giorno possa esserci pace in questo Paese martoriato? E io cosa mi porterò da questo Viaggio? L’amarezza, la convinzione che in Medio Oriente la situazione non potrà mai cambiare e che i palestinesi sono solo dei terroristi che fanno saltare in aria i pullman israeliani? Ma io di violenza ne ho vista da una parte soltanto. E di soluzioni non ne ho. Ma vado via con la voglia sicuramente di ritornare; con la voglia di parlare di tutte le persone che ho conosciuto, per fare capire a chi è qui di fianco a me che le cose non sempre sono come ce le raccontano alla televisione.

Vado via con la speranza che tutti i ragazzi e le ragazze giovani con cui ho parlato non perdano la voglia di lottare e di crederci per davvero, un giorno uno stato palestinese indipendente e uno stato israeliano davvero potranno esistere insieme. Un giorno, tra pochi giorni, la nostra amica Marion prenderà di nuovo un aereo per Ramallah, perché lei si è davvero innamorata di questo Paese, e a cambiare le cose ci vuole provare davvero, non solo a parole. Le mie invece restano parole, di più per ora non riesco a fare: quello che posso però dire, anzi urlare a squarciagola, è visitate la Palestina, ne rimarrete sorpresi, rapiti, affascinati. E anche questo può essere per loro un piccolo grande aiuto.

Per vedere tutte le foto in linea e in grande, andate qui: http://www.flickr.com/photos/fisacgisp/sets/72157632913384208/


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