Focus ON 19

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ANNO 4 SET-OTT 2018

| Codice Fake news Formazione online Paradigma fiere E-sports Live communication

SEGNI E REGOLE Indispensabile, apparentemente semplice ma intrinsecamente complesso. Il codice guida, definisce e‌cambia.

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EDITORIALE

DARIO DE LISI

I

nternet ha aperto le porte a mondi infiniti abitati da indigeni ed extraterrestri. Viviamo una corsa all’oro dove quest’ultimo è costituito dalla smania di conoscere e sapere, prima per curiosità, poi per la semplice ma diabolica paura di rimanere esclusi (F.O.M.O.).

Abbiamo ottenuto la possibilità di accedere a nuovi linguaggi, apprendere nuovi codici, aprire le nostre menti a nuovi paradigmi, ma abbiamo rinunciato a farlo, trovando la perfetta scorciatoia. Abbiamo lasciato che i codici divenissero schiavi del tempo e del “tutto e subito”. La gratificazione istantanea ha imposto la semplificazione massima del codice annullando le differenze, le sfumature e forse anche i grandi insegnamenti di lingue come il latino e il greco dove la pazienza e la capacità rielaborativa sono ben più importanti dell’accumulo di nozioni, spesso neanche comprese, utili solo a diventare un hashtag per i social. Nascono nuovi termini in modo spontaneo e se non ci viene una parola non abbiamo reticenze a inventarne una, come nuovi Dante 2.0. Neologismi che, se piacciono, entrano spesso a far parte della lingua comune. Il tutto in un continuo flusso che la comunicazione pubblicitaria e i brand non possono far altro che seguire e talvolta sfruttare.

Non sarebbe nulla di irrecuperabile se il medesimo approccio non uscisse in modo prorompente dalle chat private, dai blog e dagli spot per inondare arrogantemente contesti che meriterebbero ben più dell’uso di slang o slogan, come la scienza, la politica e l’educazione. Territori dove la “pazienza” ha ancora la sua ragion d’essere e i codici linguistici il loro peso.


MANUELA ANDALORO

SARA D’AGATI

ANTONIO CARNEVALE

Oltre 18 anni di esperienza in servizi finanziari, strategia, digital transformation, marketing e comunicazione. Dopo esperienze in multinazionali, nel 2017 fonda SmartBizHub: azienda di consulenza in strategia, comunicazione e posizionamento. Appassionata di future tech, diversità di pensiero oltre che di genere, le STEM, gli “impact-makers” e l’Italia.

Un PhD a Cambridge in Relazioni Internazionali, un blog (“L’Utopista”) dove racconta il mondo che vorrebbe e un altro sull’“Huffington Post” dove si arrabbia per com’è. Scrive di innovazione per “la Repubblica” e dirige “The New’s Room”: la prima rivista cartacea curata da under 35 in Italia.

Nato a Roma, giornalista pubblicista dal 2012, ama la musica e il cinema, così come le nuove tecnologie. Da qui nasce il suo impegno su “StartupItalia!” e “Wired”. Appassionato di sport, ne parla su Radio Centro Suono. Cura la rubrica “Millennials” su “Focus On” insieme a Sara D’Agati.

IN PERIODI DI CRISI, GOVERNI E ISTI-

EREDITARE UN’ARTE STORICA DEL

OGGI I MILLENNIALS PRENDONO IN

TUZIONI SI TROVANO AD AFFRONTA-

MADE IN ITALY E PORTARLA AL SUC-

MANO LE REDINI DEL BUSINESS VA-

RE NUOVE SFIDE DI COMUNICAZIONE.

CESSO NEL 2018. SARA CONDIVIDE-

LORIZZANDO GLI ANTICHI MESTIERI

MANUELA CE LO SPIEGA IN DETTA-

CON NOI ALCUNI CASE STUDY DI IN-

ITALIANI.

GLIO NELLA COVER STORY DI QUE-

TERESSE SUL TEMA.

STO NUMERO.

MAURO FERRARESI

SILVIA BERNARDI

GENNARO ROMAGNOLI

Professore associato di Sociologia della Comunicazione presso il Dipartimento di Comunicazione, arti e media “Giampaolo Fabris” dell’università IULM. Direttore scientifico del Master in Management e Comunicazione del Made in Italy, del Master in Management e Comunicazione del Beauty and Wellness e co-direttore del Master in Marketing e Comunicazione dello Sport.

15 anni in testate nazionali (“Il Sole 24 Ore”, Radio 24, Rai), esperta di politiche culturali nazionali ed europee è titolare della rubrica Più Europa sulla Domenica de “Il Sole 24 Ore” e conduttrice per Radio 24 di Euroreportage e del programma Eu-Zone. Appassionata di tematiche sociali e ambientali, è reporter in spedizioni scientifiche.

Psicologo psicoterapeuta dal 2007, è membro del comitato scientifico di “Psicologia Contemporanea”, autore della rubrica Self-help Scientifico e del blog Psinel. Dopo 500 audio training, diversi video e oltre 1900 articoli nel campo della psicologia e dello sviluppo personale e professionale alimenta il podcast di psicologia e crescita personale più ascoltato in Italia.

IN QUESTA USCITA MAURO PARLA DEL

SILVIA

FONDATO-

GENNARO TORNA SU FOCUS ON PER

CODICE PARTENDO DALLA SUA ACCE-

RE DEI BEA AWARDS E INSIEME SI

SPIEGARE L’IMPORTANZA DELLA COMU-

ZIONE LATINA PER POI SOFFERMARSI

CONFRONTA CON LUI SULL’EVOLU-

NICAZIONE INTERNA PER LE AZIENDE,

SULLE DIFFICOLTÀ DI CODICI E LIN-

ZIONE DEGLI EVENTI E DELLA LIVE

TEMA DI CUI SI PARLA MOLTO MA CHE

GUAGGI NELL’ERA MODERNA.

COMMUNICATION OGGI.

NECESSITA DI ULTERIORE CHIAREZZA.

INCONTRA

IL


CONTRIBUTORS

RICCARDO STEBINI Bustocco di nascita ma milanese per adozione, cresce alla IULM fino a specializzarsi in Psicologia dei Consumi e Food & Wine Communication. Dopo un’esperienza nell’academy internazionale Business Strategies si innamora della formazione, in particolare dei master universitari.

LA FORMAZIONE ONLINE, UN TABÙ CHE FA DISCUTERE LE MULTINAZIONALI E IL MONDO ACCADEMICO MONDIALE. RICCARDO NE INDAGA I PERIMETRI CON L’AIUTO DEL PROF. RUSSO.

BARBARA TORASSO

STEFANIA TERETTI

FABRIZIO MARVULLI

La più giovane brand marketing manager in Adidas Group (a 26 anni). Gestisce la comunicazione di Reebok Classics e Basketball a Boston, si trasferisce poi a New York e apre il dipartimento Retail Relations & Marketing di Capsule Show. Dal 2018 gestisce Basic Properties America, rappresentando Kappa, Superga, K-Way, Sebago e Briko nelle Americhe.

Nata a Milano, laureata in Lingue con indirizzo comunicazione, è appassionata di viaggi, dolci e yoga. Dopo aver lavorato nella moda, nella produzione televisiva e nell’organizzazione di eventi, Stefania è oggi proprietaria e chef della bakery Ofelé a Milano.

Laureato in Scienze dei Beni Culturali e appassionato del mondo digitale, dopo un Master all’ Università Cattolica di Milano dal 2007 abbraccia il “lato oscuro” dell’Advertising e del Digital Marketing, prima come PM in FullSix e poi come Digital Account in DDB e BBDO. Da circa un anno si occupa di Advertising e Comunicazione per i clienti di Deloitte Digital.

CON BARBARA FACCIAMO UN EXCUR-

NELLA RISTORAZIONE È SUFFICIEN-

FABRIZIO CI ACCOMPAGNA ALLA SCO-

SUS SUI NUOVI MODELLI FIERISTI-

TE SERVIRE CIBO DI QUALITÀ? NE

PERTA DELL’UNIVERSO GAMING SOT-

CI CHE STANNO STRAVOLGENDO IL

PARLIAMO CON STEFANIA, CHE CI

TOLINEANDO

MARKETING MIX NEL MERCATO DELLA

RACCONTA LA SUA ESPERIENZA CON

GRANDI AZIENDE E BRAND STANNO

MODA (E NON SOLO).

OFELÉ E IL SUO MODO DI COCCOLARE

INTESSENDO CON IL MERCATO DEI

GLI OSPITI.

VIDEOGIOCHI.

LA

RELAZIONE

CHE


www.focuson.press

ANNO 4 NUMERO 19 Chiuso in Redazione il 19 ottobre 2018 Registrazione presso il Tribunale di Milano n.140

FRANCESCA CAGLIANI DIRETTORE RESPONSABILE

DARIO DE LISI DIRETTORE EDITORIALE

FRANCESCA PASSONI CAPOREDATTORE

ANDREA ALTELLINI ART DIRECTION

LIDIA ROSSI CONSULENTE EDITORIALE

PRESENZ A A DV commerciale@focuson.press REDAZION E redazione@focuson.press SEGNAL AZIO N I E IN FO info@focuson.press EDITOR E SG Company S.p.A. P. IVA 09005800967 SED E Piazzale Giulio Cesare 14 20145 Milano STAMPA Grafiche Bazzi Via Console Flaminio 1 20134 Milano


INDICE

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CRISI FINANZIARIE: QUANDO LA COMUNICAZIONE E L’ECONOMIA DELUDONO

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MILLENNIALS DO IT BETTER

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APPRENDIMENTO ONLINE, TEMPO DI CAMBIAMENTI

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Le parole della comunicazione: CODICE

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IL FUTURO DELLA COMUNICAZIONE È LIVE

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A GREAT PLACE TO WORK

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L’INGREDIENTE SEGRETO DEL MARKETING MIX? LE NUOVE FIERE

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QUANDO IL “BUONO” NON BASTA PIÙ

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CAMBIANO LE REGOLE DEL GIOCO

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PIERO CRUCIATTI


CRISI FINANZIARIE: QUANDO LA COMUNICAZIONE E L’ECONOMIA DELUDONO Comunicare una crisi non è semplice. Governi e istituzioni internazionali affrontano le nuove sfide della comunicazione strategica MANUELA ANDALORO Frames dal film The Big Short



È

l’estate del 2007, ho in mano una copia del “Financial Times”. Leggo con un misto di interesse, apprensione e aspettativa.

Interesse per le reazioni dei maggiori personaggi del mondo finanziario globale, apprensione per quello che sarebbe stato l’inizio di una delle più grandi crisi economiche e finanziarie; aspettativa verso i grandi protagonisti del mondo occidentale: come avrebbero comunicato ciò che stava succedendo? Quali i segnali, quali le strategie tanto di business quanto di comunicazione da

FAKE NEWS PEOPLE Da un sondaggio DEMOS del 2017

HA CONSIDERATO VERA UNA FAKE NEWS

56%

16% 27%

13% 22%

22%

Raramente 16% Qualche volta 27% Spesso 13% Non usa internet 22% Mai considerata 22% vera una fake news

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il ha considerato vera una fake news

parte di governi, finanza e stampa, per ovviare all’imminente impatto e conseguente strage mediatica, economica e finanziaria? Non lo sapevo ancora, ma stavo leggendo i primi capitoli di un disastro annunciato. Ben Bernake – all’epoca chairman della banca centrale statunitense Federal Reserve – affermava che la crisi dei mutui subprime sarebbe stata contenuta. Bush dava segnali confusi, il mondo assisteva allo sforzo titanico e scoordinato di salvare il sistema finanziario americano dal collasso. L’Europa osservava con apprensione crescente, poco dopo la sua


economia si sarebbe trovata nel mezzo di una delle più profonde recessioni dal 1930, con proiezioni GDP pari al 4% in due anni, la contrazione più brusca nella storia dell’Unione europea. Ho condiviso il tema con Laura Prina Cerai, Senior Investment Advisor di Altrafin AG, che ha commentato: “La banca Northern Rock nel Regno Unito si vedeva costretta a chiedere un prestito di emergenza alla Bank of England, banca centrale, e a essere nazionalizzata per salvaguardarne la solvibilità (ovvero per proteggere i depositi dei risparmiatori).

I clienti in coda fuori dalla banca per salvare i loro risparmi sono diventati una delle immagini più iconiche associate alla crisi finanziaria in Europa. In America la banca d’investimento Lehman Brothers nell’estate del 2008 entrava in amministrazione controllata (il famoso ‘Chapter 11’ della legge fallimentare statunitense) dopo 150 anni di attività e dopo la stretta creditizia (N.d.R. ‘Credit crunch’) causata dalla più grande bolla ipotecaria nella storia dell’economia mondiale. Gli istituti ipotecari Fannie Mae e Freddie Mac e la compagnia assicurativa

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HA CONDIVISO UNA FAKE NEWS

3%

22%

22%

8%

12% 33%

Non usa internet 22% Mai considerata 22% vera una fake news Mai condiviso 33% fake news Raramente 12% Qualche volta 8% Spesso 3%

IL 23% DEGLI INTERVISTATI HA CONDIVISO FAKE NEWS

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AIG venivano salvati dal governo la settimana prima con decine di miliardi di dollari pubblici. Crolli azionari, bancarotte, fusioni e ristrutturazioni hanno causato la perdita di milioni di posti di lavoro e grave sfiducia nel sistema, provocando l’inizio di un cambiamento fondamentale nel settore bancario. Hanno inoltre evidenziato gravi errori, mancanze e lacune di un sistema di informazione e comunicazione del mondo occidentale che ha fallito”. In tutto questo, nell’estate precedente al Credit Crunch accettai un ruolo nel settore finanziario londinese cogliendo l’opportunità di conoscere a fondo le dinamiche in divenire dall’allora cuore pulsante finanziario europeo. Un’esperienza durata oltre quattro anni, estremamente istruttiva, forte, positiva sotto diversi punti di vista. Molto può essere riportato di quegli anni dei governi, delle banche, del settore finanziario, dei cittadini e del mondo giornalistico. Al contempo molto può essere detto del fallimento dei modelli


LA COMUNICAZIONE STRATEGICA È VITALE PER INDUSTRIA E GOVERNI, DEVE TRASMETTERE GLI OBIETTIVI MA ANCHE EDUCARE IL GRANDE PUBBLICO. comunicativi dell’epoca e delle dinamiche politiche e di business ancora presenti oggi. La comunicazione strategica è vitale per industria e governi, deve avere il fine di trasmettere i propri obiettivi, intenti e strategie alle parti interessate e alla società, ma deve anche educare il grande pubblico. Agendo per quanto possibile da imparziali thought leaders su determinati argomenti e movimenti e lavorando per ridurre la falsa informazione, le fake news, la speculazione: i governi e l’industria hanno il dovere morale di fornire contesto e chiarezza. Collaborando e tenendo aperti i canali comunicativi con i media, con gli influencer, creando canali informativi di mutua fiducia.

La crisi finanziaria ha avuto non solo disastrose conseguenze economiche, ma ha anche impattato negativamente sulla fede del pubblico nel mondo finanziario – scalfendo la sua reputazione – e nei media. Molti critici dell’epoca si sono chiesti se i giornalisti finanziari avessero fatto abbastanza per scavare in anticipo alle radici dell’imminente crisi e, al contempo, se non avessero poi contribuito ad aumentare la sfiducia e la rabbia del pubblico. Cosa è andato storto? Di recente, in un’intervista rilasciata in occasione dei 10 anni trascorsi dal picco della crisi, Bill Emmott, direttore del The Economist dal 1993 al 2006, ha affermato: “La stampa aveva lanciato dei segnali di allarme, ma furono annegati dai media che si stavano trasformando in cheerleader della crisi. In altre parole, credevano fortemente che questa volta sarebbe stato diverso. Lo aveva annunciato anche l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Kenneth Rogoff, illudendosi. Credo che in parte la stampa sia stata


WALL STREET SUL GRANDE SCHERMO

•THE BIG SHORT Adam McKay | USA | 2015 “Io sto di fronte a una casa che va in fiamme e vi sto offrendo un’assicurazione contro gli incendi”.

•TOO BIG TO FAIL Curtis Hanson | USA | 2011 “Il credito è l’anima del commercio!”

•WALL STREET Oliver Stone | USA | 1987 “È tutta una questione di soldi, il resto è conversazione.”

BONUS TRACK! •AMERICAN PSYCHO Mary Harron | USA | 2000 “Ho tutte le caratteristiche di un essere umano: carne, sangue, pelle e capelli. Ma non un solo, chiaro e identificabile sentimento, a parte l’avidità e il disgusto.”

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responsabile della crisi, ma di certo non l’unica responsabile”. Ciò che è mancato in maniera più tragica e marcata durante la crisi del 2008 è stata l’abilità di comunicare specificatamente; di comunicare la natura del problema, i rischi, le motivazioni per cui solo in America fosse necessario spendere 700 miliardi di dollari dei contribuenti per risolvere il problema. Franklin Roosevelt è stato un genio della psicologia pubblica. Sapeva quando e come usare i mezzi presidenziali. I suoi primi 100 giorni di governo furono caratterizzati da aggiornamenti puntuali al suo pubblico esultante, spiegazioni su cosa stesse facendo e perché, in termini chiari, semplici e collaborativi. Gli storici di oggi ancora dibattono sull’importanza di Roosevelt: santo, abile comunicatore o manipolatore? Un misto di tutto questo? L’impatto dell’uomo che la storia ricorda come “Great Communicator” ha ancora effetti sull’America moderna. E oggi? La carenza di esperti di comunicazione strategica, insieme alla spesso poco compresa esigenza di creare canali comunicativi chiari, aperti e di fiducia tra pubblico, stakeholder, esperti e media, sembra essere una delle cause delle attuali crisi di governi e industrie. Come si spiegherebbero altrimenti le domande più frequenti su Google UK post Brexit? Prima e dopo il referendum gli inglesi chiedevano a Google “Cos’è la Brexit?” o “Cos’è l’Unione europea?”. Come spiegarsi il fallimento di una Unione europea che dovrebbe passare attraverso la cultura, l’istruzione, l’unione di forze tra Paesi?

“THE ART OF COMMUNICATION IS THE LANGUAGE OF LEADERSHIP.” James Humes Come spiegarsi la speculazione informativa, il successo di alcune campagne populiste e delle fake news? Il danno alla reputazione di alcune aziende e all’immagine di interi settori? Come adattare gli attuali modelli informativi


e comunicativi per rispondere alle esigenze crescenti di un pubblico – cittadini, professionisti, politici e mondo accademico – che ha più informazione, più stimoli ma poca chiarezza e prospettiva su molte questioni? Alla luce della digital transformation, i modelli comunicativi che più facilmente saranno adattabili e implementati su larga scala saranno basati su skill sociali e di intelligenza emotiva, e sempre di più ci apriremo a quello che gli esperti chiamano “AQ”: Adaptability Quotient, che ci consentirà di comprendere scenari e dinamiche e farà dei leader di successo dei maestri della comunicazione e delle relazioni, permettendo loro di capire al meglio il pubblico e renderlo partecipe e in alcuni casi complice. In questo contesto la parola chiave sarà sempre meno “stabilità” e sempre più “agilità”. Il mondo business di oggi richiede modelli comunicativi che si stanno spostando da un approccio top-down a un oscillante top-to-bottom, bottom-to-top. Individui motivati, di talento, con spiccate doti comunicative e un alto EQ (quoziente emotivo) e AQ in posizioni chiave in azienda sono ormai essenziali per il volto nuovo del business. I business moderni sono globalizzati e guidano il

cambiamento attraverso diverse piattaforme, aspetto chiave sotto vari punti di vista, non ultimo quello che riguarda il “reputation management”, fattore ampiamente trascurato dai grandi player finanziari e governativi durante l’ultima crisi finanziaria discussa. Sistemi di comunicazione globali ed efficienti non saranno più attuabili attraverso metodi di comunicazione convenzionali, e richiederanno un’attenta pianificazione. Il reputation management è una parte essenziale del business, tutto ciò che un’azienda afferma, fa, o trascura di fare, contribuisce alla sua reputazione e alla brand equity. In questo bisogna ricordare che una componente essenziale è l’ascolto: la comunicazione non è un processo a senso unico, ma multi-direzionale. L’ascolto di tutti gli stakeholder, media compresi, gioca un ruolo chiave nella comunicazione strategica nella sua completezza, dal branding all’impatto reputazionale. Per dirla come Peter Drucker – famoso consulente direzionale e autore –, la cosa più importante nella comunicazione è riuscire a sentire quello che non viene detto.

OUR FOCUS ADAPTABILITY QUOTIENT Oggi le aziende si impegnano ad attuare strategie quanto più efficienti per prosperare in un mercato in continua evoluzione. Devono aggiornare – o ricostruire – modelli di business maggiormente orientati al futuro e fare propri nuove modalità e nuovi approcci al lavoro. Mantenere la leadership di mercato è più arduo che in passato e la capacità di sapersi muovere in questo vortice di cambiamenti è ormai divenuta una qualità imprescindibile per le aziende e le loro risorse. Ecco perché il Quoziente

di Adattabilità è diventato un key factor. Definito “il nuovo vantaggio

competitivo” dall’“Harvard Business Review” e “il futuro del lavoro” da “Fast Company”, potrebbe essere la chiave di lettura per quei lavori che ancora non esistono ma che, secondo “Forbes”, occuperanno il 65% degli studenti di oggi. Azienda e dipendenti devono rivolgere la propria attenzione al cambiamento, di conseguenza dovranno entrambi essere flessibili per affrontarne le sfide e coglierne le opportunità esaminando efficacemente l’intero spettro di alternative.

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MILLENNIALS DO IT BETTER Come i giovani innovatori stanno rivoluzionando il lavoro: dalla comunicazione aziendale interna ed esterna alla sicurezza e ai processi produttivi. SA R A D ’AG AT I e A N TO N I O C A R N E VA L E

I

l lavoro così come lo conosciamo sta progressivamente scomparendo. Un mantra, questo, che ricorre ogni volta che si parla del futuro del lavoro nei Paesi protagonisti della rivoluzione tecnologica. Si susseguono report, studi, proiezioni su quali saranno i mestieri del futuro e quali, invece, si avviano verso una rapida e inesorabile estinzione. Tra i più accreditati, il rapporto The future of Jobs presentato al World Economic Forum di Davos, ci dice che il 65% dei bambini di oggi svolgerà professioni che ancora non esistono. Alla base di questa rivoluzione, che spaventa i più e galvanizza i tecno-entusiasti, ci sono gli sviluppi incrementali nei settori del digitale, della comunicazione, della robotica e della gestione dei dati. Per ovvi motivi, almeno stando alle statistiche, ad essere meno spaventati dai cambiamenti in atto sono proprio i giovani, che padroneggiano questi strumenti sempre meglio, tanto che molti di loro li stanno già utilizzando per sviluppare e migliorare diversi settori del mondo del lavoro. Al di là della ormai nota rivoluzione che l’utilizzo dei social, della

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comunicazione digitale e dell’e-commerce ha comportato per le aziende – in particolare nel retail – vi sono altri settori meno celebrati ma

SONO NUMEROSI I SETTORI CHE STANNO SUBENDO UNA RAPIDA TRASFORMAZIONE PER MANO DI GIOVANI INNOVATORI altrettanto importanti che stanno subendo una rapidissima trasformazione per mano di giovani innovatori, in misura sempre maggiore padroni dei nuovi strumenti. Tali trasformazioni investono l’intero processo, dal rapporto delle aziende con gli utenti e i lavoratori fino ai prodotti stessi. Antonio Giarrusso, per esempio, a soli 30 anni ha sviluppato Userbot, un software che sta rivoluzionando il settore del customer care. In un mercato sempre più competitivo e soggetto a meccanismi di valutazione da parte degli utenti, per le aziende oggi è cruciale


accontentarne le richieste e seguirli in ogni step. Gli utenti, dal canto loro, nell’epoca della disintermediazione richiedono un contatto diretto sempre più frequente ed esaustivo con chi fornisce loro beni e servizi. Questo inevitabilmente rende sempre più impegnativo per il personale incaricato rispondere rapidamente e con efficienza alle richieste dei clienti. Userbot, di fatto, funziona come una normale chat di assistenza, soltanto che, al posto di un operatore in carne e ossa, c’è un sistema di Intelligenza Artificiale. Grazie all’idea di Antonio, che ha già ottenuto un gran successo tra gli investitori, il vecchio compito dei centralinisti e degli addetti all’assistenza clienti viene svolto da un sistema completamente automatizzato, velocizzando e rendendo più efficiente l’intero iter. Non è soltanto la comunicazione tra imprese e utenti a essere rivoluzionata da giovani innovatori, ma anche quella tra le aziende e i propri lavoratori. Le innovazioni in questo campo, infatti, offrono risposta ad una questione tanto antica quanto spinosa:

quella della sicurezza sul lavoro. La start up Alea, lanciata da Giuseppe Merlino e Lucio Cosmo, ha elaborato Talkway: un sistema che trasforma lo smartphone in un walkie-talkie. Questo permette alle aziende di comunicare in tempo reale con la propria forza lavoro dislocata sul territorio superando le distanze geografiche e con costi contenuti. Quel che è più importante, però, è che attraverso un sistema di localizzazione, Talkway permette di monitorare i lavoratori a distanza e di segnalare alla centrale operativa situazioni di emergenza, allertando i soccorsi in modo automatico. Grazie al Bluetooth, inoltre, è possibile identificare eventuali problemi anche in luoghi dove il GPS non prende. Di sicurezza si occupa anche Smart Track, una start up innovativa ideata da giovani ricercatori dell’Università degli Studi di Genova che serve a prevenire le emergenze nei cantieri: grazie a un semplice dispositivo indossabile, verifica l’adeguatezza dei sistemi di sicurezza degli operai: dall’imbracatura all’altezza da terra. Non solo, Smart Track rileva anche

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eventuali collisioni o cadute accidentali e li comunica automaticamente all’headquarter dell’azienda. Il modo stesso di produrre sta subendo profonde trasformazioni grazie alle tecnologie digitali. Basti pensare a tutti quei prodotti della tradizione italiana, un tempo realizzati a mano, che oggi è possibile creare attraverso le stampanti 3D. Ne abbiamo selezionati alcuni, in linea con le tre celebri “F” del Made in Italy (Food, Fashion and Furniture). La pasta. Sembra incredibile eppure è vero: lo chef Eugenio Boer, con l’aiuto del progettista Gioacchino Acampora, ha lanciato il primo piatto interamente realizzato in digitale. Gli ingredienti vengono ridotti in forma liquida come fossero inchiostro e collegati alla stampante; quest’ultima, seguendo la “ricetta” del software, li cuoce e li ricompone attraverso un estrusore dando forma al piatto. La borsa. L’azienda torinese XYZBag permette ai clienti di customizzare online la propria borsa scegliendo tra vari design e inserendo nomi o frasi personalizzate, per poi stamparla in 3D. La sedia. Lanciata quest’anno al Salone del Mobile, Elbo Chair è una sedia realizzata attraverso l’uso di un algoritmo che determina i parametri dell’oggetto (peso, materiale, misure, etc.) e li comunica ad una fresatrice CNC. Il risultato che si ottiene è uno splendido prodotto di design. Al di là dei giudizi di valore, l’auspicio è che l’innovazione in tutti questi campi non sostituisca ma si integri ai settori del lavoro tradizionali, migliorandoli e arricchendoli.

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OUR FOCUS UN FUTURO TECNOLOGICO Nell’edizione 2018 del rapporto The

Future of Jobs pubblicato dal World Economic Forum si è

presentato il futuro del mercato del lavoro per gli anni 2018-2022. Quanto risulta è la percezione di manager e imprenditori di oltre 300 imprese a livello globale, ovvero più di 15 milioni di lavoratori. Lo sviluppo tecnologico la fa da padrona tra Big Data Analytics e IOT (Internet of Things).

Tecnologie in rapporto alle società propense ad adottarle entro il 2022 85% • Analisi dei Big Data

75%

• Mercati per app e web 75%

• Internet Of Things

73% • Machine learning 72% • Tecnologie per Cloud

59%

• Economia digitale

58%

• Realtà aumentata e virtuale 54%

• Crittografia

52%

• Nuovi materiali 46% • Dispositivi Wearable 45% • Archivi Distribuiti (blockchain) 41% • Stampa 3D 40%

• Trasporto automatico

37%

• Robot stazionari

36%

• Quantum computing

33% • Robot non umanoidi

fonte: The Future of Jobs Report 2018

28%

• Biotecnologia

23%

• Robot umanoidi 19% • Robot aerei e subacquei

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APPRENDIMENTO ONLINE, TEMPO DI CAMBIAMENTI Nonostante una reputazione altalenante, gli atenei telematici continuano a rispondere alle crescenti esigenze di studenti e professionisti. RICCARDO STEBINI


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U

n pensiero interessante sostiene che quando si studia un fenomeno, qualsiasi esso sia, bisogna rassegnarsi al fatto che sia già diventato obsoleto. In effetti gli anni in cui si guardava con stupore e meraviglia all’apprendimento digitale sono passati, senza che nemmeno ce ne accorgessimo è entrato nella quotidianità per diventare un elemento fondamentale della nostra vita e della nostra crescita. Come tutte le rivelazioni più interessanti, anche quest’epifania mi si è presentata in un momento assai bizzarro: litigavo con una cravatta. L’occasione la richiedeva e i consigli di mio padre su come annodarla sembravano non trovare alcun riscontro pratico… la risposta mentale è stata istintiva. Ho aperto YouTube, digitato “Come annodare la cravatta” e premuto invio. Ebbene sì, anche la miriade di tutorial che guardiamo riguardo gli argomenti più disparati possono essere categorizzati come e-Learning. Quindi come è cambiato il paradigma? In quali settori è più utilizzato? Ma soprattutto, come è cambiato il nostro percepito nei confronti di questa modalità di apprendimento che una volta ci sembrava così lontana? Ho deciso di farmi aiutare in questa analisi, per cui ho fatto quattro chiacchiere con Vincenzo Russo, che oltre a essere professore associato di Psicologia della Comunicazione e Neuromarketing presso la IULM di Milano è anche membro della Faculty e professore di UNINETTUNO, una delle istituzioni di riferimento in Europa per l’e-Learning. Una doppia vita accademica divisa fra “fisica” e “online” e un’esperienza decennale per quanto riguarda i comportamenti dei consumatori. Ci siamo subito trovati d’accordo sul fatto che il fenomeno e-Learning sia cresciuto esponenzialmente nel giro di pochi anni, in ambito sia accademico sia aziendale

LE GRANDI MULTINAZIONALI INVESTONO IN FORMAZIONE DIGITALE E PERFINO LE “STORICHE” DEL MONDO UNIVERSITARIO SI AVVICINANO ALL’ONLINE DEGREE

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Le grandi multinazionali investono in formazione digitale e perfino le “storiche” del mondo universitario mondiale si approcciano al settore dell’online degree. Ho subito approfittato di questo confronto per chiedere al professor Russo il suo parere su un argomento fra i più delicati. Nel pensiero comune, infatti, termini come “laurea per corrispondenza” o “telematica” e adesso “online”, hanno sempre avuto una reputazione piuttosto riduttiva, ovviamente se paragonati ai colleghi “fisici”. Esiste ancora questo fenomeno? Come vivono questi titoli le aziende? La risposta mi ha fatto riflettere.

LAUREA ONLINE NEL CURRICULUM: COME CAMBIARE IL PERCEPITO? Secondo Russo, tutto dipende dal contesto. Se nel curriculm di un ventenne si trova una laurea online senza altre esperienze accademiche, la prima impressione non è delle migliori. Se invece un titolo del genere arriva dopo i 30 anni – o anche in giovane età ma accompagnato da altrettanti anni di lavoro – il giudizio cambia completamente. Si dipinge il ritratto di una persona che ha continuato a perseguire le proprie ambizioni o che per mantenersi gli studi ha dovuto lavorare. Due realtà diametralmente opposte ma che partono entrambe da un preconcetto sbagliato: formarsi online è considerato più facile! Una leggerezza clamorosa. Parlando con il professor Russo è emerso che questo falso mito risulta spesso estremamente fuorviante, perché mette le due tipologie di percorso virtualmente in conflitto. In realtà questi modelli formativi sono diversi e, in alcuni casi, difficilmente sovrapponibili. Ci sono argomenti e dinamiche che fanno della presenza fisica un elemento imprescindibile, altri che si possono tranquillamente sviluppare online. I modelli didattici sono il discriminante e la corretta chiave di lettura. Un corso universitario o di formazione specifica classico, integra al puro contenuto una serie di dinamiche ambientali e contestuali che ne costituiscono il punto di forza: il contatto con i docenti, i lavori di gruppo, il confronto con i colleghi, etc. Un corso online invece si slega completamente da


queste caratteristiche, favorendo uno sviluppo prettamente teorico ma più rapido e fruibile. Ci sono argomenti che risulteranno sempre complessi da tramutare in contenuti online e formati digitali che saranno sempre più accessibili dei classici. Basti pensare alla possibilità di spezzare una lunga, seppur interessante, lezione di filosofia, in diverse “pillole” (video o audio) fruibili da smartphone. Come al solito trattiamo in queste pagine argomenti su cui sono stati scritti, libri, saggi e trattati, tuttavia il settore è da “tenere d’occhio”! È vero che l’argomento, in un certo qual modo, è già vecchio, ma solo in termini concettuali. Dal punto di vista tecnologico non abbiamo ancora visto niente. È il trend del momento. Le nuove dinamiche di interazione uomo-macchina apriranno un modo totalmente nuovo di formarsi. Immaginate un corso di alta oreficeria in Realtà Aumentata? Non è un’evenienza così distante. Si prospettano interessanti orizzonti per chi vuole imparare e, perché no, anche per chi vuole investire.

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M AU RO F ER R A R ES I

codice La parola “codice” deriva dal latino codex e in principio indicava il fusto degli alberi. Più avanti, per estensione, ha iniziato a denotare la tavoletta di legno su cui scrivere e, infine, il libro a fogli successivi – differente dal rotolo o dalla pergamena. In ambito giuridico il termine rimanda ad una raccolta di leggi, mentre in ambito biologico esso è il sistema attraverso cui si trasmette l’informazione genetica.

Il codice risente di una diffusa tendenza verso una maggiore elasticità e duttilità. Ma così facendo esso diventa meno regolativo. I cambiamenti repentini nei linguaggi – effettuati, per esempio, sotto la spinta delle subculture giovanili, e in generale influenzati dalle accelerazioni della società del consumo – arricchiscono continuamente le nostre comunicazioni, le cambiano e le trasformano.

In comunicazione il significato più stringente di “codice” è regolarità e condivisione di corrispondenze. Con questo termine entriamo nel sancta sanctorum della comunicazione perché senza codice condiviso non si comunica e non si è compresi dagli altri. Adoperare lo stesso codice è infatti necessario e imprescindibile perché l’informazione si trasmetta. Il codice specifica che a certi simboli scritti, per esempio le lettere dell’alfabeto, corrispondono determinati significati o ambiti di significato. Le lettere \c\ \a\ \s\ \a\ tutte insieme e in questo ordine rimandano, nel codice della lingua italiana, a un significato specifico che tutti noi sappiamo facilmente interpretare a patto di essere padroni di quel codice.

Per certi versi le svecchiano e le rendono più adeguate ai tempi, ma al contempo impediscono un passaggio fluido di informazioni. Il continuo allargamento e sfilacciamento culturale del codice a cui stiamo assistendo porta, in effetti, alla babele all’interno di una stessa lingua. Perciò risulta oggi molto più difficile comunicare a pubblici diversi, portatori di interessi diversi e di culture diverse che talvolta sviluppano codici talmente differenti tra loro da sfociare in una comunicazione infelice. Studiare bene il codice condiviso da un gruppo, da un pubblico, da un target o da una subcultura è perciò il primo passo imprescindibile per ben comunicare.

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IL FUTURO DELLA COMUNICAZIONE È LIVE Coinvolgere e stupire il pubblico: una riflessione su cosa occorre ai format creativi per sopravvivere e continuare a reinventarsi. S I LV I A B E R N A R D I Photo by ADC Group



“G

li eventi sono morti, la live communication è viva e vegeta”. Salvatore Sagone non ha dubbi: se una volta bastava una buona idea creativa abbinata a una buona logistica, oggi agli eventi (ma anche alle campagne di marketing e ai festival che premiano le idee creative) serve qualcosa in più in grado di durare nel tempo e di ingaggiare il pubblico e di conseguenza i consumatori. Per il presidente di ADC Group, ideatore del Festival Italiano degli Eventi e della Live Communication (Bea) e del BeaWorld, il Festival dedicato ai migliori eventi mondiali, ma anche, degli NC Awards, assegnati alle migliori strategie di comunicazione olistiche, e degli NC Digital Awards per la comunicazione digitale, le parole chiave per il prossimo futuro sono “hub” e “live”.

L’ELENCO DEI FESTIVAL E DEI PREMI LEGATI ALLA COMUNICAZIONE, NEGLI ANNI SI È SEMPRE PIÙ ALLUNGATO. COSA L’HA PORTATA AD INVESTIRE IN QUESTO SETTORE?

I premi, se seri, autorevoli e ben organizzati sono un riconoscimento importantissimo per la qualità del lavoro svolto. Servono a dare conferma che l’idea progettata e realizzata sulle esigenze dei propri clienti è stata un’idea vincente. Sono un marchio di qualità. Tutti vorrebbero conquistare il premio dato dal Festival Internazionale della Creatività di Cannes, che da 65 anni è la più grande vetrina mondiale delle diverse discipline della comunicazione. Come pure, nel mondo della live communication tutti vorrebbero vincere un elefantino al BeaWorld. Anche a livello locale, i premi nazionali sono un’occasione per segnare un punto di approdo per il lavoro di una squadra.

CHE COSA CARATTERIZZA I FESTIVAL CHE HA IDEATO E COSA ACCOMUNA I PREMI DEDICATI ALLA NUOVA COMUNICAZIONE E QUELLI PER I MIGLIORI EVENTI?

Ci sono due elementi che li caratterizzano e che allo stesso tempo li differenziano da

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tutti gli altri festival e premi dedicati alla comunicazione. Il primo: ad attribuirli sono delle giurie composte quasi esclusivamente da aziende, cioè da coloro che decidono dove e come investire i propri soldi nelle attività di comunicazione. Il secondo è che sono festival dove le agenzie in gara si esibiscono dal vivo e la giuria ha la possibilità di vedere live le campagne. Come accade nel format X-Factor con i cantanti, i concorrenti si presentano alla giuria che li osserva ai piedi del palco mentre raccontano, mostrano, integrano i contenuti della campagna selezionata.

QUESTO, OLTRE ALL’EFFETTO SPETTACOLO, COS’ALTRO COMPORTA?

Una maggiore trasparenza nelle votazioni e nell’assegnazione del premio, e soprattutto permette di fare network. Agenzie e aziende hanno la possibilità di conoscersi meglio: il premio stesso diventa una piattaforma di business, oltre che il riconoscimento del valore della comunicazione. Gli eventi poi sono aperti a tutti, anche alle agenzie non in gara, così si ha la possibilità di vedere i migliori al lavoro e di portarsi a casa idee, modelli di business, esigenze specifiche dei clienti.

COMUNICAZIONE E DIGITALE: COME EVOLVONO INSIEME?

Il digitale ha rivoluzionato totalmente la comunicazione. Oggi nulla è più pensabile senza l’utilizzo dell’ambiente digitale, che si tratti di Social o piattaforme di CRM. Oggi le campagne di comunicazione più efficaci, e quindi le più premiate, sono quelle che meglio sanno integrare i diversi mezzi di comunicazione. Inoltre il digitale ha cambiato il modo di fare gli eventi, mandando in pensione quelli tradizionali, ovvero le convention dove si presenta un prodotto, a favore invece di un’esperienza diluita nel tempo: l’evento inizia prima dell’evento stesso con una campagna di annuncio, si vive su più canali e lo si ricorda nel tempo anche attraverso i social.



QUALI SONO IN QUESTO MOMENTO I PAESI PIÙ VIVACI E ATTENTI NELL’ORGANIZZARE FESTIVAL DEDICATI ALLA COMUNICAZIONE?

Al di fuori dell’Europa Occidentale dove siamo tutti maturi in questo senso, direi soprattutto i Paesi dell’Europa Orientale, che stanno mostrando segnali di risveglio e di grande dinamismo. Ma penso anche alla Cina e all’Africa, la quale sta iniziando a sviluppare economie interessanti con nuovi mercati di consumo dove le multinazionali della comunicazione sono arrivate da tempo e dove ormai c’è una vita effervescente, in primis il Ghana e il Senegal

SE DOVESSE IMMAGINARE IL MONDO DEI PREMI LEGATI ALLA COMUNICAZIONE NEI PROSSIMI CINQUE ANNI COME LO VEDREBBE?

Partendo dalla premessa che ci sarà sempre bisogno di un ente certificatore della qualità della comunicazione, posso dire che i festival hanno un futuro assicurato. Non è in discussione la loro esistenza, sono in discussione invece le modalità di organizzazione e il modo in cui saranno capaci di evolversi. Penso di poter dire che l’idea di fare dei festival l’occasione di incontro delle persone, di renderli degli “hub”, sia quella che a lungo reggerà meglio. Non tutto si può vivere a livello digitale, la dimensione fisica rimane importantissima. Ci sarà sempre bisogno di un incontro tra domanda e offerta e, perché no, anche di un pizzico di divertimento con un coinvolgimento emotivo che può avvenire solo live attraverso l’offerta di contenuti che siano in grado di coinvolgere i partecipanti. Questi sono gli elementi che, se mescolati bene insieme, daranno lunga vita ai festival della comunicazione

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A GREAT PLACE TO WORK Sviluppare una cultura della comunicazione interna ed esterna per una “narrazione aziendale” inclusiva ed efficace. GENNARO ROMAGNOLI

Q

uando si parla di comunicazione aziendale ciò che salta subito all’occhio è come le aziende comunicano all’esterno ciò che fanno all’interno, quello che oggi viene anche definito “branding”. Sì, perché la maniera in cui l’azienda comunica ciò che fa diventa parte della sua stessa identità, del suo marchio, come diremmo noi italiani. Tuttavia è evidente che la comunicazione ha diverse direzioni e non va solo dall’interno all’esterno ma anche dall’esterno verso l’interno. Questo modo di comunicare rispecchia in pieno il funzionamento del meccanismo aziendale, cosa che in fin dei conti viene esposto al di fuori, diventando appunto “branding”. Molti sanno che le grandi società tech della Silicon Valley più che sembrare “cupi luoghi di lavoro” sono attrezzate per ogni svago: hanno tavoli da ping pong, campi da calcetto, sale per giocare ai videogame, per riposarsi e per meditare. Tutto questo serve per aumentare il benessere dei dipendenti, allo stesso tempo però è diventato

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anche un modo per attrarre nuove menti e per comunicare all’esterno la qualità di ciò che c’è “all’interno”. La comunicazione aziendale è da sempre vista come qualcosa di noioso, istituzionale e anche gerarchico. Chi sta all’apice della gerarchia tende a comunicare solo con il livello appena sotto e tutti sembrano far parte di una grande scatola cinese dove le persone comunicano tra di loro per “prossimità gerarchica”. Un’immagine che sembra essere uscita da un film di Fantozzi dove il Megadirettore Galattico comunica solo con dipendenti illuminati. Per fortuna si tratta di un ricordo lontano. Dalle prime sperimentazioni della lean production (il sistema di produzione leggera della Toyota) sappiamo quanto sia importante che tutti possano avere “voce in capitolo”. Nell’esempio del “toyotismo” tutti gli operai, anche gli ultimi arrivati, possono dire la propria sulla produzione e tali comunicazioni (quando tutto funziona bene) giungono anche ai vertici aziendali. Il Toyotismo nacque negli anni 70 in risposta al fordismo e alla logica della catena di montaggio,


dove ogni operaio non era altro che un singolo ingranaggio poco specializzato, che non doveva comunicare ma solo svolgere ciecamente la propria mansione. Gli ingegneri giapponesi vennero anche in Italia a studiare la catena di montaggio della nostra Fiat, che al tempo era un esempio fulgido di organizzazione aziendale. L’idea era quella di creare un’azienda “snella”, con poco magazzino e capace di adattarsi ai cambiamenti del mercato, e per farlo serviva una potente infrastruttura di comunicazioni interne. Nella lean production c’erano, e ci sono tutt’ora, meccanismi che consentono a tutti i dipendenti di comunicare in modo orizzontale (con i propri colleghi di reparto) e verticale (con i vertici aziendali). La chiave per mantenere l’azienda snella sta proprio nella comunicazione interna. Purtroppo però non è così semplice, non basta mettere un’urna con dei bigliettini anonimi per le lamentele del personale – cosa che non guasterebbe ma è troppo lenta per sortire effetti di miglioramento organizzativi. Ciò che serve è una cultura della comunicazione interna, dove ogni dipendente venga incoraggiato a comunicare periodicamente ciò che vuole dire all’amministrazione. Per farlo serve una cultura sostenuta da spazi, idee e strutture in grado di favorire questo

SERVE UNA CULTURA DELLA COMUNICAZIONE INTERNA DOVE I DIPENDENTI SIANO INCORAGGIATI A COMUNICARE scambio. Nella logica della “produzione snella”, si narra che i giovani ingegneri che arrivavano alla Toyota fossero invitati a partire dal basso, dalla catena di montaggio, per poter comprendere le esigenze di chi svolgeva quella mansione e capire come migliorare le comunicazioni. Questo è un ottimo modo per fondare una cultura della comunicazione aziendale, ma non è sempre fattibile al 100% Per fortuna oggi grazie alla tecnologia possiamo creare collegamenti sempre più rapidi e comunicazioni sempre più efficaci che consentano all’organismo aziendale di muoversi in sinergia.


Le aziende sono dei grandi ecosistemi sottoposti alle leggi sistemiche per le quali al variare di un singolo elemento varia l’assetto dell’intero sistema. Pertanto, che le persone “sappiano” non è un optional, è essenziale che tutte le parti del sistema abbiano le informazioni necessarie per poter operare in modo sinergico. Quando c’è una mancanza di chiarezza e di comunicazione accade che le persone riempiano gli spazi vuoti con “dicerie e fantasie”. Le prime circolano proprio quando non si sa “cosa fanno ai piani alti” (o a quelli bassi, dipende dal punto di vista), mentre le seconde si generano in virtù della mancanza di significato, un po’ come quando guardiamo una nuvola e ci vediamo un volto umano (il nostro cervello è disegnato per creare significati anche dove non ci sono). Questo significa far sapere tutto a tutti? No, perché diverse mansioni richiedono diverse informazioni, ma bisognerebbe dedicare molto più tempo a facilitare le comunicazioni interne, perché queste si riversano su quelle esterne. L’azienda tende a comunicare all’esterno nello stesso modo in cui comunica all’interno e anche se vi fossero geniali “uomini marketing” in grado di creare narrazioni stellari, prima o poi tutti saprebbero la verità. Per sopravvivere

i sistemi devono avere scambi con l’esterno e tali informazioni sono lo specchio delle comunicazioni interne, che non solo aiutano a far crescere il business, ma rendono l’ambiente lavorativo maggiormente trasparente e salubre. Esattamente come da anni ci viene detto che all’avanzare della velocità di Internet aumentano i fatturati delle nazioni, all’aumentare della qualità della comunicazione interna aumentano ricavi e benessere.



L’INGREDIENTE SEGRETO DEL MARKETING MIX? LE NUOVE FIERE! Le fiere storiche, i visitatori e i fatturati sono indicatori che dimostrano come nel mondo della moda e dello streetwear il settore fieristico sia cambiato rapidamente e in modo irreversibile. BARBARA TORASSO Photo by Zalando



I

numeri non mentono, ma i ricordi e un pizzico di nostalgia riescono a descrivere il cambiamento meglio di qualsiasi grafico. Un tempo i brand investivano cifre impressionanti nelle fiere di settore: gli stand occupavano aree immense da oltre 150mq dove musica e installazioni accompagnavano le novità del momento e i venditori fatturavano commissioni di vendita sempre maggiori. Le sirene di Ed Hardy by Christian Audigier si sentivano in tutto il Bread&&Butter ogni volta che veniva chiuso un ordine! L’età dell’oro del denim è nata proprio in queste manifestazioni: Levi’s, Wrangler, G-Star, Diesel, Tommy Hilfiger, Adriano Goldschmied e True Religion erano i marchi più in vista e in competizione. Stesso meccanismo per lo sportswear, con i giganti tedeschi come Adidas o Björn Borg pronti a investire budget importanti. Infine, il fattore emotivo: per i professionisti del settore le fiere erano un punto di incontro dove vivere emozioni e instaurare relazioni. L’arrivo dell’e-commerce ha segnato il cambiamento di questo mondo e, mentre i social media ne hanno accelerato il processo in maniera frenetica e, parafrasando il mitico Gil Scott-Heron, possiamo dire che “la rivoluzione non passa in TV”. Il Magic a Las Vegas ha costantemente perso metri quadrati dal 2008 in poi, mentre il Bread&&Butter a Berlino è passato nel giro di poche edizioni da 10 a due padiglioni.

MOLTE FIERE SATELLITE HANNO COLTO L’OPPORTUNITÀ DI CREARE UN SISTEMA COMPETITIVO DI NICCHIA Non è il più forte che sopravvive, ma il più aperto al cambiamento. Partendo da questo concetto darwiniano, molte fiere satellite hanno colto l’opportunità di creare un sistema competitivo di nicchia. Fiere come Capsule a New York o Seek a Berlino sono nate dalla volontà di imprenditori del settore di offrire una piattaforma B2B anche a quei brand che non potevano permettersi di spendere centinaia di migliaia di euro in grandi spazi espositivi, ma che comunque avevano una

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loro credibilità e legittimità sul mercato. Le nuove realtà erano in grado di generare entusiasmo da parte dei buyer più coraggiosi e la percezione del prodotto veniva rafforzata da un contesto più ricercato, un vero e proprio laboratorio, un modo per incontrarsi e per – come si dice in gergo – “fare ricerca”. Il fatturato era però lo stretto necessario per pagare le location e i team di produzione, mentre gli utili

LA CRISI NON HA RISPARMIATO NEMMENO IL MONDO DELLA MODA PORTANDO A SVILUPPARE UNA NUOVA PAROLA D’ORDINE: DIRECT-TO-CONSUMER erano minimi, quasi irrilevanti. I cambiamenti del settore e i nuovi modelli di consumo hanno colpito da un lato i piccoli negozi indipendenti, che hanno iniziato a scomparire dai centri delle città, e dall’altro le grandi catene, che non sono riuscite a garantire i giganteschi investimenti di real estate che avrebbero dovuto sostenere, molto probabilmente spaventate dal crollo del mercato immobiliare del 2007. La crisi finanziaria non ha risparmiato nessuno, nemmeno il mondo della moda. I tagli sui costi fissi e sul personale hanno portato a sviluppare una nuova parola d’ordine: Direct-ToConsumer. Sono numerosi i casi di successo del modello DTC, diventati sempre più importanti e sotto gli occhi di tutti: Supreme, Palace, Outdoor Voices e Warby Parker. Le fiere hanno dovuto rivedere completamente la propria offerta, non potevano continuare a proporre un modello di business e comunicativo basato sui codici di un mondo che non esisteva più, dove perfino la figura dell’agente è diventata superflua e superata dalla tecnologia. Il contatto con il consumatore è al centro della nuova offerta, anche se manifestazioni come il Sole a Dubai o Faces&Laces a Mosca andavano già in questa direzione. Nel 2015 l’incontro tra i fondatori di Capsule e Agenda trade shows (Gruppo Reed Exhibitions) e Complex Media (Hearst Publishing) ha dato vita al ComplexCon, la

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fiera che ha ufficialmente alzato l’asticella creando il più grande evento esperienziale per i Millennials mai visto nella storia. Complex avrebbe guadagnato il contatto diretto con il lettore (IRL) e Capsule/Agenda avrebbero finalmente offerto ai loro brand l’opzione B2C. La collaborazione tra i due soggetti, nati indipendenti e acquisiti da grandi gruppi attenti al cambiamento, non nasce a tavolino, anzi, è il frutto di una solida rete di relazioni portata avanti in anni di collaborazioni nei rispettivi campi. Un rapporto che si può definire di amicizia nel senso più autentico del termine. Il ComplexCon ha fatto suonare la sveglia per gli addetti del settore. Tutti hanno visto l’opportunità di recuperare gravi perdite

economiche così come di rilanciare brand che stavano faticando, tutti potevano finalmente conquistare un nuovo mercato. Centinaia di Millennials con le shoppers piene erano un’iniezione di fiducia. Poco importava se i soldi arrivavano dai genitori o direttamente dai ragazzi, la cosa importante era che “Eppur qualcuno consuma”. Gli eventi esperienziali dedicati ai teenagers si sono moltiplicati, rispettando sempre la nuova formula vincente del marketing per i Millennials:

MUSICA + ARTE + FASHION + DISCUSSION Musica. L’unico vero codice di comunicazione che i giovani usano, ascoltano, di cui si fidano e che li fa sentire parte della


comunità. In America musica è sinonimo di hip hop, mentre in Europa è soprattutto l’elettronica a coinvolgere le masse. Indipendentemente dalla geolocalizzazione, un evento per i Millennials deve sempre includere una componente musicale molto forte. Pharrell Williams è stato uno degli ambasciatori più importanti di ComplexCon sin dalla prima edizione, oltre a detenerne una parte di equity. Arte. Si tratta di una forma di investimento con un ritorno in cultura (negli Stati Uniti gli investimenti in arte sono deducibili al 100% dall’imponibile fiscale, in Italia gli sgravi si riducono a un sostituto d’imposta). Inoltre, l’arte contemporanea è un fondamentale veicolo di espressione e aggregazione per i giovani nati dagli

anni Ottanta in poi. Guardiamo per esempio la legittimazione dei writer: 20 anni fa si veniva arrestati per i graffiti, ora personaggi come Shepard Fairey, Banksy, OsGemeos, Space Invaders, Retna, Mr. Brainwash sono veri e propri idoli dei ragazzini e le loro opere vengono vendute all’asta contemporaneamente a quelle di Picasso. Hanno virtualmente raccolto il testimone di Keith Haring e Basquiat, due pionieri della street art. Takashi Murakami, artista contemporaneo giapponese e leader del movimento della “commercial art”, è stato il primo ambasciatore di ComplexCon, e ovviamente anche lui ne detiene una parte di equity. Fashion. Streetwear, sneakers e skateboard da collezione sarebbero gli elementi chiave



della moda accessibile. Il caso Supreme è il più fulgido esempio di come invece la politica della scarsità diventi lusso. Prendiamo il fenomeno Yeezy, la scarpa Adidas firmata Kanye West che ha reso famose per i non addetti al settore le lunghe code davanti ai negozi di sneaker. Recentemente lo streetwear ha contagiato e travolto il lusso, da Gucci a Balenciaga, passando per Vetements e Off-White e mille collaborazioni con i grandi marchi sportswear. Discussion. Parliamo in prima persona di questo mondo che cambia e facciamolo senza filtri. Panel, esperti e idoli del settore, trascinatori dei social media su un palco a discutere di mode, tendenze, futuro vs passato, e di social media stessi. I Millennials sono avidi di vedere dal vivo i loro

GLI EVENTI ESPERIENZIALI DEDICATI AI TEENAGER SI SONO MOLTIPLICATI idoli digitali, di porre loro domande o di essere presenti quando interagiscono fra loro. E gli altri settori? L’industria del beauty sta seguendo con attenzione questo modello e ha visto nascere realtà come Beautycon e POPSUGAR. “Vogue” l’eminenza grigia della moda, ha implementato il proprio evento esperienziale e ha voluto rendersi fisicamente accessibile a un prezzo inaccessibile per molti. Costo di partenza: 3.000 dollari. I media tradizionali che non si adattano ai cambiamenti vengono spazzati via, alcuni scompaiono (come “Interview”), altri diventano solo digitali (come “Teen Vogue”), altri invece dal digitale si espandono al cartaceo, come “Highsnobiety” o “Hypebeast”. DTC non è solo una sigla, è l’obiettivo comune, ma non avviene per tutti nello stesso modo. Questa serie di eventi si sta sostituendo alla funzione (anche sociale) del mondo retail. I negozi stanno diventando ordinari e tristemente vuoti, non trasmettono più quelle emozioni che rendono un oggetto desiderabile. Si è perso il concetto di stagionalità e non è più il negoziante o il catalogo a decidere quale sia l’ultima novità, sono i social media a farlo.

I pop-up shop o i release event riescono a trasmettere quel senso di nuovo e a innescare il desiderio del consumatore, anche online dove i release event sono una realtà affermata. Comunità, informazione, comunicazione e consumo stanno scappando dal mondo retail a grande velocità. Gli eventi B2C hanno sostituito lo status iconico di superstore come Fiorucci a Milano o Diesel a NYC negli anni Novanta. A Parigi ha chiuso Colette, e ora Sarah Andelman è board del prossimo Hypefest, il primo evento esperienziale di Hypebeast che si è tenuto nella Grande Mela il 6 e 7 ottobre scorsi. Se l’interesse per gli eventi è alto, è anche vero che l’industria continua a perdere forza lavoro e l’indotto del wholesale/retail moda è in netto peggioramento. Per concludere, non credo che questi eventi esperienziali possano risolvere problemi più grandi di connessione tra brand e consumatore, e nemmeno la crisi di identità che la moda stessa sta vivendo. Un primo passo da fare è sicuramente rafforzare il dialogo, ascoltare meglio i bisogni per rispondere onestamente e creare prodotti adeguati. Per dare più peso alla conclusione bisogna avere il coraggio di portare avanti l’identità del marchio a prescindere dai trend del momento, di essere veri. Hypefest non salverà nessun brand, ma un team di lungimiranti marketeer sì.


QUANDO IL“BUONO” NON BASTA PIÙ Uscire a mangiare a Milano: il sigillo di garanzia del Made in Italy che tanto ci distingue all’estero non è più sufficiente. Servono nuovi format e il ritorno a un’accoglienza più friendly. STEFANIA TERETTI Photo by Andrea Altellini

S

i sa, noi italiani abbiamo la cucina nel DNA e la convivialità nel cuore. Sappiamo ricordarci costantemente che l’uso sapiente delle materie prime, della stagionalità e della preparazione secondo le regole imposte dalla tradizione è il segreto di ogni realtà nel mondo della ristorazione. Potremmo anche dare ragione a coloro che oltre confine dicono: “In Italia mangi bene ovunque vai”. Però manca ancora qualcosa, ed è lo stesso qualcosa che mi è capitato di trovare spesso nei Paesi anglosassoni e che, da milanese doc, ho spesso faticato a trovare a “casa”. Quello che gli inglesi chiamano good vibes, un concetto che da noi verrebbe tradotto in “atmosfera piacevole” portando il pensiero verso l’estetica del locale o al massimo alla comodità delle sedute. Faccio un passo indietro. Sono nata e cresciuta a Milano, una città che ha sempre avuto l’ambizione di giocare un ruolo da protagonista nell’arena con le grandi

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metropoli straniere e, allo stesso tempo, una città in grado di avere una grandissima personalità che passa soprattutto attraverso l’energia di coloro che la abitano. Siamo veloci, siamo smart e a volte, per queste due caratteristiche, prediligiamo gli aspetti pratici delle cose piuttosto che quelli emotivi. Molti pensano: meglio un buon caffè veloce che perdere tempo in chiacchiere col barista. Abbiamo dimenticato quello che la pubblicità ci ha sempre descritto come “il momento più importante della giornata”. E anche io l’avevo in parte dimenticato, fino al momento in cui ho cominciato a viaggiare e a confrontarmi con il resto del mondo, trovando piccole pasticcerie o bistrot dove veniva voglia di entrare solo per l’atmosfera calda e curata nel dettaglio, ma mai maniacale. Quell’accoglienza col sorriso sempre sincero capace di lasciarmi con la sensazione che, per qualche istante, avevo trovato il mio posto in città. Quante volte mi sono ritrovata a dire “Come vorrei avere anch’io un posto così!”.


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Poi accade che la vita mi accompagna nel suo percorso e mi trovo a fare lavori complessi come la produzione TV e la produzione di eventi e che, con tutto lo stress che generano, mi fanno solo venir voglia di cercare quei luoghi carichi di good vibes dove poter staccare la spina per qualche decina di minuti, ritrovando me stessa e un po’ di pace interiore. A Milano, purtroppo, quei luoghi erano pochi; anzi, pochissimi. Fu proprio un sabato mattina che, andando a fare colazione in una delle pasticcerie più cool della città, mi ritrovai circondata da cibo di qualità eccezionale, servito però senza il minimo sorriso, tanto da farmi sentire quasi di troppo. Quel giorno di cinque anni fa decisi che avrei fatto in modo

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che nessuno, perlomeno nel mio locale, potesse mai sentirsi così. La soluzione è sembrata fin da subito molto semplice: creare un luogo dove le persone potessero sentirsi a casa, come quando da piccoli ci si rifugiava dalla nonna facendo tesoro di quel profumo di torta appena sfornata e godendo a pieno di tutte quelle attenzioni che solo lei sapeva darci. Nel 2014, precisamente il 7 aprile, Ofelé ha tirato su la saracinesca per la prima volta con una promessa chiara: far sentire coccolati tutti coloro che decidono di passare del tempo tra le mura della nostra piccola cucina. La coccola è diventata il nostro mantra e soprattutto la matrice attraverso cui pensiamo e comunichiamo ogni prodotto o esperienza


che prende vita all’interno della bakery. Da quel giorno abbiamo avuto la prova che il cuore dei milanesi non è così freddo come sembrava e che un sorriso sincero, un’accoglienza semplice e calorosa, una buona fetta di torta, sono in grado di farci sentire a casa e quindi un po’ più felici. Togliendo poesia e usando un termine di marketing, abbiamo compreso come l’experience potesse essere quel valore differenziale in più che, se variato in base ai gusti personali, al giorno o all’orario, avrebbe reso il nostro concept efficace e capito da molti. Con il tempo sono nati diversi modi per coccolare i nostri amici: dalla colazione preparata con un classicissimo cappuccino

e brioche, a quella più ricca con una fetta di torta e un estratto di frutta di stagione. Il brunch nel weekend con piatti della tradizione reinterpretati e torte home made realizzate seguendo le ricette di famiglia, come la Nutella Cheese Cake che distribuisce dosi abbondanti di serotonina a coloro che la provano. Con l’arrivo del nuovo spazio, che ha sancito il passaggio da piccola cucina a salotto di casa, abbiamo introdotto un’altra novità: per il dopo lavoro prepariamo i Rubitt, grandi piatti in piccole porzioni che fondono la migliore milanesità con gusti dal sapore internazionale. Perché sempre più spesso usciamo tardi dal lavoro e un buon drink, accompagnato da qualcosa da mangiare, diventa il “nostro momento” anche in una

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giornata stressante. Ma i format non bastano per scaldare il cuore. Serve stimolare le emozioni e generare felicità e inclusione, perché in fondo siamo tutti diversi e le cose che contano non sono le stesse per ognuno di noi. Per questo abbiamo pensato in primis ai differenti gusti ed esigenze di persone con scelte alimentari diverse offrendo sempre opzioni per chi segue una dieta vegan, gluten-free o lactose-free; qualunque sia l’intolleranza o la preferenza alimentare, facciamo in modo che non sia un ostacolo o un limite. Teniamo particolarmente a coccolare anche i più piccoli con attenzioni semplici: anche noi abbiamo amato giocare e colorare e quindi perché non lasciarglielo fare con pastelli e matite colorate per esprimere la loro creatività direttamente sulle nostre tovagliette? Last but not least, fin dal primo giorno ci siamo presi cura anche dei nostri amici a quattro zampe accogliendoli con ciotole d’acqua, biscottini e coccole anche per loro.

Fare bene da mangiare è fondamentale, ma oramai è il minimo sindacale. Farlo in un luogo che fa sentire i tuoi ospiti come se stessero andando a mangiare da amici o familiari, offrendo loro servizi che vanno oltre il semplice ristoro, è quel passo in più che il settore di mercato in crescita di oltre il 300% dopo Expo Milano 2015 è tenuto a fare ogni giorno della settimana, weekend inclusi. Farlo con un sorriso sul volto renderà più felici voi e tutti coloro che incontrerete lungo la vostra strada.

OUR FOCUS ITALIA e DANIMARCA: L’INCONTRO DI DUE TRADIZIONI • Rubitt

• Hygge

Dal cuore del dialetto milanese, i Rubitt sono

Il termine danese Hygge indica quell’attitudine

“piccole cose di pregio”, ovvero piccoli piatti

a trovare la felicità nelle piccole cose quotidiane.

sfiziosi serviti prima di cena. Su banconi di bar

Con un clima caratterizzato da grandi contrasti

e ristoranti si ripropongono assaggi delle ricette

tra caldo e freddo, di luce e buio, pare che questo

tradizionali della cucina milanese, spesso rivisitati

concetto di serenità sia nato proprio dall’idea di

in chiave moderna. C’è chi definisce i Rubitt la

trovare nella propria casa un rifugio accogliente dove

versione meneghina delle tapas spagnole, certo

raggiungere la serenità ed essere in pace con se stessi.

è che si posizionano in netto contrasto con gli

Oggetti di design, colori pastello e luci calde sono

aperitivi “all you can eat”, offrendo agli ospiti

gli elementi chiave per rendere uno spazio comodo

una chicca di sapori e qualità – in abbinamento

e relax-oriented. Dalla casa ai locali il passo è breve,

con un bicchiere di vino o un cocktail – a ritmi

l’Hygge influenza l’atmosfera di bar e ristoranti che

decisamente più “lenti”.

riproducono il concetto diffuso nelle abitazioni danesi. Tra coperte calde e avvolgenti e profumo di dolci appena sfornati, l’ospitalità abbraccia l’Hygge in tutte le sue sfumature!

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CAMBIANO LE REGOLE DEL GIOCO Crescita costante per la gaming industry che quest’anno raggiunge cifre a nove zeri, ma i grandi brand non restano a guardare… FABRIZIO MARVULLI Photo by Mauro Puccini/Red Bull Content Pool

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omplice una leggera deformazione professionale, uno degli aspetti che mi piace maggiormente osservare nelle varie attività di un dato brand è come questo sia in grado di rimanere fedele a se stesso e al suo belief anche in ambiti e contesti disparati che richiedono l’adozione di codici comunicativi profondamente diversi.

da comprendere e con livelli di attenzione e sopportazione rispetto ai messaggi pubblicitari, molto bassi o rasenti lo zero. Brand e videogame: un sodalizio non recente ma che si è arricchito e rigenerato ininterrottamente nel corso degli anni all’aumentare delle opportunità offerte dall’innovazione tecnologica, ancora una volta unico enabler esponenziale.

Per i brand, sempre alla ricerca di nuove occasioni per essere rilevanti e ingaggianti con il consumatore finale, console e videogames rappresentano forse uno dei territori più estremi e apparentemente lontani. Tuttavia risultano molto interessanti e affascinanti per due principali motivi. Da un lato c’è un mercato con indicatori in costante crescita e, di conseguenza, fonte di potenziali revenue dirette, dall’altro trovano un ecosistema in grado di attrarre audience tipicamente difficili

Con occhio da gamer occasionale, senza velleità di re-interpretare la storia, si possono fissare tre diverse fasi o trend di questo “legame”: • dopo una prima fase di timida collaborazione, i brand cominciano a presidiare con costanza i videogame. Si va dal brand posizionato sul pack a un product placement sempre più intelligente e integrato con il gioco in questione; • corsa all’App Store: le aziende colgono l’opportunità offerta dal proliferare dei casual


2018 | MERCATO GLOBALE DEI VIDEOGIOCHI Suddivisione per device e segmento con indicatore di crescita Year-On-Year

24%

$137.9 Mld +13.3% YoY

51%

25%

51% MOBILE

25% CONSOLE

$ 70.3 Mld

$ 34.3 Mld

+25.5% YoY

+4.1% YoY

41% Phone Games

24% PC

$ 56.4 Mld

$ 32.9 Mld

+29.0% YoY

+1.6% YoY

10% Tablet Games

21% Boxed Pc Games

$ 13.9 Mld

$ 28.6 Mld

+13.1% YoY

+4.5% YoY

3% Browser PC Games $ 4.3 Mld +13.9% YoY

fonte Newzoo| April 2018 Quarterly Update | Global Games Market Report | newzoo.com/globalgamesreport

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game sviluppandone varianti proprietarie – non mancano quelle di dubbia efficacia – con l’obiettivo di presidiare gli store di applicazioni e, soprattutto, gli smartphone di clienti e prospect; • produzioni cinematografiche, console connesse, advertising dinamica e targettizzata portano a un altro livello le potenzialità del mezzo, confermando, anzi rilanciando, il concetto di convergenza tra mondo virtuale e analogico. Tra gli svariati case study di questo ultimo trend, mi sentirei di isolarne un paio. Uno piuttosto di nicchia ma emblematico e un altro semplicemente significativo di come anche console e videogames possano essere determinanti nella strategia di un brand. Il caso emblematico rientra, non per caso, in una delle tendenze del momento: l’analisi dei dati. Anche il mondo del management sportivo è sempre più data-driven e da circa quattro anni i club di Premier League, la serie A d’oltremanica, utilizzano il database di Football Manager (storico gioco manageriale di calcio) per lo screening e lo scouting di giovani talenti in carne e ossa!

“VOGLIAMO CHE IN FUTURO LE FAMIGLIE VADANO ALLO STADIO CON I FIGLI A VEDERE GLI E-SPORT COSÌ COME OGGI LO FANNO CON BASEBALL, HOCKEY E BASKET” Nate Nanzer, Commissioner Overwatch League

La NBA presidia il mercato gaming dal 1999 con il suo NBA 2K vendendo fino a oggi, oltre 80 milioni di copie (solamente l’ultima edizione del videogame 2K18 ha registrato il record di vendite, superando i 10 milioni di pezzi). In partnership con l’azienda produttrice di videogiochi Take-Two Interactive, l’NBA ha fondato la “NBA 2K League”, la prima lega di e-sport di proprietà di una lega professionistica sportiva.

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Oltre a perseguire evidenti obiettivi di business (nuove entrate da eventi, vendita di biglietti, merchandising, sponsor e diritti di distribuzione), l’azienda si impegna a raggiungere l’obiettivo di mantenere il brand NBA top-of-mind nei clienti durante i periodi di off-season. Lo fa in maniera coerente con il proprio belief continuando a lavorare sul concetto di passione per il gioco – il cui claim è “This is why we play” e accompagna ogni campagna NBA – estendendolo in un periodo poco presidiato e spettacolarizzato. È recente il lancio della ePremier League da parte di Electronic Arts e Premier League. Si tratta del primo campionato elettronico di calcio la cui finale, programmata per marzo 2019, verrà trasmessa in diretta su Sky Sport.

Anche questa, a suo modo, possiamo considerarla marketing disruption, e sono curioso di verificarne i ritorni. Per il momento mi limito a immaginare nuove professioni, aspettando ruoli come il digital power forward o l’omnichannel point guard; risultati originati da un mercato del lavoro e di business sempre più ibridato con quello del gaming e del digitale.

OUR FOCUS E-SPORTS Gli e-Sports, ovvero “Electronic Sport”, sono competizioni di videogiochi a livello professionistico. Sono tantissimi i titoli e le tipologie di videogame protagonisti di tornei internazionali dove gamer di tutte le età si sfidano per vincere ricchissimi premi. Per capire quanto “ricchi”, basti pensare che quest’anno il torneo mondiale di DOTA 2 ha visto un montepremi totale di oltre 25 milioni di dollari. È ormai riconosciuto che i videogiochi si sono evoluti in una professione, dando vita non solo a un cambio di paradigma nel mercato dell’intrattenimento, ma anche – e soprattutto – a un giro d’affari fortemente impattante. Aumentano le arene costruite ad hoc per gli e-Sports, aumenta il giro d’affari, aumenta la domanda. E se fino a qualche anno fa si pensava a questo settore come al parco giochi dei nerd, oggi le aziende cominciano a presenziare a tornei, supportare società e squadre e forse anche a sgomitare per ottenere uno spazio tra gli sponsor…

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WE ARE

www.vimeo.com/doublevideo


PIERO CRUCIATTI



È

l’amore per il reportage che mi ha spinto a diventare fotogiornalista. Il desiderio di capire a fondo cosa succede davanti a me e raccontare una storia, che sia un evento commerciale, un avvenimento di cronaca, un conflitto o un fenomeno sociale.

La passione per lo storytelling diventa ancora più interessante quando si tratta di un evento commerciale. Mi piace documentare i processi, i motivi del successo delle eccellenze mondiali, il dietro le quinte dei piccoli e grandi eventi, raccontare i personaggi, le aziende e il loro contributo. Documentare la magia della nascita di un prodotto, la costruzione di una bicicletta dal primo bullone all’oggetto finito, la perfezione e la pazienza con cui si assembla un orologio di precisione, la cura con cui si maneggia un’opera d’arte durante una mostra, la concitazione nel backstage prima di una sfilata di moda. Ogni evento, ogni persona e ogni brand sono unici. Mi diverte pensare che, con la fotografia, si possa raccontare quell’unicità aumentando la brand awareness e rendendo il marchio ancora più riconoscibile e identificabile. Prima di diventare fotografo ho studiato letteratura e lavorato per quasi 10 anni in una multinazionale francese. Nel 2010, ho deciso di trasformare la mia passione per la fotografia in una professione e ho deciso di farlo a Londra. Da quasi tre anni sono tornato in Italia, arricchito dell’esperienza all’estero e, ancora più importante, con una prospettiva nuova sul mio Paese.

p. 56_ Backstage della sfilata di Ferragamo (Fashion Week di Milano) p. 59_ Visitatori del Salone Internazionale del Mobile a Rho-Fiera (Milano) / Neil Harbisson, primo uomo cyborg, sul palco durante una convention (Londra) p. 60_ Atleti del British Fencing Team durante il RHS Chelsea Flower Show (Londra) p. 62_ La sfilata di Alberto Zambelli (Fashion Week di Milano) / Un “momento social” per il CEO di Apple, Tim Cook (Università Bocconi, Milano) p. 63_ Concerto di riapertura Area Expo Milano 2015 / Giochi di specchi al Padiglione Italia (Expo Milano 2015)

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