Focus ON 16

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editoriale

Dario De Lisi

A

ssillati quotidianamente da studi che evidenziano quanto i Big Data siano la panacea di tutti i mali del marketing del nostro secolo, ci siamo convinti che raccogliere grandi agglomerati di informazioni sui consumatori potesse bastare a tracciarne profili e modelli di acquisto. Abbiamo poi scoperto che questi rappresentano più semplicemente il modo in cui abbiamo - per lo più consapevolmente - accettato di donare informazioni su noi stessi rinunciando per sempre (quasi altrettanto consciamente…) a una parte del nostro libero arbitrio. E infine ci siamo accorti che, senza una seria rielaborazione, in realtà i big data si stanno dimostrando sempre meno efficaci. Da qui la nascita della nuova frontiera degli Small Data che ci riportano a una dimensione più analogica e meno social come soluzione a domande scontate ma attualissime: cosa comprerà il mio target? Che “storia” sarà disposto ad ascoltare, quale canale dovrò utilizzare perché il mio messaggio venga non solo ascoltato ma compreso, fatto proprio? Questo numero lo abbiamo dedicato proprio ai canali, agli strumenti con cui raccogliere e trasmettere informazioni: come questi sono regolamentati e come oggi la panacea sia, forse, quella di ammettere che non esiste. Solo l’abile consapevolezza della complessità del linguaggio e delle dinamiche sociali ci può portare a un sapiente utilizzo di canali, tools, strumenti sempre più innovativi e complessi che integrati con cura possono darci la risposta tanto agognata. “Non c’è dubbio. Viviamo in una società nella quale prevalgono squilibri e meccanismi di solitudine indotti. Uno affida la sua sicurezza alle interazioni con iCloud, praticamente alle ‘nuvole’ e così si perde quella intuizione che si basa sull’interazione con gli altri in modo diretto: gestualità ascolto, possibilità di capire.” Martin Lindstrom, Small Data


S i lv i a Bern ardi

F EDER I CA brun in i

fran ces ca caglian i

15 anni in testate nazionali (“Il Sole 24 Ore”, Radio 24, Rai), è esperta di politiche culturali nazionali ed europee. È titolare della rubrica Più Europa sulla Domenica de “Il Sole 24 Ore” e conduttrice per Radio 24 di Euroreportage e del programma Eu-Zone. Appassionata di tematiche sociali e ambientali, è reporter in spedizioni scientifiche.

Scrittrice, giornalista, blogger e instancabile viaggiatrice. Fondatrice in Italia della Travel Therapy e autrice di manuali e guide di viaggio. Ha scritto per il “Corriere della Sera”, “L’Espresso”, “People”, “Grazia” e molte testate internazionali. Il suo ultimo romanzo è “Due sirene in un bicchiere” (Feltrinelli).

Dopo una laurea in Architettura, un master in New Entertainment Design e anni in diversi showroom di moda decide di dedicarsi alla sua vera passione: il giornalismo. Prima in “Ambiente Cucina”, del gruppo Il Sole 24 Ore, poi in Condé Nast dove si occupa principalmente di moda e bellezza. Oggi è co-founder di LikeMi e Likemimagazine oltre che direttore responsabile di Focus ON.

A lei l’apertura del numero con un’analisi dei consumi mediatici degli italiani e un esperimento rivelatore: due giorni senza smartphone, possibile?

In questo numero ci parla dei canali di viaggio per il 2018 e come il mondo MICE sta reagendo a nuovi trend dove l’esperienza, la condivisione e la cultura pop assumono un ruolo sempre più cardine nelle scelte dei viaggiatori.

Francesca ci ha portato al Lambrate Design District durante la Design Week e ci ha presentato Roberto Donno, un imprenditore che ha voluto credere nel distretto.

m au ro f errar es i

jac op o p oz zati

giorgio presepio

Professore associato di Sociologia della Comunicazione presso il Dipartimento di Comunicazione, arti e media “Giampaolo Fabris” dell’università IULM. Direttore scientifico del Master in Management e Comunicazione del Made in Italy, del Master in Management e Comunicazione del Beauty and Wellness e co-direttore del Master in Marketing e Comunicazione dello Sport.

Nato a Bologna, ex giocatore di basket, dice di avere il lusso di poter fare ciò che gli piace. Figlio d’arte e fondatore di attività come Backdoor, La Ferramenta, SOTF, Oltre, è consulente e dot connector per varie aziende come il gruppo BasicNet (Kappa, Superga, K-Way, Sebago), Woolrich, Sundek e freelance per manifestazioni e agenzie: Sole DXB, Capsule Show e Nss Magazine.

Giorgio matura una significativa esperienza in società di consulenza organizzativa aziendale. Esperto nella realizzazione di sistemi di risk management e modelli di compliance integrata (con riferimento alla data protection e responsabilità amministrativa d’impresa), è anche formatore in ambito Reg. UE 679/15 e D.lgs. 231/01 e componente Organismo di Vigilanza.

In quest’uscita mostra i diversi canali di comunicazione impiegati dalle grandi case di moda e i trend che stanno caratterizzando il mercato del fashion in termini di engagement.

in questo numero gli abbiamo chiesto di spiegare quali sono i rischi dietro i big data e cosa cambierà con l’avvento del GDPR.

Con il suo intervento rivediamo la parola “canale” in termini semiotici ed etimologici. Una guida che parte dal linguaggio per aprire nuove strade di interpretazione nel mondo della comunicazione.


www.focuson.press

AN N O 4

N UM ERO 1 6

Chiuso in Redazione il 27 aprile 2018

A n to n i o carn e va l e

s a r a d’agati

Nato a Roma, giornalista pubblicista dal 2012, ama la musica e il cinema, così come le nuove tecnologie. Da qui nasce il suo impegno su “StartupItalia!” e “Wired”. Appassionato di sport, ne parla su Radio Centro Suono.

Un PhD a Cambridge in Relazioni Internazionali, un blog (“L’Utopista”) dove racconta il mondo che vorrebbe e un altro sull’“Huffington Post” dove si arrabbia per com’è. Scrive di innovazione per “la Repubblica” e dirige “The New’s Room”: la prima rivista cartacea curata da under 35 in Italia.

Sempre in coppia con Sara D’Agati, per la sedicesima uscita di Focus ON scrive del potere dell’esperienza per i Millennials e di come questa possa essere una chiave di lettura per le aziende.

A seguito dell’analisi di Antonio carnevale, ci presenta un case study vincente non solo in termini di coinvolgimento del target ma come vero e proprio progetto integrato.

Registrazione presso il Tribunale di Milano n.140

francesca cagliani direttore resp on s abi l e

dario de lisi direttore editoriale

frances ca pass oni cap oredattore

g r e ta t r e m o l a da art direction

LIDIA ROSSI C ON S ULEN TE editoriale

presen za ADv commerciale@focuson.press

G E N N A RO ro m ag nol i

r i c ca r d o stebin i

Psicologo psicoterapeuta dal 2007, è membro del comitato scientifico di “Psicologia Contemporanea” e autore della rubrica Self-help Scientifico. Divulga la psicologia online dal 2005 e nel 2007 fonda il blog Psinel. Dopo 500 audio training, video e oltre 1900 articoli nel campo della psicologia e dello sviluppo personale e professionale alimenta il podcast di psicologia e crescita personale più ascoltato in Italia.

Bustocco di nascita ma milanese per adozione, cresce alla IULM fino a specializzarsi in Psicologia dei Consumi e Food & Wine Communication. Dopo un’esperienza nell’academy internazionale Business Strategies si innamora della formazione, in particolare dei master universitari.

è su Focus ON per parlarci di come la psicologia e il linguaggio influenzano la comunicazione sui vari canali, specialmente in Rete.

In questo numero ci presenta un’analisi della relazione tra università e imprese italiane, con uno sguardo all’estero e uno in Italia dove la situazione, per quanto “complicata”, pare presentare aspetti positivi.

Reda zion e redazione@focuson.press

segn ala zion i e in fo info@focuson.press

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sede Piazzale Giulio Cesare 14 20145 Milano

Stampa Grafiche Bazzi Via Console Flaminio 1 20134 Milano


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48 ORE SENZA SMARTPHONE

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MARKETING PER MILLENNIALS: IL POTERE DELL’ESPERIENZA

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I RISCHI NASCOSTI DEI NUOVI CANALI DI COMUNICAZIONE

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SPAZIO DONNO: UN NUOVO POLO DEL DESIGN A LAMBRATE

C ME


CHI ENO

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UNIVERSITÀ E IMPRESE ITALIANE IN UNA RELAZIONE COMPLICATA

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LE PAROLE DELLA COMUNICAZIONE: CANALE

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FARE ZAPPING NEL MONDO: I CANALI DEL VIAGGIO NEL 2018

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F.O.M.O: FEAR OF MISSING OUT. CHI MENO COMUNICA, PIÙ COMUNICA

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IL CANALE E LA COMUNICAZIONE: DUE ELEMENTI CHIAVE PER UNA SFIDA CHE NASCE NEL LINGUAGGIO E NELLE ABITUDINI SOCIALI

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IN CAMERA OSCURA CON FEDERICO BERNINI



48 ORE SENZA SMARTPHONE Un esperimento tutto italiano per riflettere sui consumi mediatici nostrani e su una realtà che tende sempre più a fondersi con il mondo digitale (o forse no?).

silvia bernardi

G

oito è un paese del mantovano affacciato sulla riva destra del Mincio con poco più di 10.000 abitanti. Famoso per quel Sordello che Dante spedì in Purgatorio. Qui, un professore di educazione fisica dell’Istituto Comprensivo ha dato vita a un esperimento che ha fatto molto parlare sia per l’iniziativa sia per l’esito. Ha chiesto a 70 studenti di terza media di trascorrere 48 ore senza cellulare. La reazione immediata dei tredicenni la possiamo facilmente immaginare. Sgomento, rifiuto, persino terrore. Ci sembra quasi di sentirle, quelle voci che dicono: “Nooo, non ce la farò mai”. Due-giorni-due senza quello smartphone sempre acceso, connesso e super accessoriato tra musica, giochi, film e serie tv sembrano una missione impossibile. I professori sono andati avanti noncuranti delle lamentele dei ragazzi e in accordo con le famiglie hanno fatto spegnere i cellulari, dopo essersi informati su quanto tempo passassero i ragazzi “dentro” al telefono (perché dire “con” il telefono è troppo poco). Su 70 ragazzi, 15 ci perdevano più di 4 ore al giorno e di questi almeno 5 più di 8 ore. La maggior parte (27), però, ha dichiarato di passarci 2 ore. Il telefonino, durante i compiti, viene tenuto sulla scrivania: “Per fare i conti con la calcolatrice”, si giustificano. 9


Un professore di educazione fisica dell’Istituto Comprensivo ha dato vita a un esperimento che ha fatto molto parlare sia per l’iniziativa sia per l’esito: ha chiesto a 70 studenti di terza media di trascorrere 48 ore senza cellullare


E le aspettative dei ragazzi in relazione all’esperimento? Negative per 22 di loro e così motivate: per 4 sarà come “vivere come i vecchi di un tempo”, per altri 8 “non succederà niente di interessante”, per 6 sarà “un fallimento” e per 4 “una noia”. Ma ce ne sono anche 25 che si aspettano di “fare cose che non facevano prima” e “divertirsi con amici e famiglia”. Di avere insomma del tempo a disposizione per coltivare delle relazioni. Fatto l’esperimento di due giorni, i professori hanno registrato i risultati. Persino i pessimisti ce l’hanno fatta, dedicandosi a cose che non facevano più, come chiacchierare. Sì, usare la voce. Uscire con gli amici, e non chattare con loro. E come si sono sentiti? Chi libero, chi perso, chi annoiato, chi fuori dal mondo. Questo micro esperimento ci aiuta a leggere una realtà macro. Il canale della comunicazione oggi è prepotentemente, dittatorialmente, quasi esclusivamente virtuale/ digitale/online. Mediato dalla tecnologia. I dati dei consumi mediatici degli italiani lo confermano e delineano in modo chiaro i canali principali, rovesciando una classifica che per molti anni è stata di tutt’altra natura.

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Il cinema, che in passato è stato il mezzo di comunicazione di massa più determinante nel veicolare valori e simboli di riferimento, occupa oggi l’ultima posizione tra i canali di comunicazione con appena il 2.1% delle indicazioni rispetto al ruolo egemonico conservato dalla televisione, 28.5%, e a quello conquistato ormai dai social, 27.1%, e più in generale da Internet, 26.6%. Sommando gli ultimi due dati si arriva complessivamente al 53.7%. Tra i più giovani Internet e i social network si attestano insieme al 56% e nella fascia d’età 30-44 anni addirittura al 66.6%, con la TV relegata al 16.3%. Con l’avanzare dell’età cresce l’influenza esercitata dai media più tradizionali, con la TV al 48.9% nella fascia tra i 65 e gli 80 anni. Scarsa è l’influenza esercitata da tutti gli altri media. Anche in questo caso emerge con chiarezza la perdita di rilevanza dei giornali, che si attestano all’8% scendendo addirittura al 5.9%, al di sotto della radio, tra coloro che hanno un’età compresa tra 14 e 29 anni. Un italiano su due, ma potremmo dire benissimo un europeo su due, come canale per informarsi, per comunicare, per scambiare informazioni, per relazionarsi, per acquistare, per intrattenersi, utilizza i social e la rete. Questo ha portato a modificare il linguaggio, la cultura, i codici di comunicazione arrivando a creare delle vere e proprie dipendenze. Lo hanno confermato i tredicenni di Goito e ancora di più lo confermano studi scientifici su larga scala.

Fonte: indagine Censis 2017

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Il canale della comunicazione oggi è prepotentemente, dittatorialmente, quasi esclusivamente mediato dalla tecnologia. Quale può essere l’antidoto a questa deriva che ha sostituito il reale con il virtuale?


Ma se da un lato è abbastanza facile capire come siamo arrivati fino a qui, non lo è altrettanto prevedere dove andremo e quali saranno i canali del futuro. Perché qualcosa sta cambiando e l’euforia social inizia a scemare. Colossi come Facebook vacillano su questioni che a noi dicono poco, come la privacy per esempio, ma che all’economia dei big data dicono molto di più. Google è sotto tiro dell’Unione Europea per la portabilità dei contenuti e per i diritti d’autore e si è ormai diffusa a macchia di leopardo la consapevolezza che poi tanto liberi questi mezzi non sono. E che come esistono blogger o fashion icon che acquistano qualche manciata di follower, ci possono essere altri (governi, banche, mercati) che acquistano ben altro (leggasi consensi). E allora? Quale può essere l’antidoto a questa deriva che ha schiacciato i canali della comunicazione in megabyte, che ha sostituito il reale con il virtuale, che ha portato alla scomparsa dei luoghi di aggregazione per crearne altri più liquidi ma non meno frequentati? Una chiave è certamente il recupero della soggettività. Se il dato di debolezza di una società si legge come l’incapacità del singolo di sentirsi soggetto, capiamo perché stiano crescendo le strategie che portano a una progressiva disconnessione. Dopo aver vissuto una stagione di iperconnettività ora una falange (progressista) di creativi, a esempio, invoca la disconnessione. Se vuoi essere creativo riduci la tua presenza in rete, la tua esposizione, recupera la tua soggettività. E magari mettila al servizio di un’idea, un progetto, un programma. Quello che sembra un ritorno al passato, ossia un recupero della dimensione reale, offline, è in realtà la vera frontiera.

Qualcosa sta cambiando e l’euforia social pare scemare in favore di un recupero della soggettività

Quanto tempo ci vorrà per convincere quel 56% di europei a ridimensionare l’utilizzo del canale virtuale a funzioni di servizio e a non essere al servizio? Sociologi, esperti di marketing e comunicatori non hanno la risposta. Forse però meno di quanto si possa immaginare, così come più velocemente del previsto è avvenuta la virtualizzazione della società. Ma di sicuro la richiesta c’è e ed è reale. Lo chiedono persino i tredicenni di Goito che non volevano stare senza cellulare. “La prossima volta – dicono – che proponete l’esperimento, coinvolgiamo anche amici e familiari”. Sì, perché mentre loro erano impegnati a “digiunare”, in casa si smanettava come sempre.

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MARKETING PER MILLENNIALS: IL POTERE DELL’ESPERIENZA Maggior coinvolgimento, rapidità e attenzione ai contenuti: ecco il modo per raggiungere i più giovani.

Ragazzi dello IED, campagna Air is Art


Antonio Carnevale e

Sara D’Agati

A

vvicinarsi ai Millennials è la grande sfida che accomuna tutte le aziende. Saranno infatti la fascia di consumatori che spenderà di più nei prossimi anni. Soprattutto online. Ma come fare per intercettare e fidelizzare questo ambitissimo target? Il brand è importante ma da solo, ormai, non basta più. Non è tanto il prodotto, infatti, ma l’autenticità dell’esperienza a dare valore all’acquisto. Ecco perché al brand devono essere affiancati validi strumenti di marketing engagement e una giusta customer experience. Innanzitutto, i Millennials si sentono sempre più parte di una community, dove condividono le proprie idee, esperienze e informazioni. E comprano online qualsiasi cosa, dall’abbigliamento ai generi alimentari. Secondo il report stilato da Buzz Marketing Group, l’85% si connette a Facebook ogni giorno e il 93% scarica quotidianamente app. Le decisioni d’acquisto sono guidate dalla conoscenza e dalla condivisione con gli altri utenti. Una delle chiavi, dunque, sta nell’utilizzare i social network in modo ottimale. Nella community ogni consumatore influenza gli altri. Non solo: l’ispirazione arriva da vip o celebrità del mondo lifestyle, o dai cosiddetti influencer, una risorsa ormai fondamentale per qualsiasi brand. Attualmente, secondo il report “Studio annuale dei social network” l’85% degli utenti dichiara di seguirne almeno uno. 15


Proprio a causa dei canali comunicativi utilizzati, il tempo diventa un aspetto molto importante. In base agli studi sulla soglia di attenzione sul web, il tempo utile per raggiungere il target è in media di 8 secondi. Ecco perché, per colpire l’attenzione degli utenti, è fondamentale proporre contenuti curiosi e accattivanti, sfruttando la dimensione visuale. Poco testo, via libera a foto e video e un alto coinvolgimento emotivo (vi dicono niente i gattini?). Inoltre, la maggior parte dei Millennials ama creare propri contenuti: gli utenti parlano delle loro esperienze con l’azienda, attraverso foto, video e commenti sul web. Dal canto loro, i brand devono incoraggiare questo trend, coinvolgendo i consumatori anche attraverso social contest o live-streaming. È proprio l’esperienza infatti, come detto, a creare valore per gli utenti. Non soltanto consumatori di un prodotto dunque, ma protagonisti di una storia comune. Un esempio. Con la sua campagna “Scattato con un iPhone 7”, Apple ha voluto coinvolgere i Millennials e la generazione Z, protagonisti del video promozionale che, attraverso le immagini scattate dai ragazzi, mostrava l’elevata qualità della fotocamera del nuovo nato in casa Cupertino. Ma ci sono esempi interessanti anche in casa nostra. Airlite, la tecnologia che si applica come pittura e riduce l’inquinamento, con il supporto di h+ e h films, ha scelto un modo di raccontarsi innovativo unendo gli elementi del coinvolgimento e dell’esperienzialità con la scelta di luoghi non convenzionali e contenuti più vicini ai Millennials, come la street art e l’attenzione per l’ambiente.

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I Millennials si sentono sempre più parte di una community, dove condividono le proprie idee, esperienze e informazioni. Avvicinarsi a loro è la grande sfida che accomuna qualsiasi azienda


Kristen Grove

Nell’ambito della Milano Design Week che si è recentemente conclusa, per esempio, Airlite ha lanciato il Teatro dell’Aria: una serie di lezioni di respiro tenute da insegnanti di yoga e professionisti delle tecniche di respirazione in luoghi strategici del Fuorisalone, dalla Triennale di Milano al Brera Design District a Garage Italia. Centinaia di ragazzi si sono recate agli appuntamenti per imparare le tecniche di respirazione. “È stato un successo, a giudicare dai tanti messaggi di ringraziamento che abbiamo ricevuto nei giorni successivi” racconta la Head of Marketing di Airlite Kristen Grove, che ha

scelto di lasciare la televisione (dove è stato un volto noto di MTV insieme a Kristen Reichert, con la quale formava il duo Kris & Kris) per seguire un progetto che può davvero avere un impatto positivo rispetto a una delle questioni che più affliggono le città oggi: l’inquinamento, appunto. Ancora più targetizzata per i giovani, è la campagna Air is Art. Si tratta di un movimento globale, spiega il manifesto, “impegnato a sensibilizzare verso il tema della qualità dell’aria e a migliorare gli spazi privati e pubblici in cui viviamo, come singoli e come comunità, attraverso l’arte.”


Questo avviene mediante la realizzazione di opere impattanti per il territorio, dipinte utilizzando Airlite. Di recente, nell’ambito di Air is Art è stata realizzata a Milano in collaborazione con Needle – un collettivo che si occupa di rigenerazione di spazi pubblici attraverso interventi di microarchitettura e nuove tecnologie per le città – un’installazione composta da una serie di pannelli dipinti con Airlite che conducono all’interno del Secret Oasis Garden del WWF dietro corso Garibaldi. Le tonalità dei pannelli, dal grigio all’azzurro, rappresentano il miglioramento della qualità dell’aria.

Garage Italia, Brera Design District

Altro elemento centrale di Air is Art è il ciclo di performance di live painting dell’artista Vera Pravda, che ha realizzato una serie di opere su tela utilizzando la pittura Airlite. A queste ha fatto seguito un murales di 70mq alla scuola francese di Milano, inaugurato a marzo 2018. Sono stati molti i giovani che si sono recati a vedere le opere di Vera Pravda, così come il murales. Guidati dall’hashtag #milanorespira, i ragazzi che avessero scattato la foto più divertente e in linea con il tema dell’aria avrebbero vinto un quadro realizzato dall’artista. Esiste quindi sempre più margine, oggi, per costruire delle campagne di comunicazione che abbiano 18

Performance di live painting dell’artista Vera Pravda


È proprio l’esperienza a creare valore per gli utenti. Non soltanto consumatori di un prodotto, ma protagonisti di una storia comune

Il progetto “Rebranding Air Is Art” è stato inserito nel corso di Immagine Coordinata dello IED di Torino

un focus sull’arte e sulla sostenibilità, nei confronti delle quali i giovani sono sempre più attenti. Lo dimostra la maggiore attenzione che, rispetto a target di età più elevati, mostrano per le questioni relative all’ambiente. Secondo uno studio di Bain & Company, “The Next Wave of Change”, il 70% dei giovani consumatori è disposto a spendere di più per prodotti sostenibili, dal punto di vista ambientale e non solo. Mentre da una ricerca di PwC intitolata “Think Sustainability, The Millennials view” emerge come per oltre il 50% dei Millennials la sostenibilità è un criterio determinante nella fedeltà verso un brand. Ricapitolando. Engagement, sia nel coinvolgere i ragazzi in un’esperienza, le lezioni di respiro, sia nella campagna di comunicazione stessa sui social (attraverso la realizzazione delle foto per il contest); canali e contenuti non convenzionali: utilizzo dell’arte, per esempio, in particolare la street art, come canale di comunicazione, ed enfasi sulla sostenibilità. Questi gli ingredienti di una comunicazione che tiene conto di quanto, per un target giovane, abbiano sempre più rilievo il contenuto, il livello di coinvolgimento, social e non, e l’elemento dell’esperienzialità; meglio ancora se il prodotto ha delle esternalità positive per l’ambiente in cui viviamo, tanto più che i Millennials lo abiteranno ancora a lungo. 19


Princeton University, New Jersey


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UNIVERSITÀ E IMPRESE ITALIANE

IN UNA RELAZIONE COMPLICATA

RICCARDO STEBINI Il punto di partenza

Per chiunque abbia un profilo LinkedIn sarà abbastanza facile verificare e riconoscere ciò che stiamo per descrivere. Il social del mondo del lavoro, per un giovane studente, magari laureato solo da qualche anno, a prima vista sembra una bellissima finestra aperta su una splendida giornata di sole. Fa tornare la voglia di sperare. Centinaia, migliaia di posizioni aperte da altrettante aziende e settori. Perfino in Italia sembra che ogni azienda abbia bisogno proprio di te. Ti senti come un attore al momento dell’apertura del sipario; l’adrenalina sale, sai le battute e non vedi l’ora di andare in scena. La realtà si svela dura come una doccia fredda dopo qualche cinquantina di application senza risposta e quando inizi a leggere con attenzione le proposte di cui sopra. Anni di esperienza richiesti: 7+. Filtra per livello di seniority: Entry Level. 0 proposte trovate. “Offresi tirocinio”, “Cercasi stagista” e così via. Ovviamente siamo nell’ambito delle generalizzazioni, ma se l’esperienza conta così tanto, se si sente raramente parlare di formazione al momento dell’assunzione, se è più facile cercare una figura che abbia già le skill necessarie, piuttosto che investire nel crearne una nuova e giovane, in che rapporti sono le imprese con il mondo universitario e della ricerca? In particolare quelle italiane? 21


Il dato rivelatore

Esiste un indicatore statistico che in pochi conoscono, ma che in realtà dovrebbe essere rivelatore per chiarire come le imprese riescono a dialogare con il mondo della ricerca in ogni Paese. Si chiama Trasferimento Tecnologico e non è altro che la quantità di ricerca e sviluppo di università e centri pubblici/ privati commissionata dalle imprese (in percentuale di PIL). Parliamo di brevetti, ricerche, ma anche capitale umano. Giusto per guardare prima nel giardino di casa nostra piuttosto che negli altri, basti sapere che in Europa l’Italia investe poco più di Malta (fonte: Commissione UE). Senza nulla togliere agli amici isolani, il nostro 14° posto ci allontana non poco dalla media UE e dalle nazioni leader come la Germania, che arrivano a investire fino allo 0.13% del proprio PIL.Sorvoliamo volutamente sul confronto con il resto del mondo per mantenere accesa la speranza. Cosa si evince da tutto questo? Che in Italia il mondo delle imprese e quello universitario vivono una relazione decisamente complicata. Che ci sia uno dei due che non possa permettersi di guardare all’altro con desiderio? In realtà no… Anzi.

ricerca e sviluppo di università e centri pubblici/privati, commissionata dalle imprese (in percentuale di PIL) o

germania svizzera olanda belgio ue finlandia grecia svezia francia spagna romania regno unito ungheria polonia bulgaria italia portogallo irlanda malta cipro 22

0.02

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Fonte: Commissione Ue

il Trasferimento Tecnologico é un indicatore statistico che in pochi conoscono


E se gli indici vanno in controtendenza?

C’è un elemento che rende ancora più curioso un indice di Trasferimento Tecnologico università/impresa così basso. Tralasciando infatti le esagerazioni politiche, il mondo dell’impresa italiano ha davvero in molti settori il segno positivo davanti. Nulla che permetta di affermare che tutto stia andando meravigliosamente, ma fra piccole, medie e grandi imprese, potrebbe esistere la possibilità di investire in risorse giovani da formare ed inserire nel proprio organico. É quindi il mondo della ricerca a non essere all’altezza? Possiamo smentire senza ombra di dubbio. La ricerca italiana è comunque molto distante dai leader europei, ma, a differenza di questi ultimi, che mostrano indici in contrazione, noi cresciamo da diversi anni in qualità e soprattutto in quantità (fonte: Anvur). In pratica in Italia le università formano professionisti validi e le imprese potrebbero permettersi di investire di più in Trasferimento Tecnologico.

È necessario investire su risorse più giovani e tecnologie/sistemi più all’avanguardia: due risorse di cui le università solitamente abbondano

La domanda sorge spontanea: perché non lo fanno? Qual è l’ingranaggio che si è inceppato?

Una proposta dall’estero

E se invece di guardare verso il resto del mondo con una “puntina” di invidia, provassimo a fare nostro qualche sistema virtuoso? Sicuramente nel mondo non è ancora passato del tutto il messaggio che è necessario investire su risorse più giovani e tecnologie/sistemi più all’avanguardia; guarda caso due risorse di cui le università solitamente abbondano. C’è però chi è molto avanti rispetto a noi, soprattutto nel sviluppare procedure che permettano un avvicinamento facile fra questi due mondi che in realtà dovrebbero essere quasi simbiotici. Per la logica di “puntare alla luna per atterrare sulle stelle” proviamo a guardare cosa fanno le università migliori del mondo e che rapporti hanno con le aziende.

Fonte: Anvur

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“The Path”: il percorso che molte università e aziende americane costruiscono insieme per guidare i neolaureati nel mondo del lavoro

Prendiamo per esempio l’Ivy League. Per chi non sapesse di cosa si tratta, sono gli otto college privati più prestigiosi d’America (Harvard, Yale, eccetera). Questi college hanno canali preferenziali con le aziende. Sembra quasi paradossale, ma sono i recruiter che si contendono questo particolare tipo di laureati e non viceversa. Per un tacito accordo chiamato ironicamente “The Path”, banche e società finanziarie sborsano milioni per aggiudicarsi i migliori studenti delle “Ancient Eight”. Esistono anche forme di interazione più comuni, in università meno prestigiose nel resto del mondo. Ricerche PHD commissionate da aziende (molto diffuse per esempio nell’ingegneria) o borse di studio finanziate da brand con la promessa (NB: da entrambe le parti!) di un rapporto di lavoro continuativo: “Ti pago gli studi, lavori per me per tot anni”. Una risorsa formata e garantita per i privati ed un’occasione unica per i candidati. Sicuramente potrebbe essere vincolante, ma sono certo che decine di studenti farebbero la fila per accedere a percorsi del genere, aumentando la competitività e di conseguenza il livello. Va riconosciuto che alcuni atenei, anche qui, stanno iniziando ad attivare percorsi che ricordano qualcosa del genere. È già un primo segnale. Concludendo... Ma è dunque così facile risolvere i gravi problemi relazionali italiani fra l’impresa e l’università? Basta provare qualche modello preso dall’estero? Questi ultimi sono perfettamente funzionanti? Ovviamente non esiste nulla di scontato e, prima di tutto, dovrà essere la mentalità dell’impresa a cambiare e ad aprirsi. Magari, in diversi casi, anche con un passaggio generazionale. I modelli di interazione università/impresa esteri, come i modelli precedentemente citati, non sono perfetti, anzi, hanno moltissimi difetti, dallo sfociare nell’elitarismo al formare studenti che entrano in realtà condizionate dall’effetto “too-big-to-fail”, che porta a un approccio al mondo del lavoro decisamente discutibile. Hanno però alla base un diverso obiettivo, una diversa visione: i giovani non sono qualcosa da “piazzare e aspettare che facciano esperienza”, ma una risorsa preziosa, che spesso va pagata cara. Per quanto riguarda l’Italia: fra alti e bassi e per usare una metafora a noi molto vicina, siamo riusciti ad avere due “giocatori forti”, che però da soli non riescono ad andare in rete. Proviamo a suggerire loro di passarsi la palla.

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M AU RO F ER R A R ES I

Il termine deriva dal latino canalis e indica, in senso lato, qualsiasi sede di scorrimento, in origine specialmente d’acqua. Nella disciplina che tratta la comunicazione il canale è considerato il mezzo fisico che congiunge l’emittente con il ricevente. Per esempio: i cari lettori che entrano in contatto con questa mia comunicazione stanno utilizzando il canale stampa (o, al limite, il canale web). Il canale non va confuso con l’elemento percettivo, cioè la vista che permette di leggere queste parole, e tantomeno va confuso con la scrittura, che è invece il codice che sto utilizzando qui e con il quale metto nero su bianco il mio pensiero. Potrei, infatti, usare anche i gesti, la voce, eccetera. Dei sei elementi fondamentali della comunicazione, il canale è diventato importantissimo quando si è scoperto, grazie a Marshall McLuhan, che attraverso il mezzo utilizzato per comunicare si cambia il portato semantico della comunicazione, ovvero: il mezzo è il messaggio. Per essere ancora più chiari: a seconda del canale che adopero il messaggio muta. Se utilizzo la televisione il messaggio acquista maggiore autorevolezza, se utilizzo il giornale esso acquisisce maggiore patina culturale, se utilizzo il web esso si “dialogicizza”, ovvero propone interattività e dialogo immediato. Il canale non è neutro e concorre, con gli altri elementi fondamentali di una comunicazione, a produrre significati. Per questo la scelta del canale è importante per produrre un risultato comunicativo superiore alla semplice somma delle sue parti.

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I RISCHI NASCOSTI DEI NUOVI CANALI DI COMUNICAZIONE Il nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (il già famoso GDPR) è finalmente entrato in vigore, ma se aziende ed enti pubblici dovranno rispettare regole rigidissime per tutelare la privacy degli utenti, questi ultimi sono pronti per i cambiamenti in arrivo?


giorgio presepio

N

el processo di comunicazione, il canale è tradizionalmente definito come il medium utilizzato dal mittente per trasmettere il messaggio al ricevente. La sua funzione è quella di permettere al mittente di comunicare in modo efficace, efficacia che è direttamente proporzionale alla ricchezza di informazioni che un dato canale riesce a trasmettere. Nella molteplicità di informazioni inviate, il link finale del processo è costituito dal feedback, ovvero la risposta e i segnali di riscontro al messaggio che aiutano a valutarne la validità. I nuovi canali di comunicazione permettono, come mai avvenuto in precedenza, di strutturare un percorso bidirezionale, in grado non solo di trasmettere il messaggio, ma anche di amplificare i feedback e le informazioni ricavabili dall’elaborazione degli stessi attraverso l’utilizzo delle tecnologie di analisi proprie degli strumenti. Tale processo, a fronte di indubbi e immediati vantaggi per i marketers, presenta dei rischi nascosti per i destinatari della comunicazione: occorre quindi una presa di coscienza indispensabile per un utilizzo consapevole dei new media al fine di massimizzare non solo le utilità ma anche le garanzie per tutti gli attori coinvolti.

I fruitori dei new media spesso sembrano dimenticare quanti dati crea la tecnologia che utilizzano, quali informazioni vengono raccolte e soprattutto che utilizzo ne viene fatto

Oggi l’utilizzo dei canali di comunicazione che si avvalgono della tecnologia digitale è in costante aumento, e le persone sono indubbiamente consapevoli dei vantaggi che la tecnologia offre. Siamo sempre collegati, in grado di contattare quasi chiunque da qualsiasi luogo, attraverso posta elettronica, messaggistica istantanea, chiamate e videochiamate. Possiamo comprare praticamente ogni cosa con qualche click e farcela recapitare a casa in poche ore, dettare un indirizzo e poi farci condurre in qualsivoglia strada del mondo ed esternare il nostro stato d’animo attraverso post, like ed emoticons. Abbiamo accesso a qualsiasi fonte di informazione direttamente dalla nostra tasca. A fronte di questi indubbi vantaggi, i fruitori dei new media sembrano però dimenticare diverse cose: quanti dati crea tutta questa tecnologia, quali informazioni vengono raccolte e soprattutto che utilizzo ne viene fatto. 29


Stati di Facebook, album fotografici, video di YouTube, tweet, e-mail, chat: non sono gli unici dati creati. Per esempio i social network memorizzano informazioni su ogni attività svolta dagli utenti: vengono salvati tutti i messaggi, anche quelli cancellati, sono registrate le informazioni su tutti gli accessi, la durata delle connessioni, i luoghi e i dispositivi da cui si è effettuato l’accesso. Gli e-commerce non si limitano a venderci dei prodotti, ma elaborano i nostri comportamenti d’acquisto attraverso la registrazione di una molteplicità di informazioni, per esempio, quante volte, quando, da che dispositivo e fino a che prezzo siamo disposti a spendere per acquistare un determinato prodotto. I motori di ricerca non solo ci forniscono le informazioni che ricerchiamo attraverso delle parole chiave, ma utilizzano i contenuti delle nostre stesse ricerche per aumentare a dismisura la quantità di dati che andrà a costituire la nostra identità digitale. La crescente sofisticazione del marketing e delle ricerche di mercato viene però argomentata dall’industria dei media, in particolare dei nuovi media, con l’affermazione che più ci conoscono, meglio possono mettere a punto la nostra esperienza utente in modo che il nostro tempo, sempre più scarso, e la nostra attenzione, sempre più selettiva, siano meglio impiegati. Di conseguenza, ci verrà presentato sempre più spesso ciò che vogliamo e non mostrato ciò che non vogliamo, con l’obiettivo di riuscire a inviare messaggi pubblicitari perfettamente cuciti intorno alla personalità di chi li riceve. Per orientare correttamente la pubblicità, i mezzi di comunicazione devono conoscere molto di noi e delle nostre abitudini. Ciò richiede enormi quantità di dati degli utenti. Non vi sono quasi più attività che non alimentino una raccolta di dati nella società dell’informazione: ormai da molto tempo l’obiettivo è passato dal fornirci l’accesso a “tutte le informazioni nel mondo”, a “raccogliere tutte le informazioni sul nostro mondo” per generare la nostra migliore profilazione possibile. La profilazione consiste nell’operazione di gestione, grazie a strumenti software automatici, di enormi masse di dati personali degli utenti – i big data – e di applicazione di algoritmi – anche di intelligenza artificiale – che identificano e segmentano le identità reali delle persone in identità potenziali e astratte, a ciascuna delle quali si possono attribuire caratteristiche specifiche, gusti e preferenze e si associano, infine, previsioni di comportamento e preferenze di acquisto o di tendenza sociale. Non meraviglia quindi che oggi le maggiori imprese del mondo siano le cosiddette “pure data company”, ovvero retailer senza negozi, operatori dell’informazione senza giornali né giornalisti.

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I social network memorizzano informazioni su ogni attività svolta dagli utenti. Vengono salvati tutti i messaggi, anche quelli cancellati, le informazioni sugli accessi, la durata delle connessioni, i luoghi e i dispositivi


IL GDPR INTRODUCE NUOVI DIRITTI PER I “PROPRIETARI” DEI DATI PERSONALI DIRITTO ALL’OBLIO Si tratta di un diritto alla cancellazione dei dati “rafforzato”, che punta a “far dimenticare” un individuo noto per fatti di cronaca che non abbiano più una rilevanza attuale e che possano costituire un pregiudizio per l’individuo stesso. È la naturale conseguenza di una corretta applicazione dei principi del diritto di cronaca al mondo digital.

DIRITTO ALLA PORTABILITÀ DEI DATI Permette agli interessati di ottenere i propri dati personali trattati con strumenti informatici, consentendo il riutilizzo degli stessi in diversi ambienti informatici gestiti da operatori diversi.

MAGGIORE CERTEZZA DEL CONSENSO Il consenso al trattamento dei propri dati non potrà essere più pre-marcato né acquisito per mezzo di comportamenti concludenti o formule non chiare; dovrà invece essere manifestato mediante un atto positivo inequivocabile, quale espressione libera, specifica e informata dell’interessato di accettare il trattamento. Potrà anche essere ritirato.


Aziende che hanno saputo sfruttare al meglio i dati delle persone, barattandoli con servizi apparentemente gratuiti e rivendendoli al meglio sul mercato. Che cosa significa tutto questo? La monetizzazione dei social media e più in generale del mondo digital va ben oltre la pubblicità mirata. Le aziende stanno raccogliendo e analizzando in profondità tutti i dati disponibili per fare collegamenti e scoprire insight che producano risultati migliori. I fornitori di servizi e le piattaforme dei new media hanno iniziato a condividere i dettagli dei clienti tra loro o con terzi per migliorare i propri risultati economici. Lo scambio di informazioni è ormai parte di un processo di business sistematico, destinato a crescere ed espandersi. E più questo processo si evolverà con l’utilizzo delle nuove tecnologie di analisi, più il nostro senso della privacy verrà eroso. Tutto ciò va ben al di là di quello che la maggior parte delle persone si aspetta. A volte i dati vengono rilasciati involontariamente. La loro raccolta è spesso celata dietro “condizioni di utilizzo” volutamente criptiche, burocratiche, poco trasparenti. La contropartita offerta in termini di utilità per l’utente è quasi sempre uno scambio al di fuori della sua consapevolezza cosciente, senza un vero consenso informato e una anche solo parziale comprensione degli usi a cui il dato è destinato. Tuttavia sarebbe opportuna una riflessione collettiva utile a metabolizzare quanto sta avvenendo e a capire fino a che punto tutto ciò si spingerà. Se le aziende prenderanno decisioni importanti, per esempio sulla base dell’attività degli utenti sui social, ci saranno campagne ben strutturate per cambiare il comportamento degli utilizzatori di queste piattaforme? E se questo meccanismo si rivelerà efficiente potrebbe essere utilizzato per finalità ulteriori rispetto a quelle meramente commerciali? Il libero scambio di idee e opinioni subirà un’influenza più forte e intenzionale? Non c’è un silver bullet per evitare ciò che sta succedendo. Non ci sono suggerimenti per gli utenti che desiderano mantenere gli ultimi scampoli della propria privacy se non quello di aumentare la propria consapevolezza circa il valore delle proprie informazioni personali. E che questa coscienza da individuale diventi sociale, contribuendo così a incentivare l’adozione di un efficace sistema di regole. È arrivato il momento di iniziare a riflettere criticamente su come i nostri dati possono essere utilizzati e su cosa questo possa significare per noi negli anni a venire.

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Lo scambio di informazioni è ormai parte di un processo di business sistematico. Più questo processo si evolverà, più il nostro senso della privacy verrà eroso


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IL CANALE E LA COMUNICAZIONE Sempre di più le aziende si trovano ad affrontare una doppia sfida: imparare a scegliere i giusti canali di comunicazione e soprattutto capire realmente come impiegarli per raggiungere il target. Un obiettivo tutt’altro che semplice ma che trova le sue fondamenta in ciò che condividiamo da sempre: il linguaggio e le abitudini sociali.

Gennaro Romagnoli

ium d e m il è il messaggio

N

ormalmente si tende a pensare che non conti il canale con il quale inviamo una certa informazione, quanto che questa non si disperda nel rumore di fondo e venga recepita dal destinatario. Nella teoria classica della comunicazione c’è un emittente (colui che invia l’informazione), un mezzo attraverso il quale viaggia l’informazione (il canale) e il ricevente. Negli ultimi anni però le cose sono radicalmente cambiate grazie all’esponenziale divagare della tecnologia della comunicazione: come già affermava il famoso sociologo Herbert Marshall McLuhan, “il medium è il messaggio”.

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Uno scienziato che desideri divulgare le proprie scoperte potrebbe decidere di farlo attraverso vari canali: sulle riviste scientifiche, sul proprio sito Internet o sui social. Tutti e tre questi canali avranno un effetto diverso, soprattutto se il contenuto resterà identico. Se lo scienziato prendesse l’abstract (cioè il riassunto di un articolo scientifico) e lo mettesse su una rivista di settore, utilizzerebbe il canale naturale di divulgazione della scienza. Qualsiasi ricercatore vedendolo sulla rivista non si stupirebbe neanche un po’ di quel modo di comunicare, mentre se quell’abstract fosse pubblicato come post su Facebook le cose sarebbero radicalmente diverse. Chi frequenta i social non è lì per attingere a informazioni scientifiche, ma per svago o per capire “cosa fanno i suoi amici”, quali sono le mode del momento e i temi caldi di cui discute la gente: un po’ come essere in piazza. E in piazza raramente si parla di abstract scientifici e di validità della ricerca. Bisogna adattare il linguaggio al tipo di canale e non viceversa. Uno degli errori più comuni nella comunicazione del brand aziendale sta proprio in una cattiva interpretazione dei canali e del linguaggio da utilizzare. No, purtroppo non esiste una “formuletta magica” per capire come comportarsi in base al canale o come adattarsi alle situazioni come faremmo dal vivo. Però possiamo studiare i diversi canali e capire per quali scopi possano essere maggiormente utili. Per esempio, tornando ai nostri social, sappiamo che questi non vengono usati direttamente per fare “proposte commerciali”, ma servono per la divulgazione di informazioni semplici ed utili. Andare su Facebook e cercare di vendere i propri prodotti, così come si farebbe in un mercato, è assolutamente da evitare. Viceversa se abbiamo una folta newsletter di fedeli seguaci è altrettanto inutile dare troppe informazioni senza una call to action che li porti a compiere le azioni che noi desideriamo, come per esempio acquistare un prodotto. Insomma, così come non andremmo mai a ordinare un vino di alta classe in un’osteria, dobbiamo tenere bene a mente che oggi il messaggio è determinato anche dal canale con il quale viene inviato. I pubblicitari sanno da sempre che esistono contenuti che funzionano meglio sulla carta stampata, altri alla radio e altri ancora in televisione. Ma al contrario di un tempo ciò che oggi possiamo fare è basare la scelta del canale non tanto su un “sentito dire” o su una “serie di ricerche di mercato”, ma sulle metriche scientifiche dei nuovi media. Mentre una promozione sui media classici non è direttamente misurabile – cioè non possiamo sapere quante persone realmente interessate la vedranno -, per il web le cose non stanno così. Possiamo selezionare vari social, vari canali di advertising e fare delle statistiche di una precisione millimetrica, sapendo esattamente quante persone hanno guardato il nostro messaggio.

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Bisogna adattare il linguaggio al tipo di canale e non viceversa, analizzando poi i big data possiamo decidere come modulare i nostri messaggi in base al canale scelto


Quante hanno aperto la nostra e-mail, quante hanno cliccato sui link, a che ora, da dove provengono ecc. È il famoso tema della profilazione online che oggi sta traballando a causa del recente scandalo di Facebook con la società Cambridge Analytica. Oggi grazie alla capacità di analizzare questi dati, possiamo decidere come modulare i nostri messaggi in base al canale. È una rivoluzione che non ha investito solo il mondo dell’advertising e della politica, ma ogni campo dello scibile umano. In particolare la psicologia, che in questi anni si è largamente avvalsa di questi “dati” per le proprie ricerche. Utilizzare gli strumenti di advertising che ci mette a disposizione il web è un po’ come aprire un negozio di scarpe in una via dove sappiamo che passano solo persone interessate alle scarpe. Perché siamo noi con la nostra profilazione a decidere a chi inviare il messaggio, ed è chiaro che la scelta del tipo di canale è fondamentale per questa profilazione. Attraverso Google AdWords, per esempio, Google ci permette di raggiungere tutte le persone che fanno ricerche riguardo un determinato ambito. Così se vendiamo case possiamo creare messaggi che verranno visti solo da persone che cercano la parola chiave “casa” e non da altre (o almeno si spera). Ma mentre sappiamo che su Google la gente cerca soluzioni a problemi, sui social le cose sono ancora diverse. Su Facebook infatti si tende a promuovere i propri contenuti, post, video ed eventi che interessano una nicchia particolare. Sono due strade interessanti che tutte le aziende dovrebbero percorrere ma in modo radicalmente diverso. Per vendere una casa o un elettrodomestico è meglio Google e per promuovere un evento mondano è meglio Facebook o Instagram. Insomma, come già prevedeva McLuhan, il messaggio oggi è il medium che utilizziamo – o meglio, i nostri messaggi dovrebbero essere “cuciti sul medium”. Proprio come faremmo se decidessimo di parlare a un bambino piccolo: ci chiniamo alla sua altezza, usiamo un linguaggio semplice e ci adattiamo alle sue esigenze.

PRE-SUASIONE, ROBERT CIALDINI Nel suo ultimo libro Pre-suasione, Robert Cialdini ci mostra tutta una serie di scoperte incredibili che arrivano dritte dal mondo dei “canali della nuova comunicazione”. Per esempio si cerca di capire come un colore, un’immagine o un suono possano direttamente influenzare le scelte delle persone che “atterrano” su una specifica pagina web. Qualcosa che ogni venditore ha sempre sognato: sapere prima l’effetto che la propria comunicazione avrà sui propri clienti e sul proprio pubblico.

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SPAZIO DONNO: UN NUOVO POLO DEL DESIGN A LAMBRATE francesca cagliani

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prile 2018. Ha aperto i battenti in una delle vie più caratteristiche e storiche di Lambrate – via Conte Rosso – un nuovo indirizzo che diventerà punto di riferimento non solo per il quartiere ma per tutta la città: lo Spazio Donno. Abbiamo incontrato il suo fondatore, nonché proprietario, Roberto Donno. Roberto ci accoglie a braccia aperte, portandoci in ogni angolo del suo spazio e raccontandoci nei minimi dettagli tutto ciò che ha fatto per dare vita a questo luogo. Le sue parole sono cariche di passione, dell’entusiasmo, di chi come lui arriva dalla periferia e non ha smesso nemmeno per un attimo di credere che i luoghi ai confini della città possano essere i nuovi (veri) poli della creatività. Chi è Roberto Donno? Roberto Donno è un musicista che viene dalla periferia. Dopo anni passati immerso nella musica sono diventato imprenditore, nel settore edile.

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Come ti descriveresti in tre parole? Sono un sognatore, con voglia di fare e di lavorare. Com’è nata l’idea di ridare vita a questo luogo? Penso che in questo momento in Italia ci vogliano spazi per accogliere le nuove idee. Noi italiani siamo un punto di riferimento globale a livello culturale, quindi dobbiamo dare spazio a tutto ciò che può portare cultura, bellezza e contenuto. Quando ho acquistato questa location non avevo chiaro l’obiettivo. Residenze? Studi professionali? Ma alla fine è nata la forte volontà di creare un luogo “utile” alla comunità. Un contenitore di idee e di creatività, dove i talenti del design potessero trovare spazio. I lavori di ristrutturazione sono stati impegnativi, ma il risultato è assolutamente all’altezza delle aspettative. Perché hai deciso di investire a Lambrate? Perché credo fortemente nelle sinergie che ci sono in alcune periferie, come Lambrate. Qui è nata la Lambretta! È un borgo speciale, con una forte identità. Bisognerebbe lavorare per trovare un collante che unisca tanti spazi, progetti e idee in grado di attirare attenzione, persone e novità. Lambrate merita di ingrandirsi sempre di più a livello artistico con contenuti innovativi e menti capaci, in grado di parlare una lingua comune. Ci dici due parole sull’importanza di uno spazio come questo, inteso come canale di collegamento fra il design e un quartiere storico come quello di Lambrate? Siamo a pochi passi dal Politecnico e Lambrate è un quartiere nato da un borgo di artigiani che ha dato poi spazio a menti imprenditoriali industriali. Lo Spazio Donno sorge su un ex ristorante e vanta al suo interno elementi architettonici storici e di rilevanza artistica che abbiamo mantenuto grazie a un sapiente lavoro di ristrutturazione. Vorrei che diventasse una casa del design, in una periferia attiva e frizzante. Un canale di collegamento fra i cittadini e i designer. Pensi che lo Spazio Donno diventerà quindi un luogo di condivisione, che i cittadini potranno frequentare per aggiornarsi, per vedere le novità in ambito di arte e design o anche solo per incontrarsi? Certo! Soprattutto un polo di comunicazione, di esposizione di idee e di condivisione per il quartiere e per tutta la città. Lo spazio dovrà essere un incubatore di creatività e diventare un punto di riferimento del design milanese, nazionale e, perché no, internazionale. Un’occasione per aprire un dialogo fra cittadini, designer, turisti, addetti ai lavori o semplici curiosi.

Roberto Donno Ph. Luca Binetti per LikeMi

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Spazio Donno, Lambrate Design District Ph. Luca Binetti per LikeMi



Lambrate Design District Ph. Luca Binetti per LikeMi


Cosa succederà qui dopo il Fuorisalone? La mia idea è di trovare collaborazioni e sinergie con persone che lavorano nell’ambito del design (come Stefano Epis di DesignCircus, con cui durante il Fuorisalone appena concluso sono nate idee nuove e complicità creativa). Lo Spazio Donno deve vivere tutto l’anno, non solamente durante la Design Week. Progetti futuri? Ho tante idee e tanti progetti. Al momento sto pensando ad uno spazio in via Tortona… ma svelerò i dettagli più avanti! Per ora pensiamo a Lambrate. La nostra chiaccherata sembra finire qui, ma in realtà siamo usciti sotto un caldo sole primaverile, approfondendo i discorsi iniziati, con l’idea di bere un caffè insieme. Roberto ci tiene che dall’intervista emerga ciò in cui crede, la sua passione per un progetto in cui ha investito davvero molte energie. Io, che abito e lavoro a Lambrate da anni, gli propongo un bicchiere di vino in una storica enoteca che si affaccia su via Conte Rosso. “Vieni Roberto, ci tengo a presentarti Andrea, un amico che ama il vino, ama il quartiere e ama raccontare ai suoi clienti tutto il suo sapere. Adesso siete vicini di casa, devi assolutamente conoscerlo”. Roberto non se lo fa dire due volte e mi segue per poche decine di metri. Andrea ci accoglie, come sempre, con grandi sorrisi, e ci versa subito un bicchiere di vino. Roberto mi racconta che è stato per anni un musicista, che ha partecipato al Festival di Sanremo e che suonava con grandi artisti (come la PFM). Mi fa vedere alcune sue vecchie foto sullo smartphone e mi spiega quanto la musica abbia fatto parte della sua vita. Gli chiedo perché ha smesso di suonare (e cantare). Mi risponde con un’immagine un po’ brutale ma verissima: “La musica è come una droga, crea dipendenza. O ti droghi, o smetti del tutto. Anche un fumatore può capire ciò che sto dicendo: o fumi, o smetti. Non esiste ‘fumare poco’ oppure ‘fumare solo ogni tanto’. O fumi, o non fumi”. La sua vita, poi, lo ha portato a diventare un imprenditore nel settore edile, nel quale crede fortemente, investendo in progetti ambiziosi che hanno come obiettivo quello di dare vita a nuovi concept e creare format innovativi. Nei posti giusti. Come Lambrate. Il nostro tempo chiacchiere è terminato. Lascio Roberto con la speranza di avere presto modo di ritrovarci, attorno a un tavolo, per condividere idee e progetti. Sono le persone come lui, che sognano e creano, a dare tanto non solo alle periferie ma a tutta la città.

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FA RE ZAPPING NEL MONDO: I CANALI DEL VIAGGIO NEL 2018 Nell’ultimo decennio il settore travel ha investito con maggior consapevolezza nel segmento delle vacanze esperienziali, personalizzando nel dettaglio spostamenti, itinerari e servizi. Lo scopo? Garantire al cliente un’esperienza di viaggio unica e customizzata di ora in ora – o di minuto in minuto – grazie al supporto della tecnologia e della rete.

FEDERICA BRUNINI

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our operator di nuova generazione, così come le cosiddette agenzie online, hanno puntato tutto sul concetto di “sartoria”, cucendo nuovi “cartamodelli” di travel experience addosso alle esigenze dei viaggiatori, singoli o in gruppo, proponendo soluzioni innovative e contribuendo a rinnovare il comparto. Da questa necessità, infatti, sono fioriti quei fenomeni che chiamiamo travel niches, boutique tours, e la sempre più agguerrita schiera di travel consultant o travel designer. Oggi però, questa “nicchia” sta attirando l’attenzione dei grandi attori del mercato generalista dei viaggi (Booking.com, TripAdvisor, Airbnb...), determinati a non lasciare nessuna briciola sul tavolo, bensì a spazzolarle tutte. Come? Primo, declinando la richiesta individuale (micro) nel ventaglio dei grandi canali dell’offerta (macro) e, secondo, ripercorrendo le tappe della customizzazione al contrario: trasformando cioè le esigenze dei singoli in modelli complessivi di riferimento. Vediamo nel dettaglio quali saranno nel 2018, sia nell’ambito consumer sia in ambito MICE, grazie ai dati raccolti da Booking.com.



DREAM EXPERIENCE

Il 45% dei viaggiatori chiede di sperimentare “l’esperienza della vita”. Il desiderio di accumulare ricordi, piuttosto che beni materiali, è alla base della richiesta di viaggi unici. I viaggiatori sono sempre più impazienti e inclini alla gratificazione istantanea e la tecnologia è lo strumento che permette loro di ottenerla. L’intelligenza artificiale e le tecnologie digital ridefiniscono ormai le modalità di ricerca, prenotazione ed esperienza di ogni viaggio. Quasi un terzo (29%) dei viaggiatori affida al proprio computer e alla propria capacità di navigazione in rete l’organizzazione del “pacchetto”, e la metà di loro (50%) non sente l’urgenza di avere a che fare con una persona in carne e ossa.

Il desiderio di ricordi, piuttosto che accumulare beni materiali, è alla base della richiesta di viaggi unici

Tra le esperienze più gettonate, le visite alle tradizionali meraviglie del mondo (47%), i viaggi gourmet (35%), il relax un’isola paradisiaca (34%), e l’avventura in uno dei parchi di divertimento più famosi del mondo (34%).

VINTAGE

Oltre a fare nuove esperienze, i viaggiatori smaniano di rivivere i migliori ricordi della propria infanzia. Molti sono inclini a tornare nelle mete del cuore, per scoprirle da un punto di vista completamente nuovo. Secondo le statistiche, un terzo dei viaggiatori (34%) quest’anno prenderà in considerazione l’idea di ripercorrere un viaggio del passato.

i viaggiatori smaniano di rivivere i migliori ricordi della propria infanzia

Gli intervistati raccontano che le vacanze trascorse in famiglia, quando erano bambini, sono associate ai ricordi più belli. I Millennials saranno i più sentimentali e, considerato che il 60% dei viaggiatori pubblicherà post sui social media ogni giorno, i contenuti nostalgici e gli itinerari della e nella memoria saranno il prossimo trend.

Serie tv, film, sport e social media sono grandi fonti d’ispirazione e nuove mete di viaggio

La città vecchia di Dubrovnik è una delle location chiave di Game of Thrones

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POP PASSION

Serie TV, film, sport e social media sono grandi fonti d’ispirazione. Visitare le location di film, serie TV o video musicali, infatti, richiama il 36% dei viaggiatori. Nei prossimi mesi, oltre un quinto (22%) delle persone cederà alla tentazione di partecipare a un importante evento sportivo, e il 43% prenderà in considerazione di spostarsi per seguire dal vivo la grande estate dei Mondiali di calcio in Russia. I set che attireranno maggiormente i viaggiatori sono Croazia, Spagna, Islanda e Malta per quanto riguarda Game of Thrones (29%), la Londra di Sherlock e The Crown (21% e 13%), New York e Manhattan per Billions (13%) e la Los Angeles di Entourage (10%).

BODY AND SOUL

Il trend dei viaggi all’insegna del benessere non cessa di crescere: quasi una persona su cinque pianifica almeno un viaggio all’anno incentrato sulla salute e sul benessere. Grande ritorno di pellegrinaggi, trekking e, in genere, viaggi a piedi (il 55% dei viaggiatori è interessato a escursioni e camminate). Tra le attività ispirate a salute e benessere, vincono Spa e trattamenti estetici (33%), ciclismo (24%), sport e attività acquatiche (22%), vacanze detox (17%), soggiorni yoga (16%), corsa (16%) e meditazione/mindfulness (15%). Partecipare a un viaggio wellness fa bene anche allo spirito: più del 55% degli intervistati dichiara che è il momento perfetto per riflettere e fare scelte di vita.

quasi una persona su cinque pianifica almeno un viaggio all’anno all’insegna della salute e del benessere

TOGETHER

Il 2018 sarà l’anno dei viaggi di gruppo: una parte degli intervistati viaggerà, secondo le stime, “con un gruppo di amici” (con un aumento dal 27% al 31% rispetto all’anno scorso). Conteranno le persone con cui condividere i momenti fuori dalla routine. Grazie all’immediatezza della tecnologia, non è mai stato così facile trovare il posto perfetto dove soggiornare in gruppo. Ovviamente, un viaggio condiviso ha anche evidenti vantaggi economici: quattro persone su dieci (42%) sostengono che le vacanze con gli amici rende possibile soggiornare in posti e accommodation che, da soli, non potrebbero permettersi.

Il 2018 sarà l’anno dei viaggi di gruppo

Tutte le tendenze individuate con l’aiuto degli analisti di Booking.com sulla base di oltre 19mila recensioni valgono nel momento della scelta di un viaggio individuale così come di un pacchetto MICE. Nel settore Meetings, Incentives Conferences and Exhibitions, infatti, l’usuratissimo filone del team building a tutti i costi ha finalmente ceduto il passo alla condivisione di esperienze emozionali irripetibili. Perché nulla lega i componenti di un gruppo come il ricordo positivo di un momento comune.

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F.O.M.O: FEAR OF MISSING OUT CHI MENO COMUNICA, PIĂ™ COMUNICA

jacopo pozzati

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iusto ieri la mia compagna, in vacanza con me, mi ha fatto riflettere sulla mia dipendenza, lavorativa e non, da tutto quello che ruota attorno al telefono, in modo garbato e coerente ma diretto, come lei sa fare, e immediatamente ho pensato a Mina e Lucio Battisti, le ultime due vere icone della musica italiana, artisti veri che hanno raggiunto vette paragonabili solo a quelle di Lucio Dalla (forse). Ho pensato ai Daft Punk, ai Massive Attack, ai Gorillaz e a Banksy (suggerisco a tutti di guardare il documentario Exit Through The Gift Shop). 51


THE WORLD’S FIRST STREET ART DISASTER MOVIE Exit Through The Gift Shop è un documentario del 2010 prodotto da Banksy. Presentato lo stesso anno al Sundance Film Festival, racconta le vicende di un eccentrico ex proprietario di un negozio di vestiti trasferitosi a Los Angeles con l’intento di catturare su pellicola gli street artist più famosi del mondo. Tra questi c’è proprio Banksy che, pur mantenendo l’anonimato, prende il controllo della videocamera del protagonista trasformando il documentario in uno dei film sull’arte più provocatori mai realizzate (e anche uno dei più esilaranti).


Esempi fortissimi per spiegare quanto mi è stato detto ieri. Miti che hanno fatto della privacy, dell’irreperibilità (alcuni di loro infatti non hanno svelato la loro reale identità), del passaparola il segreto del loro successo, facendo parlare le loro doti artistiche e basta. Al massimo hanno creato delle urban legends, come nel caso dei Massive Attack e di Banksy: si pensa che Robert Del Naja dei Massive Attack possa essere Banksy perché entrambi sono di Bristol e durante i concerti in giro per il mondo del gruppo britannico sono apparsi e dal nulla opere misteriose dell’artista conosciuto come Banksy. Questa cosa fa riflettere, perché è tutto vero. La mia generazione è innamorata di Banksy, brama una sua opera, pagherebbe oro per sentire un dj set dei Daft Punk, ha le action figures dei Gorillaz prodotte da Kidrobot, ma è pure affascinata dalle voci incredibili di Lucio e Mina. Mi rivedo in prima persona in tutto ciò, anche se sono stato uno dei primi a seguire su Instagram Shudu Gram, la prima modella virtuale del mondo e già fenomeno mediatico. Questo per far capire che il confine tra la solitudine, il nascondiglio e il voler mostrare a tutti i costi è veramente sottile. Io, fedele custode della mia vita privata vera, sono il primo a fare mille Instagram stories per tutto quello che mi circonda e che non è davvero mio, ma che comunque recita una parte determinante nel mio business e nella mia vita. Bravi i brand che hanno deciso di usare i social media come principale vettore comunicativo, giocano anche loro al gatto con il topo. Si pensi a Nike, Adidas, Supreme, Kith eccetera, che presentano al mercato prodotti in tiratura molto limitata usando canali distributivi esclusivi. Lanciano il prodotto attraverso i social media e il seeding – ovvero lo inviano in regalo qualche mese prima del lancio a vari testimonial in modo da creare engagement organico sui social. Creano un hype altissimo e obbligano il consumatore a generare un traffico enorme sui loro social, taggando almeno altri due o tre amici che a loro volta devono seguire il brand per poter aderire alla raffle (la riffa appunto, e non parlo del film con la Bellucci) e mettere le mani sul bramato oggetto del desiderio.

Mina, Lucio Battisti, i Daft Punk, Banksy…miti che hanno fatto della privacy e dell’irreperibilità il segreto del loro successo

Nel caso di Supreme ormai il camp out (sostare in fila davanti al luogo della release) è diventata la normalità. Ricordo la polizia di New York bloccare un’uscita di Nike Foamposite per Supreme perché stava causando un blocco del traffico in tutta NoHo (Nord di Houston Street) e svariate risse, obbligando Supreme alla messa in vendita del prodotto solo online.

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Camp out fuori dal negozio Supreme

Per capire dove sono nati i camp out, basta guardare su Netflix il documentario Sneakerheadz, che parla dell’uscita della Nike Dunk Pigeon da Reed Space (R.I.P.) in Orchard Street a New York. Da quel momento qualcosa è cambiato. Tutto ciò è pazzesco se si pensa che 10 anni fa eri già un califfo – come si dice a Bologna – se avevi un’attività che inviava newsletter. Io per primo, con una delle mie prime attività (Bottega Back Door), ero solito mandare tre newsletter a settimana per tenere aggiornato tutto il mio database sui nuovi arrivi e ottenevo una forte conversion rate. Ora se ti arriva una newsletter che non sia una offerta speciale nemmeno la consideri a meno che non sia veramente unica, tanto con Instagram hai tutto in tempo reale a portata di click. Io dico insta perché è più cool, ma pur discreto e diretto. Facebook – sì, viva Zuckerberg, ovvio – è ormai un enorme billboard pubblicitario, Twitter è usato solo per politica o brevi news di personaggi soprattutto americani, Snapchat per lo più serve a scambiarsi foto un po’ osé tra utenti. Instagram si deve solo guardare dall’avvento di Vero, ma per il resto le aziende comunicano principalmente con Instagram per tutto. 54

Sono svariati i canali che i brand di moda impiegano per raggiungere i consumatori, online e offline: dal camp out al seeding , fino alle raffles per ottenere per primi l’agognato capo d’abbigliamento


Il rilancio del marchio “Deisel”

Dapper Dan e l’atelier Gucci

Pensare che di recente il CFDA (Council of Fashion Designers of America), per la prima volta nella storia, per annunciare i candidati al premio finale ha usato Insta. Per non parlare di Diesel, con il suo rilancio del marchio tramite un logo contraffatto “Deisel” attraverso piattaforme quali YouTube ed Instagram e un negozio creato ad hoc nel cuore del counterfeit newyorchese, in mezzo a Canal Street a Chinatown. Gucci invece ha creato una vera propria social media case history ricostruendo il mito degli anni Novanta di Harlem Dapper: il brand toscano era stato accusato di aver copiato il leggendario stilista di Harlem, ora lo aiuterà a riaprire il suo storico negozio creando una boutique bespoke, dove il sarto potrà dar sfogo alla sua creatività usando però il marchio Gucci come vettore unico e impagabile.

il rilancio del marchio diesel tramite un logo contraffatto, DEISEL, attraverso piattaforme quali YouTube e Instagram e un negozio creato ad hoc

Il primo vero frontman che ha fatto diventare Instagram un link perfetto tra business, amicizia, vendite e luogo di aggregazione è stato Marcelo Burlon nel 2012. A mio avviso, dobbiamo trarre tutti esempio da lui. Sì, magari ogni tanto ora si atteggia da superstar (chi non lo farebbe), ma non dimentica mai le sue origini, la gavetta e tutti gli sforzi che ha fatto per diventare quello che è. 55


Siamo TUTTI suoi follower, nel senso che oltre a seguirlo sui social, prendiamo spunto da lui quotidianamente per cercare di emergere nel nostro campo. Io nel novero dei social fondamentali metto pure WhatsApp, metodo di comunicazione unico e universale. Perché, una volta visto il post di un’azienda o di una boutique, mettiamo mano immediatamente al cellulare per scrivere all’amico che può darci un aiuto ad acquistare il tanto agognato oggetto del desiderio. Tutta questa velocità e brama ha fatto in modo che in giro per il mondo nascessero cliniche di disintossicazione dai social, ma soprattutto dalla F.O.M.O. (Fear of Missing Out): la paura di “mancare” qualcosa, che sia un evento o una t-shirt o un paio di scarpe; il timore di non presenziare a una determinata cosa dove gli altri saranno presenti, crea scompensi che possono generare dipendenze. Tutto ciò deve far riflettere, perché è vero che le aziende ormai assumono solo figure legate al mondo virtuale e social e lanciano ogni campagna attraverso i loro canali media, però non dobbiamo perdere del tutto il senso della realtà e lo dice uno malato di Instagram, addicted da WhatsApp e maildipendente che però ama ancora leggere il quotidiano, parte per le vacanze con il libro e non con il Kindle e la spesa la fa al mercato e non online. Mi sento un privilegiato perchè vivo nell’epoca dei social che comandano il mondo, avendo però anche avuto un’adolescenza dove per telefonare a casa dell’amico o della filarina dovevi usare il tuo bel dito indice per girare svariate volte il disco del telefono Sip fisso anni Ottanta, perché ancora poche famiglie potevano avere un cordless che non prendeva mai o i primi telefoni digitali datati anni Novanta. La conclusione me l’ha suggerita sempre lei, la mia compagna, l’altro giorno: “Messaggia con tutti, fai una scorpacciata di Instagram ogni volta che vuoi, rispondi alla mail con la voracità con cui mangi un mango appena sbucciato, metti al tavolo delle tue consulenze solo progetti riguardanti investimenti social, però per favore passa un pranzo o una cena con il telefono spento o in modalità aereo, perché il mondo non dipende da te”. Ha ragione.

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F.O.M.O. (Fear of Missing Out) è la paura di mancare qualcosa, che sia un evento o una t-shirt o un paio di scarpe, il timore di poter non presenziare ad una determinata cosa dove gli altri saranno presenti


www.vimeo.com/doublevideo 57


IN CAMERA OSCURA CON

Federico Bernini


Torino Fashion Week 2017, backstaage

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La mia formazione fotografica nasce dentro il fotogiornalismo e il reportage, un modo privilegiato di vedere e raccontare la realtà, attraverso un filtro distaccato, terzo, rispetto alle dinamiche dei fatti. Quello del reporter è un approccio al lavoro molto metodico, che parte dal contesto generale per poi approfondire andando alla ricerca del dettaglio, del particolare. Questo metodo di lavoro l’ho portato con me dentro Visual Crew e nei lavori commerciali, in quelli corporate, negli eventi e nei reportage aziendali. La sfida e l’impegno, che col tempo sono diventati anche una modalità di lavoro, sono quelli di riportare con forza e identità l’aspetto narrativo dentro il lavoro fotografico commerciale. Il senso di un lavoro e forse anche della presenza stessa del fotografo sta nella sua capacità di scattare immagini in grado di continuare ad avere un senso e un’utilità anche a distanza di tempo. La comunicazione contemporanea è ossessionata dalla compulsiva produzione di immagini, buone oggi, forse buone domani ma sicuramente andate a male dopo due giorni. Se da un lato questa rappresenta un’esigenza di mercato, dall’altro è possibile provare a riportare dritta la barra del timone ricercando, appunto, una modalità di racconto più densa, meno liquida.


Milano Fashion Week, sfilata di Gucci Spring Summer 2016


In alto a sinistra: Milano Fashion Week 2017, la facciata della Rinascente in Piazza del Duomo durante la settimana della moda a Milano In basso a sinistra: Torino, Sharing Italy Banca Intesa Sanpaolo In alto a destra: Torino, inaugurazione del nuovo centro Bounce In basso a destra: Livorno, Pinocchio BumBum, spettacolo teatrale con i detenuti attori


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Milano, giornata di inaugurazione di EXPO 2015 con le frecce tricolori


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