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CAVOLI AMARI Ai tempi del Coronavirus

Focus con il prof. Montemurro I c m c s ... Agroalimentare

di Prof. Pasquale MONTEMURRO

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Il titolo del film ‘Amore al tempo del colera’, tratto da quello omonimo del libro Gabriel García Márquez si potrebbe, fantasiosamente, in questo momento parafrasare in ‘I cavoli al tempo del coronavirus’. La trama potrebbe consistere in un dialogo intessuto tra due amici, di nome Franco e Mario, che si incontrano e discutono del coronavirus. Franco esordisce chiedendo: “Ma secondo te il coronavirus diventerà pandemico?”. La risposta di Mario non tarda con Ma che cavolo dici!’ ... ed ancora in modo più deciso Non dire cavolate! “Tu non sei mica un medico e quindi” Non ne capisci un cavolo! A quel punto, Franco riprende dicendo “Ma se dovesse arrivare?”. Allora Mario replica “Non ci vorrebbe proprio”, aggiungendo che “se il virus dovesse arrivare, sarebbe un evento inopportuno, perché apparirebbe” ... come un cavolo a merenda! “E poi, se è davvero tanto pericoloso, in questo caso sarebbero” Cavoli I

amari! Ma poi Franco continua domandandogli: “Ma tu cosa faresti?” A quel punto Mario ribatte piuttosto seccato: “Beh, e a te che interessa cosa farei: Son cavoli miei! Ed ancora Franco riprende “Sì, ma ricorda che è necessario che tu prenda delle precauzioni, evitando gli ambienti chiusi ed affollati, lavandoti spesso le mani, usando una mascherina, e quant’altro”. A quella osservazione, ancora più infastidito Mario risponde E che cavolo! “Io devo andar girando con una mascherina? Ma non se parla proprio! Io la mascherina non la metto nemmeno a carnevale”. Franco replica dicendogli “Lo sai che mi dai proprio l’impressione di” Essere nato sotto un cavolo? “Amico mio, non fare la” Testa di cavolo! Ed ancora Non fare un cavolo “sarebbe per te molto pericoloso. Tu ti devi proteggere, perché se prenderai delle precauzioni” Salverai capra e cavoli, “se invece andrai in giro senza prenderle, potresti incontrare qualcuno che ti trasmette il virus: sai come si dice” Tanto va la capra al cavolo, che ci lascia il pelo! “Ed allora potresti anche morire e” ... andare a ingrassar cavoli! “In ogni modo, se dovessi prendere il virus ed avere la febbre, spero che tua moglie ti assista e ti coccoli, magari dicendoti, come fanno i Francesi, ‘Mon petit chou’, che tradotto vuol dire mio piccolo cavolo”. Ma poi, nel concludere il loro dialogo, visto che a quanto pare il coronavirus avrà sicuramente un’influenza negativa dal punto di vista economico, i nostri due amici potrebbero essere senz’altro d’accordo su quanto affermava Giulio Andreotti, il quale era dell’idea che L’inflazione non è un cavolo che vale mille lire, sono mille lire che valgono un cavolo. Ma certamente, il grande statista non avrebbe mai accettato di andare a piantar cavoli; infatti, non si è mai ritirato a vita privata, abbandonando la vita pubblica per trovare soddisfazione in un’esistenza più semplice, come invece

fece nell’anno 305 d.C., il sessantaduenne imperatore romano Diocleziano; quest’ultimo lasciò Roma ed il potere per ritirarsi nella cittadina dalmata di Salona, l’attuale Spalato, dove si era fatto costruire un imponente palazzo, e trascorrere i suoi giorni curandosi dei lavori della campagna. La storia ricorda che quando fu sollecitato a tornare a Roma ed alla vita politica, rifiutò fermamente rispondendo che I suoi cavoli lo rendevano più felice di qualsiasi impero. Ma tutta questa storia immaginaria non vuole assolutamente banalizzare o addirittura dissacrare il cavolo, considerato sacro dagli antichi Greci in quanto come ha scritto il poeta Luciano di Samorata, ritenevano che l’ortaggio fosse nato dal sudore di Zeus. E poi, anche se da un lato purtroppo non può combattere il coronavirus, è da ricordare che un altro proverbio recita Il cavolo manda medici e medicine al diavolo, tante sono le sue virtù medicamentose e salutistiche elencate fin dal IV sec. a.C. dal medico greco Crisippo, mentre Ippocrate (460-377 a.C.) lo consigliava contro coliche e dissenterie. Plinio il Vecchio, nel I secolo dell’era cristiana, lo definiva la pianta miracolosa che aveva permesso ai Romani di fare a meno dei medici per sei secoli. I Romani, poi, lo mangiavano crudo, prima dei banchetti, per facilitare l’assorbimento dell’alcool, gli attribuivano un’azione antidepressiva, in grado di scacciare la malinconia e la tristezza, come pure un rimedio per curare l’impotenza. La diffusione del cavolo sulle mense non venne meno con il passare del tempo, anche se per un certo periodo fu considerato il cibo per i giorni di magro. Nel ‘500 veniva usato come lassativo: il suo succo unito al miele era ritenuto ideale per la cura della raucedine e della tosse. Presso le popolazioni marinare, il cavolo (assieme alla cipolla) era l’alimento tipico degli equipaggi delle navi, utilizzato per compensare le diete necessariamente povere durante i viaggi per mare. Nel 1630 il brodo di cavolo era raccomandato in tutte le affezioni polmonari. Contro lo scorbuto, una malattia causata dalla carenza di Vitamina

C, il capitano Cook fu tra i primi a salvaguardare la salute del suo equipaggio: infatti, in ben tre anni di navigazione in tutte le latitudini non perse nessuno dei suoi 118 uomini, in quanto faceva mangiare loro anche dei cavoli cotti o crudi. Più tardi, ai tempi di Collodi, in pieno Ottocento, una merenda a base di cavolo era il massimo, come dimostra la felicità di Pinocchio nel riceverla dalla Fata Turchina. Ad elogiare il cavolo è stato anche il grande cuoco settecentesco Vincenzo Corrado, che nel suo ricettario intitolato “Del cibo pitagorico, ovvero Erbaceo per uso de’ nobili e de’ letterati” (Napoli 1781), ricorda che “Marco Catone e Apicio (Marcus Gavius Apicius è stato un gastronomo cuoco e scrit-

tore romano vissuto fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., autore del De re coquinaria, L’arte culinaria), lodavano tanto il cavolo cappuccio, che arrivarono a dire esser’epilogate in questo tutte le virtù e sapori dell’altr’erbe; vale a dire che di questa foglia n’erano avidissimi anche gli antichi, siccome ne sono i moderni...”. In seguito, la ricerca scientifica ha confermato molte delle qualità di vari tipi di cavolo, che oltre a vitamina A, C ed Acido Folico, contengono importanti principi attivi come i Glucosinati, circa un centinaio, capaci di liberare isotiocianati, come il Sulforafano, e indoli come l’Indolo-3-Carbinolo, tutti potenti detossificanti, protettori del sistema cardiocircolatorio e, secondo studi molto recenti, anche antitumorali; da ricordare che, essendo queste sostanze idrosolubili, devono essere cotti il meno possibile e con poca acqua, stufandoli o saltandoli in padella. E’ noto che nella “Dieta Mediterranea”, il cavolo, parola che deriva dal latino tardo caulus, a sua volta dal greco καυλός, ossia ‘fusto’ o ‘stelo’, ha un posto certamente di rilievo, anche se più che di cavolo, è meglio parlare di cavoli, visto che è un termine generico che indica molte tipologie. Ma quanti cavoli sono i cavoli? Le tipologie coltivate (ce ne sono anche di selvatiche) sono una dozzina, tutte appartenenti alla famiglia botanica delle Brassicaceae, nome attribuito dal botanico italiano Teodoro Caruel, che lo ha tratto dal celtico bresic (“cavolo”); tutte quante le tipologie sono identificate con il binomio Brassica oleracea, ma singolarmente sono distinte in varietà, tra le quali le più coltivate sono la botrytis che è il cavolfiore, la sabauda ossia il cavolo verza, l’italica ovvero il cavolo broccolo e la capitata cioè il cavolo cappuccio; ricoprono superfici minori la rubra (cavolo rosso), la gemmifera (cavoletto di Bruxelles), la gongylodes (cavolorapa o testa di morto), la sabellica (cavolo riccio), l’acephala (cavolo nero toscano ed il “cole rizz”, coltivato quasi esclusivamente a Carbonara e Ceglie del Campo), l’alboglabra (broccolo cinese). Da notare che specialmente in fatto di cavolfiori se ne vedono di tutti i colori; oltre al classico di colore bianco, se ne vedono di tipi con tonalità di verdolino chiaro come per la cima di col barese, di verde pisello per il Romanesco, con i suoi tipici fioretti a punta, di verde intenso nel tipo Anconetano, di violetto nel Siciliano, un tipo ricco di antociani; ultimamente, nei mercati sono molto più frequenti i cavolfiori dalla tinta arancione della varietà Cheddar, che contengono una quantità di beta-carotene (la vitamina A) di ben 25 volte maggiore di quella dei cavoli bianchi. Ma i cavoli hanno trovato posto anche nella letteratura; curiosa è la poesia “La farfalla e il cavolo” di Luigi Fiacchi (1820) detto Clasio, Accademico della Crusca, che recita così: Una certa farfalletta, mossa un dì dall’appetito, svolazzava in sulla vetta, d’un bel cavolo fiorito. Ma suggendo in breve istante, ora questo ed or quel fiore, nauseata e disprezzante, “Ah!” dicea, “Che reo sapore! Ai miei dì non ritrovai, cibo mai si disgustoso. Cavol mio per me non fai. Sovra te più non mi poso”. A siffatto complimento. tosto il cavol replicò:“Ma signora, a quel ch’io sento, molto il gusto

in voi cangiò. Vi conobbi in altri redi, in più misera fortuna. Foste bruco ed io vi diedi cibo e cuna. Fu allor per voi ben grato, il sapor delle mie foglie, ma cangiando il vostro stato, voi cangiaste ancor le voglie”. Dalla favola s’intende, ciò che segue l’uom leggero: se la sorte sale o scende, sale o scende il suo pensiero. Ma… l’uomo saggio mai non falla. Né superbia né viltà. O sia bruco o sia farfalla, immutabile si sta! I cavoli sono presenti anche nell’arte, grazie ad esempio a Simone del Tintore che ha raffigurato un cavolo cappuccio nel dipinto Natura morta con frutta, vegetali e fiori (1699), conservato a Milano nelle Raccolte Artistiche del Castello. Anche a Vincent Van Gogh i cavoli sono stati una fonte di ispirazione; infatti, ha immortalato un cavolo cappuccio nella Natura morta con ortaggi e frutta (1881), conservato nel Van Gogh Museum di Amsterdam, ed un cavolo verza, nella Natura morta con cavolo e zoccoli (1881), ammirabile nel Kröller Müller Museum di Otterlo, sempre in Olanda. In fondo in fondo, si potrebbe concludere che per i cavoli non vale l’espressione di farsi i cavoli propri, visto in quanti cavoli di fatti umani li troviamo infiltrati.

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