Rivista Savej n. 3

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Fé fö ed so bosc Raccontare il Piemonte un articolo alla volta

n . 3 2019

PIEMONTESI AI CONFINI DEL MONDO Bernardino Drovetti • Augusto Franzoj • Enrico Benedetto Baudi di Vesme • Cesare Poma • Luigi Piovano • Cosma Manera • Erminia Caudana • Alberto Maria De Agostini IL PROFESSOR CESARE PAVESE ANGELO MORBELLI E PELLIZZA DA VOLPEDO: MAESTRI DIVISIONISTI

AIGUES-MORTES 1893

LA STRAGE IMPUNITA DEI PIEMONTESI

Quando a emigrare eravamo noi


PRIMO LEVI E IL PIEMONTESE La lingua de «La chiave a stella» “Amo questo dialetto... è il mio, quello della mia infanzia, che mio padre usava con mia madre e mia madre con i bottegai” Primo Levi – La Stampa, 13 luglio 1986

Nel 2018 si aggiunge al catalogo Edizioni Savej la seconda edizione del volume “Primo Levi e il piemontese. La lingua de «La chiave a stella»”. Nel suo saggio Bruno Villata analizza la meravigliosa “lingua” italo-piemontese con cui Levi narra le avventure di Faussone, l’abile e giramondo operaio specializzato protagonista del suo romanzo. Una lingua di passaggio in un’Italia in evoluzione e per Levi una vera e propria dichiarazione d’amore per il proprio dialetto.

Il volume è disponibile nelle maggiori librerie e sul nostro sito e-commerce www.edizionisavej.it! Anche in versione digitale

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Sommario 2 Editoriale In copertina

4 La strage impunita dei piemontesi ad Aigues-Mortes Quando a emigrare eravamo noi //Roberto Coaloa

Piemontesi ai confini del mondo

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Bernardino Drovetti

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Augusto Franzoj

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Enrico Benedetto Baudi di Vesme

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Cesare Poma

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Luigi Piovano

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Cosa sappiamo (e non sappiamo) del grande archeologo in Egitto //Davide Mana

Una vita come un romanzo d'avventura //Felice Pozzo

I sogni infranti di un esploratore torinese in Somalia //Davide Mana

Storia del primo console italiano in Cina //Davide Mana

Il carabiniere Cosma Manera

ILLUSTRAZIONI Ginger Berry Design Roberto Gentili PROGETTO GRAFICO Fondazione Enrico Eandi

In Russia per salvare 10 mila italiani //Davide Mana

L'arte di far rivivere i faraoni

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Alberto Maria De Agostini

La restauratrice Erminia Caudana //Manuela Vetrano

Trent'anni ai confini del mondo //Davide Mana

Altre storie Il professor Cesare Pavese Profilo inedito dello scrittore attraverso i ricordi degli allievi del Lagrangia di Vercelli //Felice Pozzo

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Nell'atelier di Angelo Morbelli, maestro divisionista

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L'arte sociale di Pellizza da Volpedo

Alla Colma di Rosignano il tempo è impresso sulle sue tele //Roberto Coaloa

Nei luoghi che ispirarono l’autore de “Il Quarto Stato” //Davide Mana e Gabriele Reina

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REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE Fondazione Enrico Eandi

Da Chieri alla corte dell’Imperatrice Cixi //Davide Mana

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DIRETTORE RESPONSABILE Lidia Brero Eandi

Perché amiamo Tommaso Mossi di Morano Cosa ci ha lasciato il grande collezionista d'arte fiamminga //Roberto Coaloa

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Quelli che uccisero il menestrello Rizzio

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Casalegno Timbri 1908

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Da oltre 50 anni vicino agli ultimi

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Le nostre firme

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Fondazione Enrico Eandi

La tragica fine di un piemontese alla corte di Mary Stuart //Andrea Raimondi

STAMPA L’Artistica Savigliano s.r.l. Savigliano (CN) EDITORE Fondazione Enrico Eandi Via G. B. Bricherasio 8, 10128 – Torino info@fondazioneenricoeandi.it www.fondazioneenricoeandi.it ABBONAMENTI Informazioni e modalità di abbonamento sul sito www.edizionisavej.it Disponibile anche online al seguente indirizzo: www.rivistasavej.it Seguici su: FondazioneEnricoEandi fEnricoEandi fondazioneenricoeandi ISSN 2611-8335

Una piccola bottega sospesa nel tempo //Manuela Vetrano

Il progetto genitore-bimbo del Gruppo Abele //Roberta Meotto

Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018. © 2019 Fondazione Enrico Eandi Tutti i diritti riservati. 1


In viaggio Viaggi e viaggiatori: questi i protagonisti del nuovo numero della Rivista Savej. Viaggiatori del secolo scorso e anche dei precedenti, piemontesi che per svariate ragioni ritroviamo in terra straniera, Francia, Inghilterra, Egitto, Somalia, Amazzonia o Brasile, Terra del Fuoco, Russia, Cina… Viaggiare, in tempi nemmeno troppo remoti, non era né agevole né sicuro, eppure ambizioni, passioni, ideali hanno spinto questi uomini dotati di grande spirito di avventura a cercare lontano il proprio destino. Della loro personalità abbiamo notizia soprattutto attraverso le loro imprese, ma rimangono comunque zone d’ombra. Seguiamo le tracce di alcuni di loro. Chi è ad esempio Bernardino Drovetti? Un archeologo innamorato dell’Egitto o un avido collezionista di reperti egizi che senza tanti problemi etici saccheggia i siti degli scavi e acquista merce anche dai tombaroli? È Indiana Jones o un abile trafficante che non esita a mettere sul mercato le proprie collezioni offrendole al migliore acquirente fra i regnanti dell’epoca? Forse tutte insieme queste realtà. Sta di fatto che Carlo Felice, acquistando nel 1823 la collezione Drovetti formò il primo nucleo del futuro Museo Egizio di Torino. Un uomo straordinario Alberto Maria De Agostini, fratello minore di Giovanni De Agostini, il fondatore dell’Istituto Geografico di Novara. È un sacerdote salesiano, mandato come missionario in uno dei luoghi più selvaggi e inospitali del mondo: Punta Arenas, Terra del Fuoco. Siamo nel 1909. Appassionato esploratore e scalatore, si improvvisa di volta in volta geologo, botanico, cartografo, documentando con fotografie i rilevamenti eseguiti. Trent’anni ai confini del mondo, durante i quali scopre e cartografa nuovi fiordi, corsi d’acqua, valli, montagne, golfi e isole. Certo oggi il suo nome è più popolare nei paesi di lingua spagnola che in Italia. Nella Patagonia cilena, un parco nazionale e la cima più alta della zona portano il suo nome: Alberto Maria De Agostini. Terra d’Africa, sogno degli esploratori soprattutto negli ultimi decenni del 1800 quando al Continente Nero l’Italia guarda con mire colonialiste. Innamorato dell’Africa, l’esploratore vercellese Augusto Franzoj, spirito irruente, ribelle e spericolato, repubblicano e socialista, più volte incarcerato per reati di stampa e di duello, rappresenta l’eroe solitario che abbandona la patria e, senza protezioni e senza mezzi, s’imbarca verso l’ignoto. Davvero la sua vita è stata un romanzo d’avventura. Nel primo e rocambolesco viaggio in Africa riesce a riportare in patria, nel 1884, i resti dell’esploratore Luigi Chiarini, morto prigioniero in Etiopia, diventando in tal modo quasi un eroe nazionale. Fa conoscere le sue imprese attraverso un’abile attività di scrittore, giornalista e conferenziere. Torna e ritorna in Africa, dove lo troviamo nell’anno tragico della strage di Dogali – il 1887 – come corrispondente di guerra. Ma per la sua indole focosa e intemperante si rende protagonista di alcuni episodi che gli alienano la fiducia delle autorità italiane. Ed eccolo allora ripartire per una nuova rischiosa spedizione, questa volta in Amazzonia dove

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Tra i viaggiatori troviamo anche quelli che avrebbero preferito non esserlo, ma che la povertà ha costretto ad abbandonare casa e famiglia. La Francia è sempre stata terra di emigrazione specie per i piemontesi. E molti erano emigranti temporanei come quelli che, verso la fine del 1800, lavoravano nelle saline di Aigues-Mortes. Il lavoro è molto duro e non mancano episodi di razzismo tanto più che nell’ala nazionalista della politica francese c’è chi sostiene che occorre contrastare l’invasione delle hordes barbares perché mettono a rischio il principio di nazione e razza. Le orde barbariche erano gli italiani. Ecco i prodromi della follia e della barbarie nazifascista. Gli italiani lavorano per una paga troppo bassa – questa l’accusa – e in ogni caso sono dei “ladri di lavoro”, portano via il lavoro ai francesi. In quest’atmosfera di nazionalismo esasperato avviene che da un banale litigio si arrivi ad una strage: ad Aigues-Mortes, nell’agosto del 1893, una decina di italiani, soprattutto piemontesi, viene massacrata da una folla inferocita. I colpevoli saranno tutti assolti. Una strage impunita. Non è vero che la storia è magistra vitae. I nazionalismi sono tornati in auge e con questi tutta una retorica di torvi proclami che si pensava tramontata. Dalla storia non abbiamo imparato niente. Di questa maestra di vita, gli uomini sono sempre stati pessimi allievi. Questi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sono anni di travagliati mutamenti sociali, e anche l’Arte ne è testimone. Un’importante corrente pittorica di carattere sociale evidenzia infatti proprio i temi della povertà, dell’abbruttimento morale conseguente alla miseria, dello sfruttamento, ma anche una indomita voglia di riscatto. Vengono in mente ad esempio i quadri di desolata solitudine, ambientati nel Pio Albergo Trivulzio, di Angelo Morbelli o il capolavoro di Pellizza da Volpedo Il Quarto Stato, ormai diventato un’icona dal significato storico, sociale e politico. “Sento che non è più l’epoca di fare l’Arte per l’Arte, ma l’Arte per l’Umanità” scrive infatti Pellizza. Questa volta allora il nostro viaggio ci porta nei luoghi dove vissero e operarono questi due grandi rappresentanti del Divisionismo italiano per conoscere la bellezza antica della loro terra e, entrati nei loro studi, a contatto con gli schizzi, le tele, gli oggetti e gli strumenti quotidiani del loro lavoro, comprendere meglio il loro mondo di artisti e la forza della loro ispirazione. Buona lettura. L.B.E.

Rivista Savej

la febbre gialla falcia i suoi compagni. Sempre più amareggiato e deluso col passare degli anni e per di più colpito da una malattia invalidante, da spirito ribelle qual era, decide di mettere tragicamente fine alla sua vita.

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LA STRAGE IMPUNITA DEI PIEMONTESI AD AIGUES-MORTES Quando a emigrare eravamo noi di Roberto Coaloa

Operai al lavoro in una salina di Aigues-Mortes (da "L’Illustrazione Italiana", 1893).

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POGROM "Voce russa. Sommosse popolari ai danni delle comunità ebraiche verificatesi in Russia nel 1881 e nel 1921, che sfociarono in saccheggi e massacri perpetrati con la connivenza più o meno esplicita delle autorità”. Per estensione: “Atti persecutori ai danni delle minoranze etniche o religiose, condotti con l’appoggio più o meno dichiarato dell’autorità.

Se si accetta questa definizione tratta dal Dizionario della Lingua italiana, il Sabatini Coletti, si può affermare che il 17 agosto 1893 ebbe luogo, ad Aigues-Mortes, il più grande pogrom di tutta la storia contemporanea francese. Non solo: il massacro degli italiani ad Aigues-Mortes costituì anche uno dei più grandi scandali giudiziari, poiché il giudice assolse tutti i colpevoli, nonostante le prove accumulate contro di loro.

I fatti di Aigues-Mortes rappresentati sul giornale francese "L'illustration", 26 agosto 1893.

Dimenticato dalla Storia Alla fine dell’Ottocento, questo pogrom in terra di Francia mise al bando delle nazioni civili la Terza Repubblica. Il New York Times denunciò: “the barbarous French nativism and chauvinism”. Le reazioni, anche violente, che scoppiarono in Italia contro la Francia, in un’epoca in cui il Bel Paese era alleato alla Germania del kaiser Guglielmo II, alimentarono per mesi la convinzione che la guerra tra i due Stati fosse vicina. Il conflitto armato fu evitato grazie all’opera congiunta dei due governi, quello francese e italiano, che si adoperarono a sminuire il massacro, “interrandolo”. Questo spiega perché il massacro di Aigues-Mortes fu per molto tempo taciuto dalla memoria collettiva francese e italiana. Il pogrom di Aigues-Mortes è uno degli eventi più significativi per capire la storia dolorosa e tragica dell’emigrazione italiana all’e-

stero, indagata in ottimi testi divulgativi, come quello dello scrittore Enzo Barnabà, Morte agli italiani!, paragonabile ai volumi dedicati dallo storico Toni Ricciardi a Marcinelle e a Mattmark. Il massacro degli italiani contiene, però, degli aspetti inquietanti, diversi dalle altre narrazioni sui migranti italiani. Innanzitutto, come abbiamo anticipato, è un fatto rimosso dalla storia francese e italiana.

Un dibattito ancora aperto Il massacro del 1893 è stato ricordato a Parigi in una mostra di successo: Ciao Italia! Un siècle d’immigration et de culture italiennes en France (1860 — 1960), tenutasi al Musée National de l’Histoire de l’Immigration. Oggi chi scrive desidera fare il punto su questo vero e proprio pogrom, constatando che il numero di italiani morti quel giorno non si è

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ancora stabilito con certezza, benché il bilancio ufficiale francese e il rapporto presentato alla Camera dei Deputati in Italia contemplasse allora otto morti. Un mio ampio pezzo, comparso su La Stampa il 17 agosto 2018, “Uccidete i migranti italiani” 17 agosto 1893, la strage di Aigues-Mortes. Linciati dalla folla gli operai cuneesi delle saline, ha innescato un nuovo dibattito tra studiosi sul numero degli operai morti a Aigues-Mortes. Per Barnabà “i morti sono dieci e solo dieci”, come riportiamo nel dettaglio più avanti in questo lavoro. Ovviamente la ricerca continua, la ricerca continua sempre. Per il momento analizziamo il pogrom del 1893. Alla fine dello scritto, infine, trarremo alcune conclusioni.

Una fake news alimenta l’odio Fu ad Aigues-Mortes  —  splendido centro per le memorie medievali di San Luigi, il re che fece della città fortificata alle porte della Camargue il porto di partenza per le Crociate  —  che i lavoratori italiani trovarono il loro inferno in terra di Francia. Fu un massacro che il tempo ha trasformato in una storia simbolica, visto che questo capitolo tragico dell’emigrazione italiana all’estero fu innescato da una falsa notizia, un concerto di menzogne che oggi chiameremmo fake news. Accadde che gli italiani furono ammazzati dalla folla inferocita, dopo decenni in cui si era costruito uno stereotipo negativo dell’emigrato del Bel Paese, presentato come briseurs de salaires, un ladro di lavoro. Gli operai francesi non avevano dubbi: l’immigrazione straniera era una delle cause della crisi economica che viveva la Terza Repubblica, nata dalle ceneri di Sedan e della Comune.

Immigrazione italiana in Francia: i numeri Il 1893 era un anno di votazioni in Francia, Paese culturalmente e politicamente più evoluto del Regno d’Italia, che economicamente era indietro anni luce rispetto alla Terza Repubblica. In Italia votava il 6% della popolazione, divisa come non mai tra Nord e Sud. Il 1893 è ricordato, infatti, per le vaste manifestazioni di protesta del movimento dei Fasci siciliani contro la mafia e i grandi proprietari terrieri. Il 15 dicembre di quello stesso anno Giovanni Giolitti veniva costretto alle dimissioni. Il 23 dicembre, il nuovo presidente del Consiglio Francesco Crispi proclamava lo stato d’assedio in Sicilia e organizzava l’intervento militare per reprimere le sommosse popolari. La Francia, invece, era prospera economicamente. Non c’era ancora il suffragio universale, ma erano elettori tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni di età e potevano essere eletti deputati tutti i cittadini maschi di almeno 25 anni di età. L’emigrazione di manodopera italiana, che a livello di massa aveva avuto inizio negli anni del Secondo impero di Napoleone III, era andata acquistando sempre maggior peso nel corso della Terza Repubblica. Nel 1876 erano presenti in Francia 165.000 italiani, che costituivano il 17% dell’intera immigrazione straniera; dieci anni dopo, erano cresciuti di 100.000 unità, superando le 264.000 persone e il 24% del totale degli stranieri. All’epoca dei fatti di cui ci occupiamo, sui 38 milioni d’abitanti che contava il Paese, gli italiani non naturalizzati superavano le 300.000 unità.

Quanti di loro erano emigrati temporaneamente come molti di coloro che ritroveremo nelle saline di Aigues-Mortes? La maggior parte, con ogni probabilità. Tali erano, infatti, in prevalenza i sei milioni di italiani che emigrarono nell’ultimo quarto del XIX secolo e superiore era, inoltre, nello stesso arco di tempo, l’incidenza dell’emigrazione temporanea nelle due regioni che fornivano i maggiori contingenti alla nostra emigrazione in Francia: Piemonte (mezzo milione di stagionali su 750.000 emigrati) e Toscana (200.000 su 320.000). Questi dati darebbero tra l’altro risposta al vecchio quesito relativo alla prevalenza dei fattori attrattivi su quelli espulsivi nell’emigrazione italiana di fine Ottocento: la rilevanza dell’emigrazione stagionale starebbe a dimostrare che il contadino emigrava non tanto perché “attratto” dall’estero, quanto perché “espulso” dal processo di ristrutturazione economica che andava affermandosi nelle campagne.

La Belle Époque si scopre razzista Il massacro di Aigues-Mortes capitò proprio in quell’anno di elezioni, il 1893, durante una feroce campagna elettorale. In agosto lo scrittore nazionalista Maurice Barrès, su Le Figaro, aveva parlato di “invasione”. Lo fece per difendere il “carattere speciale” dell’identità francese, sostenendo che occorreva contrastare l’invasione valorizzando i concetti di famiglia, nazione e razza. Sono gli anni della Belle Époque, che nascondono sotto una festosa immagine di eleganza i panni sudici, fin de siècle, zeppi di miserie e turpi contraddizioni. I francesi pensano alla Revanche: dopo la disfatta di Sedan c’è l’odio per il Reich tedesco, alleato dell’Italia nella Triplice Alleanza. Sono gli anni dell’espansionismo coloniale con quel tanto di ideologia razzista che essa suppone. Gli italiani sono identificati come un popolo abituato a cantare e mendicare; compare lo stereotipo dell’accoltellatore (un anarchico italiano uccide il presidente Sadi Carnot), riservato agli italiani almeno fino al 1940, data dell’aggressione fascista, non a caso definita coup de poignard. Nel 1893 Barrès dichiarava, schiumando di rabbia, che le “hordes barbares” minacciavano il lavoro e rappresentavano un pericolo sociale, morale e politico. Il disprezzo e la paura si diffusero rapidamente, contaminando anche il vocabolario: a Nizza, il termine piémontais era un insulto. Le orde barbariche eravamo noi: gli italiani.

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Caccia al piemontese! Nei secoli Aigues-Mortes era diventata la terra di produzione dell’oro bianco: il sale. Il lavoro nelle saline era durissimo e vi erano impiegati soprattutto operai emigrati dall’Italia, in particolare dal Piemonte. Prima del massacro di Aigues-Mortes ci furono diversi casi di razzismo nei confronti degli italiani. Nel 1882 i lavori per la costruzione della nuova linea ferroviaria nella zona del Gard, l’Occitania, richiedono l’impiego di un gran numero di sterratori. Gli imprenditori vengono accusati di dare la preferenza agli operai piemontesi. Da tempo, nelle osterie della zona in cui sorgono i cantieri, si parla di cacciare via i pimos, come con disprezzo vengono chiamati nel Midi i piemontesi. Il 15 febbraio 1882 un capocantiere seguito dai suoi uomini percorre la linea

malmenando gli italiani e inducendo i francesi a cessare di lavorare e a seguirlo. L’accusa francese era sostanzialmente questa: i piemontesi lavorano “per una paga eccessivamente bassa”. Ma a cosa attribuire tanto sadismo se non al meccanismo psicologico di chi sfoga sull’altro l’odio che prova nei confronti della miseria di cui è intessuta la propria storia passata e presente?

Il vocabolario del pregiudizio L’altro termine coniato dai francesi, prima dell’odioso rital per indicare con sprezzo il bisognoso lavoratore italiano, fu christos, non per la fede, ma per la facile abitudine alla bestemmia; non a caso, nella lingua piemontese, è utilizzato il verbo “cristonare” quale sinonimo di bestemmiare. Anche una volta naturalizzati, gli immigrati italiani potevano

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PIEMONTESI AI CONFINI DEL MONDO DALL'EGITTO ALLA PATAGONIA, IMPRESE EROICHE DI AVVENTURIERI ED ESPLORATORI

Augusto Franzoj si imbarca per l'Etiopia nel tentativo di recuperare i resti dell'esploratore Giovanni Chiarini

1882

Bernardino Drovetti rinviene il Papiro dei Re

1820

Carlo Felice acquista da Drovetti per 400.000 lire la collezione che darà origine al Museo Egizio di Torino. Tra i documenti c'è anche il Papiro dei Re

1823 Enrico Baudi di Vesme parte senza sostegno alcuno per la sua prima missione in Somalia

1890

1896 1867 1814 Congresso di Vienna

1848

Nasce la Società Geografica Italiana

Carlo Alberto di Savoia concede lo Statuto Albertino

1887 1861 Torino è capitale del Regno d'Italia

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1893

L'Italia è sconfitta nella battaglia di Adua. É un duro colpo alle ambizioni coloniali italiane sul Corno d'Africa

Strage di Aigues-Mortes

L'Impero etiope sconfigge il Regno d'Italia nella battaglia di Dogali


Il capitano Luigi Piovano viene inviato a Tientsin presso la Caserma Italia

1900-1905

Cesare Poma è il primo console italiano a Tientsin

Ermina Caudana inizia il restauro del Papiro dei Re

1901 Cesare Poma fonda il Bollettino Italiano dell'Estremo Oriente, primo giornale di lingua italiana in Cina

1902

1929 Cosma Manera riporta in patria 10.000 italiani irredenti bloccati in Russia. Un viaggio epico attraverso la Siberia e la Manciuria

Alberto Maria De Agostini, a 73 anni, conquista il Monte Sarmiento in Patagonia

1917-1918

1956

1899-1901 In Cina scoppia la Rivolta dei Boxer

1914-1918

1900

1917

I Boxer attaccano il quartiere delle Legazioni

La Rivoluzione Russa rovescia l'Impero zarista

1901 Nasce la Concessione italiana di Tientsin

1929

Scoppia la Prima guerra mondiale

Crolla la Borsa di New York

1939-1945 1924 In Italia il Partito nazional fascista vince le elezioni

Scoppia la Seconda guerra mondiale

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PIEMONTESI AI CONFINI DEL MONDO

BERNARDINO DROVETTI COSA SAPPIAMO (E NON SAPPIAMO) DEL GRANDE ARCHEOLOGO IN EGITTO di Davide Mana Nel ricercare informazioni su Bernardino Drovetti il biografo si imbatte in due personalitĂ quasi opposte, a seconda che si consultino fonti italiane o inglesi. Uomo integerrimo o losco figuro, abile politico o cinico manipolatore, appassionato antiquario o scaltro affarista, studioso o avventuriero. Due persone, due storie sovrapposte, fino alla morte, velata di mistero.

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Un notaio ribelle Nato a Barbania il 7 gennaio 1776, Bernardino Michele Maria Drovetti si laurea in Legge a Torino nel 1794, e segue le orme paterne diventando notaio. Due anni dopo abbandona tuttavia la professione e, ottenuta la cittadinanza francese e sposata la causa rivoluzionaria, si unisce alla Grande Armée di Napoleone.

tra traffico di animali esotici e tentati omicidi, è davvero la ricerca storica

La sua carriera è particolarmente rapida. Nella prima campagna d’Italia (1797) a Mantova è al fianco di Gioachino Murat, al quale in un'occasione salverà la vita. Partecipa come ufficiale alla campagna in Egitto (1798—1799). Nella seconda campagna d’Italia (1800) combatte a Marengo, e viene nominato comandante degli ussari piemontesi, per poi affiancare il generale Colli, capo di Stato Maggiore della divisione piemontese dell’Armata d’Italia.

L’abile arte diplomatica La brillante carriera militare gli apre le porte della politica, e grazie ai buoni auspici di Murat e Colli, Drovetti ottiene da Napoleone Bonaparte l’incarico di console generale francese in Egitto. Drovetti si dimostra un abile diplomatico, e si guadagna la fiducia di Mehmet Alì, un ex generale ottomano e governatore dell’Egitto, che si è autoproclamato khedive (una specie di viceré) di Egitto e Sudan, con la tacita approvazione di Costantinopoli. Con l’appoggio di Drovetti, Mehmet

a muovere drovetti?

Alì riesce a scacciare gli inglesi nel 1807 — ma non prima che gli inglesi abbiano tentato, senza successo, di uccidere Drovetti in un attentato. Scampato il pericolo, Drovetti collabora a sedare la guerra civile nel 1811. La collaborazione fra l’Impero francese e l’Impero ottomano garantisce all’Egitto una stabilità che fa bene alla politica e ancora di più agli affari. I francesi contribuiscono a fondare e addestrare un esercito e poi una flotta egiziana (1815), aprono ospedali e vaccinano la popolazione contro il colera. Vengono istituite scuole con docenti francesi per la formazione di giovani egiziani. Agricoltura e commercio fioriscono, favorendo gli scambi con la Francia. Curiosamente, è sempre grazie a Drovetti se Mehmet Alì riesce a inviare, nel 1826, una giraffa al Re di Francia come segno di stima. Né la cosa deve sorprendere: Bernardino Drovetti gestisce infatti anche un

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PIEMONTESI AI CONFINI DEL MONDO

ALBERTO MARIA DE AGOSTINI TRENT’ANNI AI CONFINI DEL MONDO di Davide Mana


Alberto Maria De Agostini è oggi più popolare nei paesi di lingua spagnola che non in Italia. Nato a Pollone, all’epoca in provincia di Vercelli, il 2 novembre 1883, è possibile che la vicinanza alle Alpi abbia contribuito alla sua passione per l’esplorazione e l’alpinismo almeno quanto la sua appartenenza a una famiglia che ha legato indissolubilmente il proprio nome alla geografia.

Interessi senza confini

La Cordigliera inesplorata

Alberto venne ordinato sacerdote salesiano nel 1909 e inviato come missionario in uno dei luoghi più selvaggi e inospitali del mondo: la Terra del Fuoco. In Patagonia e Terra del Fuoco da molti anni, in una località nota come Punta Arenas, a nord dello Stretto di Magellano, i salesiani si occupavano di tutelare gli ultimi sopravvissuti delle etnie Ona, Tehuelche, Yaghan (Yamana) e Alakaluf.

Sempre accompagnato da guide locali, il sacerdote divenne un personaggio semi-leggendario fra i gauchos, che rimasero impressionati da come De Agostini scalasse le montagne sempre indossando la tonaca, e carico delle sue pesanti macchine fotografiche.

Padre De Agostini si impegnò nell’attività missionaria, dedicandosi tuttavia nel (poco) tempo libero, all’esplorazione. Uomo dalla cultura vastissima, poeta e musicista oltre che uomo di fede, De Agostini si improvvisò di volta in volta etno-antropologo, geologo, botanico o fotografo, e cominciò a documentare le proprie avventure nella Terra del Fuoco. E le sue avventure non furono poche.

Nella catena del Paine De Agostini sarebbe tornato solo nel 1929 per esplorarne la conca terminale. I rilevamenti e le osservazioni di De Agostini dimostrarono che l’originaria interpretazione, secondo la quale la conca perfettamente circolare sarebbe stata un cratere vulcanico, era infondata. Dal Paine, il sacerdote proseguì attraversando la Sierra de Los Baguales. Fra il dicembre 1930 e il gennaio 1932, De Agostini, accompagnato dalle guide Evaristo Croux e Leone Bron e dal dottor Egidio Feru-

glio, visitò i fiordi Mayo e Spegazzini lungo la costa patagone, sempre con un occhio alla possibilità di scalare nuove vette. Approfittando di un periodo di clima particolarmente favorevole, i quattro attraversarono il ghiacciaio interno e scalarono il Monte Mayo, raggiungendo la vetta a 2.430 metri, e sfruttando il panorama per cartografare i territori circostanti. Sempre in compagnia di Croux, Bron e Feruglio, De Agostini nello stesso periodo attraversò il Ghiacciaio Continentale e la Cordigliera Patagonica Australe. De Agostini sarebbe ritornato più volte nella Cordigliera negli anni successivi, scalando il massiccio del Fitz Roy. Nel 1937, trascorse gran parte del proprio tempo libero fra i monti attorno al lago San Martin, scalando il Monte Milanesio e attraversando i ghiacciai circostanti.

Lo scalatore con la tonaca Fra il 1913 e il 1914, padre De Agostini scalò il Monte Oliva, la vetta che sovrasta Ushuaia, e da qui tentò per la prima volta l’ascesa del Monte Sarmiento (2.404 metri), senza tuttavia riuscire a raggiungere la vetta. Nel 1914 e 1915 si dedicò all’esplorazione della catena dei Monti Darwin, il cui interno era ancora sconosciuto. Qui De Agostini tentò di scalare il Monte Italia e raggiunse la cima del Monte Belvedere. Nel territorio della Sierra Alvear, De Agostini scalò il Monte Carbajal, in vista del Lago Fagnano (che deve il proprio nome al fondatore della missione salesiana di Punta Arenas). Rientrato in Patagonia, De Agostini dedicò il 1916 ed il 1917 a esplorare il gruppo del Balmaceda (presso la Baia dell’Ultima Speranza) e del Paine. Non solo il sacerdote scalò le cime della catena, ma eseguì anche rilevamenti geologici e geografici.

La notizia dell’ascensione alla vetta del San Lorenzo, che era creduta inaccessibile, si era sparsa fra gli abitanti della regione e i commenti, come è naturale fra gente che poco conosce l’arte di scalare montagne, rivestivano contorni di mistero e piuttosto singolari. In una piccola osteria presso Rìo Chico, dove facemmo una breve sosta, potei raccogliere in incognito uno di questi curiosi apprezzamenti, sorprendendo un accalorato dialogo fra vari lavoratori del campo e un

gaucho, il quale ebbe a pronunciare

l’ultima e autorevole parola:

'A me non la contano. Io ho visto da vicino la vetta del San Lorenzo: è terribile, e se non l’hanno avvinghiata con il laccio, non è possibile che l’abbiano ascesa' alberto maria de agostini "Ande Patagoniche", pp. 325-326

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IL PROFESSOR CESARE PAVESE Profilo inedito del grande scrittore attraverso i ricordi degli allievi al Liceo Lagrangia di Vercelli di Felice Pozzo

Pavese era un timido e perciò assumeva spesso un’aria austera, fredda, ma internamente era di un’umanità ricchissima e di una sensibilità addirittura esasperata. Le sue lezioni erano di una chiarezza cristallina, scevre da ogni enfasi retorica e da ogni compiacenza del dire. Il suo linguaggio scabro, limato, essenziale. Sono alcuni dei ricordi rilasciati a chi scrive nel 1972 dall’avvocato Giorgio Allario Caresana, già allievo di prima liceo al “Lagrangia” di Vercelli durante l’anno scolastico 1933 — 1934, l’unico durante il quale Cesare Pavese vi insegnò Lettere Italiane, preceduto dal professor Vincenzo Craici e seguito da Giovanni Fontana. Allario Caresana sarebbe diventato non solo professore di Storia dell’Arte in quella stessa scuola, dal 1945 al 1949, ma anche esponente di spicco della vita culturale vercellese. E il Liceo Ginnasio “Lagrangia” esisteva sin dalla riforma scolastica che iniziò i Ginnasi -Licei, ossia la legge Casati del 13 novembre 1859.

Conosco l'insegnamento fino alla feccia In quanto a Pavese, che in quell’anno vercellese, per così dire, contava 25 anni (essendo nato il 9 settembre 1908), non era alle prime armi come insegnante. In una lettera a Leone Ginzburg, Cesare Pavese (© Fondazione Cesare Pavese).

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L'ARTE SOCIALE DI PELLIZZA DA VOLPEDO Nei luoghi che ispirarono l’autore de “Il Quarto Stato” di Davide Mana e Gabriele Reina

Sento che ora non è più l’epoca di fare l’arte per l’arte, ma dell’arte per l’umanità Giuseppe Pellizza da Volpedo

Giuseppe Pellizza al lavoro (1904) .

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“Il Quarto Stato”, olio su tela, 1901.

Il Quarto Stato, dipinto del 1901 dell’alessandrino Giuseppe Pellizza da Volpedo è certamente una delle immagini più famose, popolari e iconiche del ventesimo secolo. Esempio perfetto di arte sociale, il dipinto è stato utilizzato per una varietà di scopi differenti, dalla propaganda politica alla pubblicità.

Le tre fasi di un capolavoro Il quadro, oggi ospitato nel Museo del Novecento di Milano, venne ispirato all’artista da una manifestazione politica alla quale si trovò ad assistere nel 1891. Pellizza annotò nel suo diario: La questione sociale s’impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non dev’essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore a petto delle condizioni presenti. In realtà furono tre le opere realizzate da Giuseppe Pellizza sulla base di quell’esperienza. La prima, prodotta a partire da una serie di schizzi dal 1892 al 1895, si intitola Ambasciatori della Fame, e successivamente il più noto Fiumana, realizzato tra il 1895 e il 1898. Nel progredire attraverso queste fasi, mentre i tre personaggi centrali restano sostanzialmente invariati, è la presenza della massa di persone che si fa più vasta, più dettagliata, più vicina e più presente. Nelle parole del pittore una massa di popolo, di lavoratori della terra, i quali intelligenti, forti, robusti, uniti, s’avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere luogo ov’ella trova equilibrio.

Dipinto famoso, popolare, conosciuto e studiato a fondo, de Il Quarto Stato oggi conosciamo quasi ogni dettaglio. La storia, lo sviluppo, le basi concettuali e ideologiche, la tecnica. Persino i nomi dei cittadini di Volpedo che Giuseppe Pellizza usò come modelli per la propria opera. Il Quarto Stato brilla a tal punto di luce propria, da aver quasi eclissato il proprio autore.

L’artista simbolo dei lavoratori Nato nel 1868 a Volpedo, in provincia di Alessandria, Giuseppe Pellizza proveniva da una famiglia contadina di ampi mezzi, che attraverso i loro contatti riuscirono a far entrare il figlio Giuseppe all’Accademia di Brera. Successivamente, il giovane artista avrebbe visitato le accademie di Roma, Firenze, Carrara e Genova. Le prime opere di Pellizza (che solo dopo il matrimonio comincerà ad aggiungere “da Volpedo” alla propria firma) sono caratterizzate da una tecnica di pittura a impasto, alla quale fece seguito l’adesione del pittore alla scuola del Divisionismo, una derivazione del Puntinismo, nel quale l’immagine viene scomposta in frammenti di colore giustapposti senza che i colori si mescolino. Il Quarto Stato, esposto alla Quadriennale di Torino nel 1901, non ricevette alcuna attenzione dall’organizzazione della mostra, e non venne acquistato dalla Galleria Sabauda come il pittore aveva sperato, trovan-

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