TAO 9 Torino che visse due volte

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monografia

Torino che visse due volte Architetture Rivelate

09 2011

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% CB-NO/TORINO n째 2 Anno 2011



TAO 9 – INDICE 2 Colophon 3 Redazionale 4 Contributors 5 Da una Torino a un’altra editoriale di riccardo Bedrone 6 Economia e società a Torino, dal boom industriale alla città postfordista STEFANO MUSSO 2 Carlo Mollino perduto e ritrovato GIOVANNI BRINO 1 8 Architetti, artieri ENZO BIFFI GENTILI 1 0 Raccontare Torino CARLO OLMO 2 6 La ville industrielle costruisce i suoi simboli CRISTIANA CHIORINO 2 8 Visita guidata al Palazzo del Lavoro Archivio privato di ANDREJA RESTEK 2 6 Tra arte e architettura LUCA BEATRICE 3 9 Ritratto di famiglia GIAN PIERO BONA 3 2 Oscar Niemeyer a Torino GUIDO LAGANÀ 4 44 Roundabout


TAO n.9/2011 www.taomag.it ISSN 2038-0860 DIRETTORE RESPONSABILE

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Riccardo Bedrone, presidente Maria Rosa Cena, vicepresidente Giorgio Giani, segretario Felice De Luca, tesoriere

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IN COPERTINA

Marcello Cini Mario Cucinella Philippe Potié Cyrille Simonnet

Hitchcock ammira Nervi Archivio privato di Andreja Restek

SEZIONE ROUNDABOUT

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Carlo Novarino, presidente Sergio Cavallo, vicepresidente

Periodico di informazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino Registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51 del 9 ottobre 2009 Iscritto al ROC con il n. 20341 del 2010 Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi e le elaborazioni degli autori e non impegnano la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino né la Fondazione OAT Tiratura 3.000 copie

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Si ringraziano Liliana Lanzardo per le fotografie del marito Dario Lanzardo per l’articolo di Stefano Musso Carlo Spinelli (www.urbancenter.to.it) per le fotografie di Michele D’Ottavio per l’articolo di Carlo Olmo


REDAZIONALE

In quest’anno di celebrazioni per il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, TAO ha scelto di concentrarsi soprattutto sugli ultimi cinquant’anni di Torino, partendo da una constatazione condivisa: il 1961 ha segnato nell’immaginario collettivo la sintesi, il momento di svolta di quella stagione, che per molti rappresentò la speranza di un futuro migliore. Un futuro a portata di mano, anche perché la quotidianità e la qualità dell’esistenza godevano di piacevoli novità: i primi frigoriferi, gli apparecchi tv e le lavastoviglie facevano il loro ingresso nelle abitazioni, mentre le utilitarie consentivano a molti italiani di diventare automobilisti. Il boom economico si esprimeva in diversi modi, con l’accesso ai consumi di massa, la tumultuosa crescita occupazionale guidata da Fiat e il conseguente inarrestabile incremento di popolazione nell’area urbana di Torino, che fecero guadagnare alla città il titolo di one company town. Anche l’espansione urbana era in continuo sviluppo: la città si trasformava sull’onda tumultuosa di questo benessere, sorgevano edifici simbolo quali il Palavela e il corso Unità d’Italia diventava un’importante arteria di accesso alla città e riqualificava un quartiere bidonville. La situazione oggi è molto diversa. Quello che era un mondo ‘facile’ è diventato complesso e l’ottimismo che permeava la società degli anni Sessanta ha lasciato il passo alla disillusione e a un diffuso pessimismo. Lo Stato sembra essere senza storia, concentrato com’è sul presente senza nessuna capacità progettuale e sul consumismo più spinto. Siamo ancora in piena crisi economica e il futuro di Fiat e di Torino con Fiat non è ancora chiaro. Eppure, con la candidatura ai Giochi olimpici invernali del 2006, la città ha saputo concentrare le risorse per operare una nuova e necessaria trasformazione urbana, nei trasporti e negli insediamenti, sfruttando al meglio la ribalta internazionale che

le avrebbe offerto l’evento sportivo. Opportunità che non era possibile cogliere nuovamente nella sua complessità appena cinque anni dopo, per la celebrazione dei 150 anni. La copertina di TAO ha però voluto rilanciare l’ottimismo. Torino che visse due volte è un augurio ispirato dallo sguardo ammirato che Hitchcock volge alla struttura a ombrello ideata da Pier Luigi Nervi per sostenere la copertura del Palazzo del Lavoro. In questa immagine ci sono tutti gli spunti che dovrebbero ispirare una rinascita: l’intuizione, la sfida, la ricerca, il lavoro, l’anticipazione del futuro. Torino è il fil rouge di questo numero, che segue un particolare percorso muovendo innanzitutto dalla sua storia economica, sociale e urbanistica, raccontata attraverso le parole di Stefano Musso e Carlo Olmo e le fotografie di Dario Lanzardo e Michele D’Ottavio, per addentrarsi nell’architettura di Pier Luigi Nervi, Carlo Mollino e Oscar Niemeyer, professionisti agli antipodi per storia di vita e professionale, ma che hanno realizzato le loro migliori opere a Torino e in provincia. Gli scritti di Cristiana Chiorino, Giovanni Brino e Guido Laganà sono accompagnati da un prestigioso corredo di immagini che proviene dagli archivi Brino, Moncalvo, Burgo Group e Archivio storico Fiat. L’archivio privato di Andreja Restek segnala invece le personalità nazionali e internazionali in visita a Torino per ammirare il Palazzo del Lavoro appena completato. L’articolo di Enzo Biffi e l’intervista a Luca Beatrice riavvicinano l’architettura all’arte e all’artigianato, non tralasciando il sentimento che entrambi nutrono oggi per la città, così come viene manifestato anche da Gian Piero Bona in un ritratto personale: la storia di un’azienda famigliare che attraversa due secoli di storia e che dalla provincia guarda il mondo per ritrovarsi a Torino. Anche la selezione dei film è fatta su Torino: centro della storia, set dichiarato o semplice illusione.


CONTRIBUTORS

Luca Beatrice

Giovanni Brino

Stefano Musso

Enzo Biffi Gentili

Cristiana Chiorino

Carlo Olmo

Gian Piero Bona

Guido Laganà

Andreja Restek

Critico d’arte contemporanea e curatore, ha realizzato monografie e cataloghi di mostre personali di artisti italiani e internazionali e ha curato numerose rassegne e mostre collettive. Ha collaborato con istituzioni pubbliche e fondazioni private; è stato curatore della Biennale di Praga (2003-2005) e del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2009. Collabora con Il Giornale. Dall’autunno 2009 insegna all’Accademia Albertina di Torino e da luglio 2010 è Presidente del Circolo dei lettori di Torino.

Direttore del Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi (MIAAO), curatore della mostra Il futuro nelle mani, allestita a Torino alle OGR per le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia. Storico e critico d’arti applicate, curatore di mostre fondamentali per queste discipline, come L’apprendista stregone nel 1991, Mater Materia nel 1999, Artigiano metropolitano nel 2002.

Poeta, romanziere, drammaturgo. Poesia: La vergogna (Guanda, 1978) premio Biella; Agli dei (Garzanti, 1987) premio Chianciano; Gli ospiti nascosti (Einaudi, 1990); Oscure (Manni, 1995) premio Penna. Narrativa: I pantaloni d’oro (Feltrinelli, 1969); Il silenzio delle cicale (Garzanti, 1981) premio Campiello; Passeggiata col diavolo (Garzanti, 1983) 2° cl. premio Strega. Teatro: Le tigri (premio Pirandello, 1983); Una famiglia italiana (premio Vallecorsi, 1985). Traduzione: A. Rimbaud, Opera Omnia (Einaudi, Pléiad, 1992) premio Grinzane Cavour. Sceneggiatura TV: Leonardo, 1967; Odissea, 1968. Cinema: Stelle dell’orsa, 1965 con L. Visconti; La rechèrche di Proust, 1961 con E. Flaiano.

Laureato nel 1960, è docente dal 1963 al 2008 al Politecnico di Torino e lecturer al SCI.ARC, Oxford Polytechnic, Cambridge University, Curtin University (Australia), etc. Dirige il Piano del Colore di Torino e una trentina di piani del colore in Italia e all’estero. Dal 1982, realizza corsi di formazione professionale in Italia e Francia. Nel 1987-2005 è consulente della Città di Marsiglia per il restauro delle facciate e realizza per il Ministero della Cultura Francese la ‘banca-dati dei restauri’ della Villa Medici a Roma. Dal 1962 svolge attività di progettazione. È autore di numerose pubblicazioni.

Architetto e Dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica (Politecnico di Torino), dal 2005 è vicecaporedattore del mensile ll Giornale dell’Architettura. Borsista presso il Politecnico di Torino nell’ambito del progetto di ricerca Prin Arte e scienza del costruire. Ha partecipato alla cura scientifica di mostre di architettura tra cui Carlo Mollino Architetto (Archivio di Stato di Torino, 2006) e Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida (Bruxelles, Roma, Torino, 2010-2011), di cui ha curato il catalogo. Dal 2011 è membro del Consiglio Direttivo di Docomomo Italia.

Architetto, del 1948, vive e lavora a Torino. Il ‘filo rosso’ che lega le sue esperienze progettuali, dagli allestimenti, all’edilizia, all’urbanistica, è l’inclinazione a sperimentare l’architettura come ricerca teorica, metodologica, materiale, rivolta alla ‘condizione umana’. Nel 2008, docente al Politecnico di Torino, ha curato con Marcus Lontra l’esposizione: Oscar Niemeyer, cento anni, evento collaterale del XXIII Congresso Mondiale degli Architetti e ha curato il testo, con M. Lontra, Oscar Niemeyer 100, per i tipi della Electa.

Insegna Storia contemporanea e Storia del lavoro all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Le regole e l’elusione. Il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione italiana (18882003), Torino, Rosenberg & Sellier, 2004; Operai. Figure del lavoro nel Novecento, Torino, Rosenberg & Sellier, 2006; La partecipazione nell’impresa responsabile. Storia del Consiglio di Gestione Olivetti, Bologna, Il Mulino, 2009; Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio, 2011.

Storico dell’architettura, è stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007. Ha insegnato all’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e al Mit di Boston. Direttore del Dizionario dell’architettura del XX secolo e de Il Giornale dell’Architettura, è autore tra l’altro di: Alle radici dell’architettura contemporanea (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), La città e le sue storie (Einaudi, 1995; con B. Lepetit) e Architettura e Novecento (Donzelli, 2010). È direttore dell’Urban Center di Torino.

Nata in Croazia, è una delle più accreditate fotoreporter; è iscritta all’Ordine dei Giornalisti di Torino. Ha ricevuto nel 2007 una delle tre segnalazioni speciali nel premio Vitaliano Brancati di giornalismo. Ha pubblicato fotografie su quotidiani e riviste (tra cui La Stampa, La Repubblica, Piemonte parchi, Torino Cronaca, l’Espresso) e su libri (tra cui Passion lives here, ed. Toroc, Parole di donne, ed. Scuola Golden e Associazione Emily). Ha collaborato con numerosi enti tra cui Regione Piemonte, Comune di Torino, Fondazione CRT, Banca SanPaolo Imi.


Da una Torino a un’altra Editoriale di Riccardo Bedrone

I grandi eventi – esposizioni e fiere, olimpiadi e campionati sportivi, celebrazioni, ricorrenze e giubilei – sono manifestazioni che si svolgono con un rituale per certi versi simile, al di là della loro natura. Perché, comunque, il loro fine coincide: valorizzare la città che li ospita facendo finanziare, per allestirli, opere necessarie e opere addizionali, in modo da cercare di aprire un ciclo di rilancio o dare seguito a un trend di crescita delle attività che ne sostanziano la base economica. E dunque, all’ideazione segue la ricerca dei partner, la preparazione della documentazione, la raccolta faticosa delle risorse, la battaglia per l’aggiudicazione e, finalmente, se tutto è andato bene, i lavori (da noi per consuetudine in ritardo dal principio alla fine). Il tutto accompagnato da pubblicità e campagne divulgative, fino all’inaugurazione e allo svolgimento dell’evento. Qui l’attesa dei visitatori si trasforma nella conta delle presenze – e degli ospiti importanti, i cosiddetti portatori di opinione – per valutare quale promozione ne possa ricavare la città e quali ricadute si prospettino, a manifestazione conclusa. Dopo il bilancio finale, non tanto sull’entità della spesa quanto della sua giustificabilità, la caduta di tensione, spesso accompagnata da polemiche su opere, magari magnifiche, ma destinate all’abbandono e all’oblio, quando non se ne era saputo concepire un riutilizzo congruente con i bisogni quotidiani e non con il solo grande evento. Quante volte è toccato lamentarsi proprio per questo, e non solo in Italia? In realtà, ciò che conta veramente è l’eredità che il grande evento lascia alla città, non solo ridefinendone l’impronta – quando è stato organizzato e gestito bene – ma soprattutto stimolandola a proseguire ciò che l’evento stesso ha contribuito a far nascere: la voglia di fare, e di fare bene. Insomma, il miglior effetto è quello duraturo, sulla struttura urbana e nei comportamenti dei suoi abitanti-fruitori. A questo proposito, cosa è successo a Torino fra le due ricorrenze del dopoguerra che l’hanno portata a celebrare l’unità d’Italia? Certamente, cinquant’anni – due generazioni – non sono pochi per riuscire a rintracciare analogie e similitudini senza forzature. Nel 1961 si viveva nella consapevolezza della crescita del Paese, dell’uscita dalle amarezze della guerra e della ricostruzione, nell’attesa in parte già soddisfatta di un generale miglioramento del tenore di vita, per tutti. L’atmosfera era quella del miracolo economico, che avrebbe dilatato i suoi effetti per alcuni anni ancora nel decennio a venire. Italia ’61 fu la celebrazione del futuro atteso, all’insegna di una grande fiducia nel progresso tecnico e nella modernizzazione che lo sviluppo industriale faceva sperare. Tutto il complesso realizzato per ospitare il grande avvenimento era ispirato a questi concetti: il Palavela, il Circarama, la monorotaia, la funivia, i padiglioni delle Regioni, per non parlare del monumento al Lavoro di Nervi, parlavano di una palingenesi attesa per Torino. La città, invece, crebbe dopo senza seguire alcuna di queste anticipazioni beneauguranti, evidentemente confliggenti con il potere economico, che la voleva invece rendere – come in effetti divenne – una città fabbrica senza alcuna memoria della grandiosità e della razionalità che aveva guidato i

progettisti del centenario. Torino si ampliò disordinatamente, cominciando anzi ad uscire dai suoi confini amministrativi e poi iniziò il suo declino postindustriale, ancor oggi non esaurito, senza qualità urbana, con pochi esempi di buona architettura, e con una gestione urbanistica – fatta eccezione per il breve mandato amministrativo di Giovanni Astengo – insensibile al richiamo del suo grande passato di città disegnata. Le guide e i manuali di architettura di Torino più autorevoli non riescono infatti a segnalare che una trentina di interventi meritevoli di citazione, in un periodo di oltre vent’anni, che coincise con la massima crescita demografica del capoluogo e la sua più che proporzionale estensione sul territorio. E i nomi ricorrenti degli autori erano pochissimi: Gabetti e Isola, Jaretti e Luzi, Hutter, Levi Montalcini, Raineri e, naturalmente, Mollino, insieme ad uno dei pochi stranieri chiamato ad operarvi, Oscar Niemeyer. Un po’ poco, per una città che aspirava a tornare ad esser capitale, questa volta della produzione metalmeccanica, l’industria traente del Paese. E non molto per migliorarne l’aspetto, impegnata com’era a recuperare il tempo perduto in termini di copertura dei fabbisogni pregressi di case a basso costo e servizi, poté fare la giunta di sinistra, rimasta al governo poco più di un mandato e afflitta da una crisi mondiale che, colpendo la Fiat, diede il via ad un declino della città che molti scommisero, negli anni Ottanta, sarebbe diventato irreversibile. Gli ultimi vent’anni sono stati invece quelli di un rilancio tanto più inaspettato quanto incoraggiante. Certo, si è passati dalla piena occupazione a una disoccupazione strutturale, soprattutto giovanile. E dall’attesa del futuro siamo oggi al timore del futuro, che ancora non promette una ripresa autentica e duratura. I sentimenti con cui ci si è accinti a realizzare – o a partecipare – alle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia sono perciò a Torino assai diversi da quelli dell’edizione del ‘miracolo economico’. Ma Torino si è rilanciata, operando negli ultimi quindici anni una gigantesca trasformazione urbanistica di carattere strutturale, basata sul riassetto dei trasporti e sulla rigenerazione di porzioni importanti del tessuto edificato. I risvolti, sul piano della qualità del costruito, si cominciano ad intravedere, a partire da quanto più accortamente (ai fini del riuso successivo) è stato fatto per l’avvenimento che cinque anni orsono anticipò Italia 150: le Olimpiadi invernali, il vero grande motore della rivalutazione della città, agli occhi dei suoi stessi abitanti prima ancora che dei turisti e degli investitori. Le mostre, organizzate ora per festeggiare l’Unità d’Italia, non sono state allestite in nuovi fabbricati, ma all’interno di ciò che già c’era e che rappresenta, come per le OGR o la reggia di Venaria, testimonianza del passato che si vuole recuperare piuttosto che dimenticare: una forma diversa di anticipazione di un futuro che nel 1961 era affidata a speranze diventate illusorie. Dunque, parlare degli ultimi cinquant’anni di Torino vuol dire seguire il percorso che l’ha condotta alla concretezza e al realismo: quindi nessuna nostalgia per il ‘come eravamo’, semmai molta attenzione a cosa vorremmo (e potremmo) diventare.


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Economia e società a Torino, dal boom industriale alla città postfordista Le peculiarità dell’esperienza torinese. Le eredità positive e negative del modello industriale. Le sfide future Stefano Musso

Nei vent’anni del lungo boom economico italiano, quando il Paese ha completato il processo di industrializzazione, Torino ha rappresentato un caso unico di grande città industriale in Italia, per la netta preponderanza del settore secondario nell’economia locale. Seppur ridimensionata, questa caratteristica si protrae sino ad oggi: il capoluogo piemontese presenta ancora una struttura economica meno diversificata in direzione del terziario che non i centri urbani – italiani ed europei – di dimensione comparabile. A questa prima peculiarità se ne accompagna una seconda: il predominio di una sola grande impresa, tanto da indurre alcuni studiosi a qualificare la Torino industriale come una company town, una definizione insolita per una città di un milione di abitanti. Alla definizione di company town si accompagnava infine quella di città monoculturale, per il netto predominio della produzione di autoveicoli. Queste definizioni, pur utili a cogliere le particolarità del capoluogo piemontese, rischiano di produrre un’immagine storica della città eccessivamente semplificata. Il ruolo di capitale politica ha lasciato eredità

profonde, in particolare la monumentalità del centro storico e delle regge del circondario, nonché la tradizione della produzione artigianale di generi di lusso, legati ai consumi della corte. Inoltre, il ruolo amministrativo di capoluogo provinciale e regionale, e le dimensioni stesse della città, le hanno conferito inevitabilmente una complessità economica e sociale irriducibile a quella di una company town. La preponderanza della FIAT e delle produzioni connesse alla filiera dell’auto non deve relegare nell’ombra la presenza storica di vocazioni manifatturiere diversificate, dal settore energetico alle telecomunicazioni, dalle fibre artificiali all’alimentare all’abbigliamento, con imprese – per tutte SIP, Italgas, SNIA, Venchi Unica, Superga, Gruppo Finanziario Tessile, Robe di Kappa – capaci di affermarsi, nelle rispettive stagioni, con posizioni primarie sui mercati interni e internazionali. Sgombrato il campo dalle semplificazioni e riconosciuti gli elementi di ricchezza e poliedricità, nondimeno Torino ha vissuto il suo ruolo di centro d’avanguardia dell’industrializzazione italiana drenando progressivamente, nel corso di un

processo secolare, le sue risorse umane e finanziarie verso una core activity, quella dell’automobile; l’industria meccanica, così, se non ha cancellato, ha costretto in secondo piano gli altri settori produttivi e occupazionali. Dopo aver accresciuto ulteriormente il suo peso occupazionale negli anni Settanta, nei decenni successivi l’industria dell’autoveicolo è stata investita da processi di ristrutturazione e innovazione tecnologica che ne hanno ridotto drasticamente la base occupazionale; inoltre il settore, a livello internazionale, è caratterizzato da endemica sovraccapacità produttiva ed elevata concorrenzialità. I dipendenti Fiat nel Torinese si sono ridotti dai 130.000 dei primi anni Settanta ai 10.000 attuali. Così l’economia locale, che negli anni del boom economico trainato dalla motorizzazione di massa si era avvantaggiata dei successi dell’azienda campione nazionale, data la sua dipendenza dalla produzione autoveicolistica ha subito pesanti contraccolpi, fino a una certa ripresa, nell’ultimo decennio, grazie alla maggior diversificazione economica. Torino aveva vissuto gli anni del boom economico con tassi di sviluppo elevatissimi:


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un aumento di popolazione, tra il 1951 e il 1961, da 720.000 a 1.020.000 abitanti (pari al 42,5% in soli dieci anni, decisamente superiore a tutte le maggiori città italiane), per raggiungere poi il massimo di 1.200.000 abitanti nel 1974, mentre i comuni della prima cintura quadruplicavano i residenti; successivamente, ha ceduto lentamente popolazione a favore dell’area metropolitana, con un trentennale stillicidio che ha portato gli abitanti a 900.000, arrestato solo con le Olimpiadi invernali del 2006. La quota del settore metalmeccanico sul totale degli addetti all’industria nella provincia salì dal 47% degli addetti nel 1951, al 53% nel 1961, al 61% nel 1971 e al 63% nel 1981. Nel 1951 la preponderanza dell’industria aveva toccato il massimo storico, con i tre quarti della popolazione attiva. Torino era insomma una città dominata dalle fabbriche e dagli operai. Nondimeno, benché difficili da quantificare, lo sviluppo industriale innescò processi di mobilità sociale: in particolare funzionavano canali di mobilità sociale intergenerazionale, con

l’opportunità, per non pochi figli di classe operaia stabile e di coltivatori in proprio immigrati in città, di accedere, attraverso l’istruzione ormai tendenzialmente di massa, ai ruoli tecnici e impiegatizi. Alla base della piramide sociale gli immigrati, tra i quali, dopo la metà degli anni Cinquanta, predominavano i meridionali: gli ultimi arrivati andavano a occupare i posti di lavoro meno ambiti, consentendo agli operai di più vecchia data di salire un gradino nelle posizioni professionali. Fino alla fine degli anni Sessanta i disagi dell’immigrazione non si ripercossero sul conflitto industriale: la maggior parte dei nuovi assunti, provenienti dalle campagne e da regioni economicamente depresse, considerava la nuova condizione lavorativa migliore di quelle precedenti. I salari relativamente elevati, la sicurezza del posto di lavoro, i servizi assistenziali offerti dalle maggiori imprese facevano intravedere la possibilità, per gli operai, di accedere alle prime forme del consumo di massa. Tuttavia il fuoco covava sotto la cenere: il mercato dei beni di consumo

durevoli era in piena espansione e nelle fabbriche si intensificavano i ritmi per cogliere le opportunità espansive e far fronte alla domanda; i nuovi, giovani lavoratori industriali erano inquadrati in massa nella terza categoria degli operai comuni: erano addetti alle linee di montaggio e alle macchine automatiche, a mansioni monotone, ripetitive, prive di contenuto professionale. Mentre si affermavano nuovi stili di vita e di consumo improntati alla pubblicità, al tempo libero, alla cultura di massa e al divismo, permanevano condizioni retributive e abitative tali da trattenere buona parte dei nuovi strati di lavoratori industriali sulla soglia del pieno accesso al consumo di massa. Fu questa una delle principali componenti della complessa miscela che innescò gli anni della contestazione. Le cause dell’ondata di scioperi che iniziò nel 1968-69 e durò fino all’autunno 1980, quando la ‘marcia dei quarantamila’ pose fine a un ciclo dodecennale di aspra conflittualità, furono in parte esterne alla fabbrica, legate all’incapacità della città di reggere l’ondata migratoria in termini di offerta di


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servizi e abitazioni; uno sviluppo e un mutamento sociale radicale, rapido e concentrato nel tempo lasciò irrisolti contraddizioni e squilibri, mentre i dirigenti delle aziende, impegnati ad aumentare la produzione per cogliere le opportunità dei mercati in espansione, non prestarono sufficiente attenzione alla dimensione sociale delle fabbriche con le tensioni che vi allignavano. La ristrutturazione industriale degli anni Ottanta venne condotta all’insegna delle tecnologie informatiche e dell’automazione, e di nuovi modelli organizzativi di derivazione giapponese, con i quali, e con le più recenti innovazioni dell’outsourcing e dell’impresa a rete, le aziende hanno cercato e cercano di fronteggiare le nuove condizioni di mercati più esigenti, instabili, difficilmente prevedibili. La riorganizzazione industriale dell’ultimo ventennio ha comportato una forte diminuzione dell’occupazione nella grande industria, già avviata con i processi di decentramento degli anni Settanta, che si è accompagnata alla caduta dell’intero settore industriale sull’insieme della

popolazione attiva. Tuttavia, sempre in provincia di Torino, il terziario ha sopravanzato l’industria solo alla fine degli anni Ottanta, mentre nell’insieme del Paese il sorpasso è avvenuto quindici anni prima. Nel 2001 la quota del secondario a Torino è scesa al 31,9%, contro il 22,4% a Milano e il 22,9% a Genova; la differenza è per intero dovuta al manifatturiero, in quanto l’industria delle costruzioni oscilla in tutte e tre le città intorno al 6%. Con la crisi dei primi anni Novanta e i suoi postumi la quota della costruzione mezzi di trasporto è scesa, ma non è certo crollata, al 27% del manifatturiero nel 2001. Da allora, ha assunto notevole importanza la riorganizzazione e il rilancio della componentistica auto, che ha visto non poche imprese fornitrici accrescere il proprio portafoglio clienti, sganciandosi da un’eccessiva dipendenza dalla Fiat e dando vita, se non a un vero e proprio distretto dell’automotive, per il peso che la Fiat ancora esercita, a un grande polo della componentistica che resta una realtà imprescindibile dell’economia locale.

Per questo allarmano i recenti sommovimenti in ambito Fiat, gli sconquassi nel sistema delle relazioni industriali, la sua crescente internazionalizzazione e la prospettiva del trasferimento della sede sociale negli USA. Il persistere del mito industrialista, nella sinistra ma anche nel solidarismo cattolico di ascendenza salesiana, è stato considerato all’origine dell’incapacità delle prime giunte di sinistra, a cavallo tra anni Settanta e anni Ottanta, di progettare, di fronte alla crisi del modello fordista, interventi capaci di promuovere lo sviluppo del terziario e l’allargamento dei confini angusti della città, che richiedevano di attrarre occasioni alternative a fronte della pesante caduta occupazionale seguita alla ristrutturazione della Fiat. Si imputava a quelle giunte di essersi attardate nel tentativo di risolvere i problemi sociali lasciati insoluti dallo sviluppo incontrollato degli anni Sessanta, vale a dire la carenza di servizi e di abitazioni a sostegno dell’inserimento degli immigrati e il degrado delle periferie; l’insistenza delle


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prime giunte di sinistra sulle politiche di welfare aveva una valida giustificazione nella necessità di superare le forme di marginalità e di creare aggregazione sociale come premessa di una progettualità collettiva; ma tale progettualità non si preoccupava a sufficienza del sostegno a un nuovo sviluppo. A partire dal 1993, anno in cui la crisi occupazionale e il ridimensionamento degli organici FIAT ha colpito anche gli impiegati, l’impegno delle nuove amministrazioni di centro sinistra è andato in direzione della differenziazione dell’economia locale, alla ricerca di un nuovo e più complesso percorso di crescita. La crisi del fordismo, pur avendo provocato pesanti problemi di riconversione dell’economia cittadina, e causato drammi umani con la disoccupazione di operai adulti non qualificati, non ha ridotto Torino a un deserto postindustriale privo di prospettive. Piuttosto che lamentare la fine di un modello che peraltro, quando in era in auge, era oggetto di aspre contestazioni, appare fruttuoso prendere in considerazione le eredità, negative e

positive, che il fordismo ha lasciato alla Torino di oggi. Gli elementi monocolturali hanno reso l’economia cittadina eccessivamente sensibile al ciclo dell’auto, esponendola ai contraccolpi del passaggio da un mercato in espansione a un mercato di sostituzione per un prodotto particolarmente investito dalla globalizzazione della concorrenza. Una seconda eredità negativa sta nel fatto che l’organizzazione fordista ha allargato la base della piramide sociale con larghi strati di operai poco qualificati e poco istruiti, immessi in massa nei lavori a catena: i bassi livelli di scolarità non costituivano, negli anni del miracolo economico e ancora negli anni Settanta, un impedimento al lavoro stabile e relativamente ben retribuito, così che i figli di quegli operai hanno avuto la tendenza a lasciare la scuola anzitempo, convinti che il mercato del lavoro avrebbe continuato a riprodurre il modello che aveva funzionato per i padri. I fenomeni dell’abbandono scolastico sono così stati particolarmente diffusi a Torino, e ancora alla metà degli anni Novanta la città

registrava livelli di istruzione della popolazione inferiori a quelli delle principali città italiane del nord e del centro, mentre anche i tassi di conseguimento dei diplomi di scuola secondaria superiore risultavano inferiori alla media nazionale. Tra le eredità positive va invece annoverato il ruolo della grande impresa come promotore della crescita, che si è esplicato attraverso la capacità, legata alle sue stesse dimensioni, di creare e aggregare competenze tecniche, capacità organizzative e gestionali, di convogliare e mobilitare risorse umane e materiali, di innescare processi di apprendimento che hanno favorito il progresso tecnologico, la realizzazione di maggiori potenzialità produttive, la diffusione di competenze organizzative. Il futuro di Torino non può prescindere, per il peso stesso mantenuto dall’industria, dai lasciti positivi della sua eredità storica. Ma la sfida che la città deve affrontare non può essere quella della difesa a oltranza di una realtà manifatturiera inevitabilmente destinata a essere ulteriormente ridimensionata dalla nuova


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divisione internazionale del lavoro, dai processi di terziarizzazione, e dall’affermarsi sempre più netto del ruolo strategico della conoscenza nell’economia. Occorre però al contempo operare affinché la trasformazione non avvenga attraverso traumi e lacerazioni sociali a danno di coloro la cui vita lavorativa, il reddito e il senso di appartenenza sociale sono legati alle vecchie attività industriali minacciate dalla trasformazione. Del resto, la presenza di attività manifatturiere è importante per lo sviluppo del terziario avanzato, fatto di servizi alle imprese; inoltre, lo sviluppo di strategie di mercato orientate alla soddisfazione del cliente rende in molti casi labili le distinzioni tra alcune fasi dei processi produttivi di manufatti e di servizi. Al censimento del 2001 in provincia di Torino, gli addetti ai lavori di manovalanza e ai servizi non specializzati erano il 13%, gli operai comuni il 6,8%, gli operai qualificati il 12,8%, gli addetti alla vendita al pubblico o ai servizi alle persone erano il 13%, gli impiegati che svolgevano un’attività

non tecnica (gli impiegati d’ordine di un tempo) erano il 9,9%, coloro che svolgevano un’attività tecnica, amministrativa (gli impiegati di concetto di un tempo), sportiva e artistica di media qualificazione erano il 19,5%; le stesse attività ma ad elevata specializzazione (assimilabili alle professioni elevate, libere o alle dipendenze) erano svolte dal 13,5% della popolazione attiva; coloro che gestivano un’impresa o dirigevano il lavoro di strutture organizzative complesse (dunque imprenditori e manager) erano il 10,3%. Sommando le ultime tre categorie, quelle nelle quali si utilizza un elevato livello di conoscenza, si raggiungeva dunque, già all’inizio del nuovo millennio, una quota pari al 43,3% della popolazioni attiva. Questi dati riflettono le trasformazioni vissute da Torino nell’ultimo quindicennio, che sono state di grande portata, tali da modificare il volto della città e la sua immagine al di fuori dei suoi confini. Il cambiamento, nel trapasso dei paradigmi economici, è stato accompagnato dalle amministrazioni locali, con un’azione equilibrata che ha favorito,

attraverso la concertazione e il dialogo sociale, l’emergere del nuovo nella consapevolezza dell’importanza della tradizione manifatturiera. Questa tradizione può costituire un trampolino di lancio verso nuovi traguardi economici, a condizione che la dissoluzione nella ‘modernità liquida’ delle grandi organizzazioni e dei vecchi sistemi di regolazione sociale non porti alla disgiunzione di quel connubio tra progresso economico e progresso sociale che ha caratterizzato il compromesso keynesiano/ fordista nell’età industriale.

P.7 Torino, marzo 1973 Gli operai dello stabilimento FIAT di Mirafiori manifestano per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici e contro i licenziamenti P.8 Torino, luglio 1979 Blocco di via Nizza da parte dei lavoratori della FIAT Avio P.9 Torino, 1972-73 Manifestazioni antifasciste promosse dal Comitato Unitario Antifascista PP.10,11 Torino, anni Settanta Anche le suore e i bambini delle scuole materne manifestano contro l’inquinamento Dario Lanzardo, Anni Settanta. Un decennio di fotografia militante, a cura di Silvio Bertotto, Edizioni del Capricorno, Torino 2010


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Carlo Mollino perduto e ritrovato La storia paradossale di un 'prestigiatore di talento', architetto e designer, e della sua presenza a Torino Giovanni Brino

Gli anni ’60 rappresentano la conclusione dell’attività professionale di Mollino, dopo l’esordio brillantissimo, da enfant prodige, alla fine degli anni ’30, con l’Ippica e la Casa Devalle, e la prosecuzione nel dopoguerra con la Stazione della slittovia al Lago Nero del 1946-47 e con la sua attività di designer negli anni ’40 e ’50, che gli avvale l’incarico del corso di Decorazione, dal 1949, e di Composizione Architettonica dal 1953, presso la Facoltà di Architettura. Nell’ultima fase della sua attività, il Teatro Regio, la Camera di commercio di Torino, il Concorso di Italia ’61, la Casa Garelli a Champoluc, la Sala da ballo Lutrario, il proprio alloggio in Via Napione 2 e altre opere minori si alternano alle sue attività collaterali, coltivate parallelamente all’attività professionale fin da quando era studente, di cui sono solo al corrente i suoi amici più intimi. Grazie a queste molteplici attività (fotografia, moda, automobilismo, aeronautica, scenografia, saggistica, occultismo, erotismo, letteratura, viaggi, ecc.) molte delle quali coltivate da sempre in modo ossessivo e solitario nelle sue garçonnières d’anteguerra, come la Casa Miller, nel

proprio alloggio di Via Napione 2 e nella Villa Zaira nella collina torinese, Mollino continua a sperimentare, come in un laboratorio di ricerca, forme e colori azzardati che poi integra nella sua architettura e soprattutto nei suoi interni e nei suoi mobili. Nel 1960 il Comune di Torino fa abbattere l’Ippica, il capolavoro di Mollino, con un’azione insensata e vandalica, distruggendo un capolavoro dell’architettura moderna internazionale. Le sole voci di protesta che si elevano fra l’indifferenza e il silenzio generale sono quelle di Leonardo Mosso e di Franco Berlanda. Nel frattempo, la Capanna Lago Nero sopra Sauze d’Oulx, gioiello di architettura moderna alpina, celebrata da G.E. Kidder Smith, cessata la funzione originaria di stazione della slittovia e abbandonata alle intemperie e ai vandali a quota 2400, a partire dagli anni ’60, viene assalita da un processo di degrado al limite del collasso, dopo una trasformazione in skilift che ne deturpa il fronte a valle, trattato a rascard, mentre la scala di accesso alla terrazza, un capolavoro nel capolavoro, stramazza a terra a seguito del passaggio delle moto (sic!).

Il 27 agosto 1973, a 68 anni, Mollino muore pressoché dimenticato e solo Bruno Zevi, nel suo penetrante necrologio pubblicato su L’Espresso, rievoca la scomoda genialità del suo amico “prestigiatore di talento”. Con un’azione quasi rocambolesca, con l’avvallo di Roberto Gabetti, all’epoca direttore della Biblioteca della Facoltà di Architettura, e di Mario Federico Roggero, allora preside della Facoltà, il giorno dopo i suoi funerali avvenuti in presenza di meno di 10 persone, il sottoscritto riesce a salvare l’archivio dello studio e quello del padre, conservato in cantina, e a portare quasi furtivamente il prezioso materiale (oltre 14.000 disegni e tutti i documenti personali conservati gelosamente da Mollino) nella Facoltà di Architettura occupata, depositandolo provvisoriamente in un sottoscala e successivamente portandolo in Biblioteca, dove viene effettuata una prima catalogazione. Nel frattempo, altre opere di Mollino si degradano, come la Casa del Sole a Cervinia, o vengono ristrutturate e manomesse con modifiche a volte discutibili, come l’Auditorium Rai, realizzato nel 1950-52


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in collaborazione con A. Morbelli, il Teatro Regio, l’ex Sede Federazione Agricoltori di Cuneo, ecc. Quasi tutte le sue ambientazioni più riuscite degli anni ’40 e ’50 vengono smantellate e i mobili si disperdono totalmente, come nel caso della Casa Orengo, della Casa del Sole a Cervinia, ecc., o in parte, come nel caso della Casa Minola. Il Monumento ai caduti per la libertà, realizzato con Umberto Mastroianni nel 1947 nel Cimitero Monumentale di Torino, nel 1965 viene privato del Campo della Gloria, la zona in cui si colloca organicamente e lasciato in balia al degrado. Per fortuna, altre opere vengono conservate, come la Casa Garelli a Champoluc, la Casa sull’altopiano di Agra, la Casa Albonico e poche altre. L’attività di formazione professionale che Mollino aveva avviato e condotto brillantemente negli anni ’50, sia pure a modo suo, con l’esempio della sua attività di architetto e designer ormai riconosciuta a livello internazionale, e con un memorabile ciclo di ‘lezioni’ presso la Facoltà di Architettura, condotte parallelamente al corso tenuto presso la RAI, si spegne del tutto

con la contestazione del ’68, che non risparmia neppure Mollino, e l’occupazione lo allontana definitivamente dalla Facoltà, fino alla morte avvenuta cinque anni dopo. Anche in questo periodo, tuttavia, Mollino contribuisce comunque in modo determinante alla valorizzazione della Facoltà, con la formazione della Biblioteca della Facoltà di Architettura, all’epoca diretta da Roberto Gabetti, suo assistente presso il corso di Composizione, dirottando i fondi del proprio Istituto di Composizione Architettonica paralizzato dalla contestazione, per l’acquisto di libri che porteranno la Biblioteca dagli 80 libri iniziali della Biblioteca Betta, contenuti in un armadio, agli 80.000 volumi degli anni ’70, dotando la Facoltà di uno strumento culturale unico. Avendo per 10 anni svolto il ruolo di vicedirettore della Biblioteca, con la collaborazione di pochi amici (Elena Tamagno e Franco Rosso) ho potuto partecipare attivamente a questa iniziativa entusiasmante nel periodo più buio della Facoltà. Ho conosciuto Mollino come studente nel 1958, seguendo il corso di Composizione architettonica, con l’assistenza di Roberto Gabetti, e in seguito, come collega

e amico, ho potuto seguire e apprezzare l’attività di Mollino come maestro di tutta la generazione di architetti torinesi di cui faccio ancora parte. Grazie all’archivio di Mollino, che ho avuto la ventura di salvare subito dopo la sua morte, ho potuto accedere per primo alla documentazione tentando di decifrare il complesso messaggio in essa contenuto, con pubblicazioni e mostre dalla fine degli anni ’70 al 2005. In questo periodo mi sono potuto confrontare con gli amici più intimi di Mollino all’epoca ancora vivi, pochi dei quali miracolosamente sopravissuti, con cui ho avuto stimolanti scambi di opinione sulle prime pubblicazioni in cui tentavo di abbozzare il ritratto stimolante ma sfuggente di Mollino, come l’artista Italo Cremona, il critico Albino Galvano, il fotografo Riccardo Moncalvo, Bruno Zevi, l’amica gallerista Ada Minola, l’amico Mario Federico Roggero, Carlo Graffi, associato nelle ultime grandi opere e Adolfo Dente, solo per citare quelli con cui ho un debito diretto, senza i quali non avrei potuto illustrare l’Architettura come autobiografia di Mollino, che darà il titolo alle mie due monografie del 1985 e del 2005 sull’architetto.


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A questa schiera di amici, devo aggiungere la schiera di estimatori di Mollino che hanno contribuito alla sua scoperta e valorizzazione, con cui ho avuto intensi scambi di idee, da Bruno Bischofberger, il massimo collezionista di mobili di Mollino, ad André Hubin e soprattutto a Fulvio Ferrari, che ha fatto della Casa Mollino di Via Napione un vero e proprio Museo Mollino e che con il figlio Napoleone ha svolto e svolge tuttora un’attività inestimabile di conferenze, pubblicazioni e mostre perfettamente documentate, che mantengono viva la figura di Mollino. Accanto a queste esperienze e confronti, ho avuto l’opportunità di conoscere il Mollino progettista attraverso il restauro di uno dei pochi suoi capolavori sopravvissuti, la Capanna Lago Nero, in collaborazione con l’amico Giorgio Rajneri, dal 1999 al 2005, illustrato in una mostra itinerante nel 2006-2007, realizzata con la Soprintendenza, dal titolo Il restauro del moderno. La Capanna Lago Nero, che avevo conosciuto come sciatore fin dagli anni ’50, quando era ancora in funzione la slittovia originaria e un piccolo bar era stato aperto nell’interno mai terminato da Mollino, mi

ha permesso di toccare con mano non solo la bravura di Mollino (e anche certi suoi limiti), ma di raccogliere la testimonianza di Sandro Eydallin, uno degli operai che all’epoca aveva partecipato ai lavori della costruzione, e che avevo frequentato come amico negli anni ’60 essendo io stesso di Oulx, e la testimonianza di Carlo Dusio, figlio del promotore dell’opera. Eydallin, che poi diventerà un impresario, durante i lavori di restauro mi aveva rievocato la figura di Mollino come direttore dei lavori originari, con la collaborazione dell’amico Franco Vadacchino, che aveva fornito tutta la parte in legno della Capanna e che aveva effettuato il restauro strutturale in corso d’opera del rascard, collassato a seguito di una nevicata di due metri. Carlo Dusio, figlio di Piero, l’industriale e finanziere, produttore della Cisitalia, che aveva promosso il Piano di valorizzazione turistica del 1941, di cui la Capanna Lago Nero di Mollino avrebbe rappresentato il simbolo, mi aveva raccontato le complesse vicende che avevano portato alla realizzazione e all’abbandono della costruzione mai finita, donata poi al Comune di Sauze d’Oulx. Ci sono voluti 20 anni dalla morte di

Mollino, perché il suo valore fosse riconosciuto non solo a livello nazionale, ma anche e soprattutto internazionale, a partire dai suoi mobili e dalle sue fotografie che, grazie al mercato del modernariato, vengono diffusi e valorizzati tramite le aste di tutto il mondo (Christie’s e Sotheby’s di Londra e New York, Drouot di Parigi, Semenzato di Venezia, ecc.). Grazie al materiale conservato nell’Archivio Mollino (ora diretto da Elena Tamagno), a poco a poco riordinato, e ad altro materiale emerso dall’alloggio abitato dall’architetto o dalle case degli amici e dagli archivi delle varie costruzioni, negli anni ’80 escono le prime pubblicazioni sulla sua opera, anche in inglese, francese e tedesco, e le prime esposizioni, a partire da quella di Milano del 1977, all’interno della mostra del Design degli anni ’50 al Centrokappa; a quella su Aeronautica e architettura, alla Biennale di Venezia del 1978; a quella all’interno di Architettura ’28-’78 del 1979, al Palazzo delle Stelline di Milano; a quella di Bari del 1982, Omaggio a Mollino, promossa da Bruno Zevi e curata dal sottoscritto con allestimento di Silvio Coppola; quella di Parigi del 1984 alla Galérie


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Bosselet; a quella di Torino, Architettura come autobiografia del 1985, al Palazzo Protti, contemporanea a quella presso la Galleria Fulvio Ferrari, con allestimento di Toni Cordero, ecc. Nel 1989 hanno luogo le grandi esposizioni alla Mole Antonelliana di Torino, al Beaubourg di Parigi, al Netherlands Architecture Institute e, più recentemente, nel 2006, in occasione del centenario della nascita di Mollino, nelle mostre alla Galleria d’Arte Moderna e al Castello di Rivoli, curate da Fulvio e Napoleone Ferrari, e quella all’Archivio Storico di Torino dello stesso anno. Come effetto del successo internazionale dei mobili di Mollino, fatti conoscere attraverso le attività espositive e pubblicistiche, i mobili, le fotografie e i disegni provenienti dagli interni da lui realizzati negli anni ’50 e ’60 vengono in genere venduti all’asta e diffusi in tutto il mondo, ma per fortuna non tutti dispersi in collezioni private. Alcuni dei mobili e oggetti di design più prestigiosi di Mollino vengono infatti recuperati da Bruno Bischofberger, il primo collezionista che li raccoglie e li espone permanentemente nella sua galleria di Zurigo, o finiscono in qualche museo

o istituzione pubblica a Torino (Galleria d’Arte Moderna, Facoltà di Architettura, Museo Casa Mollino), a Milano (Museo delle Scienze), a Firenze (Museo Alinari), a Londra (Victoria and Albert Museum), a Parigi (Centre George Pompidou), a Weil am Rhein (Vitra Design Museum), a Montreal (Musée des beaux-arts de Montréal), a New York (Brooklyn Museum). Alcuni mobili, come lo Specchio a forma di Venere di Milo della Casa Miller del 1936, la Testiera del letto della Casa Devalle del 1939-40, il Tavolo aeronautico, il Tavolo arabesco e la Scrivania della Casa Orengo del 1949-50, la Poltrona con orecchio della Casa Minola del 1944-46, la poltrona della Casa del Sole del 194755, la Sedia per la Facoltà d’Architettura del 1959 ecc., vengono riprodotti in serie da Zanotta come ‘omaggi’ a Mollino. Altri mobili e oggetti di design molliniani, come la Sedia Omaggio a Gaudì e l’Attaccapanni fallico della Casa Orengo vengono riprodotti in piccole serie. Il modello tridimensionale della Auto da record (esecuzione Stola) viene ricostruita in scala 1:1 (5,5 m di lunghezza), in occasione della mostra alla Galleria d’Arte

Moderna del 2006-2007. Recentemente, vengono ristampati alcuni dei libri di Mollino (Il messaggio dalla camera oscura, Introduzione al discesismo, Architettura. Arte e Tecnica) ed escono monografie di singole opere come la Casa del Sole, a cura di Napoleone Ferrari, che include la pubblicazione inedita di Mollino, Architetture alpine. Strutture tipiche, con 39 tavole di disegni originali del 1930, che gli avevano avvalso il Premio Pistono, riprodotte integralmente, compreso il testo finalmente ritrovato, il Palazzo degli affari, a cura di Elena Tamagno, ecc. Nel 1999 Fulvio Ferrari crea il Museo Casa Mollino nell’Alloggio Mollino (196068) e pubblica, con il figlio Napoleone, tre volumi sulla storia della fotografia di Mollino e il catalogo ragionato dei suoi mobili. Un gruppo di studiosi di Mollino (Guido Callegari, Elena Tamagno e altri), nel 201011 promuove la costruzione a Gressoney in Valle d’Aosta, della Casa-capriata del 1953-54, rimasta a livello di progetto. In collaborazione con Giorgio Raineri, tra il 1999 e il 2005, abbiamo restaurato la Capanna Lago Nero sopra Sauze d’Oulx, tutelata e seguita con interesse e passione


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dalla Soprintendenza (prima da Francesco Pernice ed ora da Gianni Bergadano), ricostruendo gli interni del ristorante e del sottotetto, destinato a Museo della stessa Capanna per ricordarne la storia. Recentemente, dopo 6 anni da quando la Capanna Lago Nero è stata restaurata, è in fase di ripristino un sistema di risalita, sotto forma di seggiovia, lungo la pista originaria della slittovia, che la collega a Sauze d’Oulx, via Clotés, che la renderà finalmente accessibile, e all’interno verrà inserito un ristorante, come era stato previsto originariamente dallo stesso Mollino. Intanto, i mobili di Mollino vengono venduti a prezzi vertiginosi. Il Tavolo aeronautico della Casa Orengo viene battuto a 3.800.000 dollari, all’Asta di Christie’s di New York del giugno 2005 e fioriscono da varie parti dei falsi mobili di Mollino. Il Museo Casa Mollino è stato incaricato della curatela di una mostra sull’architetto che si terrà alla Kunsthalle di Vienna nel mese di settembre 2011 ed inaugurerà nello stesso mese la grande retrospettiva Maniera Moderna all’Haus der Kunst di Monaco di Baviera. Ancora a cura di Fulvio e Napoleone Ferrari si terrà nel 2012

un’attività espositiva su Mollino al museo Nottingham Contemporary. Come si è visto, il destino di Mollino è stato paradossale, come la sua stessa intensa esistenza. Nonostante e dopo tutte le demolizioni, i degradi e le manomissioni possibili delle sue opere e lo stesso oblio di Mollino per almeno 20 anni, a partire dagli anni ’80 ad oggi, la presenza di Mollino a Torino, sia pure sotto forma non fisica (a parte le tre grandi opere come l’Auditorium RAI, la Camera di Commercio e il Teatro Regio) è fuori discussione, grazie alle pubblicazioni, esposizioni, conferenze, che ne hanno tenuto vivo il ricordo. Il successo internazionale di Mollino e la sua celebrazione, culminata col centenario della sua nascita, nel 2005, non si è tuttavia trasformata in una ‘lezione’ che ha dato i frutti che ci si sarebbe potuto aspettare dalla sua presenza e dalla sua geniale attività professionale e didattica a Torino. A parte rare eccezioni, che per fortuna non sono mancate, e qualche architettura ‘griffata’ prodotta da stelle del firmamento internazionale, in occasione delle recenti Olimpiadi e ancora attualmente, il livello della produzione architettonica torinese è

rimasto in generale banale e deludente, nonostante le occasioni non siano mancate. Forse la ‘lezione’ di Mollino, che dal 1949 al 1973 (con Mario Passanti, Armando Melis, Ottorino Aloisio, Roberto Gabetti, Aimaro Isola, Leonardo Mosso, MolliBoffa, Teonesto Deabate e altri bravi maestri) aveva cercato di trasmettere con il proprio esempio alle migliaia di architetti torinesi che hanno poi operato e operano professionalmente da oltre mezzo secolo a Torino, non rispondeva alle aspettative pratiche della Città, che si sarebbe accontentata in genere della produzione quantitativa di un’edilizia senza qualità.

P.13 Ritratto di Carlo Mollino (Foto di R. Moncalvo) p.14 Vista della ‘Capanna Lago Nero’ verso la fine de-

gli anni ’80, con la scala di accesso alla terrazza, stramazzata a terra a seguito del passaggio delle moto P.15 Vista della terrazza, con la scala e la soletta restaurate P.16 Interno del piano a livello della terrazza, prima dei lavori di restauro P.17 Interno del piano a livello della terrazza, con la scala realizzata conformemente allo spaccato assonometrico molliniano e la struttura in cemento armato rifinito con intonaco ‘Terranova’ come l’esterno, di cui costituisce la continuazione ideale


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Architetti, artieri La cultura del progetto si nutre di capacità manuale, valore tattile dell’arte edile e attenzione per i particolari Enzo Biffi Gentili

Ricevo da TAO, in occasione del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, l’invito a un breve intervento sulla cultura del progetto a partire da Italia ’61, manifestazione celebrativa del Centenario che interpretava “la speranza di un futuro migliore, il futuro a portata di mano”. Architettonicamente tradotta nell’erezione di ‘edifici simbolo’ e strutture quali il Palavela e il Circarama, la Monorotaia e il Palazzo del Lavoro… Credo di aver già fornito due modeste risposte con la mostra da me curata, inserita tra le esposizioni di Italia 150 alle ex OGR (monumento di ‘archeologia industriale’ riusato, simbolico di una fase economica, produttiva, sociale, occupazionale ben diversa da quella del 1961). La prima risposta è contenuta in una parte del titolo di mostra: Il futuro nelle mani, che afferma la nuova rilevanza strategica del lavoro manuale, ‘fatto ad arte’, oggi dichiarata anche da vari studiosi a livello internazionale. La seconda risposta, più disciplinare, relativa all’architettura e alla sua rappresentazione, conseguentemente ‘artigianale’, è data da alcuni artefatti esposti, come i ‘plastici ceramici’ di 5+1 AA Agenzia di

Architettura, guidata da Alfonso Femia e Gianluca Peluffo, realizzati con Danilo Trogu di Albisola. Si tratta di maquettes di edifici e complessi poi effettivamente costruiti, come il Palazzo dei Frigoriferi Milanesi o le Nuove Strutture direzionali di Fiera Milano; e insieme di lavori espressivamente autonomi, esteticamente consistenti, con terre e ingobbi che simulano ipotetiche farinosità e granulosità di intonaci e cementi, finiture in oro e addizioni scultoree. Ma sono opere anche concettualmente rilevanti: i nostri condividono infatti una riflessione del loro partner in alcuni progetti, l’italo-francese Rudy Ricciotti, per cui “il pensiero è necessariamente fondato sulla cultura del lavoro”. E la cultura transalpina, molto frequentata dai 5+1AA, da tempo è ossessionata da queste rappresentazioni fittili in miniatura dell’architettura, i cui esiti maggiori sono però conseguiti Oltralpe non da progettisti, ma da ceramisti (rinvio al proposito al regesto curato da Camille e Pascaline Virot, La maison. Maisons d’âme et de terre, dossiers d’argile n. 9, aprile 2001). Questo necessario richiamo alla sensorialità, ai valori tattili dell’arte edile e delle sue

tecniche e dei suoi materiali non si è da noi manifestato, storicamente, solo attraverso il cotto. Uno degli esempi più strabilianti di queste ricerche è stato fornito da Achille Castiglioni nel 1940, quando, ancor studente al Politecnico di Milano, sostenendo l’esame di Composizione architettonica presentò il planivolumetrico di un Gruppo rionale fascista realizzato in formaggio (per la prima volta esposto, naturalmente ricostruito, nella mia mostra La sindrome di Leonardo. Artedesign in Italia 1940-1975 allestita alla Palazzina di Caccia di Stupinigi e alla Pia Almoina a Barcellona nel 1995). Quel formaggio, un Asiago bucherellato e la sua crosta simulavano il travertino – materiale ‘fascista’ quant’altri mai – e l’argilla dei coppi del tetto. Un’architettura appetitosa divenuta la verifica di una poetica intuizione di Guido Ceronetti: “Non si è mai soli, tra i bisbigli delle architetture di Mussolini. Non è anoressica la Sposa! Non è disappetente!” (Le architetture di Mussolini, in “La Stampa”, 7 agosto 1993). Va ricordato un altro precedente, torinese, in materia di plastici ceramici, che risale agli anni ’70 del Novecento. Quando


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Giuseppe Raimondi con studio Abaco divenne editore di una serie di ‘monumenti da camera’ che rappresentavano alcuni capolavori dell’architettura contemporanea. Rammento per tutti la Sidney Opera House di Utzon ridotta a contenitore, a una sorta di zuppiera, operazione venata da una certa qual ‘radicalità’ che era nell’esprit du temps. Siamo quindi apparentemente un po’ fuori tema. Tuttavia il riferimento a Jørn Utzon consente di introdurre una seconda considerazione a proposito di valori ‘iperestetici’ dell’architettura e delle sue superfici. Infatti Utzon attese tre anni per ottenere le ‘mattonelle perfette’, l’una candida, l’altra cremosa, vibratili alla luce, dalla fabbrica ceramica svedese Höganäs AB – una ‘manifattura aristocratica’ fondata nel 1797 – per la copertura dell’Opera di Sidney (per questa e molte altre vicissitudini, quel progetto iniziato con la nomina del vincitore del concorso nel 1957 si concluderà con l’inaugurazione ufficiale nel 1973, sedici anni dopo, ed eravamo in Australia, non in Italia). Da sempre affascinato da queste maniacali attenzioni ai particolari e agli ‘effetti speciali’ materiali, anche alle

OGR ho voluto riferire, seppur in modalità miserrima, sulla nostra cultura ceramica artistico-industriale, ricoprendo una porzione di pavimento con il prodotto di un’altra manifattura aristocratica, la Marca Corona 1741 di Sassuolo. E si è posata una piastrella dalla texture stupefacente e dalle vaghe cangianze, perfettamente rettificata, che non esigeva una manovalanza super qualificata. Ma in altri casi, frequenti, il problema della posa apre la questione della perizia nel lavoro manuale: piastrellista non equivale sempre a cottimista. Ritorniamo in Scandinavia: svedese, come la Höganäs di Utzon, è Lars Gustafsson, autore di uno straordinario romanzo intitolato Il pomeriggio di un piastrellista, da noi edito da Guanda nel 2000 (ma la prima edizione in lingua originale era uscita nel 1991, vent’anni fa), che consiglio come livre de chevet a ogni progettista. Perché il protagonista, un poveraccio, un operaio edile sfortunato, sul finire del libro commenta il suo lavoro così: “Ma guarda qui come viene bene questa piastrellatura! File ordinate e precise, belle piastrelle finlandesi. E aspetta solo che abbia rifinito le fughe. Giusto con

lo stucco grigio chiaro che va bene con l’azzurro. È comunque una gran cosa, riuscire a fare un po’ d’ordine nella vita. Anche se si sa benissimo che un bel giorno arriverà qualcuno che demolirà tutto per sostituirlo con qualcos’altro. C’è un unico attimo, bello, ed è quando si vede come tutto si accorda, quasi da sé”. È una commovente dichiarazione d’amore per il savoir faire, per quello che considero a tutti gli effetti, ai suoi vertici, come un ‘mestiere d’arte’. Che può produrre armonia, anche musicale, come ho cercato di provare nell’ambito della mostra alle OGR. Sul palco delle Officine Sonore, montato per ospitare complessi specializzati nell’uso di strumenti musicali autocostruiti, il 20 maggio 2011 si è esibita la band napoletana di Capone & BungtBangt, e il loro leader, Maurizio Capone, ha tra l’altro suonato il cazzuophon. Composto da una riggiòla – così in Campania si chiama la piastrella – e una cazzuola…

P.19 5+1 AA Agenzia di Architettura e Danilo Trogu,

Plastici ceramici, 2011, installazione nell’ambito della mostra Il futuro nelle mani. Artieri domani alle OGR (Foto di Mario Cresci)


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Raccontare Torino Una passeggiata tra le vie e le architetture della città, quella presente, quella passata e quella futura Carlo Olmo

Raccontare una città, senza ridurre i suoi luoghi a metafore, per chi ci lavora e vive a maschere, è sempre difficile. Lo è ancora di più per Torino e se lo sguardo temporale è su mezzo secolo. Sottrarsi al fascino dei luoghi comuni, appare allora quasi masochista. Quali chiavi sono più rassicuranti della corona delle delizie sabaude rivisitate e recuperate, della città che si identifica con un’industria o che è (e rimane) il laboratorio che anticipa quanto avviene in Italia? Sono chiavi rassicuranti per chi racconta (può disegnare persino affascinanti percorsi di visita), ma anche per chi viene raccontato. Persino l’avventura olimpica è stata proposta in questa chiave quasi eroica. Torino che arriva per caso, come in ogni buon romanzo storico, alla candidatura, la sfida impossibile, gli avversari (Sion e la Svizzera) quasi invincibili e il lieto, insperato, fine. Forse la storia di questa città, i luoghi, le persone che la vivono, sono insieme meno eroici e più interessanti. Se un viaggiatore distratto e che ha perso l’orientamento si ritrova in piazza Bottesini e si muove verso via Bologna, ritrova strade non diritte (la famosa maglia regolare è svanita), un’edilizia un tempo povera,

oggi in radicale trasformazione. La barriera operaia racconta la storia di un’architettura non monumentale, abitanti insieme affaticati, ma capaci di grandi solidarietà, uno sforzo oggi di ricostruire non solo un mercato immobiliare, ma un progetto di nuova industrializzazione. Così, poche centinaia di metri più in là, dove vivevano industrie non così note come la FIAT, (la Savigliano o la Vitali), Torino non riscopre solo la sua vocazione sperimentale nel campo dell’arte contemporanea e una vita notturna proposta come rimedio, spesso immaginario, ad un’inevitabile noia della città postindustriale. Il difficile rapporto tra memorie di luoghi, ma anche di valori sociali (i circoli, i teatri di periferia, i locali notturni allora davvero eversivi in una Torino monoculturale) e progetti di un presente, ricondotto troppo facilmente ancora una volta all’avvenimento salvifico (i giochi del 2006), trova qui esempi di segno contraddittorio. Torino è una città spaesante per chi la voglia percorrere, non solo visitare, perché demolisce tutti i suoi antichi e recenti miti, proponendo una visione laica della vita e delle sue trasformazioni, che non consola e non facilita i pacchetti banali

delle agenzie turistiche e forse anche immaginari ripetuti come salmi. Il visitatore può riscoprire come un museo (quello del cinema) provocatoriamente riproposto in uno dei monumenti più celebri e inutili della città (la Mole Antonelliana) stia generando una rete di attività (di produzione e di ideazione) che vanno a ridare vita non solo immobiliare a zone vicine, poco al di là della Dora. Così, percorrendo le rive dei fiumi che la attraversano, scoprire come la qualità della vita che già oggi si può sperimentare, riconquisti spazi, paesaggi, prospettive del tutto ignote (e impossibili) in gran parte delle città europee. Non sono solo il Po e la collina, ma la Dora, il suo insinuarsi e costruire insieme i percorsi della prima industrializzazione (i suoi canali, i mulini, le dighe, i padiglioni industriali) e la possibilità di ripensare la città a partire da parchi urbani (tema quasi desueto, almeno in Italia) che colpisce. Da quegli angoli visuali la città torna ad apparire una città che pensa al difficile rapporto che oggi tutte le grandi città hanno con un passato, non usato come feticcio mercantile e con un futuro non sacrificato al dio di un’innovazione pur


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che sia. Ma sono tanti i percorsi sorprendenti, che il visitatore non prigioniero di mitografie o di depliant può incontrare. Dietro il vecchio Arsenale, un vecchio canale, il canale dei Molassi, è stato coperto, diventando una strada che entra in una delle zone ritenute più pericolose della città. Sul canale si apre una piazza coperta, la piazza del Maglio, dietro un arsenale, ormai quasi interamente ristrutturato, divenuto centro di pace. Lo sguardo all’intorno non è però tutto rasserenante. Il vecchio mercato delle erbe è diventato ormai uno dei tanti Notting Hill europei, al di là del canale, la città monofunzionale, quella della sofferenza, ma anche della solidarietà (il Cottolengo), alza i suoi edifici implacabilmente ossessivi. Poco più in su, l’antica piazza di Porta Palazzo conserva, con

la tenacia che hanno i luoghi rispetto alle storie degli uomini, una sinistra funzione di mercato delle braccia, ma anche di un’integrazione sociale e religiosa difficile. Ma anche qui la vecchia galleria Umberto I in ristrutturazione, il progetto del Gate finalmente concluso, stanno a testimoniare come cambiamenti profondi siano in atto, con tutti i tempi e le contraddizioni che processi così difficili portano con sé. La città, Torino ancor di più, è raramente consolatoria: appena si cerca di semplificarne il presente (o di inventare passati) apre negozi multietnici, magari un po’ confusi, facilita la nascita di mercati improvvisati e irregolari, accoglie persone diverse da quelli attese. Percorrendo corso Racconigi, da via Frejus a piazza Marmolada, nello storico Borgo S. Paolo,

il quartiere dove crebbero Gramsci, l’Ordine Nuovo, la democrazia consiliare italiana, il turista curioso può scoprire come un quartiere di edilizia popolare stia rinascendo con la partecipazione dei cittadini, o uno stabilimento storico dell’Italia del boom economico, quello della Lancia, sia oggi centro di operazioni certamente immobiliari, ma gestite con uno sforzo raro di costruzione condivisa del nuovo. Poco più in là la Fondazione Merz, rinnova la sfida a capire la storia di questa città anche di artisti, non conformisti. La storia di una città, all’apparenza così univoca come quella di Torino (i Savoia prima, l’industria poi), rivela così tutte le possibili, controverse interpretazioni, aiutando il viandante curioso a capire come anche un’edilizia, all’apparenza, anonima


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nasconda molte storie, infinite curiosità. Torino, è oggi, anche la città delle mille gru che la crisi economica ha rallentato, non fermato. Lo skyline della città appare quasi uniforme. Cantieri piccoli o grandi rendono difficile persino la circolazione. Le città che si rinnovano generano, quasi necessariamente, disagi, ma il disagio, mai come in questi anni, nasce dalle trasformazioni. Alcune si sono compiute con esiti persino inaspettati, come il Lingotto, oggi un edificio di straordinaria complessità. Altre sono quasi concluse, come quelle della Reggia della Venaria, pochi chilometri fuori dai confini comunali, altre stanno chiudendo i cantieri, come lo Stadio Comunale. Altre segnalano la difficoltà delle trasformazioni, come i Mercati Generali, recuperati per le Olimpiadi e oggi tristemente vuoti. Altre ancora portano solo i segni di un cambiamento in fieri, come quelle sull’asse di via Bologna, nel cuore della Torino costruita dalle prime fabbriche e dai primi migranti, dopo il 1880. Ma le modificazioni interessano anche i luoghi più consolidati dell’immaginario torinese. Alla fine della passeggiata reale, la via Po sbocca in una delle piazze ottocentesche più affascinanti d’Europa. Una piazza non risolta, aperta su fiume e sulla collina. Infinite sono state le discussioni sulla sua risistemazione, che hanno mobilitato sensate ragioni (di conservazione o di completamento): ma sono state discussioni, riservate soprattutto ai circoli di una città chiusa su se stessa. Oggi anche quei luoghi della memoria, della nostalgia, della melanconia (letterari non solo architettonici) sono messi concretamente in discussione dall’uso. Trasformata la Mole in Museo, nessun luogo appare d’altro canto più innocente o intoccabile. E la storia, la storia di quei luoghi torna ad essere terreno di una competizione tra portatori d’interesse, dove il consumo, l’uso, il valore turistico persino di una piazza barocca come piazza S. Carlo, si dimostrano spesso in conflitto, come accade per tutte le memorie autentiche. Dietro piazza Castello, scendendo lungo il teatro Regio, dopo il comando dei carabinieri, si apre, in pieno centro urbano, un’area ricca di complessità: la Cavallerizza. Cortili e corti, case abitate, negli anni

del boom economico dagli immigrati clandestini di allora, aree espositive, giardini, università si intrecciano, in un’architettura non finita, affascinante. A poche decine di metri dal luogo più aulico di Torino, è possibile ripercorrere la vita quotidiana di chi serviva a corte, dell’aiutante e dell’ufficiale, e poi del meridionale appena giunto in città, dell’artista sperimentale, dello studente universitario. Un luogo di incontri inattesi, poco strutturato, forse uno dei luoghi più urbani che le città europee oggi possano ancora offrire ai loro cittadini. Uno dei luoghi dove la prossima trasformazione davvero misurerà la qualità del progetto pubblico e dell’attuazione privata. Ma il visitatore più esigente può costruirsi altri percorsi. Quello dell’élite torinese che, nell’immediato secondo dopoguerra pensa di contrastare con una difesa quasi romantica del contesto e del mestiere, l’esplodere della città della quantità e dell’International Style. Un percorso che da via Gaudenzio Ferrari e dalla Mole Antonelliana può concludersi al rinnovato Museo dell’Automobile, architettura contemporanea su architettura moderna, un architetto milanese che intervene sull’opera di uno dei più ‘torinesi’ architetti del secondo dopoguerra, Amedeo Albertini. Torino sorprenderà chi non andrà solo a caccia dell’architettura firmata, delle opere di Carlo Mollino, di Gabetti e Isola, di Jaretti e Luzi, di Giorgio Raineri e di una scuola tanto ridotta nei numeri, quanto meditata nelle sue ricerche costruttive e distributive. Lo sorprenderà perché, alzando un po’ gli occhi dai marciapiedi, uscendo dai portici, potrà cogliere come quelle ricerche, divenute stilemi, i materiali attraverso cui prendevano vita, divenute citazioni, sappiano diventare linguaggi condivisi. Torino è stata capace, sino alla fine degli anni Sessanta di agglutinare linguaggi ed esperienze e di restituirli in un lessico, a volte solo formale, a volte più complesso, unitario. È una lunga stagione che nasce almeno nella prima metà dell’Ottocento. Forse quello che il visitatore più curioso e alla ricerca di una cultura urbana potrà cogliere potrebbe essere interpretato come copia e ridotto ad esercizio di imitazione. In parte lo è stato, in parte il conformismo che ha nutrito gran parte delle


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élite torinesi si ritrova anche nel piacere di vivere nelle… copie. Ma se cambia la scala dell’osservazione e dal singolo alloggio si passa alla città, è indubbio che quel che è copia diventa declinazione di un progettare e costruire che condivide codici e linguaggi. Per questo la fuoriuscita da questa condizione fu piena di contraddizioni. Ci sono opere, una per tutte il Museo di Antichità di Gabetti e Isola, che approfondiscono tutti i presupposti di quella cultura, lo fanno in un luogo straordinarimaente delicato e in un’architettura sostanzialmente ipogea. Ci sono opere invece che segnalano il disagio della perdita di questi presupposti, che erano delle imprese non solo degli architetti e che testimoniano di una stagione di sperimentalismi, forse un po’ provinciali, di ricerche restituite dai nuovi itinerari dei voyages d’instruction degli architetti torinesi: la Londra dell’Architectural Association, la Amsterdam del Berlage Institut o più semplicemente le dowtown che ormai popolano quasi tutta la geografia della cosiddetta globalizzazione. Si rompono le geografie ma a Torino non si rompono le piccole cerchie, la sperimentazione non mette in gioco insieme i carismi dei singoli e i rapporti con gli attori consueti della scena urbana torinese: neanche la crisi della seconda metà degli anni Ottanta o l’avventura olimpica romperanno realmente quei circoli chiusi. A differenza di quanto accade a Monaco di Baviera e a Barcellona, dove crisi e Olimpiadi producono un profondo mutamento delle culture urbane ma anche e soprattutto dei protagonisti, progettuali e immobiliari, Torino rimane prigioniera dell’origine militare delle sue élite, se si può risolvere con una battuta una riflessione sociale molto complessa. Le architetture degli anni Novanta e del primo decennio del XXI secolo evidenziano proprio la mancata capacità di praticare una cultura del rischio da parte dei suoi attori. Lo si legge in un ritirarsi su formalismi linguistici, sullo scomparire progressivamente dalla scena di ricerche distributive, in un mercato immobiliare che non è capace di rinnovare un’offerta, costruita sul ceto medio impiegatizio degli anni Sessanta, con una risposta davvero

solo quantitativa, come non poteva non essere per altro, al lungo, nuovo ciclo edilizio che si concluderà nel 2009. Se il visitatore interroga le case per saper che società le ha volute, progettate e costruite, la risposta, la risposta per questi ultimi anni, non è certo quella di una società innovativa, aperta, capace di liberare ricerche sostanziali per la qualità della vita: quella che studia e ricerca su come si costruisce la distribuzione di un’abitazione o di una scuola, di un luogo di cura o di un asilo. Coglie una società di professionisti e di imprenditori più ripetitiva che innovativa, élite conservatrici, non certo sedotte dalla cultura del rischio, anche se parlano quasi sempre di innovazione, soprattutto da quando, in edilizia è diventata morale l’ecologia. E questa osservazione è ancor più stridente se il cittadino guarda le politiche che le amministrazioni pubbliche hanno portato avanti, almeno dal 1995, quasi che tutta l’innovazione si sia fermata alla soglia delle politiche, che la sua concretizzazione in architetture, private, più che pubbliche, sia avvenuta ricorrendo a stereotipi. La città delle piazze storiche recuperate, del passeggio lungo il Po, dei quartieri ottocenteschi e del primo Novecento riportati ad una condizione di vita urbana, del passante ferroviario quasi concluso, costruisce un tessuto che poi trova interpretazioni stridenti nelle sue architetture, quasi che la melodia sia sfuggita ai suoi orchestrali. La città è implacabile nel rendere non solo evidenti, ma permanenti, vizi e virtù della società che la costruisce e la abita. Lo fa perché un angolo di casa arrabattato, un giardinetto incompiuto, una finestra fuori asse, o una facciata troppo copiata, rimangono lì a rispondere al possibile viandante avviato verso una città di smeraldo, con la ricerca innovativa o il conformismo dei tanti attori sociali che abitano la città reale, quella in cui ritorna Vittoria.

P.21 Torino, Spina 3 e Spina 4 P.22 Torino, Lingotto P.24 Torino, Barriera di Milano

© Michele D’Ottavio Urban Center Metropolitano www.urbancenter.to.it


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La ville industrielle costruisce i suoi simboli Il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi per Italia '61 Cristiana Chiorino

La Società Torino Esposizioni, vetrina della grande industria automobilistica, tra il 1947 e il 1950 affida all’ingegnere romano nato a Sondrio Pier Luigi Nervi (1891-1979) la costruzione dei padiglioni B e C. Nel 1961 le celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, altra espressione delle élite industriali della città all’apice del boom economico, portano nuovamente Nervi a Torino per realizzare a tempo di record il Palazzo del Lavoro. Se Torino Esposizioni sigla l’inizio del rapporto intenso e continuato tra Nervi e la città di Torino, il Palazzo del Lavoro segna invece la tappa più nota anche internazionalmente del percorso torinese dell’ingegnere di Sondrio, un percorso che si snoda durante tutti gli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Sessanta e che lo vede impegnato con alcuni progetti su committenza pubblica, come l’Officina di manutenzione per l’Azienda Tranvie Municipali (1952-1953), ma soprattutto con diversi progetti di stabilimenti industriali. Su committenza diretta della Fiat, tra il 1954 e il 1955, a Mirafiori Nervi e la sua impresa progettano e costruiscono il Nuovo Ampliamento Nord, l’Ampliamento delle

Officine Principali e i fabbricati di Trattamento Materiale Greggio e delle Fucine e poi, tra il 1962 e il 1963, il Serbatoio pensile sempre a Mirafiori e lo stabilimento Cromodora a Venaria Reale e infine nel 1966 lo stabilimento Fiat a Rivalta. Negli stessi anni diverse altre imprese torinesi come la Lancia e la l’Oréal si avvalgono della consulenza dell’ingegnere per progetti che rimarranno poi sulla carta. Si delinea quindi un nucleo importante di realizzazioni meno note che l’ingegnere porta avanti sempre con la sua impresa, la Nervi e Bartoli, proponendo di volta in volta diverse soluzioni inedite di cantierizzazione e prefabbricazione puntualmente brevettate, che costituiscono la palestra per la realizzazione dei grandi edifici che lo porteranno all’affermazione in campo internazionale. Tutti questi progetti sono poi accomunati dal fatto che nello sviluppo esecutivo gioca un ruolo fondamentale la Divisione Costruzioni e Impianti Fiat allora diretta da Vittorio Bonadé Bottino. Le celebrazioni di Italia ’61 sono certamente l’occasione principe per trasmettere all’immaginario collettivo con i padiglioni espositivi il messaggio retorico del ‘progresso’ e

della ‘città-industria’. Il complesso, almeno nella testa dei suoi organizzatori, avrebbe dovuto promettere di essere una macchina perfetta, un esempio di taylorismo edilizio, in cui il mito della modernità, tradizionalmente rappresentato dall’automobile e da un’élite che non intende portare fuori dalla fabbrica l’organizzazione tayloristica che vige all’interno degli stabilimenti, viene assurto a simbolo dell’intero complesso espositivo e informa tutta l’organizzazione costruttiva. Estraneo alla cultura architettonica, ma anche a quella costruttiva, il progetto di conferire una organizzazione scientifica al processo edilizio sul modello della produzione industriale, entra in stridente contrasto con il carattere artigianale che aveva prevalso fino ad allora nei principali cantieri cittadini e negli ambienti dell’edilizia torinese. La costruzione del comprensorio espositivo di Italia ’61, è quindi la prima occasione di grande architettura del dopoguerra torinese assieme al poco più tardo concorso per il Centro Direzionale, e mette in moto il cantiere tecnicamente più innovativo e complesso di quegli anni. La ville industrielle ha con Italia ’61 l’occasione di


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costruire i suoi simboli, il più noto, il Palazzo del Lavoro progettato da Nervi e costruito a tempo di record dalla sua impresa ma anche il Palazzo delle Mostre con la vela su modello dello Cnit di Parigi studiata da Franco Levi e Nicolas Esquillan con gli architetti Annibale e Giorgio Rigotti. L’appalto-concorso per la costruzione del Palazzo del lavoro, un padiglione di 47.000 mq che, per il Centenario dell’Unità d’Italia, avrebbe ospitato la grande mostra sul lavoro presieduta da Giovanni Agnelli e allestita da Gio Ponti, viene bandito nel luglio del 1959. A ottobre, la giuria aggiudica l’appalto all’impresa Nervi & Bartoli, con progettisti oltre a Nervi, i figli Antonio e Mario e Gino Covre, uno dei principali ingegneri italiani di strutture metalliche. Il progetto è incentrato sulla suddivisione della copertura quadrata in sedici elementi indipendenti a ombrello di 38 metri di lato separati da strisce continue di lucernari e costituiti da una raggiera di travi in acciaio e da un pilastro centrale a geometria variabile. La proposta convince per la semplicità e la leggibilità strutturale e, grazie alla soluzione modulare e alla differenziazione dei materiali, è

la sola in grado di garantire il rispetto dei tempi strettissimi di esecuzione, diciassette mesi compresi due inverni. Al di là dei dati tecnici, tuttavia impressionanti – 158 metri di lato per 26 metri di altezza e 650.000 metri cubi di volume – l’aspetto più innovativo è infatti costituito dalla organizzazione di cantiere. Iniziato nel febbraio del 1960, a fine dicembre l’edificio è già concluso. Il gigantesco ombrello autoportante diventa il marchio abusato dell’intera esposizione perché concretizza un simbolo di esattezza tipologica e coerenza costruttiva che esalta la retorica della celerità di costruzione, valore proprio di tutta l’esposizione e di Torino, che si apprestava a celebrare, oltre che il centenario dell’Unità nazionale, la tecnica quale strumento imprescindibile per il raggiungimento del miracolo economico. Il cantiere del Palazzo del lavoro viene veicolato dalla pubblicistica come il simbolo del progresso tecnico raggiunto dalla grande città industriale, il cantiere in cui, almeno all’apparenza, sembra concretizzarsi, anche nel campo costruttivo, quell’organizzazione razionale del lavoro, simbolo del progresso dell’industria automobilistica, a

cui la cultura tecnica intellettuale aspirava sin dall’anteguerra. Nervi e la sua impresa sono in quel momento gli interpreti ideali di questo messaggio. La retorica ufficiale restituisce un’idea del mito modernista, che l’edificio deve rappresentare, enucleando con slogan quasi pubblicitari le innovazioni tecnologiche applicate e trasformando l’esposizione in un campo di sperimentazione e di applicazione di tecnologie costruttive avanzate e di un’organizzazione forzatamente tayloristica del cantiere. L’enfasi dei grandi numeri – il numero di ore lavorative, quello delle persone coinvolte o i metri cubi di calcestruzzo utilizzato – è usata come strumento di stupefazione e sbalordimento, la base per la creazione del consenso. Il Palazzo del Lavoro nell’enfatizzare con un certo manierismo il ruolo fin troppo esibito della struttura, segna il passaggio alla terza fase dell’attività progettuale di Nervi, quella dei grandi incarichi internazionali in cui il ‘sistema Nervi’ diventa un repertorio di soluzioni da adoperare in tutto il mondo.

P.27 Il cantiere Italia ’61, Archivio Storico FIAT


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Visita guidata al Palazzo del Lavoro Archivio privato di Andreja Restek


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PP.28-35 Felice Porta accompagna in visita guidata

al Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi in fase di ultimazione Giovanni Agnelli e i suoi ospiti nazionali e internazionali. Si riconoscono: Alfred Hitchcock e la Regina d’Inghilterra


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Tra arte e architettura Intervista a Luca Beatrice di Liana Pastorin

Luca Beatrice è un pendolare dell’arte, con studio in una delle più belle piazze d’Europa, Vittorio Veneto a Torino, ma sempre in viaggio per seguire l’apertura di una mostra, scoprire nuovi talenti, tra Milano, Venezia, e ovunque ci sia occasione per soddisfare la sua curiosità. La sua stanza straripa di libri, cataloghi, quadri e sculture in un disordine solo apparente, che rende la breve attesa del curatore occasione per scoprire pezzi d’arte che non ti aspetti e che fanno capolino da sotto un tavolo, semi nascosti da una poltrona, più quinte teatrali che ostacoli alla visione d’insieme. DOMANDA È un torinese di ritorno: nato e vissuto a Torino fino alla fine degli anni ’80, si è trasferito prima a Siena e poi a Roma per sette anni. Dal 1999 è di nuovo a Torino ma trascorre molto tempo a Milano. RISPOSTA Di Milano apprezzo il dinamismo e il non essere divisa in famiglie e lobby, ma è una città che lascia poco al pubblico; Roma è bellissima ma è molto difficile lavorarci. Torino è invece una città irrinunciabile con i vizi e le virtù della metropoli e del piccolo paese di provincia che io davvero adoro.


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D Come giudichi il rapporto tra spazio urbano e arte pubblica? R Giocando a Trivial Pursuit ho scoperto che Torino è la città con il maggior numero di monumenti equestri. Un primato curioso … che evidenzia una predilezione per una tipologia di monumento verticale, che non ha però alcuna relazione necessaria con lo spazio urbano: sta dove lo si inserisce. L’arte pubblica torinese è di fatto una derivazione dell’arte monumentale, che non è entrata in dialogo (o in discussione) con l’ambito urbano in cui insiste. D Alcune opere scelte per l’arte contemporanea all’aperto non sono state comprese dai cittadini che le hanno molto criticate. Dovevano essere spiegate meglio e di più? R La cultura per esprimersi e per valorizzare la città ha bisogno di operare scelte anche impopolari. Tra le opere la mia preferita è l’igloo fontana di Mario Merz tra corso Lione e corso Mediterraneo, ma anche la criticatissima (e molto architettonica) opera per Torino di Per Kirkeby in largo Orbassano. Se la cultura lavora faticosamente per valorizzare, l’immagine della città può

essere in un attimo turbata e impoverita da tendoni di plastica colorata e panni stesi ai balconi non solo in quartieri della periferia, ma anche in centro città. Questo è il vero dramma. D Qual è il rapporto tra arte e architettura, tra artisti e architetti? R Nel Novecento il rapporto tra arte e architettura è di tipo iconografico: l’arte voleva rappresentare l’architettura come paesaggio, come modificazione dello spazio urbano. Dal Futurismo, dalle prime avanguardie per arrivare al secondo dopo guerra, le città assumono invece un valore più centrale e diventano la meta ambita per molti. Da metà anni Novanta assistiamo a un’attitudine nuova, per cui l’architettura rientra all’interno di un sistema di pensiero in cui si contamina con l’arte contemporanea in modi diversi. Da un lato si assiste ad una sorta di meticciato linguistico ben espresso dall’opera di Rachel Whiteread (della generazione YBA Young British Artists) Ghost, il calco dell’interno di una stanza di una casa, tramutato in una scultura in resina di grandi dimensioni, realizzata in un edificio abbandonato nella

periferia nord di Londra. La Whiteread crea un positivo da un negativo profondo 9 piedi, alto 11 e mezzo e profondo 10. L’opera rappresenta il vuoto, un modo per mummificare l’aria della stanza, da cui il titolo dell’opera. Possiamo definirla arte o architettura? Frank Gehry una risposta l’ha data affermando che “l’architettura la riconosci perché ci sono i gabinetti”… Su questo filone sono anche le opere di Pedro Cabrita Reis, il cui lavoro verte sull’abitare, l’abitazione, la costruzione e il territorio e utilizza elementi di vita quotidiana come tavoli, porte, finestre e sedie, ma anche muri di mattoni, tubi al neon, travi di acciaio e tavole di legno, materiali durevoli, possibilmente portatori di una memoria, a creare strutture molto complesse e di dimensioni tali da saturare lo spazio espositivo. La memoria è il materiale che anche Flavio Favelli aggiunge alle sue opere, spazi pubblici, luoghi fisici che si nutrono delle tracce lasciate dal passaggio delle persone, del loro ricordo (My home is my mind, 2002). Favelli realizza interventi site specific anche in luoghi non tradizionalmente deputati all’arte, come gli artisti Botto&Bruno,


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piccoli poeti delle periferie di cui fanno un racconto sentimentale arricchito da una componente biografica che supera e fa evolvere il concetto di non luogo. Molti sono gli architetti che trovano nell’arte un più idoneo mezzo di espressione, tra questi Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio che hanno un approccio multidisciplinare all’architettura e utilizzano contemporaneamente arte, arti visive e performance. Tuttavia il rapporto tra arte e architettura può non instaurarsi. All’interno del sistema dell’arte sono infatti entrate le griffe delle archistar come elemento di valore aggiunto, ma nettamente distinto. Si pensi ai Guggenheim Museum di Frank Lloyd Wright a New York e di Frank Gehry a Bilbao, edifici che hanno cambiato il modo di pensare ai musei e al rapporto tra arte, architettura e collezioni, ma anche al rapporto con la città che li accoglie e che ne gode i benefici economici, di riqualificazione e di visibilità portati dai grandi nomi dell’architettura. Il contenitore assume un valore a sé stante e lo ribadisce con orgoglio, e, a volte, per contratto: Zaha Hadid, progettista del Maxxi di Roma ha preteso l’inserimento di una clausola che obbligava il Museo ad una prima presentazione pubblica a sale vuote, senza opere d’arte, perché se ne apprezzasse a pieno la sola forma architettonica. Molti edifici pubblici sono stati costruiti negli ultimi 20 anni in Italia, offrendo finalmente la possibilità alle opere d’arte contemporanea di uscire dalle pinacoteche civiche per trovare più degna ospitalità nei musei di nuova realizzazione e concezione, oltre al Maxxi, il Macro di Roma, il Mart di Trento e Rovereto, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino... D La prima Biennale di Venezia è quella dell’arte nel 1890; l’architettura ha la sua prima biennale solo nel 1980: ha rappresentato un desiderio di riscatto dell’architettura sull’arte? R La prima Biennale di Architettura è quella

del post moderno, dove l’architettura si presenta fluida, dinamica e ludica, simboleggiata dall’oggetto banale di Mendini. Ogni edizione successiva ha risposto alla formazione del suo curatore, affrancandosi o dialogando profondamente con l’arte. D Qual è il tuo rapporto con l’architettura? R L’architettura mi interessa solo nella misura in cui si contamina con altra arte, e si riappropria del suo essere luogo dell’utopia, così com’era negli anni Ottanta, quando un film come Blade Runner era massima espressione dell’architettura e della sua premonizione (Los Angeles, 2019). È il cappello futuristico disegnato da Frank Gehry che la pop star Lady Gaga ha indossato in uno dei suoi concerti dove gioca con la sua icona iper-tech, tecno-pop, fashion-androide, mischiando la sua musica con altre discipline. È “Il cielo su Torino” dei Subsonica, che si sono ispirati ad alcuni quadri di Daniele Galliano: “Una livida, rarefatta atmosfera sonora prodotta dal Boosta sostiene il rauco e biascicato cantato di Samuel nel tentativo di riprodurre quella dolce e insonne atmosfera del rientro a casa dopo una notte passata in giro, magari ai Murazzi del Po”. Un mood torinese, che si ritrova, diversamente interpretato, anche nei quadri di Casorati. D A febbraio di quest’anno è stata inaugurata la mostra-evento KM011, che hai curato per raccontare le contaminazioni tra le varie arti avvenute a Torino dal 1995 ai giorni nostri. C’erano anche i progetti di giovani architetti… R Ho chiesto a due specialisti e attenti studiosi come Marco Rainò e Barbara Brondi del torinese studio BRH+ di curare la sezione ‘architettura’ della mia mostra KM011 perché sono convinto che il grande processo di trasformazione della nostra città passa nel rapporto tra l’arte e l’architettura. Inoltre, a registrare quanti giovani studi stanno emergendo con le loro idee, grinta e coraggio, c’è da aver fiducia che finalmente il paesaggio italiano possa interessarsi al nuovo.

P.36 Luca Beatrice (foto di Federica Lazza) P.37 Daniele Galliano, Senza titolo, 1994, olio su tela,

cm 70 x 100, courtesy Galleria In Arco Torino


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Ritratto di famiglia Intervista a Gian Piero Bona di Liana Pastorin

Gian Piero Bona, lo sguardo vivace di chi ha vissuto a lungo assecondando i propri desideri, si è allontanato, non senza difficoltà da un ambiente famigliare ricco intellettualmente ed economicamente ma ingabbiato in una realtà provinciale come quella di Carignano ai tempi della sua infanzia. La trasgressione sessuale è affrontata nel suo primo discusso romanzo Il soldato nudo (1955) e nel successivi I pantaloni

d’oro (1969) e Passeggiata con il diavolo (1983). I sentimenti inquieti, dell’esistenza, e la critica all’ambiente decadente della borghesia torinese sono i protagonisti nella raccolta di poesie I giorni delusi (1955) e nel romanzo più conosciuto Il silenzio delle cicale (1981). Gian Piero Bona riceve dal padre Lorenzo Valerio la vocazione alla cultura, disinteressato invece a proseguire nell’eredità imprenditoriale della famiglia.

DOMANDA Quali sono i ricordi che conserva della sua famiglia legati soprattutto all’ambiente della fabbrica? Che cosa era quel luogo per Gian Piero Bona bambino e quale il rapporto con l’abitazione e il paese di Carignano, comune oggi di 6 mila abitanti a soli 20 chilometri da Torino? RISPOSTA Conoscevo l’origine dei pionieri di Carignano, lo sviluppo della loro industria tessile, che si è qui allargata partendo dal territorio biellese. Un bisnonno era capo-operaio della prima filatura Sella, Lorenzo Bona, di Sordevolo in provincia di Biella, con tre figli maschi e una femmina. Una famiglia povera, erano contadini e raggiungevano la città in velocipede... ma erano intelligenti e studiosi, tant’è che il fratello del nonno fondò un’azienda tessile a Caselle, soci i suoi fratelli: Basilio l’ingegnere, Eugenio il deputato alla Camera per il Partito Liberare di allora e venerabile massone, Valerio Massimo mio nonno. Basilio rimase a Caselle mentre gli altri due fratelli rilevarono l’opificio di Colongo nella seconda metà dell’Ottocento, ampliandolo e acquistando la proprietà dalle monache Clarisse, annettendo in seguito anche il monastero e la chiesa. Il nonno era un tecnico; Basilio il più preparato fu il primo industriale a coinvolgere


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le maestranze facendole azioniste dell’impresa. La vecchia fabbrica di Carignano era un’architettura industriale dell’800, letteralmente distrutta dall’intervento di Alberto Sartoris negli anni ’90 del secolo scorso. Tra il 1965 e il 1970 infatti il Municipio acquistò la fabbrica e il palazzo e, con i soldi della Comunità Europea, realizzò per 12 miliardi di lire il nuovo municipio e ristrutturò la fabbrica facendone un monumento ‘in stile staliniano’, inutile e sproporzionato per il paese. Da piccolo (erano gli anni Trenta) andavo in fabbrica e mi sembrava un ambiente famigliare, molto simpatico: un lungo corridoio con gli uffici sui lati, divisi da pareti in legno chiaro e vetrate, molto accogliente e luminoso, favoriva la socialità. Qualche caporeparto mi portava a vedere i telai, la filatura e la tessitura. Mi incantavo: ogni telaio aveva la sua operaia addetta alla sorveglianza e all’alimentazione delle prima macchine self acting mule del tutto automatiche per filare la lana. Sarà stato per via dei miei studi umanistici, vedevo le operaie come abilissime Penelopi e la trama e l’ordito del tessuto crescevano sotto le loro mani esperte. L’industria laniera era famigliare per numero di operai e di impiegati, con sedi gestite poi dalla seconda generazione con i

cugini, a Carignano, Carmagnola, Voltri, Torino, dove, in via Bologna, c’era la filatura. La carderia era una parte della fabbrica con struttura seicentesca, soffitto a volta, che corrispondeva a quello che un tempo era il refettorio delle monache. Il palazzo dei conti Provana del Sabbione era stato disegnato dall’architetto Benedetto Alfieri, autore anche del duomo di Carignano. Il nonno l’aveva comprato dall’ingegner Pelitti, un lontano cugino con un famoso ristorante in India, frequentato anche dalla regina Vittoria. Il Palazzo non era fortunato: qualcuno si era suicidato nel Settecento, quando apparteneva ancora ai conti Provana, una donna venne bruciata perché ritenuta una strega. I sotterranei davano al convento delle Giuseppine. Era pauroso... Mio padre era un letterato innamorato anche dell’arte; gran parte della biblioteca della casa in cui vivo era sua. Ma, nonostante avesse grande disponibilità economica, non scelse mai di rivolgersi a grandi nomi dell’architettura, certo non per avarizia, quanto per assicurarsi la libertà di prendere decisioni e realizzarle, per essere protagonista delle sue azioni... sbagliando spesso! Per realizzare la casa di San Vito nel 1930

non chiamò Piacentini ma incaricò un suo allievo l’ing. Lorenzelli. Finanziò il monumento dello scultore Baroni al Duca di Aosta in piazza Castello a Torino. Operava le sue scelte non sul valore dell’opera: ho progetti di Arturo Martini su quel monumento. Ci fu una competizione e, sebbene meno bello, scelse quello di Baroni. Mio padre aveva un gusto dannunziano, era l’epoca. Inoltre aveva la direzione commerciale dell’azienda, sapeva molte lingue, viaggiava molto e aveva facilità di rapporti. Mio zio Gaspare aveva invece la direzione tecnica, ma era anche un musicista dal carattere un po’ chiuso e visionario. Ufficiale di aviazione, morì poi in guerra. Aveva due aeroplani privati, un Breda e un Caproni, e mi portava piccolo (6-7 anni) in aereo all’aerocentro di Mirafiori. In azienda erano tollerate le sue fughe a Torino per salire sul suo aereo e volare sul tetto della fabbrica, dove gli operai erano liberi di riversarsi per applaudire entusiasti le sue evoluzioni. Allora c’era una sorta di ‘amicizia di vita’, nella società, e un’azienda privata come la nostra favoriva molto le relazioni sociali. L’azienda di Carignano ha dato lavoro a 3.500 operai su un totale di 7.000 abitanti, dando cosi un certo benessere a molti. Sono stato in giro per il mondo come


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commesso viaggiatore della fabbrica: in Libano, in Egitto, in Asia Minore, coltivando non tanto gli interessi dell’azienda quanto i miei interessi culturali per l’Oriente. L’edificio della fabbrica mi è sempre stato una presenza incombente. Le finestre barocche della nostra casa si aprivano sulla ciminiera rossa. Ricordo il tempo scandito dai turni degli operai e la mia vita vissuta all’ombra dei fischi quotidiani della sirena. E il paese di Carignano mi è sembrato bello solo quando l’inondazione del Po negli anni ’40 lo rese simile a Venezia. D In quale città le piacerebbe vivere? R Roma, dove ho vissuto dal 1969 al 1970. Sono come Mario Soldati, un piemontese, che non ama molto Torino, che la considerava una bellissima donna però molto noiosa, con quella sua foresta di portici. Roma è la stratificazione di molte culture, mentre Torino passa dagli antichi ruderi romani al barocco senza tracce evidenti del medioevo e del rinascimento mentre Roma è un’eccitazione continua grazie ai suoi capolavori. Un’altra città, non città, che mi affascina è Venezia: è qualcosa di irreale. L’ho frequentata molto nelle estati degli anni Cinquanta, con il suo vento un po’ mortale d’inverno, come diceva Wagner, anche

per via delle gondole che ondeggiavano come sarcofaghi neri. D Adesso vive in una ‘vigna settecentesca’, lontano dalla città. Qual è la sua idea di abitazione e di città? R Quarant’anni fa ho ristrutturato un rudere. Ho ereditato lo spirito dell’abitare, della casa come rifugio. Ho sempre vissuto in ambienti con una faccia antica. Se non c’è un retroterra del luogo, anche gli ambienti più belli vengono vissuti in modo sbagliato. La mia casa è stata anche un set cinematografico per alcuni noti film, in particolare la biblioteca. La mia cultura comprende la letteratura, la poesia, l’arte, il teatro, la musica e anche l’architettura, ma ha un gran bisogno di un forte contatto con la terra, questo non me lo può dare l’altezza di un grattacielo, anche perché soffro di vertigini. Non tornerei a New York, che mi ha sgomentato: una città di grattacieli, che non mi fa vedere il cielo e mi fa sentire invece in fondo ad un pozzo. Non c’è misura. Chi vive a New York e viene in Europa, in Italia, a Torino, rimane affascinato dalla nostra cultura urbana. L’architettura più bella al mondo è la Rotonda di Andrea Palladio. È una grande astrazione autonoma come un pianeta. È come la O di

Giotto, è l’unità, è indiscutibile. Mi diverte (esita e quasi non osa rivelarlo) il falso storico, che trova a Torino il suo apogeo nel Borgo Medievale di D’Andrade. Ci passo in bicicletta e mi fermo sempre: restituisce un’idea teatrale della storia. Ci vivrei e ci ambienterei anche un romanzo. D Dove finisce la città nei suoi romanzi? R Davvero non lo so. Una città la narro non la descrivo. Per farla vivere devo narrarla attraverso i personaggi. Mentre gli ambienti interni, essendo vissuti, possono essere descritti, gli esterni delle case sono visti solo come volumi. La città come contenitore di esistenze come somma di abitudini, mi interessa più che la città come oggetto. Per esempio, il luogo più affascinante di Roma è la piazza di fronte alla chiesa barocca di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio: un palcoscenico teatrale con le facciate delle case basse a formare quinte scenografiche. Oggi, come si vede, la città non finisce mai, è continua.

P.39 Gian Piero Bona nella sua biblioteca,

(foto di Pier Luigi Meneghello) P.42 La casa di San Vito, disegno di Luigi Lorenzelli


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Oscar Niemeyer a Torino I casi della Fata di Pianezza e della Burgo di San Mauro Torinese Guido Laganà1

Rileggere una città dal punto di vista delle opere di architettura che la abitano, come propone l’OAT, è come rileggere un libro amato. Vi si scoprono nuovi percorsi e nuove tracce; ma soprattutto vi si possono trovare risposte a nuovi interrogativi che la vita o la storia ci propongono, o impongono. Cosa succede se guardiamo un’architettura di ieri con gli occhi di oggi? Potrebbe essere discutibile dal punto di vista di una corretta critica storica, ma potrebbe essere utile. I nostri occhi sono oggi attraversati dall’ansia, appena dissimulata, dell’appartenere ad una cultura in declino, costretta a confrontarsi con realtà – come quella brasiliana – in piena ascesa. Non era così negli anni ’80, quando le architetture torinesi di Oscar Niemeyer vennero realizzate. La cultura industriale godeva allora, per quanto attraversata da conflitti sociali, di un’ampia base produttiva. Vi è, d’altra parte, uno sfondo storico da ricordare: la dittatura militare inaugurata in Brasile dal golpe militare del 1964. Niemeyer, esule, viene ospitato dal ‘Vecchio Mondo’ dove, ricorda: “… [i militari ] che pretendevano di farmi tacere, mi diedero l’opportunità di disseminare la mia architettura”2

Come ogni intellettuale brasiliano guarda al nostro continente con quella ‘nostalgia dell’origine’ che i brasiliani forse ancora oggi conoscono. Niemeyer è affascinato dall’unità architettonica della Parigi storica; ma soprattutto dall’Italia, dal Palazzo Ducale a Venezia, “che annuncia l’architettura di oggi! La stessa ricerca della bellezza e della leggerezza architettonica, con i suoi archi che si moltiplicano nei piani superiori, evitando appoggi, desideroso, come noi, di vincere gli spazi liberi …”.3 Vi è in questa osservazione il tentativo di superare i limiti spazio-temporali dell’architettura per andare al centro del linguaggio compositivo. Quasi come se il ‘Vecchio Mondo’ potesse contenere la chiave di lettura di ogni linguaggio creativo, dall’arte, alla letteratura, all’architettura. Se guardiamo a queste opere torinesi, la sede delle Cartiere Burgo4 (1978-1981) e la Fata5 (1976 – 1979), con gli occhi di oggi non potremmo collocarle facilmente in uno degli ‘ismi’ di cui è segnata la cultura del ’900. Esse sembrano essere ‘senza tempo’. Forse perché Niemeyer sfugge alle

espressioni più rigide dei dettami del linguaggio del Movimento moderno in architettura per indagare, guidato da una ‘sistematica intuizione’, gli elementi costitutivi, universali, archetipici dello ‘spazio-tempo’ in architettura. Sono questi elementi che, come per Le Corbusier, rendono il suo linguaggio ‘universale’. Niemeyer lavora su composizioni di elementi semplici: parallelepipedi, volumi sospesi e archi policentrici (Fata di Torino, Segrate), linee curve (Casa do Baile a Pampulha e residenza di Canoas); emisfere e cilindri (la ‘lente’ circolare della Burgo o il ‘calice’ del Museu de Arte Contemporáneo di Niterói; superfici (la volta curva dell’Auditorium di Ravello o della Praça do Povo di Brasilia). Seguiamo, dunque, le tracce di questa ricerca compositiva nei due edifici torinesi della sede delle Cartiere Burgo, a San Mauro e della FATA, a Pianezza. La sede della Burgo Group6 (Fig. 1) appare come: “Una macchina […], un congegno meccanico raffinato e carico di simboli. Una sorta di oggetto spaziale volutamente contrapposto all’ambiente circostante in quanto degradato da anonime


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Sede delle Cartiere Burgo oggi Burgo Group San Mauro, Torino, Italia Progetto Oscar Niemeyer Contributi F. Motterle, M. Gennari, G. Assirelli, M. Peretti Committente Mondadori 1978-1981

Sede per gli uffici FATA oggi Fata, Finmeccanica Company Pianezza, Torino, Italia Progetto Oscar Niemeyer Contributi Riccardo Morandi (progetto strutturale) Costruttore Borini Costruzioni Committente FATA 1976-1979

testimonianze di edilizia industriale, ma fortemente intenzionato a riqualificarlo imponendo con la sua presenza eversiva una nuova provocante armonia”.7 Nella struttura anulare, sospesa sul piano di campagna, traforata da ampie finestre, si leggono chiaramente gli elementi costitutivi dell’architettura di Niemeyer: l’opposizione pesante/leggero; pieno/vuoto; statico/dinamico. La sede della Fata8 conferma, infatti, quella che Gennari definisce la “dialettica delle opposizioni: pesantezza-leggerezza, statica-dinamismo”. Si tratta di un ‘edificio ponte’, che avvicina l’architettura ad una infrastruttura del territorio. Il parallelepipedo, sospeso su tre coppie di appoggi e sorretto da arcate ‘in falso’, in cemento faccia a vista, lascia liberi l’area e le viste sottostanti, appena segnate da vetrate che ne delimitano l’ingresso. L’edificio, come d’altra parte molte delle opere di Niemeyer, è fatto per il territorio e, di conseguenza, risponde ad una riflessione attenta sulle sequenze dei punti di vista. In questo caso viene raggiunto percorrendo un’ampia curva in discesa, che offre alla vista il volume parallelepipedo,

subito dopo i grandi archi e, infine, il vuoto determinato dalla sospensione del volume sul piano di campagna, restituendo così la continuità dell’area. Ma attenzione a pensare che la leggerezza, quasi giocosa e liberatrice, della composizione di Niemeyer, sia indifferente agli aspetti strutturali, funzionali e impiantistici del costruire. Più volte Niemeyer constata come: “il cemento armato ci ha permesso di essere liberi”; così come l’impianto compositivo di certe opere, quelle circolari per esempio, sia il prodotto dell’organizzazione degli accessi o della razionale distribuzione delle dorsali impiantistiche. La leggerezza, il dinamismo, la plasticità dell’invenzione compositiva di Niemeyer ci avvicinano all’epilogo della nostra riflessione: al senso stesso del ‘fare l’architettura’. L’architettura, scrive Niemeyer, “...teria de ser variada, diferente, imprevedivel”; “dovrebbe essere varia, sempre diversa, imprevedibile”. Il maestro ci suggerisce, dunque, di perseguire l’invenzione compositiva, l’innovazione, con il coraggio del futuro. E forse, all’origine di questo ‘spirito del tempo’, vi è proprio il coraggio

dell’invenzione, del “comporre la propria epoca”9 attraverso un lavoro concentrato sulla ricomposizione dei bisogni della persona piuttosto che su visioni unilaterali, specialistiche, che oggi tendono a frammentare la ricerca progettuale nei culti dell’immagine, del virtuale, della tecnologia, del mercato.

Guido Laganà, Marcus Lontra (a cura di), Oscar Niemeyer 100, Electa, Milano, 2008 Il testo contiene saggi critici e interventi sulle opere torinesi di Oscar Niemeyer di: Massimo Gennari, Marzia Marandola, Alessandra Coppa e, sulla Sede della Mondadori di Segrate, di Roberto Dulio 2 Oscar Niemeyer, Minha arquitetura, Editora Revan, Rio de Janeiro, 2005, pag. 197 3 Op. cit., Minha, pag. 205 4 Oggi: Burgo Group 5 Oggi: Fata, Finmeccanica Company 6 Nuova sede uffici Cartiere Burgo S.p.A., Giorgio Mondadori Engineering. Nuove forme d’architettura, Fornitori Principali, Grafiche Dilani, Segrate, Milano, 1982 7 M. Universo in Oscar Niemeyer Architetto, Catalogo della mostra di Firenze, Chiostro Grande di S. Croce, maggio/luglio 1980, Stamperia di Venezia, Venezia 1980, pagg. 74-75 8 L. Puppi, Guida a Niemeyer, Mondadori, Milano,1987 9 Gertrude Stein, Picasso, Adelphi, 1973 1


ROUNDABOUT Film

A/R – Andata + Ritorno

Un colpo all’italiana

Dopo mezzanotte

Anno 2004 Regista Marco Ponti Cast Libero De Rienzo, Vanessa Incontrada, Fabio Troiano, Kabir Bedi, Remo Girone, Ugo Conti, Michele di Mauro Durata 96’ Origine Italia Produzione Roberto Buttafarro

Anno 1969 Regia Peter Collison Cast Rossano Brazzi, Michael Caine, Robert Powell, Raf Vallone, Noel Coward Durata 101’ Origine Gran Bretagna Produzione Paramount Pictures

Anno 2004 Regia Davide Ferrario Cast Giorgio Pasotti, Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza, Silvio Orlando Durata 93’ Origine Italia Produzione Rossofuoco

Seconda fatica del regista torinese Marco Ponti. In una Torino illuminata dal Natale vive Dante Cruciani (Libero De Rienzo), pony express in bicicletta per l’azienda Time Machine. Indebitato con pericolosi strozzini che lo braccano decide di scappare per il mondo e chiudere con il passato. Arrivato a Barcellona, prima tappa del viaggio, gli eventi non vanno come dovrebbero e, in un batter d’occhio, Dante si ritrova senza soldi e costretto a tornare in Italia. Contemporaneamente Nina (Vanessa Incontrada), hostess spagnola in preda a perenne amnesia, rimane bloccata a Torino a causa di uno sciopero generale e non riesce a tornare a casa per le feste. Strane combinazioni la porteranno a occupare l’appartamento vuoto di Dante e ad innamorarsi di lui spulciando tra le sue foto. L’inevitabile incontro tra i due sconvolge la vita del giovane fattorino, ma al tempo stesso, grazie proprio all’aiuto di Nina e di altri amici, le sue difficoltà economiche troveranno una soluzione.

Un ladro appena uscito di prigione (Noel Coward) escogita, aiutato dalla sua banda, il colpo del secolo per rubare quattro milioni di dollari in lingotti d’oro pagati dal governo di Pechino alla Fiat di Torino in cambio di uno stabilimento industriale nel proprio Paese. Dopo aver sabotato il sistema computerizzato che controlla i semafori della città (Torino venne scelta come location proprio perché era una delle poche città europee dotate di questo sistema), i complici causano l’ingorgo automobilistico più grande di sempre e riescono a rubare il bottino. La fuga poi è una corsa a perdifiato attraverso i luoghi simbolo del capoluogo piemontese dalla Chiesa della Gran Madre di Dio alla pista del Lingotto, e, grazie a tre Mini Minor entrate ormai nella storia del cinema, la banda riesce a seminare la polizia e a godersi la refurtiva. Una pellicola considerata un cult dal British Film Institute che l’ha inserita al trentaseiesimo posto tra i cento migliori film britannici del XX secolo.

Martino è il custode del Museo nazionale del Cinema all’interno della Mole Antonelliana di Torino ed è segretamente innamorato di Amanda, una ragazza che lavora al fast food vicino. Una sera Amanda reagisce con violenza alle provocazioni del padrone del locale e, spaventata dalle eventuali conseguenze, fugge via trovando rifugio proprio all’interno del museo. Angelo, ladro d’auto e fidanzato di Amanda, deve sistemare la faccenda della fidanzata affinché possa uscire dal nascondiglio. Intanto però, Martino ha confessato il suo amore e Amanda, che da tempo si sente trascurata dal suo ragazzo, cade tra le sue braccia. Tornata a casa, Amanda è combattuta tra i due uomini e non sa se scegliere lo sfrontato Angelo o il mite Martino. E quando la situazione sembra delinearsi per tutti, accade l’imponderabile che mischia ulteriormente le carte in tavola. A metà tra film documentario e di finzione, Dopo mezzanotte è una commedia tenera, tragicamente buffa e ricca di curiosità su Torino e sulla Mole.

www.film.tv.it/film/26245/a-r-andata-ritorno/trailer

www.youtube.com/watch?v=FEltJsIwSvE

http://youtu.be/-ZcZIoKQWp4


Film

La donna della domenica

La doppia ora

La ragazza di via Millelire

Anno 1975 Regista Luigi Comencini Cast Marcello Mastroianni, Jacqueline Bisset, Jean-Louis Trintignant, Claudio Gora, Aldo Reggiani Durata 105’ Origine Italia, Francia Produzione Marcello D’Amico

Anno 2009 Regista Giuseppe Capotondi Cast Ksenia Rappoport, Filippo Timi, Antonia Truppo, Gaetano Bruno, Fausto Russo Alesi Durata 95’ Origine Italia Produzione Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori

Anno 1980 Regista Gianni Serra Cast Maria Monti, Oria Conforti, Mario Orlando, Maria Bosco Durata 96’ Origine Italia Produzione Rai tv Rete due

Luigi Comencini trasporta sul grande schermo il romanzo di Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Il film, ambientato in una Torino afosa e deserta, racconta dell’indagine condotta dal commissario Santamaria sull’assassinio del volgare architetto Garrone, ucciso con un fallo di marmo. Inizialmente i sospetti sembrano ricadere su Anna Carla, donna ricco-borghese molto attraente, ma tradita dal proprio marito, e sul suo amico Massimo, omosessuale legato all’impiegato comunale Lello, che, parallelamente al commissario, svolgerà delle indagini per scagionare il proprio compagno. Se Santamaria vorrà concludere le indagini dovrà divincolarsi tra questi strani personaggi e un superiore molto preoccupato che alcuni nomi importanti non vengano coinvolti. L’estate torinese fa da sfondo a una vicenda ironica, che offre uno spaccato fedele dell’Italia di fine anni ’60, con gli anni di piombo e la rivoluzione del ’68 alle porte.

Durante un speed date Guido (Filippo Timi) e Sonia (Ksenia Rappoport) si conoscono e si piacciono. Lei lavora come cameriera in un albergo, mentre lui, con un passato da poliziotto alle spalle, ora è il custode di una villa isolata sulla collina torinese. I due sembrano innamorarsi e quando lui decide di portarla nel suo luogo di lavoro per impressionarla, tutto sembra andare verso la direzione giusta. Purtroppo un gruppo di rapinatori irrompe nella villa e, Guido, nel tentativo di difendere Sonia, resta quasi ucciso. Nei giorni seguenti la donna riprende la propria vita, ma tutto quello che la circonda sembra indicarle la presenza di Guido che lei crede essere morto. Secondo lo schema del niente è quello che sembra, il film d’esordio di Giuseppe Capotondi è un giallo ad alto contenuto psicologico, che gioca con il tema del doppio in cui ben risaltano i due protagonisti. Un film ricco di colpi di scena, ambientato in una Torino sfocata e buia che si presta in maniera efficace a svolgere il compito della città noir.

Betty, ragazzina tredicenne immigrata dal Meridione vive nella malfamata via Millelire nella cintura torinese della disgregazione sociale e morale. Alle spalle ha una famiglia in sfacelo: madre ambulante, padre in carcere e un numero che tende a infinito tra fratelli e sorelle. Intorno a lei, un ambiente di degrado: droga, violenza e prostituzione. La ragazza va e viene da questo mondo fuggendo da tutto: dalla famiglia, dalle brevi relazioni con giovani sbandati e privi di scrupoli, dai Centri d’incontro e dai riformatori. È irrequieta, sfrontata e irresponsabile. Il suo continuo scappare è scandito da ricorrenti ritorni a uno squallido centro sociale e a una annoiata e rassegnata assistente sociale, che tuttavia prova a raddrizzarla. Ma inutilmente. Il film si chiude, amaro, sull’ennesima fuga di Betty e su ogni spiraglio di speranza. Un film per certi versi irritante, che l’allora sindaco della città, Diego Novelli, definì così: “un cuneo duro, aspro, pesante, terribile, ma reale”.

www.youtube.com/watch?v=CYpK9d2DYpk&feature=youtu.be

http://youtu.be/QCHKpb4BTfI

www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=20137


Film

Santa Maradona

Mimì metallurgico ferito nell’onore

Prendimi l’anima

Anno 2001 Regista Marco Ponti Cast Stefano Accorsi, Libero De Rienzo, Mandala Tayde, Anita Caprioli, Fabio Troiano Durata 95’ Origine Italia Produzione Roberto Buttafarro

Anno 1972 Regia Lina Wertmüller Cast Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Luigi Diberti, Turi Ferro Durata 121’ Origine Italia Produzione Daniele Senatore, Romano Cardarelli

Anno 2003 Regista Roberto Faenza Cast Emilia Fox, Iain Glen, Craig Ferguson, Caroline Ducey Durata 100’ Origine Italia Produzione Elda Ferri per Jean Vigo Italia, Les films du Centaure, Cowboys Films

Torino è la cornice di sfondo delle avventure di Andrea (Stefano Accorsi), ventisettenne neolaureato in lettere in cerca di un lavoro che non riesce a trovare, e il suo coinquilino Bart (Libero De Rienzo), giornalista dal sarcasmo facile che copia gli articoli di sconosciuti giornali di provincia e li pubblica con il proprio nome. La loro vita scorre tra colloqui al limite del paradossale, ricerca di soldi per l’affitto e improbabili vicende che li vedono protagonisti insieme alla loro amica Lucia (Mandala Tayde), italo-indiana con una tormentata vita sentimentale. Un giorno, però, Andrea, proprio mentre corre verso l’ennesimo colloquio, si scontra con Dolores (Anita Caprioli), bellissima aspirante attrice di cui si innamora perdutamente. Tra loro nasce una storia d’amore improvvisa e appassionata, che sconvolgerà la vita di Andrea e che sarà anche il pretesto per tutti i protagonisti di guardarsi allo specchio e decidere che è giunto il momento di diventare padroni del proprio futuro.

L’operaio siciliano Carmelo Mardocheo emigra a Torino perché si rifiuta di dare il suo voto a un mafioso locale. In Sicilia lascia la giovane moglie Rosalia, ma nel periodo vissuto all’ombra della Mole, si innamora di Fiore, donna lombarda dalla quale ha un figlio. Di ritorno a Catania con amante e figlio, scopre che Rosalia l’ha tradito con un brigadiere, sposato anch’egli e con cinque figli a carico. Considerandosi di larghe vedute, Mimì evita di uccidere il poliziotto, ma escogita comunque una vendetta: decide di sedurre la moglie del rivale e la mette incinta. E proprio mentre comunica la notizia al brigadiere, questi viene assassinato da un sicario mafioso che mette la pistola nelle mani di Mimì. Una volta scontata l’ingiusta pena carceraria, Mimì è costretto a lavorare per un boss mafioso, riuscendo così a mantenere otto bambini, sua moglie, la vedova del brigadiere e l’amante che, nonostante sia l’unica che gli interessi veramente, lo abbandona perché stanca dell’insostenibile situazione.

Sabine Spielrein, diciannovenne russa di origine ebraica, nel 1904 viene ricoverata dalla famiglia in una clinica psichiatrica di Zurigo (benché il film sia girato a Torino) per una violenta crisi di isteria. Sottoposta alle terapie di Carl Gustav Jung, fu una delle prime pazienti curate efficacemente con il trattamento psicoanalitico del dottor Freud, di cui Jung era discepolo. Tra i due non ci fu solo un rapporto terapeutico, ma, come testimoniato dal diario personale della donna e dalle lettere ritrovate solo nel 1977, anche amoroso. Tuttavia la paura di uno scandalo non permise che questa storia venisse resa nota. La Spielrein, uccisa dai nazisti nel 1942 a cinquantasette anni e finita nel dimenticatoio della scienza proprio per la storia d’amore con Gustav Jung e a causa della guerra fredda, venne successivamente riabilitata come psicanalista perché, dopo essersi laureata in Medicina e specializzata in Psicologia e Psicoanalisi, è tornata in Russia e ha pubblicato numerosi scritti molto utili a completare le teorie freudiane.

www.youtube.com/watch?v=SElehi4oD3w

http://youtu.be/BB3QmqFqS5s

http://youtu.be/QLmyDeKLHyo


Film

L’industriale

Signorinaeffe

Tutti giù per terra

Anno 2011 Regia Giuliano Montaldo Cast Carolina Crescentini, Pierfrancesco Favino, Francesco Scianna, Eduard Gabia Origine Italia Produzione Bibi Film in collaborazione con Rai Cinema

Anno 2007 Regista Wilma Labate Cast Filippo Timi, Valeria Solarino, Sabrina Impacciatore, Fausto Paravidino, Clara Bindi Durata 95’ Origine Italia Produzione Bianca Film, Rai Cinema

Anno 1997 Regista Davide Ferrario Cast Valerio Mastandrea, Caterina Caselli, Benedetta Mazzini, Carlo Monni, Adriana Rinaldi Durata 85’ Origine Italia Produzione Gianfranco Piccioli

In una Torino cupa e attanagliata dalla crisi economica, il quarantenne Nicola, proprietario di un’industria ereditata dal padre, è sull’orlo del fallimento. Caricato di debiti con le banche, accerchiato dai propri operai orfani di un lavoro e di un destino e deluso per un affare con una multinazionale tedesca non andato a buon fine, Nicola decide di affrontare i problemi con l’orgoglio e la sfrontatezza di chi ha smesso di farsi scrupoli, proprio come coloro che lo vorrebbero sul lastrico. In famiglia, invece di confidarsi con la moglie Laura, Nicola si chiude in se stesso diventando sempre più sospettoso: non si fida più della moglie e inizia a pedinarla, aprendo una frattura insanabile all’interno del matrimonio. Arrivato al punto di non ritorno, Nicola offre il peggio di sé; poi, finalmente, la fortuna torna a sorridere e tutto sembra sistemarsi: ritorna la serenità famigliare, il lavoro e il prestigio sociale, ma Nicola ha degli scheletri nell’armadio che Laura non tarderà a rivelare.

Ogni famiglia ha il suo cavallo dato per vincente. I Martano, famiglia operaia di origine meridionale trapiantata a Torino, hanno Emma. Impiegata alla Fiat nel nuovo settore informatico, Emma ha lavorato sodo fin da piccola per cancellare la sua origine e risalire la china. Ora sta per laurearsi in matematica ed è prossima a sposare Silvio, un dirigente dell’azienda torinese, vedovo e con una figlia. È il settembre 1980, la Fiat annuncia che licenzierà quindicimila operai. Ha inizio il lungo durissimo sciopero che durerà 35 giorni. Nel clima di scontro senza quartiere tra azienda e classe operaia, Emma è sempre più attratta da Sergio un giovane militante che lavora alle presse. E per tutta la durata dello scontro la ragazza vive un’intensa ma breve storia d’amore che toglie senso alla sua faticosissima ascesa sociale e che la spinge a rompere con la famiglia e con l’uomo che vuole sposarla. In pochi giorni Emma consumerà drammaticamente l’esperienza più importante della sua vita. Mentre un’epoca si chiude e un’altra se ne apre senza promettere, per i più, niente di buono.

Il giovane Walter (Valerio Mastandrea), dopo aver trascorso la propria adolescenza a Roma dall’amatissima zia Caterina (Caterina Caselli), torna a Torino dai propri genitori. Qui frequenta la Facoltà di Filosofia di Torino con poca convinzione e ancor meno risultati, bazzica per la città privo di soldi e di amici e viene rimproverato dal padre perché non riesce a farsi carico delle responsabilità che gli spettano. Rifiuta i discorsi di sinistra del suo amico Astracan e, quando una bella ragazza tenta di corteggiarlo, lui, pur essendo vergine, non cede per non ritrovarsi tra quelli che lo contestano. Decide allora di effettuare un anno di servizio civile in un centro di assistenza frequentato da extracomunitari, ma nemmeno in quel contesto riesce a sentirsi utile e parte integrante della società. Fino a quando non succede l’imprevisto: per un incidente la zia muore e lo strano incontro con una gitana getteranno Walter nell’età della ragione. Il regista Davide Ferrario mette in scena il malessere giovanile, in una Torino dove non c’è spazio per il diverso.

http://youtu.be/Q_fO2__6TXY

http://youtu.be/2wxBnPh41sM

http://youtu.be/JOcFBpir9-4


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Torino e l’area metropolitana come palcoscenico urbano per 4 giorni di eventi dedicati a arte, cinema, teatro, danza, letteratura, fotografia, food e musica in dialogo con i temi dell’architettura e del design, della città e del paesaggio. È la prima edizione del Festival “Architettura in Città”, promosso dall’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Torino e la Fondazione OAT, che dal 14 al 17 luglio 2011 coinvolge 70 soggetti culturali che operano sul territorio torinese e in 14 Comuni della provincia. Oltre 150 le iniziative in calendario, di cui tre quelle organizzate direttamente da Ordine Architetti e Fondazione OAT. La prima è la mostra fotografica “3xcinquanta=1”, a cura di Cristiana Chiorino e Mauro Volpiano, dedicata all’architettura dell’Unità di Italia (1861) e delle due celebrazioni dei successivi cinquantenari (1911, 1961) a Torino, per capire come la città ha affrontato le sfide del cambiamento, costruendo progressivamente una nuova immagine di sé. Il secondo evento è “Space is only noise?”, in collaborazione con Xplosiva e Club To Club: due performance musicali in contemporanea in modalità silent disco presso il Museo Nazionale dell’Automobile sul concetto di spazio come rumore, una legata all’idea del piano in musica, l’altra a quella del forte musicale, tra cui il pubblico, dotato di cuffie individuali, può scegliere quale si adatti meglio alla fruizione dello spazio. La terza proposta di OAT e Fondazione OAT è a cura della redazione del blog magazine taomag.it e chiude il Festival svelando di fatto il tema che ha costituito il filo conduttore di tutte le iniziative: “Dove finisce la città”. Qual è il suo confine fisico e quale il suo limite psicologico? In quale luogo non la si riconosce più? E quali luoghi dentro il confine urbano divengono a loro volta delle città autosufficienti? Dove finirà la città? Ne parlano: Marco Brizzi, Davide Ferrario, Emilia Garda, Antonella Parigi e Beppe Rosso, un po’ architetti, un po’ registi, scrittori e attori. Conduce: Gabriella Ferrero. Tutto il festival su www.architetturaincitta.it

I luoghi del Festival Avigliana, Biella, Chivasso, Collegno, Frossasco, Grugliasco, Ivrea, Moncalieri, None, Pinerolo, Piscina, Racconigi, Rivalta, Rivoli, San Mauro Torinese, Settimo Torinese, Torino Partecipano al Festival Accademia Albertina Belle Arti, ADI Associazione Design Italiano delegazione Piemonte e Valle d’Aosta, Archphoto.it, ASCOM, Associazione Casa delle Arti e dell’Architettura CASARTARC, Associazione culturale a.titolo, Associazione culturale Musica 90, Associazione Empirica, Associazione Guarino Guarini, Associazione Le Terre dei Savoia, Associazione Pier Luigi Nervi Research and Knowledge Management Project, Associazione Torino Città Capitale Europea, Bjcem aisbl - Association Internationale pour la Biennale des Jeunes Créateurs de l’Europe et de la Méditerranée, Burgo Group, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Città di Avigliana, Città di Collegno, Città di Ivrea, Città di Moncalieri, Città di Rivoli, Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, Club To Club, Comune di Grugliasco, Comune di Piscina, Comune di Rivalta, Comune di San Mauro Torinese, Cuochivolanti, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Torino, Asti, Cuneo, Biella e Vercelli, Domori Srl, Edilcantiere.it, Fiera Restructura Lingotto Fiere, Focus Group OAT Professione Creativa, Fondazione Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, Fondazione Cascina Roccafranca, Fondazione Contrada Torino, Fondazione Fitzcarraldo, Fondazione Teatro Piemonte Europa / Teatro a Corte, Franti - Nisi Masa Italia, GAC Gruppo Architetti del Canavese e Valle d’Aosta, GAI Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani, GAT Giovani Architetti Torino, Gi.Arch Coordinamento Nazionale dei Giovani Architetti Italiani, IAAD Istituto d’Arte Applicata e Design, Il Circolo dei Lettori, IMAGE Archive, Magmaprogetti, MAU Museo di Arte Urbana, MIAAO Museo Internazionale Arti Applicate Oggi, Museo del Gusto, MRSN Museo Regionale Scienze Naturali, Museo del Design Galliano Habitat, Museo Nazionale del Cinema di Torino, Museo Nazionale dell’Automobile di Torino, Parco fluviale del Po tratto torinese, PAV Parco Arte Vivente, Politecnico Torino - Facoltà Architettura I, Politecnico Torino - Facoltà Architettura II, Progetto DEGUCRÈ, Protodesign, Situa.to, Società Le Serre, Streglio SpA, SUCAI Sezione Universitaria del Club Alpino Italiano, TAG Turin Art Galleries, The Fooders, The Plan, Torinodanza, Towant, Turn Torino Design Community, Unione Culturale Franco Antonicelli, Urban Center Metropolitano, Xplosiva, Zeroundicipiù




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