Elio Ciol
Il volto e la parola Allemandi & C.
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Elio Ciol (Casarsa della Delizia, Pordenone, 1929) è esponente di una dinastia di fotografi. Sin dagli anni cinquanta ha unito al lavoro professionale la ricerca personale nel campo del bianco e nero. Nel 1969 il suo primo fotolibro, Assisi, ha dato inizio a una produzione editoriale ininterrotta che continua tuttora, e che lo ha portato a vincere per due volte con propri volumi il prestigioso Premio internazionale Kraszna Krausz di Londra. Considerato uno dei maggiori paesaggisti italiani, ha al suo attivo 120 mostre personali in tutto il mondo, e la partecipazione a 115 mostre collettive. Sue fotografie sono presenti nelle più prestigiose collezioni, dal Metropolitan Museum of Art di New York al Victoria and Albert Museum di Londra. Elio Ciol (Casarsa della Delizia, Pordenone, 1929) belongs to a long line of photographers. Since the 1950s he associated personal research in black and white with his professional work. In 1969 his first photography book, Assisi, introduced an uninterrupted series of publications ongoing to this day, and which twice won his books the famous international Kraszna Krausz Prize in London. Considered one of the greatest Italian landscapists, he boasts 120 one-man shows worldwide and participation in 115 group shows. His photographs feature in the most prestigious collections, from the Metropolitan Museum of New York to the Victoria and Albert Museum of London.
In copertina / Cover «Allegoria dell’Obbedienza». Giotto e Maestro delle Vele, 1315. “Allegory of Obedience”. Giotto and the Master of the Assisi Vaults, 1315.
Elio Ciol Il volto e la parola The face and the word testo di
/ text by
Massimo Carboni
umberto allemandi & c. torino
~ londra ~ venezia ~ new york
ELIO CIOL
Il volto e la parola The face and the word Convento di San Francesco, Pordenone 28 novembre / November 2009 31 gennaio / January 2010
Coordinatore del ciclo di mostre Coordinator of the cycle of exhibitions Fabio Amodeo Con il sostegno di With the support of
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l magnifico trittico di mostre che il Friuli Venezia Giulia ha voluto dedicare a Elio Ciol, uno dei più grandi fotografi italiani contemporanei, in occasione del suo ottantesimo compleanno e del sessantesimo anno di attività, trova a Pordenone, nel Convento di San Francesco, la sede suggestiva per una mirabile esposizione dei cicli di affreschi della Basilica di San Francesco di Assisi. Il percorso dell’omaggio a Ciol, che ha avuto a Villa Manin e a Casarsa, Sua città natale, due momenti particolarmente alti, si completa a Pordenone attraverso uno degli aspetti forse meno noti, ma certamente tra i più apprezzati della Sua vicenda artistica, quello di sensibile e rigoroso documentarista dei beni e del patrimonio culturale del nostro Paese. In uno dei luoghi di più profonda spiritualità, a cui la mirabile Assisi e la figura di uno dei Santi più venerati e amati dell’umanità conferiscono un’«aura» non riscontrabile in altre parti, su uno dei cicli più stupefacenti ed emozionanti della pittura di ogni tempo, Ciol cala il suo sguardo di eterno ragazzo per indagare e restituire magnificamente in immagini le forme e i colori immortali di Giotto, di Pietro Lorenzetti e di Simone Martini. Non sono solo belle immagini le Sue, ma un’operazione di scandaglio di volti e di gesti, un’indagine approfondita e minuziosa di dettagli e di particolari, un disvelamento del senso mistico e religioso del tempo. Lo stile e la maestria di Assisi e di altri episodi dell’arte mondiale, Ciol li adotta anche a livello locale, imponendosi in un’opera di valorizzazione del nostro patrimonio artistico che rappresenta un ulteriore grande merito della sua produzione. Dai capolavori del Pordenone alle facciate dipinte del centro storico, i Suoi scatti costituiscono una documentazione fondamentale dell’arte del nostro territorio, di cui contribuisce a divulgare e a diffondere gli accenti e l’anima. Ciol ama i silenzi e non il fragore, lavora per la durata e non per l’effimero, è espressione di un mondo e di una cultura che sono e sentiamo nostri e anche per queste ragioni Lo sentiamo particolarmente vicino. Siamo perciò felici e orgogliosi di poter ospitare questa splendida mostra, ricca di significati artistici e spirituali, intrisa della intensa umanità e poesia di un maestro come Elio Ciol. Gianantonio Collaoni Sergio Bolzonello Assessore alla Cultura di Pordenone Cultural Commissioner of Pordenone
Sindaco di Pordenone Mayor of Pordenone
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truly extraordinary display of the frescoes in the Basilica of Saint Francis in Assisi has found its perfect setting in the convent of San Francesco in Pordenone. This is the third in a magnificent triptych of exhibitions that Friuli Venezia Giulia has devoted to Elio Ciol, one of the greatest contemporary Italian photographers, to celebrate his eightieth birthday and the sixtieth anniversary of his career. This tribute, which reached sublime heights in Villa Manin and in Casarsa, his home town, is being completed in Pordenone with a less well-known, but certainly highly appreciated aspect of his artistic career - that of Ciol as a sensitive and meticulous documentarist of the cultural heritage of Italy. The exquisite Assisi and the figure of one of the best-loved and most venerated saints of all time confer an aura unlike any other upon a place of the most profound spirituality and upon one of the most stunning and moving cycles of painting of all time. Here Ciol turns his ever-youthful eyes to investigate and show us the immortal forms and colours of Giotto, Pietro Lorenzetti and Simone Martini in his magnificent images. These are not just of consummate beauty, for they are also an examination of faces and gestures investigated through the most meticulous details, revealing the mystical and religious sentiment of their time. In promoting our local artistic heritage, Ciol also takes from the style and artistry of Assisi and from other works of world art, and this is indeed another great achievement of his career. From the masterpieces of Pordenone to the painted façades of the old city, his photographs constitute a fundamental record of the art of our territory, helping to make its value and spirit known around the world. Ciol loves silence, not clamour, and he works for the long term, not the ephemeral. He is the living expression of the world and culture that is, and that we feel to be ours, and this is also why we sense that he is particularly close to us. We are thus both pleased and proud to be able to host this splendid exhibition, with all its artistic and spiritual significance, permeated by the intense humanity and poetry of a master like Elio Ciol.
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l nome di Elio Ciol appartiene alla storia della fotografia nazionale e internazionale e le mostre che il Friuli Venezia Giulia gli ha dedicato a Pordenone, Villa Manin e Casarsa, vogliono essere un omaggio a una straordinaria carriera professionale e artistica. Elio Ciol ha infatti esposto in tutto il mondo, realizzando quasi centoventi personali e altrettante collettive. Ha pubblicato oltre duecento libri fotografici e ha ricevuto l’attenzione e lo spazio che gli spettavano sulla stampa nazionale e mondiale, ma il successo - come ha sottolineato Carlo Sgorlon non ha mutato la sua sostanza profonda, rimasta fedele all’archetipo friulano. Una «friulanità», quella di Ciol, che costituisce una sorta di sigillo, un’impronta culturale e distintiva del suo intenso percorso artistico, iniziato alla fine degli anni quaranta, rivolgendo lo sguardo ai luoghi e alla gente del Friuli, e affinato negli anni cinquanta a Venezia, luogo di incontro delle esperienze più significative del periodo. Un percorso che è andato progressivamente allargandosi ad altre significative esperienze: la collaborazione con il cinema, attraverso la figura di David Maria Turoldo; la «scoperta» di Assisi, da cui è derivato il primo libro fotografico, pubblicato in cinque diverse edizioni, rapidamente esaurite; l’impegno professionale per l’editoria, con le campagne di documentazione di opere d’arte, monumenti e architetture, che hanno prodotto una mole notevolissima di pubblicazioni. Mai pago di imparare e di sperimentare, Elio Ciol ha saputo rendersi protagonista di importanti innovazioni per raffinare quella cura nello scatto che sa cogliere l’essenza della realtà, rappresentandola senza filtri, semplicemente com’è. Un modo di vedere le «cose» unico e originale che si è tradotto in immagini di grande impatto, capaci di mettersi in relazione diretta con chi le guarda. Immagini che scandiscono un’opera lunga sessant’anni, costruita passo dopo passo sulla consapevolezza che «occorre uno sguardo particolare per cogliere ciò che ci circonda». Roberto Molinaro Assessore all’Istruzione, Formazione e Cultura della Regione Friuli Venezia Giulia Councillor for Education, Training, and Culture, Regione Friuli Venezia Giulia
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he name of Elio Ciol has entered the history of Italian and international photography, and the exhibitions that Friuli Venezia
Giulia has dedicated to him in Pordenone, Villa Manin, and Casarsa, pay tribute to an extraordinary professional and artistic career. Elio Ciol has displayed his works throughout the world, putting on almost a hundred and twenty solo exhibitions and the same number of group shows. He has published more than two hundred books of photographs and has been given the space and attention he deserves in the Italian and international press. Yet, as Carlo Sgorlon has pointed out, his success has never changed his inner self, which has remained faithful to that of his Friuli origins. Ciol’s quintessential Friuli character has put the seal of his distinctive cultural approach on his intense artistic career, which started in the late 1940s when he started turning his attention to the places and people of Friuli. His vision became even more refined in the 1950s in Venice, which was the meeting place for the most significant experiences of those times. And his career gradually opened up to other significant experiences, including work in the cinema with David Maria Turoldo, and his discovery of Assisi, which led to his first book of photographs. This was published in five editions, all of which soon sold out. Then there was his work in publishing, with the documentation of works of art, monuments, and buildings, which led to a huge number of publications. Never content just to learn and experiment, Elio Ciol has spearheaded important innovations, perfecting photographic precision in capturing the essence of reality, showing it as it really is, without any form of filtering. His is a way of seeing things that is original and unique, and he uses it to create images of enormous impact, entering into direct contact with the observer. His images span a sixty-year career, which has been built up one step after another, fully aware that it takes “a special eye to grasp what is around us”.
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omaggio che il Friuli Venezia Giulia tributa a Elio Ciol, Maestro della fotografia, con una serie di mostre allestite a Casarsa, sua terra natale e luogo ove tuttora vive e lavora, a Passariano di Codroipo, e nella prestigiosa sede della chiesa di San Francesco a Pordenone, celebra non solo gli ottant’anni dell’artista ma anche i suoi ricchi e straordinari sessant’anni di professione, che si sono intrecciati intimamente con il mondo dell’arte e con quello del cinema e che hanno narrato il paesaggio, l’ambiente, il patrimonio artistico e la trasformazione sociale del Paese e di questa regione. Un omaggio doveroso che del grande fotografo friulano offre profili diversi, a descrivere un imponente repertorio di opere. Dal neorealismo dei primi anni, alle indimenticabili inquadrature dal film Gli ultimi sul cui set è stato fotografo di scena; dalla fotografia di paesaggio, che oltre ad averlo reso celebre ha saputo del Friuli - e non solo di questa terra - leggere spazi e dettagli, anche raccontando eventi come la tragedia del Vajont, fino a quell’attività di documentazione del patrimonio artistico che è stata il perno della sua attività professionale e che ha portato un’infinità di pubblicazioni. Le sue immagini hanno illustrato quasi duecento libri, e più di altrettante sono state le mostre personali e collettive in cui sono state esposte. È dunque con gioia e con orgoglio che interpreto i sentimenti di ammirazione, affetto e gratitudine della comunità regionale per il lavoro e la ricerca di Elio Ciol: una ricerca di tecnica e di contenuti, la passione di una vita dedicata a quell’arte sfuggente, come Fabio Amodeo, curatore delle rassegne, definisce la fotografia. Un’arte coltivata in un percorso solitario e originale che però è entrato in contatto con esperienze straniere e che ha portato i suoi traguardi nel mondo, proprio soprattutto esplorando e documentando l’arte, e realizzando fotolibri che hanno ricevuto riconoscimenti internazionali. Un grazie sincero per il suo sguardo aperto al mondo, per il suo amore per l’opera d’arte e per la sua terra, e l’augurio che la sua ricerca e la sua passione continuino fruttuose a regalare, con la perfezione dei suoi bianchi, neri e grigi, immagini che dicono al di là di ciò che rappresentano.
Edouard Ballaman Presidente del Consiglio della Regione Friuli Venezia Giulia President of the Council of the Friuli Venezia Giulia Region
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he tribute that Friuli Venezia Giulia is paying to Elio Ciol, the photography Master, with a series of exhibitions mounted at Casarsa, his birthplace and where he still lives and works, Passariano di Codroipo and the prestigious venue of San Francesco Church in Pordenone, celebrates not only the artist’s eightieth birthday but as well his rich, extraordinary sixty years in the profession, which are closely bound to the world of art and the cinema and depicted the landscape, the environment, the artistic heritage and the social transformation of our Country and this region. A due tribute offering various aspects of the great Friuli photographer, presenting an impressive repertory of works. The neo-realism of his early years and the unforgettable shots of the film Gli ultimi, for which he was the official set photographer; landscape photography which in addition to making him famous, interpreted spaces and details of Friuli, and not only of this land, even recording events like the tragedy of Vajont, and including the work documenting the artistic heritage, which was the mainstay of his career and led to countless publications. His pictures illustrated almost two hundred books, and the solo and group exhibitions in which they were shown were even more numerous. So it is with pride and joy that I express the feelings of admiration, affection and gratitude of the regional community for Elio Ciol’s work and research: experiments in technique and content, the passion of a life devoted to this fleeting art, as Fabio Amodeo, curator of the exhibitions, defines photography. An art ripened in a solitary and original career which however was in touch with foreign experiences and explored the world, indeed above all researching and documenting art, and producing photography books that won international acclaim. Heartfelt thanks for his eye open onto the world, his love for the work of art and his land, and the wish that his research and passion continue to flourish and, with the perfection of his whites, blacks and greys, offer pictures which say more than they represent.
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e immagini, così come l’insieme della comunicazione visiva, sono l’elemento dominante della vita relazionale contemporanea. Più ancora dei testi scritti e delle parole, la percezione visiva diviene lo strumento espressivo universale, che supera ogni barriera culturale, ogni luogo e ogni tempo. La ricerca di Elio Ciol è incentrata sullo studio dell’immagine e della luce che rendono i soggetti fotografati materia viva della nostra esperienza quotidiana. Nelle sue opere si ritrovano e si colgono con vigore i momenti della vita di ciascuno di noi. In questa adesione alla realtà risiede allora la vicinanza che il visitatore coglie assaporando con grande partecipazione le fotografie del Maestro. Nell’ottica di riscoprire e di promuovere i valori culturali del Friuli occidentale e della sua popolazione, l’Amministrazione Provinciale ha sostenuto un programma pluriennale di iniziative sul territorio per mettere in evidenza le peculiarità e le eccellenze di questa terra. La mostra dedicata alla produzione fotografica di Elio Ciol rappresenta in modo significativo uno di questi eventi e pone in luce un metodo di lavoro fatto di impegno, di laboriosità, di tenacia, che sono alcune delle caratteristiche che hanno contraddistinto e che continuano a evidenziare la presenza friulana in ogni parte del mondo. Alessandro Ciriani Presidente della Provincia di Pordenone President, Province of Pordenone
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mages, like all visual communication, are a key element of contemporary relations. Even more than the written and spoken word, visual perception is a universal form of expression, going beyond all cultural barriers, and beyond all sense of place and time. Elio Ciol’s research focuses on a study of images and light, making his subjects a living part of our everyday experience. In his works, we clearly find and sense moments of our own everyday life. The immediacy that the observer feels when drawn into the great master’s photographs is due to this close adhesion to reality. With a view to rediscovering and promoting the cultural values of western Friuli and of its population, the provincial administration has given its support to a multi-year programme of local initiatives that highlight the distinctive features and areas of excellence of this land. The exhibition of Elio Ciol’s photographic works is a very significant example of these events. It reveals an approach to work that is based on total commitment, hard work and tenacity, which are and always have been key features of the Friuli character, everywhere in the world.
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on il proprio sostegno all’importante retrospettiva dedicata a Elio Ciol, Banca Popolare FriulAdria vuole rendere omaggio alla figura di un grande maestro della fotografia che ha saputo fissare la storia del nostro tempo ritraendo con ineguagliabile sensibilità il quotidiano, incorniciare nel modo più affascinante i paesaggi, in particolare quelli friulani, e utilizzare la propria arte per documentare con insuperabile perizia il patrimonio storicoartistico del nostro Paese. FriulAdria, banca da diversi anni riconosciuta per il suo impegno nella promozione del patrimonio culturale e artistico, riafferma anche in quest’occasione la propria attenzione alla valorizzazione degli artisti locali. L’articolato progetto culturale «Omaggio a Elio Ciol» rappresenta infatti non solo un omaggio a un artista di fama internazionale che ha saputo mantenere vive le proprie radici friulane, ma anche il riconoscimento di un’eccellenza fotografica che valorizza tutto il nostro territorio. Ricordo con piacere che Banca Popolare FriulAdria ha saputo riconoscere il grande talento di Ciol affidandogli l’incarico di identificare la propria immagine con quella della pedemontana pordenonese, ottenendo una foto di rara intensità e bellezza che per anni è stata il simbolo del nostro Istituto. Il nostro intervento, che sottolinea dunque lo speciale rapporto pluriennale con l’artista, vuole manifestare l’attenzione della banca alle migliori espressioni artistiche locali, che a loro volta rendono un servizio al territorio non solo dal punto di vista culturale, ma anche favorendone lo sviluppo economico e sociale. Angelo Sette Presidente di Banca Popolare FriulAdria - Crédit Agricole President of Banca Popolare FriulAdria - Crédit Agricole
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anca Popolare FriulAdria in sponsoring this important retrospective devoted to Elio Ciol wishes to honour a great Master of photography who perpetuated the history of our time depicting everyday life with a unique sensibility, consummately framed the landscape especially that of the Friuli, and used his art to document with incomparable skill the historic and artistic heritage of our country. FriulAdria, a bank known for several years now for its commitment to sponsoring the cultural and artistic legacy, once again on this occasion manifests its concern with the promotion of local artists. The well-articulated cultural project, “Tribute to Elio Ciol,” is in fact not only a tribute to an artist of international renown who was able to keep his Friuli roots alive, but also the recognition of a photographic excellence that enhances our entire territory. I am pleased to recall that Banca Popolare FriulAdria proved able to recognise Ciol’s great talent, commissioning him to identify its image with that of the Pordenone piedmont, creating a photograph of exceptional beauty and intensity which for years has been the symbol of our Institution. With our intervention, which underscores our special relation with the artist over many years, we wish to express the bank’s concern with the finest local artistic expressions, which in turn contribute to the territory not only from a cultural viewpoint but also by fostering the economic and social development of the territory.
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L’Agenzia ha partecipato con altrettanta passione all’evoluzione economica di questo territorio, sensibilizzando imprenditori di tutti i livelli e cittadini alla cultura assicurativa basata sui principi della correttezza e della professionalità. Questi stessi principi sono riconosciuti come valore fondante anche dalla Reale Mutua Assicurazioni, la più antica Compagnia italiana in forma di Mutua che, proprio per garantirne la continuità, ha nominato nel 1994 le figlie Emilia ed Elena nella gestione dell’Agenzia. Nel festeggiare i cinquanta anni di attività, abbiamo voluto rendere omaggio all’Artista che meglio ha saputo testimoniare la tradizione e la storia recente del nostro territorio.
The Agency has taken part with equal passion in the economic development of this land, raising awareness, among all levels of entrepreneurs and citizens, of an insurance culture based on the principles of correctness and professionalism. These are the principles that lie at the heart of Reale Mutua Assicurazioni, the oldest mutual insurance company in Italy. In 1994, to ensure the continuation of his work, Giuseppe Grenni’s daughters Emilia and Elena were appointed to run the Agency. And, to celebrate fifty years of activity, we have wished to pay tribute to the artist who, better than any other, has himself paid tribute to the traditions and history of our land.
l primo luglio 1959 veniva inaugurata a Pordenone l’Agenzia della Reale Mutua Assicurazioni con la nomina di Giuseppe Grenni: la Provincia non era ancora stata istituita, l’economia, basata tradizionalmente sul comparto industriale, stava conoscendo una fase di trasformazione che l’avrebbe portata in breve tempo a uno sviluppo clamoroso. Erano proprio questi gli anni in cui Elio Ciol, formatosi nel laboratorio fotografico del padre, porta a maturazione la sua ricerca e affina il suo linguaggio che lo porteranno ad affermarsi tra i massimi fotografi italiani. Da allora, la città e il suo territorio sono cresciuti non solo in campo economico ed Elio Ciol continua a trasmetterci il segno inconfondibile di una espressività e di uno stile che si manifestano soprattutto nelle immagini del paesaggio friulano e nella preziosa attività documentaria del nostro patrimonio artistico.
Emilia ed Elena Grenni Agenzia di Pordenone della Reale Mutua Assicurazioni Bureau of Reale Mutua Assicurazioni in Pordenone
n 1 July 1959, with the appointment of Giuseppe Grenni, the Pordenone Agency of Reale Mutua Assicurazioni was opened. The provincial government had not yet been set up, and the economy, which was traditionally based on the industrial sector, was going through a period of transformation that, within just a few years, would lead to sensational development. These were the years when Elio Ciol, who had trained in his father’s photographic workshop, was bringing his research to maturity and perfecting the language that would make him one of the greatest and most highly acclaimed photographers in Italy. Since then, the city and its territory have expanded, and not just in terms of the economy, and Elio Ciol is still bringing us the unmistakable signs of a style and expressiveness in his images of the Friuli landscape and in his invaluable documentary work on our artistic heritage.
«La bellezza salverà il mondo» “Beauty saves the world” F. Dostoevskij
Sommario / Contents
14 Riproduzione, indagine, dialogo 16 Reproduction, Investigation, Interaction Fabio Amodeo 18 Il commento infinito. Lingua e spiritualitĂ delle immagini 28 A Universal Commentary. The Language and Spirituality of Image Massimo Carboni 39 Il volto e la parola The face and the word Testi di / Texts by Massimo Carboni 182 Elenco delle fotografie List of the photographs 186 Biografia 188 Biography 190 Volumi con fotografie di Elio Ciol Books with photographs by Elio Ciol
Riproduzione, indagine, dialogo fabio amodeo
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l volto e la parola» è un’indagine visiva di Elio Ciol che, oltre ad apparire sulle pagine di questo volume, è oggetto di una mostra dallo stesso titolo presso il Convento di San Francesco di Pordenone. L’esposizione fa parte di un ciclo di mostre aperte in successione per celebrare l’ottantesimo compleanno e i sessant’anni di carriera professionale del maestro. La prima, «Elio Ciol. Gli anni del neorealismo», si è tenuta a Villa Manin di Passariano ed è testimoniata da un volume, sempre edito da Allemandi; dedicata alla parte iniziale della carriera di Ciol, ricca di immagini inedite, ha esplorato la fase di ricerca e di costruzione del linguaggio dell’artista friulano. La seconda, «La luce incisa», ha avuto come sede il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, e cioè la casa in cui Pasolini abitò da ragazzo, nella quale sono stati ospitati i paesaggi che Elio Ciol ha dedicato al Friuli, nell’ambito di quella ricerca in bianco e nero che costituisce la parte più nota della sua opera. «Il volto e la parola» esplora un campo che per l’attività espositiva di Ciol è nuovo, e cioè quello della rilettura di opere d’arte, nel caso specifico gli affreschi della Basilica di Assisi. Va ricordato che questa indagine si collega a un aspetto dell’attività professionale dello studio Ciol, e cioè la documentazione del patrimonio artistico. Anni di lavoro in questo campo hanno portato alla costruzione di un archivio che è un patrimonio culturale esso stesso, sia per l’ampiezza e la completezza della documentazione, sia perché alcune delle opere raffigurate sono scomparse o profondamente modificate a seguito di eventi traumatici. Il linguaggio de «Il volto e la parola» non è quello della documentazione, nel senso che sin dalla ripresa queste immagini sono nate in un’altra chiave, quella della rilettura, dell’interpretazione, del sovrapporsi dei linguaggi, quello pittorico e quello, fatto di tagli e di elisioni, fornito dalla fotografia. E tuttavia tra le due attività, quella di documentatore e quella di interprete, ci sono commistioni e legami: pensiamo all’abitudine a rapportarsi con le opere della storia dell’arte, oppure la consuetudine ad affrontare i problemi tecnici, come ad esempio il mantenimento di standard affidabili di riproduzione del colore. Questa breve presentazione non sarebbe completa senza un accenno al ruolo che la fotografia ha avuto nell’evoluzione degli studi di storia dell’arte. Non tutte le opere d’arte sono comunemente fruibili e accessibili, e alcune presentano delle difficoltà logistiche alla loro lettura. Sin dall’introduzione della fotografia, la riproduzione d’arte ha rappresentato uno dei temi principali, e non è un caso che le grandi città d’arte italiane - Venezia, Roma, Firenze e Napoli - abbiano ciascuna avuto dei grandi atelier attivi a partire dal 1860, e cioè da un periodo appartenente all’infanzia della fotografia. Il primo scopo di questi atelier era quello di fornire agli appassionati che percorrevano il Grand Tour album o singole immagini che testimoniassero le maggiori emergenze artistiche. Da subito, specie nel caso della scultura, la riproduzione si trasformò in interpretazione del fotografo. Non ci volle molto perché gli studiosi si rendessero conto di come la documentazione fotografica potesse essere un supporto fondamentale allo studio. In particolare, l’esame di dettagli significativi rappresentava il supporto ideale di operazioni di catalogazione e attribuzione.
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Alla fine dell’Ottocento le fototeche rappresentavano già la norma nei centri di studio e ricerca tedeschi, britannici e statunitensi. È su questa base che Aby Warburg poté porre i fondamenti, nei primi anni del Novecento, dell’iconologia: la comparazione tra tematiche iconografiche appartenenti a epoche diverse era possibile solamente con un uso intenso della documentazione iconografica. D’altra parte l’opera più appassionante che Warburg ci ha lasciato, l’Atlante di Mnemosyne, è principalmente un album di opere riprodotte fotograficamente. Da Bernard Berenson a Federico Zeri, sono molti gli studiosi che hanno lasciato imponenti archivi personali, oggetto di studio e fonte di consultazione. Gli Elenca di Berenson sono un tentativo di sistematizzare questo rapporto, creando il catalogo per eccellenza della pittura italiana del Rinascimento. Impresa che oggi può essere discussa per molti motivi, ma che rimane un episodio rilevante del contributo dato dalla documentazione fotografica allo studio dell’arte. In tempi più recenti l’affinamento delle tecniche di ripresa e di stampa ha consentito di raggiungere livelli via via maggiori di qualità di riproduzione, compensando un elemento introdotto dal turismo di massa, e cioè il contingentamento dei tempi di accesso a molte opere. Il caso più noto è quello del Cenacolo leonardesco, ma è crescente il numero delle esposizioni “a fruizione limitata”, semplicemente perché l’impatto delle masse di visitatori sulle opere può mettere in pericolo la stessa integrità dei capolavori. Nel poco tempo concesso ai visitatori della Cappella degli Scrovegni a Padova, ad esempio, è impensabile che l’osservatore possa indagare i dettagli dei riquadri più alti, sia pure con l’ausilio di un cannocchiale. In molti casi la fruizione è resa difficile dal posizionamento fisico delle opere. Non è solo il caso dei cicli di affreschi: pensiamo alla statuaria inserita nelle cattedrali medievali. La lettura fotografica quindi integra la lettura diretta, e diventa essa stessa un linguaggio. Dentro a questi meccanismi si inserisce la circuitazione di alcune opere nella cultura popolare, la creazione di vere e proprie icone, con tutta la capacità distorsiva che simili operazioni hanno. In ogni caso, anche questo aspetto è la riprova del rapporto intenso tra il patrimonio artistico e il suo primo veicolo riproduttivo, la fotografia. È questo il punto di partenza dell’opera di Ciol, che in «Il volto e la parola» elabora questi temi, e li porta a un livello di intervento artistico successivo e più complesso.
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Reproduction, Investigation, Interaction fabio amodeo
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he face and the word” is a visual investigation by Elio Ciol. As well as appearing in the pages of this book, it is the focus of an exhibition of the same title at the convent of San Francesco in Pordenone. The display is one of a cycle of exhibitions that have been put on to celebrate the eightieth birthday and sixtieth year of the career of this great master. The first show, “Elio Ciol. The Neorealism Years”, was held in Villa Manin in Passariano and was the subject of a book, also published by Allemandi. Focusing on the early years of Ciol’s career, and with a wealth of previously unpublished works, it explored the years in which the Friuli artist carried out his initial studies and formed his artistic language. The second, “The Etched Light”, was held in the Centro Studi Pier Paolo Pasolini in Casarsa, the house where Pasolini lived as a boy. It showed the landscapes that Elio Ciol made in Friuli as part of his research into the use of black and white and which became the most famous part of his work. “The face and the word” explores an area that has not previously been shown in exhibitions of Ciol’s work: his reinterpretation of works of art and, in this particular case, of the frescoes in the Basilica of Assisi. It is worth remembering that the documentation of artistic heritage is one aspect of Ciol’s professional activities. Years of work in this sector have led to the creation of an archive that is a cultural heritage in its own right, both in terms of the extent and completeness of its documentation, and because some of the works have since disappeared or have been profoundly changed by traumatic events. The art form we see in “The face and the word” is not simply one of documentation, in the sense that from the moment they are taken, these images are seen as a reinterpretation and an overlapping of languages - that of painting and, with its cuts and elisions, that of photography. And yet there are links and interconnections between these two activities: that of documenting and that of interpreting. Examples might include our habit of relating to works in the history of art, or our custom of tackling technical problems, such as maintaining reliable standards for the reproduction of colour. This brief introduction would not be complete without mentioning the role that photography has had on the development of art-history studies. Not all works of art are easily accessible and viewable, and in some cases there are logistical problems that make them difficult to examine. Ever since the introduction of photography, the reproduction of art has been one of its main themes, and it is no coincidence that the great cities of Italian art - Venice, Rome, Florence, and Naples - all had their own great photographic studios as early as 1860. In other words, since photography was in its infancy. The first aim of these studios was to provide art lovers on the Grand Tour with albums or individual pictures of the greatest works of art. Right from the outset, reproduction necessarily became an interpretation by the photographer, especially in the case of sculpture. It did not take long for
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scholars to realise that photographs could provide them with fundamental support for their work. In particular, the examination of significant details proved to be of huge assistance to them in their work of cataloguing and attribution. By the end of the nineteenth century, photo archives had already become standard in research and study centres in Germany, Britain, and the United States. This is how Aby Warburg was able to lay the foundations of iconology in the early twentieth century: comparing iconographic themes from different ages was possible only by making intensive use of photographic documentation. The Mnemosyne Atlas, the most exciting work that Warburg left us, is indeed more than anything an album of works reproduced photographically. From Bernard Berenson to Federico Zeri, countless scholars have left substantial personal archives, which have become important reference works. Berenson’s Elenca are a systematic attempt to bring order, and they constitute the quintessential catalogue of Italian Renaissance painting. His approach might be debated for various reasons today, but it nevertheless remains a monument to the contribution of photography to the study of art. In more recent times, improvements in shooting and printing techniques have made it possible to achieve ever greater levels of quality, compensating for one of the effects of mass tourism, which is that time limits are now put on access to many works. The most famous case is that of Leonardo’s The Last Supper, but an increasing number of exhibitions are subject to limited viewing times, simply because the impact of large numbers of visitors may have a detrimental effect on the masterpieces. In the short time that visitors are allowed to visit the Scrovegni Chapel in Padua, for example, it would be impossible to examine the details of the panels higher up on the walls, even with the use of a telescope. In many cases, viewing is made difficult by the physical position of the works. And this is true not only of frescoes, for one need only think of the statues on mediaeval cathedrals. Photographs thus supplement direct viewing, and they become a language in themselves. Behind these mechanisms there is also the circulation of works in popular culture and the creation of authentic icons, with all the distorting potential that this may have. In any case, even this aspect demonstrates the intense relationship between our artistic heritage and its prime vehicle of reproduction, which is photography. And this is where Ciol starts out from, working on these themes in “The face and the word” and raising them up to a higher and more complex level of artistic intervention.
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Il commento infinito. Lingua e spiritualità delle immagini massimo carboni
Se un San Francesco nostro contemporaneo avesse oggi bisogno di fare sua, nel modo più stretto, tutta la miseria del mondo, dovrebbe sposare un’ebrea di Cernowitz. Hermann Hesse, 1941
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a civiltà e la cultura occidentali sono dominate dal modello del segno e del pensiero verbale. Proponendo il suo commento per immagini alle immagini dei freschi assisiati e ai loro spazi senza parola, mettendo in primo piano quello che potrebbe a buon diritto chiamarsi il «magistero interpretativo dell’occhio», e cioè, nel suo caso, l’analisi plastica, la vivezza indagatrice della raffigurazione, del taglio e del montaggio fotografici, Elio Ciol pone di nuovo - con ammirevole qualità di risultati - il problema cruciale dell’autonomia del visibile e del fare artistico rispetto alla giurisdizione filosofica e al prestigio intellettuale del discorso e della scrittura, alla credibilità comunicativa e semiotica del concetto, della parola, del linguaggio verbale: dai quali il pensiero così siamo abituati a credere noi greci, noi occidentali - sembrerebbe assolutamente inseparabile. Dobbiamo perciò spingere più a fondo il problema; anzi dobbiamo porlo con la maggiore radicalità possibile se intendiamo cavarvi qualche frutto. L’arte può davvero interpretare se stessa? Può fare a meno della critica e del suo linguaggio fatalmente infedele nel tentativo che le è proprio di riformulare l’immediatezza, la flagranza visiva dell’opera? Sguardo e sapere, nella cultura occidentale, non hanno lo stesso statuto: non possono descriversi reciprocamente in modo esaustivo. Resta uno scarto, un residuo incombusto che sta a segnalare il nucleo di intraducibilità dell’uno nell’altro. E basti qui ricordare la grande lezione di Michel Foucault: «Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice». Non è forse anche l’immagine - dunque la pratica artistica o comunque la pratica visuale - un mezzo, uno strumento di conoscenza, anche se con proprie e specifiche e indelegabili modalità, non unicamente né strettamente cognitive? Può essere messa al servizio della strumentalità interpretativa anche l’espressività figurale? Se il Vero non si identifica totalmente con la conoscenza scientifica, con il rigore della legge universale, allora anche l’arte è un’esperienza di verità. Fino a che punto, dunque, l’attività visiva è conoscitivamente adeguata a se stessa così da potersi, per dir così, autodecifrare? Sono questi, innegabilmente, i problemi e gli interrogativi che con il suo lavoro sui freschi assisiati Ciol rilancia e approfondisce. D’altra parte, la convinzione circa l’esistenza autonoma di un pensiero visivo nell’ambito della produzione del senso appartiene prima di tutto agli stessi presupposti dell’operare artistico e alla sua autoconsapevolezza intellettuale e produttiva. Ma autoconsapevolezza può davvero significare autosufficienza, come sembrava credere Constantin Brancusi? «A che serve la critica?», si 18
chiedeva il grande scultore, «Perché scrivere? Non è sufficiente mostrare le fotografie delle opere?». Ma di nuovo: l’immagine è realmente in grado di autoaccertarsi, può davvero interpretare se stessa facendo a meno dell’ausilio della parola? Con il suo lavoro, Ciol, anche se forse vi scommette, non risponde a queste domande, non gli compete: sviluppa però, e con grande lucidità concettuale e operativa, le questioni che sono sottese al confronto tra ordine del visibile e ordine del dicibile, tra visione e linguaggio. E ne articola di nuovo i frangenti. In fondo l’arte (basterebbe pensare a Leonardo) ha sempre rivendicato la capacità autoriflessiva di mettere a tema se stessa, dunque di mostrare - nell’ambito dell’autonomia del fare visuale - una sua intrinseca criticità. E ciò naturalmente (e forse a fortiori) vale anche per il Musicale. Quando, durante una serata tra amici, qualcuno chiese a Schumann di spiegare un étude che aveva appena eseguito, il compositore, in silenzio, si sedette al pianoforte e lo suonò di nuovo. Presentando le Sechs bagatellen del suo grande allievo Anton Webern, Schönberg affermava che la loro autentica comprensione sarebbe stata affidata soltanto a coloro che avrebbero avuto fede nella possibilità di esprimere mediante suoni qualcosa che «solo con i suoni» può esprimersi. La musica infatti - da questo punto di vista, analogamente alla pittura - si identifica con il proprio accadere; il suo contenuto di senso è inseparabile dalla sua realizzazione. «Interpretare la lingua significa comprenderla; interpretare la musica, significa fare musica», diceva Adorno. La miglior lettura dell’arte è dunque l’arte stessa? La forma più appropriata di giudizio, di interpretazione, di commento coinciderebbe dunque con l’autocomprensione del lavoro artistico nel suo stesso svolgersi? Come che sia, è certo che una delle ragioni che depongono a favore dell’autonomia dell’opera d’arte e della sua valenza gnoseologica risiede, forse paradossalmente, nel fatto che essa è il risultato - beninteso costantemente in fieri, cioè mai definitivo - di un comportamento, di un gesto di tipo essenzialmente tecnico-operativo: di un «percorso» (e qui il caso di Ciol è chiarissimo, perfettamente appropriato) e non di un «discorso». Solo una volta sganciata, liberata l’attività visiva, la produzione simbolica non verbale, dall’ipoteca del modello linguistico, si apre la possibilità di considerarne i processi formativi del senso come luoghi di un autentico e non dimidiato sapere-pensiero in cui si intrecciano le dimensioni dell’intelligenza e della sensibilità, dell’interpretazione e dell’espressione immaginativa. D’altronde appare del tutto scontato e pacifico il fatto che le diverse esecuzioni di un brano musicale (che, giustappunto, non esiste se non viene eseguito), oppure la riduzione cinematografica di un romanzo, oppure ancora l’allestimento scenico e la regia di un testo teatrale, implicano non soltanto dimensioni creativo-espressive, ma anche l’applicazione di protocolli critico-conoscitivi attraverso forme di comprensione operativa e di riflessione produttiva (esattamente come quelle innescate da Ciol nel suo lavoro fotografico sulla pittura) che eccepiscono dal paradigma verbale e dalla comunicazione linguistica. 19
Da questo specifico punto d’osservazione, un’immagine può interpretare un’altra immagine, un’opera d’arte può perfettamente «commentare» un’altra opera d’arte, perché l’arte è sempre in ascolto di se stessa. D’altronde, se ci pensiamo bene, lo stesso succedersi diacronico degli stili - l’uno che decostruisce i precedenti - e delle epoche artistiche le une dalle altre, lo stesso aprirsi dell’ambito storico come uno spazio transitabile in ogni senso, in cui ha luogo il reciproco dialogare delle opere e delle correnti, tutto questo rivela già di per sé l’esplicitarsi di un’interna componente (auto)critica dell’attività artistica. Si anima in tal modo una linea di fuga da quella poderosa, apparentemente infrangibile e indiscutibile simbiosi tra conoscenza e discorso, sapere e linguaggio verbale: si può comprendere-intepretare anche «via» immagine. Concepire quindi l’attività artistica come una forma di commento non verbale significa concepirla come perpetua decostruzione di se stessa: la storia dell’arte coincide con la propria continua, instancabile riformulazione. Ad eccezione dell’«Entrata del Santo ad Assisi» - collocata all’inizio del ciclo di affreschi, ma che in realtà fu eseguita per ultima - le varie scene delle «Storie di san Francesco» sono state dipinte seguendo l’ordine del racconto. Anche da qui discende l’innegabile, evidente unità decorativa della chiesa superiore. Se si tiene in debito conto questo dato inoppugnabile quanto determinante, e cioè che i freschi vennero appunto eseguiti uno dopo l’altro nella stessa successione narrativa stabilita dalla fonte letteraria - la Legenda maior di san Bonaventura -, si capisce certamente quanto significativo e di grande impatto appaia il «montaggio» che vi ha operato Ciol: che sconnette e riconnette, separa e collega, spartisce e ridistribuisce, scompiglia e riordina. Eppure, sempre e costantemente nel rispetto profondo del testo originario. Ed è necessario aggiungere subito che è proprio l’applicazione intelligente e sensibile del principio del montaggio a distanziare questa impresa da ogni altra di intento genericamente didattico, realizzata, in modo anche tecnicamente perfetto, a scopo illustrativo. Quello che dobbiamo sottolineare e mettere in luce prima di tutto è la misura penetrante in cui Ciol, con il suo lavoro fotografico, mostra di aver compreso quanto, con il superbo corpus assisiate, la «nuova pittura» che inaugura l’arte italiana sia battezzata come racconto, strumento di narrazione: discorso, dal latino dis-cursus, cioè qualcosa che si dipana, e dipanandosi corre verso la conclusione. Insomma, una vera e propria «scrittura figurativa», in cui ogni singola unità visiva, ogni immagine, appare autosufficiente, ma al contempo si collega alle altre per sviluppare il filo conduttore della historia. Come scrive Cennino Cennini ne Il libro dell’arte, Giotto rinnovò la pittura trasformandone la «lingua», perché «rimutò l’arte del dipignere di greco in latino, e ridusse al moderno». E non è certo un caso se per Hermann Hesse la pittura di Giotto è «un’eco della voce di Francesco», voce in cui, di nuovo dopo Gesù, la parola si fa comunità. Con Giotto la figura umana, caratterizzata dalla sua propria mimica «attoriale», diventa per la prima volta nella storia della pittura uno strumento del pensiero visivo. In funzione dell’organizzazione drammatica del racconto, egli introduce nell’ars pingendi occidentale la gestualità comunicativa, la pantomima regolata che contribuisce a sviluppare, a portare avanti la fabula in cui è inserita. Da qui, e di nuovo, l’equilibrio sommo tra l’unitarietà figurativa dell’insieme e l’intreccio tra le singole parti. Aggiungiamo che, per così dire, noi ci associamo a questo respiro unitario e quindi - per comprensibili ragioni di unità sia metodologica sia tematica - ci limiteremo a trarre la maggior parte degli esempi figurativi concreti proprio dai prelievi che Ciol ha operato sulle «Storie di san Francesco».
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Ciol, abbiamo detto, lavora sul particolare, sul dettaglio dell’immagine: lo ingrandisce, lo sposta, lo lavora, lo riorganizza, lo ridistribuisce. Dobbiamo ora esaminare il criterio concettuale e operativo, poetico e descrittivo con il quale vengono scelti i vari e diversi dettagli da mettere a fuoco nel totale dell’affresco. Non dobbiamo, però, parlare al singolare. Ma al plurale. Perché Ciol segue una molteplicità di «tagli», di direttrici, di criteri secondo i quali effettuare i suoi prelievi. Vediamo alcuni casi esemplificativi dalle «Storie di san Francesco», disponendoci in primo luogo sul piano del livello diegetico, del racconto, e operando al suo interno una distinzione. Da una parte, dobbiamo esaminare i casi in cui Ciol rispetta, segue e riconsegna con le sue foto i punti nodali del racconto visivo. Nei quattro particolari tratti dal «Miracolo della sorgente» (pp. 154-157), si ripropongono tutti i raccordi narrativi dell’episodio: Francesco in preghiera, il paesaggio brullo, l’asino che in groppa ha portato il beato sul monte, l’infermo che si disseta alla fonte apparsa per sortilegio. L’intervento di Ciol, in questo caso, è di tipo ricostruttivo, restituisce attraverso alcuni dettagli ben scelti e collocati in successione logica ciò che il totale ci offre in un’unica presa ottica. Così è per l’«Accertamento delle stimmate» (pp. 171-173): messer Geronimo, medico e letterato, che nella Porziuncola esplora il corpo senza vita del santo onde accertare la veridicità del prodigio; gli astanti - i frati e il popolo laico - che seguono l’operazione, alcuni attoniti alcuni salmodiando. Due sono i fuochi narrativi del fresco, due sono i temi prelevati in dettaglio fotografico. Così, ancora, è per «La predica agli uccelli». E forse con maggiore evidenza. Due prelievi sono sufficienti: Francesco e un uccello che svolazza libero nel suo ambiente naturale, e il fulcro dell’episodio viene con sintetica chiarezza restituito nella sua estrema, poetica semplicità. Simplex sigillum veri. Talvolta Ciol, isolandoli dal contesto, sottolinea ed enfatizza motivi drammatici o fabulistici certo già presenti nel testo originario, ma, per dir così, diluiti nell’insieme narrativo. Nei primi due prelievi dei quattro dalla «Predica di fronte a Onorio III» (pp. 164-167), i volti di Francesco e del pontefice si affrontano senza più intermediari. Il taglio dell’immagine è solo e intensamente psicologico, tanto che il già forte vigore espressivo di Onorio, pensosamente intento ad ascoltare Francesco in ispirazione divina, appare rafforzato e intensificato nel dettaglio fotografico che lo trasforma in un vero e proprio ritratto. Come sviluppandone e mettendone a giorno la vocazione segreta. Avevamo accennato a una possibile distinzione in ordine al criterio adottato sul piano narrativo per effettuare i prelievi. Il versante della restituzione sintetica ma diegeticamente fedele al testo - di cui finora abbiamo detto - non è infatti l’unico che ci si presenta. Ve ne è un altro: e significativamente di natura opposta, dove cioè il nucleo stesso della historia nel prelievo scompare, viene abolito. Dell’episodio raffigurato ne «Il dono del mantello a un povero» (pp. 124-125), nei due prelievi di Ciol non resta nulla. Il passaggio, e con esso il mutamento, è radicale. Le immagini sono completamente de-narrativizzate, non c’è più il povero non c’è più il mantello. Come restasse solo il «dono»: quello del visibile stesso che si offre loquacemente muto al nostro sguardo. Ma c’è di più. Le due foto vengono montate in una successione tale che Francesco risulta guardare non il povero - com’è logico secondo l’aneddoto, com’è in Giotto - ma proprio il versante montuoso digradante verso la sua aureola, che nel testo d’origine
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si trova invece alle sue spalle. Probabilmente è questo il prelievo dove l’azione ridistributrice del montaggio abbandona ogni sia pur lontana intenzionalità «didattica», e si presenta in maniera effettualmente più coraggiosa, radicale e, aggiungiamo, forse più densamente poetica. Dall’«Apparizione di san Francesco al capitolo di Arles» (pp. 168-169) vengono estratti due dettagli. Nell’aula gotica di un convento, Francesco, benché assente corporalmente, appare al gruppo di religiosi raccolti in ascolto della predica del beato Antonio sul tema della Croce. Ma nelle foto di Ciol non v’è traccia dell’evento miracoloso. Si vedono soltanto due frati, tranquilli, uno quasi sonnecchiante, del tutto ignari di ciò che di prodigioso sta accadendo in loro presenza. Il nucleo stesso della fabula è scomparso, abolito. Analogamente per «L’estasi di san Francesco» (pp. 146-147). Ciol non mostra la traslazione celeste, cioè Francesco che si solleva da terra tanto fervido e intenso è il suo raccoglimento nella preghiera. Mostra soltanto la reazione (stavolta sì) dei fratelli che assistono, la loro sorpresa, forse il loro sconvolgimento: ma non il miracolo che questi sentimenti origina, non il fulcro del racconto. Lo stesso per «I frati vedono san Francesco sul carro di fuoco» (pp. 140-141). Il nucleo della historia, l’accadimento è tagliato fuori, se ne vedono solo gli effetti sugli astanti. Difficile giudicare se si tratti di una coincidenza. Fatto sta che negli ultimi tre casi che abbiamo riportato, il conquibus narrativo escluso dal prelievo coincide con un evento miracoloso, con una visio mystica. Come a dire: Francesco non è il santo del rapimento individuale e solipsistico che trascende la realtà concreta bruciandone i confini, che valica e vanifica il finito per confondersi e perdersi nell’infinito; Francesco è il santo del sublime quotidiano che nel qui e ora del finito accende la scintilla dell’infinito, che nel limite spalanca in gloria l’illimite. Da il «Sogno di Innocenzo III» (pp. 134-137), Ciol ricava quattro immagini spartite in duplice coppia. La prima e la quarta sono ricavate dallo scomparto dell’affresco in cui si vede il beato sorreggere la basilica; la seconda e la terza, dalla sezione destra con il pontefice dormiente. Nel primo prelievo, lo spazio sembra ridursi, comprimersi e alla fine identificarsi con gli oggetti che lo affollano: una porzione dell’edicola dove Innocenzo riposa, con i suoi elementi architettonici, le colonne e i pinnacoli, le fasce decorative e le statue ornamentali, sipari di tessuto che si aprono e sipari che si chiudono. Poi, Francesco che, come materializzando il sogno del papa, sostiene la periclitante basilica lateranense: e ancora trabeazioni, tegole, il campanile, elementi struttivi e decorativi. Nell’abbreviata e quasi ansimante contrazione spaziale conseguente al taglio visivo praticato da Ciol nel totale giottesco, gli oggetti assiepati sembrano spingersi l’uno verso l’altro, l’uno contro l’altro: quasi che lo spazio stesso, senza questi volumi, senza questi corpi geometrici, non potesse dispiegarsi e aprirsi a se stesso e, per ospitarle, alle cose. La quarta immagine della serie riprende la prima concentrando l’obiettivo sulla figura di Francesco con un repentino blow up. Anche qui gli elementi figurativi s’infittiscono, e anzi per certi aspetti sembrano stringere ancora di più le maglie proprio in virtù dell’ingrandimento operato sull’immagine giottesca. Eppure, nello stesso tempo, il senso di assiepamento spaziale è alleggerito e quasi interamente stornato a causa di quella «rima interna» all’immagine creata dalla forma circolare del medaglione nella fascia decorativa, che ripete come
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un’eco visiva l’aureola di Francesco: ed entrambi i cerchi, inoltre, contengono un volto, un’effigie umana. All’interno dell’altra coppia della serie estratta dal «Sogno di Innocenzo III», cioè a dire tra la seconda e la terza immagine di Ciol, non si stabilisce invece alcun tipo di relazione, tanto che potrebbero derivare da due scomparti o luoghi differenti del ciclo pittorico assisiate. Ancor più notevole quindi che un rapporto si instauri con una delle immagini, la quarta e ultima della serie, appartenenti alla prima coppia: infatti lo sguardo del vecchio canuto che nel fresco veglia sul sonno del pontefice, ora invece, nel montaggio che ridistribuisce l’ordine spaziale, è rivolto - come rapito, attratto e calamitato da una potenza invincibile - verso Francesco. Così che l’immagine in cui compare Innocenzo III nel suo letto purpureo, resta isolata dall’insieme e sembra non le sia affidata alcuna funzione da svolgere. Invece non è così, perché proprio con la sua battuta «in levare» quindi «vuota», essa «ritma» il «pieno» della sequenza e, come in una frase musicale, è l’intervallo, la pausa che scandisce in contrappunto la relazione armonica di reciproco rinvio tra le altre note, tra le altre immagini. Dobbiamo ora fare una necessaria diversione se vogliamo comprendere davvero a fondo lo spirito autentico che guida il lavoro di Ciol. Il Volto e la Parola, certo. Ma anche: il Volto «è» la Parola. Non è nemmeno pensabile ricostruire qui la dialettica, anzi alla lettera il «dramma» che si sviluppa tra parola e immagine nella teologia dell’icona e più in generale nella spiritualità cristiana. Ma sarebbe altrettanto improprio non accennare neanche a questo tema così decisivo all’interno del plesso concettuale, spirituale e poetico dell’operazione di Ciol. Potremo soltanto limitarci a evocare alcune tra le questioni che più marcatamente sembrano essere coinvolte in questa operazione di commento visivo sui freschi assisiati. Nell’Antico Testamento si sviluppa una continua, drammatica contrapposizione tra la possibilità e l’impossibilità di vedere sensibilmente il volto divino. Non è un caso che la sfera della parola, del linguaggio umano - in cui soffia ruah, lo spirito - e quella dell’immagine - in cui più incombente si appressa il rischio dell’idolatria - vi si richiamano e vi si intrecciano a vicenda in quanto aspetti diversi ma complementari di un’unica rivelazione. Mosè, dopo averne ascoltato la voce che proveniva dal roveto ardente, vide sì Dio: ma solo di spalle (Es 33, 18-26). «Io ti conoscevo per sentito dire», esclama Giobbe all’indirizzo di Jahvè, «ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5). Si potrebbero fare centinaia di altri esempi testuali. Al di là di tale dialettica continuamente rilanciata, però, resta che l’evento e l’avvento dell’inaccessibile, il luogo dell’apparizione gloriosa, persistono nella distanza e nella trascendenza incolmabile tra il creatore e la creatura. È questa la convinzione teologica indistruttibile della Bibbia. Così rimarrà per l’ebraismo e per l’islam: da qui l’insorpassata interdizione a raffigurare la divinità. L’immensa, scandalosa novità del mysterium cristiano sta nel fatto che la verità e la via non sono più da cercare nella pura, invisibile, inattingibile trascendenza che si offre unicamente nella lettera. Cristo non «dice», non «racconta», ma «è» la verità e la via. Appunto: non solo il volto e la parola, ma il volto «è» la parola. Perché incarnandosi, Dio ha fatto kenosis: l’infinito si è umiliato, abbassato, depotenziato per venire incontro all’essere umano finito, farsi da lui comprendere e salvarlo. E lo ha fatto non procedendo - secondo la distinzione di derivazione aristotelica - dalla sua ousia-essenza, che rimane insondabile, imperscrutabile, inattingibile, ma in virtù della sua energheia-energia, cioè in virtù della sua capacità di produrre opere: esercitando la sua
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libera volontà d’amore. Il Dio dei cristiani, dunque, si è dato e ha offerto un volto. In Cristo Figlio dell’Uomo - immutabile «impronta» (Eb 1,3) e «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15) - riluce il «volto comune» già da sempre spartito tra tutti gli esseri umani, nati «a sua immagine», a immagine di Dio. Questo è il fondamento cristologico dell’icona e più in generale della possibilità di ri-presentare dunque rap-presentare ciò che di Dio si è già una volta in Gesù presentato ai sensi. Durante le dotte e insieme sanguinose controversie iconoclaste, nella «possibilità» dell’immagine la Chiesa cristiana ha quindi difeso la sua stessa ragione costitutiva. La raffigurazione antropomorfa del Cristo, e dunque il suo volto, è stata resa possibile dal Canone 82 del Concilio Quinisesto in Trullo tenuto nel 692 sotto Giustiniano II, che abolisce la rappresentazione dell’agnus dei come simbolo del Salvatore: «Affinché quindi anche con l’espressione dei colori sia posto sotto gli occhi di tutti ciò che è perfetto, comandiamo che da ora innanzi, invece dell’antico agnello, il carattere di colui che toglie i peccati del mondo, cioè di Cristo nostro Dio, sia dipinto e raffigurato sotto forma umana». Ma attenzione. Quella trascendenza in cui permangono ebraismo e islam, non viene nel cristianesimo semplicemente colmata dunque annullata: non sarebbe altrimenti fede «nelle cose invisibili». Il volto non abolisce la distanza, piuttosto la custodisce dentro di sé «in quanto tale», cioè presentifica l’oltre, manifesta il trascendente; pur conservandone il mistero, non mantiene con esso un rapporto immediatamente negativo di reciproca esclusione. Cristo Figlio di Dio è icona vivente e perfettissima del Padre. Nel suo volto, quello invisibile di chi lo ha mandato appare inseparabile. È il mistero della filiazione, in cui ancora e sempre inestricabilmente si intrecciano differenza e medesimezza. Ed ecco perché «chi vede me vede il Padre» (Giov 14,9). Nato da Padre indescrivibile e irraffigurabile ma incarnato da Madre descrivibile e raffigurabile: è questa la condizione teandrica - sia divina sia umana in uno - di Gesù il Cristo, condizione che permette di rappresentarne il volto, l’intero corpo. Da qui, il grandioso, epocale sviluppo dell’arte cristiana, conseguenza diretta della sconfitta del movimento iconoclasta cresciuto in seno alla stessa comunità ecclesiale, sconfitta storica avvenuta dopo una lunga, sofferta diatriba con continui rovesciamenti di fronte, durante la quale le immagini erano diventate una posta politica altissima. Una controversia che ha dato modo di approfondire - nella grande patristica del tempo intrisa di neoplatonismo - i presupposti teologici e filosofici della fede in Cristo. È noto infatti che fu la Chiesa cristiana d’Oriente - investita in due riprese dalla violenza della crisi - a sviluppare e approfondire con inarrivabile raffinatezza filosofica il tema dell’immagine e della possibilità di rappresentare pittoricamente il divino, fino a imbastire quella che a buon diritto potremmo forse chiamare una vera e propria «teologia iconografica». La seconda Persona della Trinità non si manifesta dunque in Gesù soltanto per mezzo di parole e dichiarazioni verbali. Da una rivelazione mediante il linguaggio si passa a una rivelazione che si serve anche dell’intera sfera iconica: quello di Gesù è un «visibile parlare». Allo stesso modo che la parola scritta è un’immagine, l’immagine è anche una parola da comprendere. «Noi vediamo sempre attraverso una parola e attraverso un’immagine», scrive Giovanni Damasceno nel Primo Discorso sulla Difesa delle immagini sacre. Per questo, l’agire stesso del Figlio è icona del Padre. Da ciò discende che quando si fa il segno della croce, il fedele in Cristo diventa parola in atto e immagine parlata, geroglifico sacro e lui stesso icona vivente. Come, secondo l’Antico Testamento, il nome di Dio è uno dei luoghi del suo rendersi presente all’essere umano, così la sua raffigurazione pittorica in Cristo è il suo nome disegnato e colorato. Il nome di Dio è la sua figura parlata, la sua icona verbale, ed è proprio per questo
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che non lo si può pronunciare invano. D’altra parte già Giovanni, nel suo celeberrimo incipit, ci dà testimonianza del carattere visivo della Parola: accanto e insieme all’ordine dell’intelligibile si dischiude l’ordine del visibile. E i puri di cuore sono beati non perché «ascolteranno» ma perché «vedranno» Dio, in una visione sfolgorante di luci, forme e colori che parlano plasticamente, che raccontano cromaticamente. Fin dai suoi inizi storico-spirituali, la Chiesa ha cercato di elaborare, attraverso la scelta di un repertorio di simboli visivi, un codice comunicativo che potesse esprimere figurativamente la medesima verità del logos sacro. Nell’economia complessiva della salvezza, linguaggio e visione, ordine dell’intelligibile e ordine del visibile cooperano e sviluppano una comune azione redentrice. Scrivono i Padri del IV Concilio di Costantinopoli (869-870), quello che finalmente chiude con la vittoria definitiva dell’Ortodossia la controversia iconoclasta: «Prescriviamo che davanti alla sacra icona di nostro Signore Gesù Cristo ci si prostri così come si fa davanti al libro dei Santi Evangeli. Come infatti tutti otteniamo salvezza dalle lettere portate in esso, allo stesso modo tutti, letterati o analfabeti, ricevono la loro parte di beneficio dall’energia iconica dei colori che sono a loro disposizione, poiché quello che la parola-logos annuncia e rende presente con i suoni, lo stesso il disegno annuncia e rende presente con i colori». Ma già negli scritti dei Padri della Cappadocia - alla seconda metà del iv secolo - vi sono affermazioni inequivocabili sul parallelismo tra l’ordine del verbale e l’ordine del visivo: la pittura - in Basilio, in Gregorio di Nissa - è precisamente quella lingua non scritta che non soltanto supplisce ma vivifica e intensifica l’immagine incompleta della scrittura, continuando silenziosamente a parlare quando le parole tacciono. «Ciò che da un lato è rappresentato dall’inchiostro e dalla carta, dall’altro è rappresentato sull’icona da diversi colori e da altri materiali»: lo scrive il grande monaco Teodoro Studita, ma è un concetto che avrebbe potuto essere espresso da Gregorio di Nazianzo o da Giovanni Crisostomo, dal patriarca Niceforo o dallo stesso Giovanni Damasceno. La materialità della scrittura e del suo apparato tecnologico, che veicola l’intelligibile, si trova in rapporto costante con la materialità dell’immagine dipinta, che veicola il visibile: è da questo chiasmo, da questo incrocio virtuoso che prende origine l’ulteriorità prima del simbolo poi del volto, la rappresentazione della trascendenza sacra, la possibilità stessa di un’arte cristiana. Nell’annuncio vi è dunque perfetta osmosi e identità di raffigurazione e scrittura, visione e linguaggio: ecco perché il Volto e/è la Parola. Ed è proprio questo profondo, spirituale intreccio che Ciol mette a frutto e mette all’opera. Torniamo ora più dettagliatamente al suo complesso montaggio visivo, anche se in verità non ne abbiamo mai abbandonato l’esigenza. Il criterio che guida i prelievi d’immagine non è sempre ed esclusivamente sintonizzato sul registro narrativo o su quello psicologico - di cui abbiamo già parlato - del rapporto tra i personaggi della historia. Troviamo infatti impegnato anche il livello squisitamente formale, il piano stilistico-strutturale dell’organizzazione, della composizione e dell’impaginazione pittorica giottesca. Scegliamo alcuni esempi tra gli altri possibili. In un fotogramma della serie di quattro estratta da «La rinuncia dei beni» (pp. 130-133), viene messo a fuoco uno dei problemi formali e compositivi che nel ciclo assisiate vengono affrontati aprendo una nuova fase nello sviluppo della prospettiva empirica pre-albertiana. Il problema è quello della rappresentazione in obliquo dei solidi e in particolare degli oggetti cubici come gli
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edifici e altri manufatti architettonici. Ciol individua e isola una costruzione che si trova in alto a sinistra nel fresco: la porta in primo piano, ne fa la protagonista dell’immagine fino a oscurare la miracolosa presenza della mano divina che - collocata sul medesimo asse ottico delle mani giunte del santo - appare dal cielo a benedire la scelta radicale di Francesco, il suo ripudio del mondo. Con questa operazione, Ciol mostra di aver compreso la scelta compositiva di Giotto, che è quella non di connettere spazialmente ma di isolare ciascun blocco architettonico dagli altri consimili, considerandolo quindi in termini scultorei, statuari, oggettuali. Ulteriore conferma, il particolare dell’edicola estratto dalla «Prova del fuoco davanti al sultano» (pp. 144-145). Nessuna delle superfici di questo segmento di scenografia solida è - ne «La rinuncia dei beni» - parallela al piano di posa, perché i volumi di cui è assemblato (pareti, aggetti, scale, edicole) sono tutti resi obliquamente. L’effetto è duplice: le facce dei solidi retrocedono allontanandosi dalla superficie della rappresentazione (quindi dallo sguardo dello spettatore); e l’oggetto con i suoi spigoli e in iscorcio sembra, di conseguenza, fieramente proiettarsi e spingere a mo’ di cuneo contro il piano della parete come volesse infrangerlo, abbandonare l’illusoria spazialità pittorica e conquistare lo spazio reale. Altro esempio, analogo e parimenti indicativo di una delle direttrici - quella appunto dell’innesto strutturale e formale-compositivo - del lavoro di Ciol. Della «Cacciata dei diavoli da Arezzo» (pp. 142-143), egli condensa in due prese visive l’aneddoto: nella prima, il gesto ieratico di Francesco; nella seconda, i mostri che fuggono dalla città. Ed è questa ad attrarre l’interesse. Prima osservazione. Lo zoom sugli edifici torreggianti permette di evidenziare un dato formale importante. Il cielo verso il quale sfuggono sconfitti i diavoli né agisce da fondale della scena, né indica una rarefatta dispersione atmosferica, e nemmeno dà vita a una spazialità ambientale che in continuità plastica e cromatica accolga e coordini oggetti e personaggi. Il cielo - così come nell’intero ciclo assisiate - acquisisce invece un valore di vera e propria massa solida e compatta che si immette e gravita e conquista quasi di forza il suo posto tra gli elementi della composizione. Così è in «Il dono del mantello a un povero». Così è nella «Fuga in Egitto» (pp. 60-63) della Basilica inferiore (e Ciol se ne avvede e lo evidenzia). Così è qui. A riprova evidente, si osservi come quell’azzurro si insinua, si infiltra compatto come un liquido a pronta presa tra i profili geometricamente scanditi delle costruzioni, quasi a coagulare in positivo - con un supplementare effetto concavo-convesso - il negativo subito contraddetto della distanza tra una torre e l’altra. Seconda osservazione. Come viene rappresentata la città di Arezzo? Gli edifici assiepati in diagonale nascondono totalmente le strade e le vie. Gli spazi che separano le case sono scomparsi, tanto in iscorcio (e non in profondità come nelle prospettive urbane rinascimentali) sono giustapposti i solidi torreggianti dalla cubatura netta e affilata, che con la lama dei loro spigoli vivi quasi squillanti in metallo (si veda, si «ascolti» la torre bianca in primo piano) sembrano voler squarciare, anche qui, la superficie della parete. Torniamo così al punctum. Il tipo di prelievo figurativo operato da Ciol si basa sulla consapevolezza di questo snodo cruciale, che si trova nel suo dettaglio fotografico sottolineato, enfatizzato, portato in prima evidenza. E lo snodo cruciale, naturalmente, riguarda il conflitto, il dramma che si apre tra supporto fisico e sfondamento prospettico-illusivo, superficie materiale o piano di posa e rappresentazione geometrica in (e della) profondità, tra mondo reale e forma pittorica, che con Giotto, dopo il linearismo gotico e la bidimensionalità bizantina, riprende campo e muove i suoi primi, potenti e imprescindibili passi; questo conflitto
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dunque si sviluppa, questo dramma si inscena lungo tutta la parabola dell’arte occidentale: ne costituisce il nerbo, l’ossatura profonda, e arriva fino a Cézanne, a Matisse e a Braque. Ma parte da qui, da Assisi. Ma l’intervento di Ciol non si presenta sempre consentaneo ai caratteri stilistici del testo di partenza, non sempre ne segue, conferma o enfatizza le direttrici formali e compositive. Ed è per questo che il suo trattamento fotografico - se osservato con l’attenzione che merita - può rivelarsi talora anche sorprendente nella sua fruttuosa, difforme molteplicità di indirizzi. Prendiamo la «Conferma della Regola» (pp. 138-139), da cui vengono estratti due particolari. In questo affresco, il realismo spaziale di un interno visto frontalmente raggiunge il suo apice - per quanto riguarda il pieno padroneggiamento dei mezzi tecnici e la credibilità dei risultati in termini di congruità realistica - nell’ambito dell’intero ciclo pittorico di Assisi. La precisione delle ortogonali, taluna distinta e come siglata con particolari colori; la coerenza e la chiarezza plastica con cui è reso il gruppo in duplice schiera del papa e dei prelati al suo seguito; la sezione superiore che (nonostante la leggera imprecisione nello scorcio delle due coppie di archetti laterali) sembra una lezione di prospettiva scientifica applicata alla rappresentazione del tema canonico del soffitto con volte e peducci. Ebbene, proprio qui, nel punto forse più avanzato raggiunto ad Assisi sulla strada della conquista della profondità, del realismo e della coerenza spaziale, Ciol decide di operare in controtendenza, così come già lo abbiamo visto fare sul piano della logica narrativa. In quale modo? La sontuosa aula in cui si svolge la cerimonia ha le pareti tappezzate di preziose stoffe decorate con una prevalenza di motivi cerchiati. È precisamente questo l’elemento che Ciol sceglie di promuovere ed emancipare nei suoi dettagli fotografici: con il risultato di ribaltare in superficie la profondità prospettico-spaziale d’origine e di schiacciare sul piano le figure indebolendone il rilievo plastico e volumetrico, come per associare quei volti e quelle vesti al fondo decorato, quasi trasformandone la massa in motivo ornamentale. Può essere significativo, o quantomeno curioso se non sorprendente, ricordare allora che l’interno dell’aula dipinta nel fresco era in origine decorato più riccamente, ma molti ornati eseguiti a secco sono nel tempo andati perduti. Come se Ciol, con la sua scelta formale indirizzata verso i valori di superficie, si ricollegasse più o meno consapevolmente all’altra vocazione, quella oggettuale-decorativa, che ancora resisteva e persisteva in parallelo alla ricerca realistica, e allora tutta moderna, della profondità spaziale. Ed è proprio in questo modo che si conferma ancora una volta che la storia dell’arte «fa testo», cioè «produce» testi sempre disponibili a una rilettura continua, a un’interpretazione infinita. Elio Ciol, con questo lavoro di decostruzione sui freschi assisiati, ha capito che le opere d’arte sono qualcosa di «storico» precisamente perché in ognuna di esse paradossalmente si azzera e ricomincia ex novo la storia dell’arte.
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A Universal Commentary. The Language and Spirituality of Image massimo carboni
If a modern-day Saint Francis ever needed to make all the misery of the world his own, in the strictest sense, he should marry a Jewish woman from Chernivtsi. Hermann Hesse, 1941
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estern civilisation and culture are dominated by the language of sign and verbal thought. Elio Ciol offers a commentary, in the form of images, on the images of the Assisi frescoes, and on their wordless spaces. By doing so, he brings to the fore what might quite rightly be referred to as the “interpretational magisterium of the eye” - in other words, that of his plastic analysis and the investigative vividness of his photographic depiction, framing, and editing. With his superb results, Elio Ciol once again poses the crucial problem of the independence of the visible and of artistic action. He does so with regard to the philosophical jurisdiction and intellectual stature of the message and text, and to the communicative and semiotic credibility of the concept, of the word, and of verbal language. And, as we Greeks - we Westerners - are used to believing, it would seem that thought is indeed quite inseparable from the word. We must therefore go far deeper into the issue, and indeed we must approach it in the most radical way possible if we are to get anything out of it. Can art really interpret itself? Can it really do without criticism and without the inevitably unfaithful language of criticism in its unavoidable attempt to reformulate the immediacy and visual impact of the work? In Western culture, vision and knowledge do not abide by the same laws: they cannot mutually describe each other in a comprehensive manner. There is always a gap between the two - an unburnt residue that points to the untranslatability of both one and the other. Here we need only recall the great lesson taught by Michel Foucault: “one may in vain try to say what one sees: what one sees is never to be found in what one says”. Is it not possibly the image - and thus the creation of art or at least the use of sight - that constitutes a means and instrument of knowledge, even though in its own specific and non-delegable (and not just strictly cognitive) ways? Can figurative expressiveness also be pressed into the service of interpretation? If truth cannot be identified totally with scientific knowledge and with the discipline of universal laws, then art too is an experience of truth. So to what extent is visual activity cognitively suited to itself, to the extent that it can, one might say, “decipher itself”? These are undoubtedly the problems and queries that Ciol takes up again and examines in depth in his work on the Assisi frescoes. But there again, the conviction that visual thought in the production of meaning can have its own independent existence primarily comes from the underlying premises of artistic action and its intellectual and productive self-awareness. But does self-awareness really mean self-sufficiency, as Constantin Brancusi
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would appear to believe? “What use is criticism?”, wondered the great sculptor, “why write? Isn’t it enough simply to show photos of the works?” And again, is the image really capable of ascertaining itself, and can it really interpret itself without the use of the word? Although he quite possibly places his bets on his work, Ciol does not reply to these questions through his actions. This is not his job, but with great conceptual and practical clarity of vision, he does work on the questions that are inherent in the interaction between the order of the visible and the order of the utterable: between vision and language. And once again he outlines the case. Basically (one need only think of Leonardo) art has always asserted its self-analytical ability to become its own theme, and thus to show an intrinsic critical nature within its own autonomy of visual action. And this, possibly a fortiori, is naturally also true of music. During an evening among friends, someone asked Schumann to explain an étude that he had just played: the composer quietly sat down at the piano and played it again. Presenting the Sechs bagatellen by his great pupil Anton Webern, Schönberg maintained that genuine understanding of them could be entrusted only to those who had confidence in the possibility of expressing through sound something that can be expressed “only through sound”. And indeed, from this point of view, like painting, the identity of music is in its occurrence: its meaning is inseparable from its performance. “Interpreting language means understanding it; interpreting music means playing it”, said Adorno. So is art itself the best interpretation of art? Does the most appropriate form of judgement, interpretation, and comment thus coincide with self-comprehension of the artistic work during its unfolding? Whatever it is, it is certain that one of the reasons in favour of the autonomy of the work of art and of its gnosiological value is to be found, possibly paradoxically, in the fact that it is the result (naturally in the making, and thus never definitive) of the behaviour or gesture of an essentially technical and operational nature. It is that of a process (and here the most fitting case of Ciol could not be clearer) rather than a discourse. Only once visual activity and non-verbal symbolic production has been released and freed from the bond of its linguistic model can we consider its formative processes of meaning as places of authentic and non-dimidiated knowledge-thought in which the dimensions of intelligence and sensitivity, interpretation and imaginative expression interweave. Besides, it appears quite natural and clear that the various performances of a piece of music (which does indeed not exist if it is not performed), or the adaptation of a novel into a film, or the staging and directing of a play, not only imply creative-expressive dimensions but also the application of critical-cognitive protocols. These take place through forms of practical understanding and production considerations (just like those triggered by Ciol in his photographic work on painting), which remain outside the verbal paradigm and outside of linguistic communication. 29
From this particular point of observation, one image may interpret another, and one work of art may provide a perfect comment on another, because art always listens to itself. After all, if we examine the matter closely, we have a diachronic succession of styles, in which each one deconstructs the previous ones. We find artistic ages that come one after the other, and the opening up of history as an area that can be traversed in all directions, and in which the interactive dialogue of works and currents takes place. All this reveals the manifestation of an inherent (self-)critical aspect of artistic activity. This creates a means of escape from that robust, apparently unbreakable and unquestionable symbiosis between knowledge and discourse, and between knowledge and verbal language: one can understand-interpret also by means of the image. In other words, conceiving of artistic activity as a form of non-verbal comment means viewing it as a perpetual deconstruction of itself: the history of art coincides with its own constant and indefatigable reformulation. With the exception of “The Entry of the Saint into Assisi”, which comes at the beginning of the cycle of frescoes, but which was actually made last, the various scenes of the “Stories from the Life of Saint Francis” were painted in the order of the actual story. And it is also from here that the clear ornamental unity of the upper church derives. If one bears in due consideration the fact, which is as incontrovertible as it is decisive, that the frescoes were made one after another in the same order as the narrative that we see in literary sources (St Bonaventure’s Legenda Maior) we can certainly see why Ciol’s work of “editing” is so significant and of such great impact. It disconnects and reconnects, separates and links, shares out and redistributes, disarranging and rearranging. And yet it fully and consistently respects the original text as it does so. And it must immediately be said that it is precisely the intelligent and sensitive application of the principle of editing that makes this undertaking unlike any other generally educational initiative, which may well be technically perfect for illustrative purposes. What we most need to understand and focus on is the penetrating degree to which, through his photographic work on the superb Assisi corpus, Ciol shows that he has understood how much the “new painting” that gave birth to Italian art has been baptised as a story and an instrument of narrative. It is a discourse, from the Latin dis-cursus - something that unravels and that, by doing so, goes towards a conclusion. In other words, an authentic “figurative script” in which each individual visual unit each image - appears to be self-sufficient, but that at the same time links up to the others in order to unravel the underlying theme of the historia. As Cennino Cennini writes in his Il libro dell’arte, Giotto gave new life to painting by transforming its “language”, for he “retransformed the art of Greek painting into Latin, and reduced it to the modern”. And it is certainly no coincidence that, as Hermann Hesse maintained, Giotto’s painting is “an echo of Francis’s voice”. A voice in which, again after Jesus, word becomes community. In Giotto, the human figure, as characterised by its own actor’s mimicry, becomes an instrument of visual thought for the first time in the history of painting. To build up the drama in the narrative, he brings to Western ars pingendi a gestural expressiveness and carefully controlled pantomime which helps develop and take forward the fabula it is part of. And again it is this that creates the perfect balance between the figurative consistency of the whole and the interaction between the individual parts. And we might add that we associate ourselves with this sweeping unity, so to speak, and thus, for understandable reasons of both methodological and thematic unity, we shall restrict our figurative examples to the samples that Ciol has taken from the “Stories from the Life of Saint Francis”.
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As we have seen, Ciol works on the details of the image, blowing them up, and shifting, processing, reorganising, and rearranging them. We now need to examine the conceptual and practical, poetic and descriptive criterion with which he chooses the various different details to be focused on within the fresco. We should not think of this criterion in the singular, however, but in the plural. Because Ciol follows a whole host of lines and directions that lead to his selections. Let us take a look at some representative cases from the “Stories from the Life of Saint Francis”, first of all on the diegetic, narrative level, making a distinction within it. On the one hand, we need to look at those cases in which Ciol respects, follows, and presents the key points of the visual story in his photos. In the four details from “The Miracle of the Spring” (pp. 154-157), we see all the narrative connections in the episode: Francis praying, the rugged landscape, the donkey which has taken the Blessed up the mountain, and the sick man drinking from the spring that has miraculously appeared. In this case, Ciol’s intervention is reconstructive, for he carefully chooses some details and gives them a logical order so as to recreate what the entire work reveals to us. The same is true in the case of “The Verification of the Stigmata” (pp. 171-173): Messer Geronimo, the doctor and man of letters who examines the lifeless body of the Saint in the Porziuncola in order to verify the truthfulness of the miracle, and the onlookers, both friars and lay folk, who watch the operation, some astonished, others chanting. The fresco has two narrative directions, and two themes are taken up in photographic detail. We see the same thing again, possibly even more clearly, in “The Sermon to the Birds”. Two details are sufficient: just Francis and a bird flying free in its natural environment are all it takes - the heart of the episode is conveyed to us in its sublime, poetic simplicity. Simplex sigillum veri. At times, Ciol isolates and thus highlights dramatic or fable-like motifs, which are indeed present in the original, but which are in a certain sense diluted within the narrative whole. In the first two of the four details from “The Sermon before Honorius III” (pp. 164-167), the faces of Francis and the Pope look at each other without anyone in between. The framing of the image is purely and intensely psychological and all the more so because the forceful expression of Honorius, who is keenly listening to the divinely inspired Francis, appears to be reinforced and intensified in the photographic detail, which turns it into a veritable portrait. It is as though he were working on his secret vocation and making it plain to see. We mentioned a possible distinction in terms of the narrative criterion used to select the details. A concise but faithful rendering of the narrative, which is what we have seen so far, is indeed not the only approach. There is another one and, significantly, it goes in the opposite direction: it is where the very crux of the historia is abolished when detail is selected. In the two sections that Ciol extracts, nothing remains of the episode we see in “The Gift of the Cloak to a Poor Man” (pp. 124125). The shift, and the change it introduces, is radical. The pictures are completely de-narrativised - the poor man has gone, and so has the cloak. It is as though only the “gift” remained: that of the visible, which appears to us in all its loquacious muteness. Yet it is no longer there. The two photos are placed in such a way that Francis is no longer looking at the poor man, as is logical both in the story and in Giotto, but at the mountain slope coming down towards his halo, which in the original
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painting is actually behind him. This is probably the abstraction in which the redistribution effected by editing abandons any remotely educational purpose and appears in what is indeed a more courageous, radical and, we might add, more powerfully poetic manner. Two details are taken from “The Apparition of Saint Francis at the Chapter of Arles” (pp. 168-169). Even though he is physically absent, Francis appears to a group of friars in the Gothic hall of a convent while they are listening to a sermon by Blessed Antonio on the subject of the Cross. But in Ciol’s photographs there is no trace of the miraculous event. We just see two calm friars, one almost dozing, totally unaware of the prodigious event going on around them. The central element of the fabula has disappeared. It has been abolished, and the same is true in the case of “Saint Francis in Ecstasy” (pp. 146-147). Ciol does not show the heavenly translation - when Francis rises up from the ground, so intense and fervent is his prayer. This time it does at least show the reaction of the friars who are watching, with all their awe and possibly shock, and yet we do not see the miracle, the key to the story, that causes their reaction. The same goes for “The Vision of the Chariot of Fire” (pp. 140-141). The heart of the story, the actual event, is cut out and we only see the effects it has on the bystanders. It is hard to say if this is just a coincidence. The fact is that in the last three cases we have mentioned, the narrative substance that is excluded from the selection is that of a miraculous event and visio mystica. This is tantamount to saying that Francis is not the saint of individual and solipsistic rapture that transcends concrete reality by destroying its borders, extending beyond and thwarting the finite, in order to enter and merge into the infinite. Francis is the saint of everyday sublimity which in the here and now of the finite ignites the spark of the infinite, throwing open the limited to the glory of the unlimited. From “The Dream of Innocent III” (pp. 134-137), Ciol takes out four images that form two pairs. The first and the fourth are taken from the area of the fresco where we see the Blessed holding up the basilica, while the second and third come from the right-hand section with the sleeping pontiff. In the first detail, the space appears to be reduced and compressed to the point where it becomes that of the objects it contains: a portion of the aedicule where Innocent is resting, with its architectural elements, its columns and pinnacles, decorative fascias, and ornamental statues, and with curtains that open and curtains that close. Then, as though materialising the pope’s dream, Francis holds up the tottering Lateran basilica, and again we see trabeations, tiles, the bell tower, and structural and decorative elements. In the abridged, almost breathless contraction of space brought about by Ciol’s visual pruning of Giotto’s fresco, the piled-up objects appear to thrust one against the other: it is almost as though the space itself, without these geometrical shapes, could never unfurl and open up to itself and take in other objects. The fourth image in the series takes up the first, focusing on the figure of Francis in a dramatic blow up. Here too the figurative elements are tightly packed and indeed, to a certain extent they appear to constrict the space even more, precisely because of the enlargement of Giotto’s image. And yet, at the same time, the sense of spatial density is relieved and almost entirely reversed by the “internal rhyme” within the image created by the circular form of the medallion on the decorative fascia, which visually echoes Francis’s halo: both circles also contain a human effigy in the form of a face. No type of relationship, on the other hand, is established in the other
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pair - the second and third detail that Ciol takes from “The Dream of Innocent III” - and indeed it seems they might have come from different panels or places in the cycle of paintings in Assisi. It is thus even more remarkable that a relationship is formed with one of the pictures - the fourth and last in the series - in the first pair. With a rearrangement of the spatial order, the eyes of the white-haired old man, who in the fresco is watching over the sleeping pope, are now turned towards Francis, as though ravished, attracted and drawn by an invincible power. And this means that the picture in which we see Innocent III in his purple bed remains isolated from the whole, and it seems it has no function within it. And yet this is not the case, for it is precisely its up-beat, and thus void, effect that gives rhythm to the “solid” of the sequence. As in a musical phrase, it is the interval, the pause, that provides a counterpoint in the harmonic relationship of mutual referral between the notes, and thus with the other images. We now need to make a necessary digression if we wish to gain a full understanding of the authentic spirit that inspires Ciol’s work. The Face and the Word, of course. But also: the Face “is” the Word. It would be unthinkable here to reconstruct the dialectic, or rather an interpretation of the drama that takes place between the word and the image in the theology of the icon and, in more general terms, in that of Christian spirituality. But it would be equally unjust not even to mention this theme, which is so paramount in the conceptual, spiritual, and poetic complex of Ciol’s work. We might just refer to some of the issues that appear to be most closely involved in this visual comment on the Assisi frescoes. In the Old Testament there is a constant, dramatic conflict between the possibility or impossibility of actually seeing the face of the divine. It is no coincidence that the sphere of the word and human language, in which the ruah, or spirit, breathes, and that of the image, in which the risk of idolatry looms larger, refer to each other and intersect as different but complementary aspects of the same revelation. After listening to the voice that came from the burning bush, Moses did indeed see God: but only from behind (Ex 33, 18-26). “I have heard of thee by the hearing of the ear: but now mine eye seeth thee” (Job 42,5). One could give hundreds of other examples from the text. Quite apart from this constantly revived dialectic, however, what remains is the event and the advent of the inaccessible, and the place of glorious apparition which remains in the distance and in the unbridgeable transcendence between the creator and the created. This is the unshakable theological conviction of the Bible. It is just as true for Judaism and for Islam, and it is this that led to the total prohibition of portraying God. The immense, scandalous innovation of the Christian mysterium lies in the fact that the truth and the way are no longer to be sought in pure, invisible, unattainable transcendence, which is offered only by the word. Christ does not “say” or “tell” the truth. He “is” the Truth and the Way. And that is it: not just the Face and the Word, for the Face “is” the Word. By becoming incarnate, God made himself “nothing”: the infinite was made humble, lower, and weak in order to encounter finite man, make him understand, and save him. This kenosis was achieved not - as the distinction derived from Aristotle would have it - by proceeding from his ousia, or essence, which remains inscrutable, unfathomable, and unattainable, but by virtue of his energheia, or energy. In other words, through his ability to create, exercising the free will of love. The Christian God thus gave and offered
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a face. Christ the Son of Man, the immutable and “express image” (Heb 1,3) and “image of the invisible God” (Col 1,15) illuminates the “common” face which has always been shared by human beings, born “in his own image, in the image of God”. This is the Christological essence of the icon and, more in general, of the possibility for re-presentation of that which has already once been revealed of God to the senses, through Jesus. During the erudite and yet bloody controversies of the iconoclasts, the Christian Church defended its own constitutional reason in the “possibility” of the image. The anthropomorphic portrayal of Christ, and thus of his face, was made possible by Canon 82 of the Quininsext Council in Trullo under Justinian II in 692. This abolished the representation of the agnus dei as a symbol of the Saviour: “In order therefore that ‘that which is perfect’ may be delineated to the eyes of all, we decree that the figure in human form of the Lamb who takes away the sin of the world, Christ our God, be henceforth exhibited in images, instead of the ancient lamb.” A word of caution, however: the transcendence in which Judaism and Islam remain is not simply filled, and thus annulled, in Christianity: it would not otherwise be faith “in things invisible”. The face does not banish distance, but rather preserves it as such within itself, presentiating the beyond, and making manifest the transcendent. Even though it preserves the mystery, it does not maintain an immediately negative relationship of mutual exclusion with it. Christ the Son of God is a living and perfect icon of the Father. In his face, which is the invisible face of he who sent him, he appears inseparable. This is the mystery of filiation, in which difference and identicalness are as one. And this is why “he that seeth me seeth the Father also” (John 14,9). Born of undescribable and unrepresentable Father but made flesh by a describable and representable Mother. This is the theanthropic condition - divine and human in one - of Jesus Christ, which makes it possible to represent the face and the entire body. And it was this that led to the magnificent, epoch-making development of Christian art, as a direct result of the defeat of the iconoclast movement that had grown up within the ecclesiastic community. This historic defeat came after an extenuating and painful diatribe with constant reversals of fortunes, during which images had become an extraordinarily important political battleground. In the great patrology of the time, permeated as it was by Neoplatonism, the controversy also made it possible to reassess the theological and philosophical premises for faith in Christ. It was the Christian Church of the East, which was twice racked by the violence of a crisis that, with incomparable philosophical sophistication, examined the theme of the image and the possibility of representing the divine in painting, and it reached the point where it established what we might justifiably refer to as an authentic “iconographic theology”. The second Person of the Trinity is thus not manifested in Jesus solely by means of words and verbal declarations. From a revelation through language there is a shift to a revelation that makes use of the entire sphere of imagery: that of Jesus is “visible speech”. Just as the written word is an image, the image is also a word to be understood. “In a word it may be said that we can make images of all the forms which we see”, writes John of Damascus in the First Discourse in Defence of the Holy Icons. For this reason, the very action of the Son is an icon of the Father. This means that when the faithful make the sign of the Cross, the faithful in Christ becomes word in action and image spoken, sacred hieroglyphic and, he himself, a living icon. Just as, according to the Old Testament, the name of God is one of the places in which he makes himself present to the human being, so too his pictorial representation in Christ is his name drawn and coloured. The name of God is his Son spoken, his verbal icon, and
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this is why the name shall not be pronounced in vain. And indeed, in his famous opening words, John testifies to the visible nature of the Word: the order of the visible opens up next to and together with that of the intelligible. And the pure of heart are blessed not because they “will listen” but because “they will see” God, in a shining vision of light, forms, and colours that talk sculpturally and that tell chromatically. Ever since its spiritual and historical inception, through its choice of a repertory of visual energies, the Church has attempted to draw up a code of communication capable of giving figurative expression to the same truth as the holy logos. In the overall economy of salvation, language and vision, the orders of the intelligible and of the visible, work together to create a common act of redemption. The Fathers of the Fourth Council of Constantinople (869-870), which at last put an end to the iconoclastic controversy with the victory of Orthodoxy, wrote: “We decree that the sacred image of our lord Jesus Christ, the redeemer and saviour of all people, shall be venerated with honour equal to that given to the Book of the Holy Gospels. For, just as through the written words which are contained in the Book, we all shall obtain salvation, so through the influence that colours in painting exercise on the imagination, all, both wise and simple, obtain benefit from what is before them; for as speech teaches and portrays through syllables, so too does painting by means of colours.” But already in the second half of the fourth century, there were unequivocal statements about the parallelism between the order of the verbal and the order of the visual in the writings of the Fathers of Cappadocia. Painting - in Basil and in Gregory of Nyssa - is a non-written language that not only compensates for but enlivens and intensifies the incomplete image of writing, quietly continuing to speak when words are silent. “What on the one hand is represented by ink and paper is represented on the other hand in the icon, thanks to the various colours and other materials”: these are the words of the great monk Theodore the Studite, but it is a concept that could have been expressed by Gregory of Nazianzus or John Chrysostom, by the patriarch Nicephorus or by John of Damascus himself. The materiality of writing and its technological instrument, which conveys the intelligible, is in a constant relationship with the materiality of the painted image, which conveys the visible. It is from this chiasm, and from this virtuous intersection that the ulterior nature first of the symbol and then of the face draws its origin, with the representation of sacred transcendence and the very possibility of Christian art. In the annunciation there is thus a perfect osmosis and identity of portrayal and writing, vision and language: this is the reason for the Face and/as Word. And it is precisely this profound, spiritual interweaving that Ciol brings out and puts to work. Let us now return in greater detail to his complex visual editing, even though in actual fact we have never abandoned it. The criterion behind the selection of images is never solely one of a narrative or psychological nature, as we have seen, in the relationship between the characters involved in the historia. We also find that the exquisitely formal level - the stylistic and structural level of the organisation, of the composition, and of the layout in Giotto’s painting - is also involved. Let us choose a few of the many possible examples. In a photograph from the series of four taken from “The Renunciation of Worldly Goods” (pp. 130-133), we see how one of the formal and compositional issues tackled in the Assisi cycle is resolved, opening up a new stage in the development of pre-Alberti
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empirical perspective. The problem is that of representing solids from an oblique angle and, in particular, that of cubic objects such as buildings and other architectural constructions. Ciol selects and isolates a construction up at the top left of the fresco: he brings it into the foreground, and makes it the main subject of the picture, to the point where he obscures the miraculous presence of the divine hand which, on the same optical axis as the Saint’s hands joined in prayer, appears from the sky to bless Francis’s radical decision to spurn the world. By doing so, Ciol shows he has understood Giotto’s compositional decision, which is that of not connecting spatially but rather of isolating each architectural block from similar ones, thus considering each one in sculptural, statuesque, and object-based terms. Further confirmation can be seen in the detail of the aedicule taken from “The Test of Fire Before the Sultan” (pp. 144-145). None of the surfaces of this segment of the solid backdrop in “The Renunciation of Worldly Goods” is parallel to the background plane, because the volumes it is made of (walls, projections, stairs, and aedicules) are all shown obliquely. This has a twofold effect: the faces of the solids move back away from the surfaces of the representation (and thus from the eyes of the spectator); and the foreshortened object with its sharp edges consequently appears to project proudly, pushing like a wedge against the plane of the wall as though attempting to break through it, abandoning the illusory spatial world of painting and conquering real space. That of the structural and formal-compositional insert is a similar example and it is equally indicative of one of the main areas of research in Ciol’s work. He condenses the story in “The Demons Expelled from Arezzo” (pp. 142-143) into two visual frames: in the first we see Francis’s hieratic gesture, and in the second the monsters fleeing the city. And it is this that attracts our attention. An initial observation. Zooming in on the towering buildings makes it possible to pick out an important formal detail. The sky towards which the defeated demons escape acts neither as the backdrop of the scene, nor is it a rarefied dispersion of the atmosphere, and it does not even create an idea of space in which plastic and chromatic continuity can take in and coordinate objects and people. As in the entire cycle in Assisi, the sky acts as an authentic solid, compact mass that enters and gravitates, and almost forcibly conquers its position among the various elements in the composition. This can be seen in “The Gift of the Cloak to a Poor Man” and it is equally clear in “The Flight into Egypt” (pp. 60-63) in the Lower Basilica (and indeed Ciol notices this and picks it out). And we see it here too. Clear confirmation of this can be seen in the way the blue finds its way in, seeping through like a compact, rapid-hardening liquid between the geometrically rhythmical profiles of the buildings. With a supplementary concave-convex effect, it is almost a form of positive coagulation of the negative, instantly contradicted by the distance between one tower and the next. A second observation. How is the city of Arezzo represented? The serried buildings along the diagonal totally conceal the roads and streets between them - the spaces between the buildings have simply disappeared. Though not in depth, as in urban perspectives in the Renaissance, the juxtapositions of the towering solids are so foreshortened, with their sharp, clean-cut volumes, that here too the blades of their sharp, almost ringing metal edges (look at the white tower in the foreground and try “listening” to it) appear to be attempting to slice into the surface of the wall. So let us return to the punctum. The type of figurative selection made by Ciol is based on an awareness of this crucial aspect, which is underlined, emphasised, and fully revealed in his photographic details. And of course this key factor concerns the
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conflict and drama that appears between the physical support and the breakthrough of perspective and illusion, the material surface or wall, and the geometrical representation in (and of) depth. In other words, between the real world and that of painting. After Gothic linearism and Byzantine two-dimensionality, it makes its first powerful, essential steps with Giotto. The conflict thus came about, and this drama appears throughout the whole course of Western art: it forms its backbone and its deep, inner structure, reaching all the way to Cézanne, Matisse, and Braque. But it starts here. In Assisi. Ciol’s intervention, however, is not always consentaneous with the stylistic features of the original text. It does not always follow, confirm, or emphasise its formal and compositional orientation. This is why, if we observe it with the attention it deserves, his photographic treatment can at times be amazing in its varied and fertile multiplicity. Let us take “The Approval of the Rule” (pp. 138-139), from which he extracts two details. In this fresco, the spatial realism of an interior seen from the front reaches its climax, more than in any other in the cycle of paintings in Assisi, in terms of Giotto’s total mastery of his technical instruments and the credibility of his results in terms of congruousness with reality. The precision of the perpendiculars, which are at times highlighted and as though sealed by particular colours, the three-dimensional clarity and consistency of the way the group is rendered in the two planes of the Pope and his attendant prelates, and the upper section. Despite a slight inaccuracy in the foreshortenings of two pairs of archlets at the side, this upper section appears as a lesson in scientific perspective applied to the representation of the canonical theme of the ceiling with vaulting and corbels. And we find that right here - at what is possibly the most advanced point achieved in Assisi on the road to the conquest of depth, realism, and spatial coherence - Ciol decides to buck the trend, just as we have seen him doing on the level of narrative logic. How does he do this? The walls of the opulent hall in which the ceremony takes place are faced with precious decorated fabrics, with a prevalence of circle motifs. And it is precisely this element that Ciol decides to promote and to liberate in his photographic details. The result is that it turns the original spatial and perspective depth into a surface, crushing the figures back onto the plane and weakening their sculptural and volumetric relief, as though associating their faces and raiments with the decorative background, almost transforming their physical mass into an ornamental motif. It may be significant, or at least intriguing if not surprising, to recall that the interior of the hall we see in the fresco was originally more sumptuously decorated, but much of the ornamentation was applied when dry and has been lost over the centuries. It is as though, with his choice focusing on surface values, Ciol were more or less consciously harking back to another tendency, that of object-based decoration, which still persisted alongside the then very modern search for realism in spatial depth. And this is precisely how we can once again see that the history of art does indeed provide us with a valid text, producing works that are always open to new and infinite reinterpretations. In his work of deconstructing the Assisi frescoes, Elio Ciol has understood that works of art are something “historical” precisely because, in each one, the history of art is a set back to zero and starts out anew.
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Il volto e la parola The face and the word
I
l commento per immagini alle immagini dei grandi affreschi assisiati e ai loro spazi senza parola, si affida la magistero interpretativo dell’occhio e dello sguardo. Con l’analisi plastica e formale affidata al taglio fotografico, si rilancia qui, in questo percorso perfettamente calibrato tra l’analisi e l’estasi, il problema cruciale dell’autonomia del visibile e del fare artistico rispetto al prestigio del discorso e della scrittura, alla credibilità del concetto e della parola, dai quali il pensiero, così siamo abituati a credere da millenni, sembra assolutamente inseparabile pena l’incomprensione.
T
he pictorial comment on the images of the great Assisi frescoes and their wordless spaces is commended to the “interpretational magisterium of the eye�. Entrusting the analysis of the sculptural effects and form to the photographic angle, this perfectly gauged combination of analysis and ecstasy resumes the pivotal issue of the independence of the visible and artistic practice from the prestige of discourse and writing, the credibility of the concept and the word, from which, as we have believed for millennia, thought seems absolutely inseparable if there is to be understanding.
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«Creazione del mondo», sinopia dalle «Storie dell’Antico Testamento». Jacopo Torriti, 1291-1300. Basilica superiore (ora nel Museo del Tesoro). Portico del Calzo, arcate del lato meridionale del Sacro Convento. 1300 circa.
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Cancello del Chiostro di Sisto IV. Inizi del secolo xiii. «San Francesco». Cimabue, 1301-1302. Basilica inferiore.
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«Predica agli uccelli». Maestro di San Francesco, 1260. Basilica inferiore.
L
a migliore lettura dell’arte è dunque l’arte stessa? La forma più appropriata e fedele di commento coinciderebbe forse con l’autocomprensione del lavoro artistico e creativo nel suo stesso svolgersi? In questo scandaglio fotografico, plurale e insieme compatto, articolato ma coerente, emerge in chiaro che un’immagine può interpretare un’altra immagine, che un’opera può commentare un’altra opera, che il visibile è in costante dialogo con se stesso. Così che la storia dell’arte coincide in fondo con la propria continua, perenne, infaticabile riformulazione.
I
s art really best placed to interpret itself? Does the most appropriate and truest form of comment correspond perhaps to a self-understanding of the artistic work as it unfolds? This photographic study, multiple but compact, complex but consistent, shows clearly that one picture can interpret another, that one work can comment on another and that the visible conducts an ongoing dialogue with itself. So the story of the art coincides basically with its own constant, perpetual and tireless reformulation.
Nella doppia pagina seguente ÂŤVisitazioneÂť. Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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«Natività». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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«Natività». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
ÂŤAdorazione dei MagiÂť. Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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ÂŤAdorazione dei MagiÂť. Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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ÂŤFuga in EgittoÂť. Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
ÂŤFuga in EgittoÂť. Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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ÂŤStrage degli innocentiÂť. Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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Nella pagina accanto e nella doppia pagina seguente ÂŤStrage degli innocentiÂť. Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
«Ritrovamento di Gesù al Tempio». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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In queste pagine e nella doppia pagina seguente «Ingresso di Gesù a Gerusalemme». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
«Cattura di Gesù». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
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«Cattura di Gesù». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
Nelle tre pagine seguenti «Flagellazione». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
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ÂŤAndata al CalvarioÂť. Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
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l Volto e la Parola, certamente. Ma anche: il Volto è la Parola. Perché Cristo non «dice», non «racconta» ma «incarna» la verità e la via: archetipica, perfettissima e vivente icona del Padre, il Figlio è consustanzialità di immagine e logos, nel suo Volto misteriosamente trasluce il Volto inattinto di Dio. Se quello di Gesù incarnazione della Seconda Persona della Trinità è un «visibile parlare», allora la sua raffigurazione pittorica, che ha dato inizio all’epocale sviluppo dell’arte cristiana, viene a far parte integrante della storia stessa della salvezza.
T
he Face and the Word, yes, but also the Face is the Word. Jesus does not “say” or “tell” the truth, He “is” the truth and the way. The archetypal, quite perfect and living icon of the Father, the Son is consubstantiality of image and logos; the unseeable Face of God shines mysteriously in his Face. If that of Jesus incarnation of the Second Person of the Trinity is “visible speech”, then his pictorial representation, which gave rise to the epoch-making development of Christian art, becomes an integral part of the story of salvation.
Nelle quattro pagine seguenti «Crocifissione». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
«Crocifissione». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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«Crocifissione». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
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ÂŤCrocifissioneÂť. Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
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ÂŤCrocifissioneÂť. Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
«Il pellicano». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore. «Deposizione». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
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ÂŤNoli me tangereÂť. Giotto e bottega, 1307-1308. Cappella della Maddalena, Basilica inferiore.
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«San Francesco». Pietro Lorenzetti, 1315-1319. Basilica inferiore. «Madonna col Bambino». Pietro Lorenzetti, 1315-1319. Basilica inferiore.
«Allegoria dell’Obbedienza». Giotto e Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore.
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«Allegoria della Castità». Giotto e Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore.
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«Allegoria della Castità». Giotto e Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore.
«Allegoria della Povertà». Giotto e Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore.
Nella doppia pagina seguente «San Francesco in gloria». Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore.
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ÂŤSan Francesco in gloriaÂť. Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore.
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ur nel profondo rispetto concettuale e artistico del testo originario, l’applicazione del principio del montaggio fotografico sconnette e ricongiunge le immagini assisiati, le separa e le collega diversamente, le scompiglia e poi le riordina. Le «Storie di san Francesco» acquistano così una loro nuova dinamicità, e l’organizzazione drammatica del racconto si rifocalizza sul dettaglio dell’immagine, sul particolare ribaltato in primo piano: come se l’occhio stesso dello spettatore potesse quasi toccare, carezzare il visibile.
D
espite its extreme conceptual and artistic respect for the original text, the application of the principle of photographic editing divides and reunites the Assisi images, separating them and linking them differently, mixing them up and then reordering them. The “Stories of the Life of Saint Francis� acquire fresh energy and the dramatic organisation of the story refocuses on the detail in the picture, the detail brought to the fore, as if the observer’s eye might almost touch and caress the visible.
Rosone, interno della Basilica superiore, secolo xiii. «L’omaggio di un uomo semplice». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«L’omaggio di un uomo semplice». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«L’omaggio di un uomo semplice». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
ÂŤIl dono del mantello a un poveroÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«Visione del palazzo pieno d’armi crociate». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤIl Crocifisso di San Damiano parla a san FrancescoÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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In queste pagine e nella doppia pagina seguente ÂŤRinuncia dei beniÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«Sogno di Innocenzo III». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«Sogno di Innocenzo III». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤConferma della regolaÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤI frati vedono san Francesco sul carro di fuocoÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
ÂŤI frati vedono san Francesco sul carro di fuocoÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤCacciata dei diavoli da ArezzoÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
«Prova del fuoco davanti al sultano». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
Nella doppia pagina seguente «L’estasi di san Francesco». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ella fabula che viene qui riscritta e reimmaginata attraverso il linguaggio fotografico, di Francesco viene esaltato l’aspetto che gli è sempre stato proprio. Egli non è il santo del rapimento individuale e solitario che trascende la realtà bruciandone i confini, che disdegna l’umiltà del finito per confondersi e perdersi nella dismisura dell’infinito. Francesco è il santo del sublime quotidiano e comunitario che nel qui e ora del finito accende la miracolosa scintilla dell’infinito, nel limite spalanca la gloria aperta dell’illimitato.
T
he fabula rewritten here and re-imagined in photographic language exalts a trait that has always been peculiar to Francis. He is no saint of individual and solitary rapture who transcends reality burning its boundaries, one who disdains the humble finite to blend with and become lost in the immense infinite. Francis is the saint of everyday and communal sublimity that ignites the miraculous spark of the infinite in the here and now of the finite, throwing open the glory of the unlimited to the limited.
«Presepe di Greccio». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«Presepe di Greccio». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤMiracolo della sorgenteÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤMiracolo della sorgenteÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
«Miracolo della sorgente». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
Nella doppia pagina seguente «Predica agli uccelli». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤMorte del cavaliere da CelanoÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤMorte del cavaliere da CelanoÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«Predica di fronte a Onorio III». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«Predica di fronte a Onorio III». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤApparizione di san Francesco al capitolo di ArlesÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
ÂŤApparizione di san Francesco al capitolo di ArlesÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«Accertamento delle stimmate». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. «Morte di san Francesco». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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«Accertamento delle stimmate». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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Nella doppia pagina seguente «Commiato di santa Chiara dalle spoglie di san Francesco». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
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ÂŤCommiato di santa Chiara dalle spoglie di san FrancescoÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
ÂŤCommiato di santa Chiara dalle spoglie di san FrancescoÂť. Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
Nella doppia pagina seguente Basilica superiore, interno.
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Apparati Appendix
Elenco delle fotografie List of the photographs Ringrazio il Padre Giulio Berrettoni Custode del Sacro Convento che mi dette l’autorizzazione ad eseguire le riprese fotografiche per comporre la mostra fotografica «Il volto e la parola» e il catalogo che solo ora, per i miei ottanta anni, vengono realizzati. My thanks go to Padre Giulio Berrettini, Custodian of the Sacro Convento, who gave me authorisation to take the photographs for the photographic exhibition “The Face and the Word” and for the book, which only now, on the occasion of my eightieth birthday, have become a reality. Elio Ciol
p. 42 «Creazione del mondo», sinopia dalle «Storie dell’Antico Testamento». Jacopo Torriti, 1291-1300. Basilica superiore (ora nel Museo del Tesoro). “The Creation of the World”, sinopia from “Stories of the Old Testament”. Jacopo Torriti, 1291-1300. Upper Basilica (now in the Museo del Tesoro). p. 43 Portico del Calzo, arcate del lato meridionale del Sacro Convento. 1300 circa. Portico del Calzo, arcades on the south side of the Holy Convent. Around 1300. p. 44 Cancello del Chiostro di Sisto IV. Inizi del secolo xiii. Gate of the Sixtus IV Cloister. Early 13th century. p. 45 «San Francesco». Cimabue, 1301-1302. Basilica inferiore. “Saint Francis”. Cimabue, 1301-1302. Lower Basilica.
pp. 46-47 «Predica agli uccelli». Maestro di San Francesco, 1260. Basilica inferiore. “The Sermon to the Birds”. The Master of Saint Francis, 1260 Lower Basilica. pp. 50-51 «Visitazione». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore. “The Visitation”. Studio of Giotto, around 1313. Lower Basilica. pp. 52-55 «Natività». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore. “The Nativity”. Studio of Giotto, around 1313. Lower Basilica. pp. 56, 58-59 «Adorazione dei Magi». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore. “The Adoration of the Magi”. Studio of Giotto, around 1313. Lower Basilica. pp. 60-63 «Fuga in Egitto». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore. “The Flight into Egypt”. Studio of Giotto, around 1313. Lower Basilica.
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pp. 64-65, 67-69 «Strage degli innocenti». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
p. 83 «Andata al Calvario». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
“The Massacre of the Innocents”. Studio of Giotto, around 1313. Lower Basilica.
“The Way to Calvary”. Pietro Lorenzetti, around 1315-1319. Lower Basilica.
pp. 70-71 «Ritrovamento di Gesù al Tempio». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
pp. 86-91, 93 «Crocifissione». Bottega di Giotto, 1313 circa. Basilica inferiore.
“Christ Discovered in the Temple”. Studio of Giotto, around 1313. Lower Basilica.
“The Crucifixion”. Studio of Giotto, around 1313. Lower Basilica.
pp. 72-75 «Ingresso di Gesù a Gerusalemme». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
pp. 94-97 «Crocifissione». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
“The Entry of Christ into Jerusalem”. Pietro Lorenzetti, around 1315-1319. Lower Basilica. pp. 76-79 «Cattura di Gesù». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore. “The Arrest of Christ”. Pietro Lorenzetti, around 1315-1319. Lower Basilica. pp. 80-82 «Flagellazione». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore. “The Flagellation”. Pietro Lorenzetti, around 1315-1319. Lower Basilica.
“The Crucifixion”. Pietro Lorenzetti, around 1315-1319. Lower Basilica. p. 98 «Deposizione». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore. “The Descent from the Cross”. Pietro Lorenzetti, around 1315-1319. Lower Basilica. p. 99 «Il pellicano». Pietro Lorenzetti, 1315-1319 circa. Basilica inferiore.
pp. 100-101 «Noli me tangere». Giotto e bottega, 1307-1308. Cappella della Maddalena, Basilica inferiore. “Noli me Tangere”. Giotto and his studio, 1307-1308. Chapel of Saint Mary Magdalene, Lower Basilica. p. 102 «San Francesco». Pietro Lorenzetti, 1315-1319. Basilica inferiore. “Saint Francis”. Pietro Lorenzetti, 1315-1319. Lower Basilica. p. 103 «Madonna col Bambino». Pietro Lorenzetti, 1315-1319. Basilica inferiore. “The Madonna and Child”. Pietro Lorenzetti, 1315-1319. Lower Basilica. pp. 104-105 «Allegoria dell’Obbedienza». Giotto e Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore. “Allegory of Obedience”. Giotto and the Master of the Assisi Vaults, 1315. Lower Basilica.
“The Pellican”. Pietro Lorenzetti, around 1315-1319. Lower Basilica.
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pp. 106-107, 109 «Allegoria della Castità». Giotto e Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore.
pp. 124-125 «Il dono del mantello a un povero». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
pp. 134-137 «Sogno di Innocenzo III». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
“Allegory of Chastity”. Giotto and the Master of the Assisi Vaults, 1315. Lower Basilica.
“The Gift of the Cloak to a Poor Man”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
“The Dream of Innocent III”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
pp. 110-111 «Allegoria della Povertà». Giotto e Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore.
pp. 126-127 «Visione del palazzo pieno d’armi crociate». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
pp. 138-139 «Conferma della regola». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
“Allegory of Poverty”. Giotto and the Master of the Assisi Vaults, 1315. Lower Basilica.
“The Vision of the Palace Filled with Arms of the Crusades”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
“The Approval of the Rule”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
pp. 112-115 «San Francesco in gloria». Maestro delle Vele, 1315. Basilica inferiore. “Saint Francis in Glory”. Master of the Assisi Vaults, 1315. Lower Basilica. pp. 118, 120-123 «L’omaggio di un uomo semplice». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Homage to a Simple Man”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. p. 119 Rosone, interno della Basilica superiore, secolo xiii. Rose window, interior of the Upper Basilica, 13th century.
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p. 128 «Il Crocifisso di San Damiano parla a san Francesco». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Crucifix in San Damiano Talks to Saint Francis”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. pp. 130-133 «Rinuncia dei beni». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Renunciation of Worldly Goods”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
pp. 140-141 «I frati vedono san Francesco sul carro di fuoco». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Vision of the Chariot of Fire”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. pp. 142-143 «Cacciata dei diavoli da Arezzo». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Demons Expelled from Arezzo”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. pp. 144-145 «Prova del fuoco davanti al sultano». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Test of Fire Before the Sultan”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
pp. 146-147
«L’estasi di san Francesco». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
pp. 164-167 «Predica di fronte a Onorio III». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
“Saint Francis in Ecstasy”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
“The Sermon before Honorius III”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
pp. 150-153 «Presepe di Greccio». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
pp. 168-169 «Apparizione di san Francesco al capitolo di Arles». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
“The Crib at Greccio”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. pp. 154-157 «Miracolo della sorgente». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Miracle of the Spring”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. pp. 158-159 «Predica agli uccelli». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Sermon to the Birds”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. pp. 160-163 «Morte del cavaliere da Celano». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore.
“The Apparition of Saint Francis at the Chapter of Arles”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
pp. 174-177 «Commiato di santa Chiara dalle spoglie di san Francesco». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Sacred Remains of Saint Francis Venerated by Saint Clare”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. p. 178-179 Basilica superiore, interno. Upper Basilica, interior.
p. 170 «Morte di san Francesco». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Death of Saint Francis”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica. pp. 171-173 «Accertamento delle stimmate». Giotto et alii, 1296 (?). Basilica superiore. “The Verification of the Stigmata”. Giotto et alii, 1296 (?). Upper Basilica.
“The Death of the Knight of Celano”. Giotto et alii, 1296 (?) Upper Basilica.
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Biografia
E
lio Ciol è nato a Casarsa della Delizia (Pn), dove tuttora risiede e lavora. Ha iniziato a lavorare fin da giovane nel laboratorio fotografico del padre. Ha acquisito una vasta esperienza tecnica e ha maturato un suo modo di leggere le opere d’arte e di esprimersi attraverso la fotografia, segnatamente nel paesaggio. Nella ricerca costante di nuove tecniche e di nuove forme di linguaggio per immagini ha fatto parte dal 1955 al 1965 del cineclub di Udine. Ha realizzato vari documentari, a passo ridotto, premiati al Concorso Nazionale del Cineamatore di Montecatini e al Concorso Internazionale del Cineamatore di Salerno. Dal 1955 al 1960 ha fatto parte del circolo fotografico «La Gondola» di Venezia. Nel 1962 ha partecipato come fotografo di scena al film Gli ultimi di Vito Pandolfi e padre David Maria Turoldo. Nel 1963, a Milano, ha collaborato con Luigi Crocenzi alla realizzazione della «Fondazione Arnaldo e Fernando Altimani per lo studio e la sperimentazione sul linguaggio per immagini». Nello stesso anno ha esposto all’Ambrosianeum di Milano le foto di un suo servizio sull’attività di Gioventù Studentesca nella Bassa Milanese. Numerose le sue mostre fotografiche in Italia e all’estero. Molto significative l’antologica del 1999 voluta dai Civici Musei e dal Comune di Udine nel grandioso spazio espositivo della
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chiesa di San Francesco e quella promossa dal Comune di Padova, nel 2002, nel Palazzo del Monte di Pietà. Nel 2004 la Provincia di Pordenone e il Comune di Casarsa della Delizia hanno promosso una mostra di sue nuove fotografie raccolte in dittici e trittici, e per l’occasione è stato realizzato il convegno sul collezionismo fotografico: «La memoria ambigua». Nel 2006 è stato invitato a esporre nel Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo a Udine. Nel 2006 la Cohen Amador Gallery di New York ha esposto una sua mostra personale. Nel 2007 è stato invitato al «Meeting per l’amicizia tra i popoli» di Rimini, assieme a Pepi Merisio, per un’antologica. Nel 2009 è stato invitato dal Centro Culturale Candiani di Mestre-Venezia a esporre un’antologica dal titolo «Elio Ciol. Terre di poesia». Nel 2009, in occasione del conferimento del titolo «Uomo di Confine» a Claudio Magris, è stato invitato a esporre a Sejny, in Polonia, nella Galleria della Sinagoga Bianca, la mostra «La luce incisa». Nello stesso anno a Villa Manin (Passariano di Codroipo), è stato chiamato a esporre l’antologica «Elio Ciol. Gli anni del neorealismo». Ha ottenuto premi e riconoscimenti, tra i quali, limitando la citazione ai più recenti:
1991, Casarsa, Cittadino dell’anno; 1992, Londra, Premio Kraszna Krausz per il fotolibro Assisi, a pari merito con i libri di Sebastião Salgado, Paul Strand e Irving Penn; 1993, Pordenone, Premio San Marco; 1995, Spilimbergo, Craf Premio Speciale Friuli Venezia Giulia Fotografia; 1996, Londra, Premio Kraszna Krausz per il fotolibro Venezia, a pari merito con i libri di R. Doisneau, E. Hartmann e N. Rosenblum; 1997, Amsterdam, World Press Photo, terzo premio nella categoria «Natura e Ambiente»; 1999, Buia, Premio Nadal Furlan 1999, XXI edizione; 2001, Padova, «Dietro l’obiettivo: una vita», Foto Padova 2001; 2003, Padova, «Premio Foto Padova 2003 per il migliore fotolibro», Ascoltare la luce.
Aberystwyth; Victoria & Albert Museum, Londra; Musée de la Photographie, Charleroi; Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte, Udine; Galleria di Arte Contemporanea Pro Civitate Christiana, Assisi; Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo, Udine; e in numerose gallerie private. Ha contribuito con le sue fotografie alla realizzazione di oltre duecento libri.
Sue fotografie sono presenti in questi musei: Metropolitan Museum of Art, New York; International Museum of Photography, Rochester, New York; Center for Creative Photography, Tucson, Arizona; Humanities Research Center, University of Texas, Austin; The Art Museum, Princeton University, New Jersey; Centre Canadien d’Architecture, Montréal, Canada; The Art Institute of Chicago; The University College of Wales,
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Biography
E
lio Ciol was born at Casarsa della Delizia (Pn) where he still lives and works. He began working in his father’s photography studio at an early age. He acquired substantial technical experience and developed his own way of interpreting works of art and expressing himself in photography, outstandingly in the landscape. Ever seeking new techniques and new forms of pictorial communication, he was a member of the Udine film club from 1955 to 1965. He made several documentaries, taking his time, winning awards in the Concorso Nazionale del Cineamatore of Montecatini and the Concorso Internazionale del Cineamatore of Salerno. From 1955 to 1960 he was a member of the “La Gondola” photography club in Venice. In 1962 he was the official set photographer during the shooting of the film Gli ultimi by Vito Pandolfi and Father David Maria Turoldo. In 1963 in Milan he collaborated with Luigi Crocenzi in founding the “Arnaldo and Fernando Altimani Foundation for the study and experimentation of all forms of pictorial communication”. The same year at the Ambrosianeum in Milan he exhibited the photographs of his report on the activity of “Gioventù Studentesca” in the Bassa milanese. A great many photography exhibitions in Italy and abroad. Two highly significant retrospectives: in 1999 organised by the
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Civici Musei and the Municipality of Udine in the grandiose exhibition space of the Church of San Francesco and in 2002 sponsored by the Municipality of Padua in the Palazzo del Monte di Pietà. In 2004 the Province of Pordenone and the Municipality of Casarsa della Delizia sponsored a show of his latest photographs mounted in diptychs and triptychs. A seminar on photography collecting, La memoria ambigua, was held on the occasion. In 2006 he was invited to show at the Museo Diocesano and the Tiepolo Galleries in Udine. In 2006 the Cohen Amador Gallery in New York presented his one-man show. In 2007 he was invited to the “Meeting per l’amicizia tra i popoli” at Rimini, with Pepi Merisio, for a retrospective. In 2009 he was invited by the Centro Culturale Candiani of Mestre-Venice for a retrospective titled Elio Ciol. Terre di poesia. In 2009, on the occasion of the awarding of the title “Borderlander” to Claudio Magris, he was invited to present the show La luce incisa at Sejny, Poland, at the Gallery of the White Synagogue. The same year in Villa Manin (Passariano di Codroipo), he was called to expose the exibithion Elio Ciol. Gli anni del neorealismo. He received prizes and awards, including, to quote only the most recent:
1991, Casarsa, Citizen of the Year; 1992, London, Kraszna Krausz Prize for the photography book Assisi, shared with books by Sebastião Salgado, Paul Strand and Irving Penn; 1993, Pordenone, San Marco Award; 1995, Spilimbergo, Craf Friuli Venezia Giulia Special Prize for Photography; 1996, London, Kraszna Krausz Prize for the photography book Venezia, shared with books by R. Doisneau, E. Hartmann and N. Rosenblum; 1997, Amsterdam, World Press Photo, Third Prize in the category “Nature and Environment”; 1999, Buia, Nadal Furlan Award 1999, XXI year; 2001, Padua, “Dietro l’obiettivo: una vita”, Foto Padova 2001; 2003, Padua, “Premio Foto Padova 2003 per il migliore fotolibro”, Ascoltare la luce.
Aberystwyth; Victoria & Albert Museum, London; Musée de la Photographie, Charleroi; Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte, Udine; Galleria di Arte Contemporanea Pro Civitate Christiana, Assisi; Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo, Udine; and in many private galleries. With his photographs he has contributed to over two hundred books.
His photographs are in the collections of the following museums: Metropolitan Museum of Art, New York; International Museum of Photography, Rochester, New York; Center for Creative Photography, Tucson, Arizona; Humanities Research Center, University of Texas, Austin; The Art Museum, Princeton University, New Jersey; Centre Canadien d’Architecture, Montréal, Canada; The Art Institute of Chicago; The University College of Wales,
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Volumi con fotografie di Elio Ciol Books with photographs by Elio Ciol 1961 Nel mio disco d’oro. Congdon, testi di / texts by J. Maritain, T. Merton, P. Bruzzichelli, Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi. 1969 Assisi, testi di / texts by D. M. Turoldo, P. Cavallina, P. Bargellini, Edizioni Messaggero, Padova. 1972 La miniatura in Friuli, Electa, Milano. 1973 Affreschi del Friuli, Istituto per l’Enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, Udine. 1976 Aquileia, Edizioni Grafiche Doretti, Udine. 1977 Venzone: un volto da ricomporre, Istituto per l’Enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, Udine. 1982 I Camuni, Jaca Book, Milano. 1983 Gli Italici, Jaca Book, Milano. Chagall messaggio biblico, Jaca Book, Milano. Congdon. Il cantiere dell’artista, Jaca Book, Milano.
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Raccontare Udine: vicende di case e palazzi, Istituto per l’Enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, Udine.
1989 I codici miniati nel Duomo di Spilimbergo, Electa, Milano.
1984 Il Pordenone (catalogo della mostra / exhibition catalogue), Electa, Milano. Scarpa: il pensiero i disegni i progetti, Jaca Book, Milano. Civiltà del Friuli centro collinare, Edizioni Geap, Pordenone. Friuli Venezia-Giulia. Un piccolo universo, testi di / texts by L. Jorio, L. Damiani, Edizioni Magnus, Udine. Il palazzo dei giureconsulti oggi, Edizioni Camera di Commercio, Milano. Chagall. I pastelli, Jaca Book, Milano. Elio Ciol. Italia black and white, testi di / texts by G. Chiaramente, A. Crawford, Jaca Book, Milano. Tecnochtitlan. Gli Aztechi e le loro radici, Jaca Book, Milano.
1990 Donatello. Le sculture al Santo a Padova, Edizioni Messaggero, Padova. Il tempietto longobardo di Cividale del Friuli, Edizioni Savioprint, Pordenone.
1987 Asti, un Duomo, una città, Edizioni Cassa di Risparmio di Asti, Asti. Chagall. Le vetrate, Jaca Book, Milano. 1988 Il Pordenone, Comune di Pordenone-Electa, Milano.
1991 Assisi, testi di / texts by F. Cardini, A. Crawford, Federico Motta, Milano. 1992 Gentile da Fabriano, Federico Motta, Milano. Assisi, Hatier, Paris. Assisi, testi di / texts by F. Cardini, A. Crawford, Metamorphosis, München. Ori e tesori d’Europa, Electa, Milano. 1993 Donatello, testo di / text by J. Pope-Hennessy, Umberto Allemandi, Torino. Donatello sculptor, testo di / text by J. PopeHennessy, Abbeville Press, New YorkLondon-Paris. Assisi, testi di / texts by K. Tsuji, Iwanami Shoten, Tokyo. 1995 Giotto, Federico Motta, Milano. Venezia, testi di / texts by K. Tsuji, Iwanami Shoten, Tokyo.
Venezia, testo di / text by C. della Corte, Federico Motta, Milano. Venise, testo di / text by C. della Corte, Imprimerie Nationale Éditions, Paris. 1996 The art of Giovanni Antonio da Pordenone, 2 voll./vols., Cambridge University Press, Cambridge. Dove l’Infinito è presente, testi di / texts by C. Sgorlon, E. Bartolini, G. Turroni, G. Mazzariol, F. Amodeo, A. Crawford, F. Licht, M. Harker, R. Mutti, G. Barbieri, Edizioni Roberto Vattori, Tricesimo (ud). 1998 Provincia di Pesaro e Urbino, Federico Motta, Milano. Le porcellane dell’ambasciatore, Arsenale Editrice, Venezia. 1999 Elio Ciol. Cinquant’anni di fotografia, testi di / texts by G. Bergamini, R. Mutti, A. Emiliani, C. Sgorlon, M. HaworthBooth, G. Barbieri, G. Ferrara, L. Damiani, M. Manfroi, L. Padovese, M. Pelosi, I. Jeffrey, L. Perissinotto, C. Donazzolo Cristante, Federico Motta, Milano. 2000 Pintoricchio a Spello, Edizioni Amilcare Pizzi Spa, Milano.
Elio Ciol. L’enchantement de la vision, testo di / text by R. Mutti, Edizioni Campanotto, Pasian di Prato ( ud).
2006 Casa Spilimbergo di Sopra in Valbruna, Comune di Spilimbergo, Spilimbergo (pn).
2002 Turoldo e «Gli ultimi». Elio Ciol fotografo di scena, testi di / texts by N. Borgo, S. Baracetti, C. Sgorlon, Federico Motta, Milano. La Basilica di San Francesco ad Assisi, Edizioni Franco Cosimo Panini, Modena. La facciata del Duomo di Orvieto. Teologia in figure, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (mi).
2007 Nel soffio della storia, testi di / texts by E. Franzoia, M. C. Vergara Caffarelli, Punto Marte Edizioni, Pieve di Soligo (tv). Concrete astrazioni, testi di / texts by A. Maggi, S. Momesso, C. Sala, Punto Marte Edizioni, Pieve di Soligo (tv). Friuli, Venezia Giulia. Un percorso tra Arte, Storia e Natura, Cierre Edizioni, Sommacampagna (vr).
2003 Elio Ciol. Ascoltare la luce, testi di / texts by F. Amodeo, G. Turroni, G. Mazzariol, C. Sgorlon, E. Bartolini, A. Crawford, F. Licht, R. Mutti, Libreria editrice Il Leggio, Sottomarina di Chioggia (ve). L’arte nelle Venezie. Gli affreschi nelle chiese della Marca Trevigiana dal Duecento al Quattrocento, 4 voll./vols., Fondazione Cassamarca, Treviso.
2008 Tornare a Venezia, testi di / texts by A. Alessandrini, E. Gusella, Punto Marte Edizioni, Pieve di Soligo (tv). La luce incisa, testo di / text by C. Ciol, Punto Marte Edizioni, Pieve di Soligo (tv). Storia dell’oreficeria in Friuli, Skira, Milano.
2004 Il fascino del vero, testi di / texts by F. Amodeo, R. Mutti, Antiga Edizioni, Cornuda (tv). San Vendemiano, Antiga Edizioni, Cornuda (tv).
2009 Elio Ciol. Terre di poesia. Fotografie 1950-2007, testo di / text by F. Amodeo, Marsilio, Venezia. Elio Ciol. Gli anni del neorealismo / The Neorealism years, testi di / texts by S. Paoli, F. Amodeo, Allemandi, Torino.
2005 Gli affreschi della Scuola dei Battuti di Conegliano, Rotary Club di Conegliano, Conegliano (tv). 191
Š
2009 umberto allemandi & c. spa, torino Š elio ciol per le fotografie
coordinamento editoriale lina ocarino redazione isabella vergnano traduzione simon turner desktop publishing elisabetta paduano fotolito fotomec, torino finito di stampare nel mese di novembre
2009
presso tipo stampa, moncalieri (torino)
Massimo Carboni è docente di Estetica presso l’Università della Tuscia di Viterbo. Ha pubblicato L’Impossibile Critico. Paradosso della critica d’arte, Kappa, 1985; Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori Riuniti, 1992, nuova ed. Jaca Book, 2004; Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi, 1993, quarta ed. 2003; Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi, 1999, nuova ed. ampliata 2005; L’ornamentale, Jaca Book, 2000; L’occhio e la pagina, Jaca Book, 2002; Lo stato dell’arte, Laterza, 2005; La mosca di Dreyer, Jaca Book, 2007; Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi, 2009. Massimo Carboni teaches Aesthetics at the University of Tuscia in Viterbo. He has published L’Impossibile Critico. Paradosso della critica d’arte, Kappa, 1985; Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori Riuniti, 1992, new ed., Jaca Book, 2004; Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi, 1993, fourth ed., 2003; Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi, 1999, new enlarged ed., 2005; L’ornamentale, Jaca Book, 2000; L’occhio e la pagina, Jaca Book, 2002; Lo stato dell’arte, Laterza, 2005; La mosca di Dreyer, Jaca Book, 2007; Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi, 2009. Fabio Amodeo (Trieste, 1945) ha lavorato a lungo nel settore dell’informazione in quotidiani, settimanali e mensili. Nel campo della fotografia ha collaborato alle riviste «Photo 13» e «Photo Italia». Attualmente si occupa di ideare e realizzare libri e pubblicazioni, e di promuovere e curare mostre nel settore della fotografia. È vicepresidente e responsabile del settore mostre del Teatro Miela di Trieste, presidente del Circolo della Stampa di Trieste e direttore responsabile della rivista «Juliet»; cura inoltre il settore fotografia per la rivista «Arte». Insegna Storia e Tecnica della fotografia presso l’Università di Trieste. Fabio Amodeo (Trieste, 1945) worked extensively in the sphere of information in dailies, weeklies and monthlies. In the field of photography he collaborated with the reviews “Photo 13” and “Photo Italia”. Presently he conceives and creates books and publications and also promotes and curates exhibitions concerning photography. He is VicePresident and in charge of exhibitions for the Teatro Miela in Trieste, President of the Trieste Circolo della Stampa (Press Club) and Director in charge of the review Juliet, as well as handling the photography section for the review Arte. He teaches History and Technique of Photography at the University of Trieste.