ATTRAVERSO LA PIETRA
Lo sguardo di Stefano Ciol su Pilacorte
ATTRAVERSO LA PIETRA
A mia mamma Rita, che é stata il sorriso illuminante nella nostra famiglia, e a mio papà Elio, che mi ha educato alla Luce e ad avere nuovi occhi.
Lo sguardo di Stefano Ciol su Pilacorte ATTRAVERSO LA PIETRA
27 MAGGIO
24 LUGLIO 2022
FONDAZIONE ADO FURLAN
Pordenone / Via Mazzini 51-53
Mostra fotografica organizzata nell'ambito del progetto:
“Evoluzione dell’arte in Friuli dalla fine del Patriarcato di Aquileia, 1420. Giovanni Antonio Pilacorte. Scultura tra ‘400 e ‘500”
MOSTRA E CATALOGO
A CURA DI
Fulvio Dell’Agnese
PROGETTO FOTOGRAFICO
E FOTOGRAFIE DI
Stefano Ciol
TESTI DI
Fulvio Dell’Agnese
PROGETTO GRAFICO
studiodeperu
COORDINAMENTO
Sara Florian GrabGroup Upgrading Cultures
PROGETTO ESPOSITIVO
Stefano Ciol e
GrabGroup Upgrading Cultures
STAMPA FINE ART
Stefano Ciol
STAMPA
Unicolor SPA
ORGANIZZATORE
GrabGroup Upgrading Cultures Associazione Culturale
CON IL SOSTEGNO DI Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Comune di Pordenone Unione Artigiani Pordenone BCC Pordenonese e Monsile Fondazione Friuli
IN COLLABORAZIONE CON Fondazione Ado Furlan Diocesi di Concordia - Pordenone Arcidiocesi di Udine Comune di San Vito al Tagliamento
PARTNER DI PROGETTO Mudefri VivaComix Aqua Nova Dars
CON IL CONTRIBUTO DI Agenzia Generali - Pordenone De Blasio Associati Dado Concept studiodeperu
CON IL PATROCINIO DEI COMUNI DI Clauzetto Meduno Travesio Sedegliano Sequals Spilimbergo Vito d’Asio San Giorgio della Richinvelda Codroipo
La mostra “ATTRAVERSO LA PIETRA. Lo sguardo di Stefano Ciol su Pilacorte”, che rientra nel progetto “Evoluzione dell’arte in Friuli dalla fine del Patriarcato di Aquileia, 1420 – Giovanni Antonio Pilacorte. Scultura tra ‘400 e ‘500”, racconta una parentesi artistica e storica del nostro territorio. Due secoli fondamentali non solo per il Friuli Venezia Giulia, bensì per l’intera penisola italica che nel medesimo periodo ha visto l’esplosione del Rinascimento.
Le opere fotografiche esposte nei locali della Fondazione Ado Furlan di Pordenone hanno regalato al pubblico l’emozione di godere dal vivo di questo spaccato della cultura artistica regionale, contribuendo, così, a valorizzare e promuovere il nostro patrimonio artistico a livello nazionale e internazionale. Tutto il merito è da attribuire all’impegno della direzione e di tutti i collaboratori dell’Associazione Culturale GrabGroup Upgrading Cultures Pordenone che, anche attraverso il supporto della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, hanno ideato e realizzato il progetto.
In qualità di Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, esprimo agli organizzatori i miei più sinceri apprezzamenti non solo per la professionalità dimostrata, ma anche per la completezza di contenuti, anche iconografici, esposti durante la mostra e riassunti in questo volume. Attraverso la sua lettura, infatti, potremo scoprire tutti qualcosa di nuovo sulla storia artistica della nostra regione.
Assessore alla Cultura
Originario di Carona, Giovanni Antonio Pilacorte è stato senz’altro il lapicida più importante attivo in Friuli tra Quattro e Cinquecento. Il suo ambito d’azione, concentrato inizialmente a Spilimbergo e nello spilimberghese, si estese rapidamente in molte altre località del Friuli per concludersi a Pordenone, dove probabilmente morì in casa del genero Donato Casella, anch’egli scultore, poco dopo aver fatto testamento (21 novembre 1531).
Tra le sue numerose opere si distingue per l’eleganza delle soluzioni formali non solo l’apparato lapideo che insieme con gli affreschi di Andrea Bellunello connota in senso rinascimentale la facciata del cosiddetto palazzo dipinto nel castello di Spilimbergo, ma anche e soprattutto la decorazione dell’attuale cappella del Carmine in duomo, dedicata in origine alla Purificazione della Vergine e abbellita dalla pala di Giovanni Martini successivamente trasferita nell’adiacente cappella del Rosario. Per quanto riguarda Pordenone, oltre a quello della chiesa del Cristo, spetta al nostro artista il portale del duomo di San Marco, che si caratterizza per il programma iconografico incentrato sul tema del tempo e sull’ordine divino che ne determina lo sviluppo.
Due altre rilevanti testimonianze della sua arte sono costituite dall’acquasantiera all’ingresso della chiesa e dal fonte battesimale, oggi in sacrestia, nella cui decorazione intorno alla metà degli anni trenta del Cinquecento fu coinvolto il Pordenone.
Poiché Spilimbergo e Pordenone sono i due centri in cui si esplica principalmente anche l’attività della Fondazione Ado Furlan, ho accolto con molto piacere la proposta di Sara Florian, presidente dell’associazione GrabGroup Upgrading Cultures, di ospitare negli spazi espositivi di via Mazzini una mostra fotografica a cura di Fulvio Dell’Agnese. Attraverso lo sguardo di Stefano Ciol e il confronto con alcune foto scattate dal padre Elio negli anni sessanta, essa ci permette di conoscere meglio l’opera di questo valente scultore e la cultura umanistica che la impronta. Un ulteriore motivo d’interesse è costituito dal catalogo curato dallo stesso Dell’Agnese che, aggiungendosi alle recenti iniziative promosse dall’Associazione Antica Pieve d’Asio di concerto con altri enti e istituzioni, conferma l’importanza e centralità del Pilacorte nel contesto friulano del tempo. Non posso dimenticare infine l’apporto dell’Università di Udine allo studio e conoscenza del patrimonio artistico regionale: infatti è stato grazie alle ricerche condotte nell’ambito della sua tesi di laurea, discussa presso l’ateneo udinese nel 1991-1992 e di cui io stessa sono stata relatrice, se il pordenonese Paolo Parigi ha potuto fornire una convincente interpretazione della complessa simbologia sottesa al portale del nostro maggior tempio cittadino.
CATERINA FURLAN
Presidente della Fondazione Ado Furlan
conosciuto: le chiese si aprono ai ladri, quando si chiudono ai cittadini. E i cittadini sono martellati da un marketing che li porta, al contrario, nelle mostre a pagamento: perché una macchina da soldi li vuole clienti, non cittadini».
Fulvio Dell’Agnese
Storico dell’ArteATTRAVERSO LA PIETRA
Quando scarica l’attrezzatura all’ingresso della chiesa, Stefano Ciol ha già compiuto una significativa parte del suo lavoro: una strategica fase di accostamento che io pure ho spesso sperimentato, e che consiste nel garantirsi – il più delle volte faticosamente – l’accesso all’edificio sacro. Le chiese isolate, poeticamente immerse nella campagna o comunque fuori dal contesto urbano, sono quasi sempre difficili da visitare. Legittime preoccupazioni per la sicurezza delle opere d’arte che vi sono custodite imbavagliano purtroppo la loro voce1, perché a battenti chiusi tace il dialogo estetico e spirituale tra l’arte sacra e i suoi fruitori; un discorso che, pur quando è condotto in cadenze dialettali, in terra friulana si è sedimentato con particolare ricchezza.
Chiese chiuse, dunque, sono spesso l’ostico diaframma da valicare per una ricerca, la sua sofferta dilazione. Ma una volta che i cardini producono il loro austero cigolio il colloquio con l’antico riprende vita e tra le voci d’artista che risuonano nel rinascimento friulano quella di Giovanni Antonio Bassini, detto il Pilacorte, è una delle più rilevanti.
Mentre sacche e bauli vengono portati all’interno della chiesa e vi riversano il proprio contenuto, Stefano si guarda intorno. Di quegli ambienti quasi nulla sarà direttamente visibile nelle fotografie, ma a fare la differenza sarà proprio la loro presenza sottotraccia.
Le sculture e i rilievi di Pilacorte sono nati per degli spazi sacri e nelle loro immagini dovrà restare idealmente segno di tale atmosfera, l’aura di un contesto. Quasi permanesse la sensazione di uno iato risolto, di un incontro reso possibile dalla disponibilità che l’opera ci dimostra; l’idea «che il modello è uscito da un mondo suo, e che in quel mondo è in procinto di rientrare»2. Impresa ardua, perché i personaggi di Pilacorte entro il mirino passano
da una condizione teatrale a uno status cinematografico3, venendo isolati dall’ambiente in primi e primissimi piani. Per qualche ora, durante le riprese, essi vengono distolti dai loro dialoghi: da quelli costanti con un affresco nella navata, da quelli possibili con un fedele di passaggio. Abbandonano il loro palcoscenico condiviso e rimangono nudi di fronte all’obiettivo.
Il fotografo in questo caso ne è però consapevole e cerca di accogliere l’espressione del loro essere autentico, guardandosi dal trasformarli in personaggi stereotipati, in compiaciuti protagonisti di una esibizione autoreferenziale. E qui si misura la sua capacità, fatta anche di adesione agli spessori scabri della pietra di Travesio. Si tratta di documentare opere d’arte, quindi servono – si potrebbe dire –«occhi […] ostinati a non esercitare altro che la semplice constatazione delle cose»4. Ma questa semplicità vive di tante possibili sfumature.
A Gradisca di Sedegliano, è un tardo pomeriggio di marzo. All’inizio – è buffo – si lavora con il telefonino. Sono le primissime immagini, che devono documentare la scena del crimine, ma prima che questo venga commesso. L’attenzione è per le piante in vaso, per l’inginocchiatoio, per il turibolo: tutti oggetti che vanno rimossi e che dovranno tornare esattamente al loro posto.
Bisogna anche fare i conti con il quadro elettrico: quanti fari supporterà l’impianto? E poi, ogni colonnina della balaustra scolpita da Pilacorte viene spolverata con delicatezza, per sgomberare il campo anzitutto da eventuali residui di ragnatele: cara è la memoria di Aracne, ma i suoi epigoni velerebbero, setosi, gli angoli dell’inquadratura.
Rimuovere la polvere – si capirà poi – non significa certo per Stefano togliere la patina del tempo5, che viene anzi solleticata attraverso luci e ombre, adagiate sulle superfici per esaltare – attraverso la pietra –i volumi e il rilievo della storia. Come? Puntando fari e con pennellate d’aria, facendo volteggiare stoffe, facendo vibrare cartoncini, accostando piccoli sipari; facendo passare corrente attraverso metri e metri di cavi, sedendo sul bauletto di alluminio a rimuginare, scandendo ordini agli aiutanti, dialogando in silenzio con le proprie apparecchiature, mentre –appunto – è la luce che viene distesa come cipria sulle superfici, facendole impercettibilmente vibrare e accompagnandole a definire nella maniera più opportuna i propri limiti.
E dunque eccolo manovrare tre lampade, un iPad per controllare da remoto lo scatto, una selva di treppiedi… Quando il posizionamento è completato, però, le pietre scolpite non appaiono affatto modelle su un set. Anzi, il loro respiro all’unisono con gli affreschi che ci osservano dalle pareti intorno è ancora più palpabile: vengono insieme esaltati «il [loro] modo di abitare nella luce […] e il modo di transitare nel tempo»6
3
Cfr. R. Bazlen, Scritti, Milano, Adelphi, 2019 [1984], p. 182: «L’attore di teatro “esprime” (può rappresentare le sue possibilità in diverse figure individuate). L’attore di cinema è (può rappresentare solo la sua figura, che comprende tutte le sue possibilità)».
4
Y. Bonnefoy, Edward Hopper. La fotosintesi dell’essere, cit., p. 52.
5
«Ogni superficie desidera e invoca la polvere, perché la polvere è la carne del tempo, come ha detto un poeta, e il sangue del tempo»
(I. Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Milano, Adelphi, 1991 [1989], p. 50).
6
M. Zambrano, Tempo e luce [1939], in Dire luce. Scritti sulla pittura, Milano, Rizzoli, 2013, p. 257.
T. Montanari, Chiese chiuse, cit., p. 112: «In concreto per noi, significa che ciò che giudichiamo bello (un quadro, un paesaggio, una città) non lo è in sé, nella sua materialità finita e circoscritta, ma nella misura in cui si riferisce alle persone, in corpo e anima».
8
M. Baxandall, Ombre e lumi, Torino, Einaudi, 2003 [1995], p. 22.
Sulle sculture si distende un’attenzione che di tecnologico ha l’apparato, non il disinteresse per il sapore del luogo, per il trascorrere di secoli che vi si respira. Se il fotografo – si diceva – ha tolto di mezzo un po’ di polvere, si trattava di quella che si deposita anche sulla nostra quotidianità e la rende un po’ meno magica.
Si procede poi per piccoli spostamenti, all’interno della chiesa. Le alette del riflettore vengono riorientate, le luci si accendono e spengono per valutarne l’intensità corretta.
Che visione è quella che pulsa intorno a Pilacorte?
Stefano ha lo sguardo severo, non è qui a giocare. Ha il distacco del medico, necessario ma relativo. Il treppiede si sposta, si avvicina all’Angelo sulla balaustra. L’ottica grandangolare precedente, usata per la veduta d’insieme, lascia spazio a un imponente teleobiettivo da 100/500 millimetri. Altre apparecchiature vengono messe in carica.
Resta accesa una luce sola, e nella penombra il dialogo del fotografo con la figura si fa più intimo; per qualche momento se la coccola, si intuisce che è per lei che cerca la combinazione ideale di luci e diaframma; cerca di metterla a suo agio.
In effetti, la forza delle immagini che si stanno per realizzare starà nel catturare qualcosa che trascende i limiti di perfezione fisica delle sculture; consisterà nel mantenere viva la loro capacità di coinvolgerci in un dialogo estetico e spirituale, semplice e spontaneo oppure attraversato da rivoli di conoscenze storiche.
La fotografia, insomma, non può permettersi di scordare che «la bellezza non riguarda le pietre, ma le persone»7.
Due giorni dopo, altra chiesa, e tutto ricomincia da capo. Come a Gradisca di Sedegliano, anche a Travesio, Sequals, Spilimbergo… Metri e metri di cavi sibilano come serpenti sul cotto o sul marmo dei pavimenti. La cosa sorprendente è che, per farle compiutamente respirare nello spazio sacro che le contiene, Stefano “aggredisce” le singole figure scolpite nel loro microcosmo: le sfiora con tessuti, cartoni, per controllare i differenti riverberi delle superfici, le minime variazioni di contrasti; «ha […] previsto che la luce si mostri qua e là entro le zone d’ombra, così da poter rappresentare questo o quel dettaglio»8 e dare così voce ai personaggi: alle sfingi alate che sostengono il fonte battesimale di Spilimbergo, ma anche alle tenere campanule che ne ornano la coppa; ai putti musicanti del fonte di Travesio, senza dimenticare il fogliame che – inciso nel calcare –costruisce un sacro pergolato sopra alle loro testoline di suonatori ispirati, occhi persi nel tepore della melodia. La figura è inquadrata, ormai è presa in una ragnatela di correzioni che le si stringe intorno con calma, implacabile e delicata. Gli attori sono di pietra, ma Stefano pare dirigerli come dovessero muoversi sulla scena; si agita come un regista,
accucciato e poi in piedi, li osserva da angoli differenti. Maria è pensierosa, non mostra fastidio per l’intrusione. Piuttosto è l’uccellino sospeso su un ramoscello, dall’altra parte della balaustra, che vorrebbe un po’ di ribalta. Ma il riflettore si spegne e l’ombrello che nebulizzava la luce si richiude nel buio.
Poi è la volta dell’Angelo che regge l’ambone; il fotografo gli si inchina, e con sguardo sommesso lo riconduce a un ruolo da protagonista. E ancora, inquadrature rasoterra, da pellegrino all’addiaccio, fino a scoprire la nobiltà anche del plinto di base di un portale, come a Travesio.
La chiave è l’umiltà: quella con cui l’artista di oggi si impone di farsi tramite dell’espressività di uno scultore vissuto cinquecento anni fa.
Dalla sua lavagna magica Stefano opera aggiustamenti che vanno ben oltre la mia pratica di fotografo; quello che tante volte ho fatto in viaggio, appoggiato a una colonna o ad un banco per non muovere lo scatto, lui lo fa con ben altra tecnica e attrezzatura, ma con una partecipazione e riguardo che riconosco, perché anima pure i miei maldestri tentativi di documentazione.
Riguardo, in che senso? Il fotografo, si diceva, mette in azione i suoi personaggi. Ma, come ogni grande regista, plasma la loro recitazione sul testo, rispetta le intenzioni dell’autore. Dunque, nessun dinamismo ad effetto, niente letture stravolgenti.
Solo calcolo della valorizzazione di masse e spessori, vissuti sulla loro superficie come se questa fosse un terreno vivo, che «non tiene separate terra [pietra] e atmosfera ma, al contrario, è la zona della loro interpenetrazione»9.
In pratica, anche quando inquadra un rilievo di Pilacorte Ciol si comporta come se stesse realizzando una delle sue ispirate interpretazioni del paesaggio, come indagasse calanchi oscuri o greti di torrente, declivi erbosi mossi dal vento a fil di sole o il lento scivolare delle colline nella foschia; anche – e forse soprattutto – quando si è in esterni e “scappa la luce”. Quella luce che a Sedegliano viene inseguita in momenti diversi della giornata per dare risalto ora ai rilievi più marcati della lunetta, ora alle unghiate con cui Pilacorte incide nella pietra la sagoma di un personaggio: un personale stiacciato che il fotografo ci fa leggere perfettamente esaltandone i minimi spessori, «i “buchi nella luce” [che] sono appunto le ombre»10
Rispetto per l’artista, dunque. In compenso, quando – come a Sequals – un cancelletto interferisce con la pulizia dell’inquadratura, la voce di Stefano si fa affilata: «Guarda se si può togliere», dice a Lorenzo. La truppa, a partir da me remissiva, fa segno di no: c’è tanto di dadi e bulloni, di solido aspetto. A quel punto, il supremo osservatore si alza dal suo scranno scatolato e viene a
9
T. Ingold, Corrispondenze, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2021, p. 96: «È dove la terra, coi suoi materiali, e l’atmosfera, con il suo tempo, s’incontrano, portando avanti la loro eterna conversazione».
10
M. Baxandall, Ombre e lumi, cit., p. 8.
constatare di persona; tempo due minuti e i bulloni che fissano le portelle vengono rimossi, il ferro battuto trasportato sull’altro lato della navata; liberato il campo. E Irene, con scettico scrupolo filiale, sovrintende alla catalogazione della minuteria metallica che andrà poi ripristinata. Ma, lì accanto, un po’ perplessa è pure la Madonna, che non riesce più a incrociare lo sguardo dell’Angelo Gabriele.
In realtà, osservare le sculture di Pilacorte attraverso l’obiettivo è anche l’occasione per focalizzare come certi dettagli siano esplicitamente orientati per un punto di vista preferenziale; che spesso risulta oggi alterato.
Prendiamo i fonti battesimali: quanti spostamenti hanno subito!... E peggio è andata in certi casi alle balaustre ricomposte e ai loro occupanti, come appunto a Sequals; i Santi di Gradisca di Sedegliano, poi, sono finiti addirittura a meditare contro il muro, e non si tratta di ritrosia spontanea. Le Madonnine delle Annunciazioni, invece, sono superiori ad ogni umana interferenza. Mentre un angioletto suona il sottofondo (come a Villanova), loro meditano sul da farsi o accennano già l’umile accettazione dell’incredibile, remissiva e titanica al contempo. E la fotografia cattura la loro trattenuta gestualità. In un chinarsi di palpebre, l’origine di tutto. In queste immagini ogni forma viene letta nei rapporti fra luci e ombre, ovvero in termini di volume. Ma a tratti accade che della scultura riemerga anche una componente pittorica, legata ad antiche policromie: sulla veste di San Nicolò o sulle gote di Maria, a San Giorgio della Richinvelda, un’aspirazione alla realtà che a noi oggi sa di popolaresco deposita sulla pietra il suo pigmento un po’ ottuso, che non può essere letto ad occhi socchiusi come il pulviscolo sospeso captato dal bianconero. In questi casi la fotografia sembra farsi qualcosa di più diretto che non una remise en scène del racconto sacro: la registrazione, piuttosto, di un tableau vivant. E allora è l’intima musicalità dell’immagine a trasformarsi, per ritrovare poi le sue abituali stratificazioni di ombre portate, ombre aderenti e sfumature nella soave Elemosina di San Martino a Vito d’Asio, superbamente indagata – oltre che nei minuti colpi di trapano della capigliatura – nelle cadenze lineari che avviluppano mendicante, cavallo e cavaliere.
Insieme a quella fra bianco e nero e colore, esiste pure un’alternanza fra silenzio e rumore. Perché… Che suono hanno queste foto?
In fase di realizzazione c’è solo la ventola di raffreddamento dei riflettori che ansima. Lo scatto quasi non si percepisce; forse lo immagino soltanto, perché sono mentalmente in attesa del rumore meccanico degli otturatori di una volta, del trascinamento tassellato della pellicola. Ora invece la cattura dell’immagine è digitale; ma il suo accerchiamento, fino a stanarla, comporta ancora – si è visto – l’arrivo di zaini, sacche, bauli, un po’ come per il colorito armamentario del fonico di Lisbon Story.
Un arsenale, quello, che non stonerebbe per ricostruire lo sciabordio di fondo del granuloso intonaco rosa su cui galleggia il portale del Duomo
di Pordenone, ma che si può tranquillamente riporre di fronte ai silenzi profondi di figure che emergono dall’oscurità in sospeso raccoglimento, come gli Angeli cerofori di Spilimbergo.
Comunque sia, silenzio o sonorità non sono mai artificiose. Quanto fa Stefano non è paragonabile all’allestimento “emozionale” di molte mostre contemporanee, in cui la luce viene utilizzata a prescindere dalle esigenze delle opere, come “macchina del pathos” (per intenderci, un po’ come il ghiaccio secco che si usava nei concerti); qui ogni personaggio o ornamento resta invece saldamente ancorato al proprio ruolo, senza divismi. Certo, però, l’obiettivo di Ciol restituisce alla pietra un’intensità espressiva che ce ne fa sentire ancora fresca la superficie: è come fosse appena sbozzata, anche se i segni della sua età rimangono ben visibili. Per qualche momento la fotografia la attira – accordandone il respiro –nella nostra precaria sfera di viva esperienza estetica, nella dimensione che per ciascuno di noi rappresenta «la mia contingenza qui, il mio trascurato privilegio»11
Così, mentre fotografo e attrezzatura se ne vanno, guardate alla luce della chiesa – quella solita e un po’ scialba – le sculture appaiono inevitabilmente lise, consumate dallo smeriglio opaco dei giorni sempre uguali. Ogni figura o racemo scolpito riprende compostamente il suo ruolo inamovibile nella quotidianità. Le foto scattate, che possono a buon diritto comporre una mostra, rimangono a ricordarci – alla stregua di immagini di scena –che una rappresentazione sacra si svolge lì da cinquecento anni. E che molto della sua riuscita dipende dalla sensibilità con cui la si sa osservare. Perché «nella luce […] si bagna la pelle; e il pensiero»12
11
«[…] My contingency here, my under-regarded privilege»:
F. Gander, Essere con, Parma, Tielleci Editrice, 2020 [2019], p. 59.
12
M. Zambrano, Mistero e distribuzione della luce [1965], in Dire luce. Scritti sulla pittura, cit., p. 279.
OPERE
GRADISCA DI SEDEGLIANO
CHIESA DI SANTO STEFANO
PORTALE | Martirio di Santo Stefano, 1515
Nella lunetta che corona il portale, il martirio va in scena in un’atmosfera sospesa, sotto il partecipe sguardo divino invocato dal diacono Stefano («DOMINE IH[S]V ACCIPE SP[IRITV]M MEVM») e davanti a spettatori terreni sbozzati con scalpellature essenziali. La gragnuola di sassate sta per rompere il silenzio e insanguinare la pietra scabra, da cui emerge appena, proprio al centro, la figura di un soldato: un personaggio cui dare corpo – per lo scultore ieri, per il fotografo oggi – con chiaroscuro sottile.
GRADISCA DI SEDEGLIANO
CHIESA DI SAN GIORGIO
BALAUSTRA, 1524
La balaustra si compone di due elementi, che in un trascorso riassemblaggio han visto confinate in soliloquio contro la parete le probabili rappresentazioni di San Giovanni Evangelista e di San Giorgio, col suo drago alato tenuto distrattamente al guinzaglio. Ancora libere di confrontarsi sono invece le figure centrali dell’Arcangelo Gabriele e di Maria, ennesima variatio su un tema caro allo scalpello di Pilacorte; espressioni di un’arte che, come recita l’iscrizione nel cartiglio, «O Signore, non a noi ma al nome tuo dà gloria».
BALAUSTRA
In alto
ELEMENTO DI SINISTRA CON SAN GIORGIO E ANGELO ANNUNCIANTE
A destra
DETTAGLIO CON CARTIGLIO
BEANO / CODROIPO
CHIESA DI SAN MARTINO
ACQUASANTIERA, 1519
Nella chiesa di San Martino Pilacorte è già attivo nel 1509, firmandovi il portale. Vi ritorna a distanza di un decennio per prodursi in un altro dei suoi più classici pezzi di repertorio: un fonte battesimale – poi divenuto acquasantiera, approfittando anche dell’ampiezza di senso dell’iscrizione sulla coppa: «AQVA ET SPIRITV OMNES PVRIFICAMVR» – impostato sul motivo dei putti addossati al fusto e con basamento arricchito da teste di leone, quasi a raccordare con diffuse tradizioni popolari l’idea di nuova vita in Cristo.
Il putto afferra il capo d’un panneggio che è puro artificio: il liutista, beatamente alla deriva nella musica, non se ne accorge proprio, ma quel lembo di stoffa lo attraversa ed è la linea di movimento a cui s’appiglia l’intero girotondo.
MEDUNO
CHIESA DI SANTA MARIA E DEI SANTI FILIPPO E GIACOMO
FONTE BATTESIMALE , 1485
L’opera è tra le prime di Pilacorte in regione e presenta sulla coppa, intorno allo stemma vescovile di Antonio III Feletto, un assaggio in pietra locale dei motivi che comporranno per decenni il lessico dell’artista: baccellature, tacche, perline e fusarole infilzate – come spesso si vedono, in sottolineata tridimensionalità, anche nella contemporanea pittura friulana –, a delimitare la superficie da cui far sporgere la giostra di teste alate di cherubini.
SEQUALS
CHIESA DI SANT’ANDREA APOSTOLO
FONTE BATTESIMALE, 1497
BALAUSTRA CON L'ANNUNCIAZIONE, 1504
Il fonte battesimale presenta addossati al fusto quattro putti particolarmente flessuosi, concepiti in stretta connessione con i libri del Nuovo Testamento: ogni figura regge un volume con la mano che non sostiene la coppa, e i simboli degli Evangelisti si inseriscono nei danzati intervalli fra i loro piedi. L’elegante dialogo del fonte con il resto della struttura è questione recente, perché la balaustra ornava in origine – sempre a Sequals – la Chiesa di San Nicolò.
A sinistra
BALAUSTRA CON ANGELO ANNUNCIANTE E FONTE BATTESIMALE
In alto
FONTE BATTESIMALE
TESTA DI CHERUBINO E MODANATURE
Maria sembra aver già compreso l’incomprensibile, ha superato il turbamento iniziale e sta quasi per chinare il capo in dolce segno di humiliatio. O forse il suo è semplicemente il sorriso interiore di ogni donna per una pregustata maternità.
TRAVESIO
CHIESA DI SAN PIETRO
PORTALE, 1484
FONTE BATTESIMALE, 1490 ca.
Gli interventi di Pilacorte a Travesio e in Friuli si inaugurano con il portale di San Pietro – oggi traslato all’interno della chiesa, al termine della navata sinistra –, in cui l’Eterno Padre vigila dall’alto –globo saldamente nella mano – sullo sviluppo delle candelabre vegetali, su su fino al cristologico pellicano che si squarcia il petto. Dal sacrificio passa la strada per la salvezza, e lungo quel cammino di purificazione e rinascita i fedeli sembrano fiduciosamente attesi dai putti musicanti del fonte battesimale.
Il cembalo ha dei sonagli che non giungono ad essere sonori quanto i tralci che percorrono la coppa del fonte; i racemi, definiti per sottrazione, serpeggiano liberi e idealmente si connetteranno – qualche centimetro sopra – al bucranio condotto fino a lì da una partecipata memoria della classicità.
Gli occhi si rovesciano verso l’alto nella appagata tattilità della musica; le dita solleticano le corde del liuto; le foglie d’acanto regalano al putto, ignaro del pudore, delle ali vegetali e la scorza del fusto si arrotola come un tempo che ritorna su se stesso.
PORTALE
A sinistra PADRE ETERNO
A destra DETTAGLIO DELLA CANDELABRA VEGETALE
SPILIMBERGO
DUOMO DI SANTA MARIA MAGGIORE
FONTE BATTESIMALE, ante 1492
AMBONE, nono decennio del sec. XV
CAPPELLA DEL CARMINE, 1498
ALTARE DI SANT'ANDREA
A Spilimbergo Pilacorte prese residenza appena giunto in Friuli e non stupisce dunque trovare nel Duomo della cittadina vasta espressione della sua arte, che Stefano Ciol documenta in riferimento all’imponente fonte battesimale, a uno degli amboni addossati ai pilastri di fronte al presbiterio, all’Altare di Sant’Andrea nella navata settentrionale e alla concezione complessiva della Cappella del Carmine in quella meridionale. Scultura a tutto tondo, rilievo e composizione architettonica si fondono qui in un linguaggio compiutamente rinascimentale.
via», direbbe un
«Gli
come Forrest Gander dei vorticosi scorrimenti vegetali della coppa: foglioline lanceolate e campanule a grappoli che brulicano in un vitalismo inarrestabile, sopra alla benaugurante corona di melagrane, e che le sfingi alate sono orgogliose di sostenere.
aggettivi spumeggiano
poetaFONTE BATTESIMALE FUSTO CON SFINGI ALATE E GRAPPOLI DI FRUTTA
A quale genere o contesto appartiene questa figura? A scavalco fra cristianesimo e classicità – Donatello docet –assistiamo a una ibridazione, a una metamorfosi parallela al mutar di stato di chi si battezzerà con l’acqua benedetta; nuovi orizzonti si aprono per il fedele e la sfinge – come dice il suo sguardo – li conosce già.
ALTARE DI SANT'ANDREA
A sinistra dall'alto SACRIFICIO DI ISACCO, SACRIFICIO DI DUE AGNELLI, GIUDITTA E OLOFERNE, MOSÈ DAVANTI AL ROVETO ARDENTE
A destra
RILIEVI DEL PILASTRO DESTRO
Una gran macchina liturgica, la cornice di questa cappella. Statue e rilievi divengono più che mai tutt’uno con la muratura, solidali all’intonaco affrescato: differenti densità di una stessa pelle, che ci attira nella cadenza ipnotica del rito. L’arioso diaframma della balaustra vale soltanto a renderne maggiormente desiderabile la condivisione.
CAPPELLA DEL CARMINE
A sinistra DAVIDE E GOLIA
A destra STRAGE DEGLI INNOCENTI
Collega di numerosi altri Angeli cerofori frequentatori di balaustre, con il suo ritmo inarcante di sopracciglia il nostro amico alato diventa coscienzioso fino al possesso: quel candelabro dovrà restare saldo e diritto fra le sue mani, come fossero entrambi scolpiti nella pietra.
È fuori di dubbio che la figura
ci accompagni entro i confini della sacralità, ma al fotografo tocca il compito di coglierla al limite estremo del mondo materiale; dove l’Angelo – come scrisse Fernando Pessoa – può volgersi e dirci per un’ultima volta: ecco «l’ombra e il momento in cui consisto».
CAPPELLA DEL CARMINE
A sinistra ANGELO CANDELOFORO
Pagina successiva BALAUSTRA SINISTRA
I boccoli scendono sulla spalla rubando perfino la scena al piumaggio alato. Spietatamente sbozzati, perdono quasi subito la flessuosità del ciuffo sulla fronte, ma si rifiutano di apparir rigidi. Cadono sonori, con l’entusiasmo tridimensionale di una collana e dei suoi dischetti infilzati nel cordino, pronti a sfumare nell’oscurità là dietro.
GAIO DI SPILIMBERGO
CHIESA DI SAN MARCO
PORTALE, 1490
Nelle cattedrali gotiche i rilievi dei portali descrivevano spesso il Giudizio Universale, per mostrare ai fedeli i tormenti degli inferi e indirizzare di conseguenza le loro scelte morali di vita. Qui a Gaio sono invece paffute testoline di cherubini che ci osservano dallo spessore dell’apertura, ma là in alto ci pensa il leone – con la sua ala che governa lo srotolarsi dell’intera facciata –a ricordarci qualcosa di importante: l’intitolazione della chiesa a San Marco e soprattutto il dovere di obbedienza politica a Venezia.
PORTALE
A sinistra TESTA DI CHERUBINO
A destra LEONE MARCIANO
SAN VITO AL TAGLIAMENTO
CHIESA DI SANTA MARIA DEI BATTUTI
PORTALE, 1493
Le candelabre sui pilastri del portale accompagnano lo sguardo verso la lunetta, in cui la Madonna della Misericordia abbraccia col suo mantello i membri della confraternita.
Ma Stefano Ciol si concentra sullo stipite interno, dove la pietra parla all’intera comunità: la preghiera incisa da Pilacorte chiede al santo – scolpito con l’aiuto del Signore: «DEI OPTI[MI] MAX[IMI] AVSPI[CIIS]» – di esser memore del suo popolo, e Vito regge la città con disinvolta sicurezza, non diversamente da quanto già da un po’ facevano gli archi con la Torre Scaramuccia sullo sfondo.
VILLANOVA / PORDENONE
CHIESA DI SANT’ULDERICO
ALTARE , 1520
L’altare di Pilacorte, con le sue armoniche proporzioni, si venne a inserire nel piccolo presbiterio pochi anni dopo che volta e pareti erano state affrescate dal Pordenone (1514).
Nella vela centrale campeggia ancor oggi – fra un ricco concerto di voci, fiati e liuti – la Incoronazione della Vergine, che lo scultore caronese in un certo senso completò con il suo umano antefatto: nella voluta di destra, infatti, l’angelo musicante col suono sommesso della sua viola pare accompagnare Maria nell’accettazione del mistero che le è stato appena annunciato.
ALTARE
In alto
VOLUTA CON PUTTO MUSICANTE
A destra
DETTAGLIO DEL BEATO ODORICO
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PUTTO MUSICANTE E MADONNA ANNUNCIATA
PORDENONE
DUOMO CONCATTEDRALE DI SAN MARCO
PORTALE, 1511
A inizio ‘500 Pilacorte realizza per il Duomo di Pordenone anche acquasantiera e fonte battesimale, ma il culmine dei suoi interventi è costituito dal maestoso portale. Lo sguardo di Stefano Ciol si concentra sul ricco intaglio degli stipiti – nei quali felicemente si dispiega un esuberante repertorio iconografico che intreccia mito, simboli zodiacali e immagini del lavoro nei campi –e sul pathos del Cristo Passo nella lunetta, affiancato da angeli dolenti e definito nei termini di un realismo di particolare intensità, ispirato alla migliore scultura veneziana del periodo.
PORTALE
A destra: CRISTO PASSO
PORTALE
Pagina precedente da sinistra: ANGELO DOLENTE, RILIEVI DEGLI STIPITI
A destra
COMPLESSIVO DELLA LUNETTA
SAN GIORGIO DELLA RICHINVELDA
CHIESA DI SAN NICOLÒ
ALTARE, 1497
La policromia densa e pervasiva connota questo altare di Pilacorte in termini più popolarmente narrativi rispetto a quelli di Villanova e Vito d’Asio. Negli scomparti ai lati della Madonna col Bambino trovano posto – essi pure a fil di cornice e con forte aggetto su uno spazio di fondo puramente disegnato – San Nicolò con le tradizionali sfere d’oro e il santo aquileiese Fortunato, con il turibolo in una mano e – in origine – la palma del martirio nell’altra; a sovrintendere al funzionamento rituale del complesso, simboli degli Evangelisti nella lunetta ed Eterno Padre alla sua sommità.
ALTARE
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MADONNA COL BAMBINO, SAN FORTUNATO
A sinistra
SAN NICOLÒ, MADONNA COL BAMBINO, SAN FORTUNATO
VITO D'ASIO
PIEVE DI SAN MARTINO
ALTARE, 1525 - 1528
Le figure sono ordinatamente impostate entro le squadrate nicchie di competenza secondo uno schema ancora quattrocentesco, ma con una vivezza espressiva che parla del nuovo secolo e che il fotografo va a scovare nei dettagli: nei Santi Giovanni e Giacomo che osservano compassionevoli il nostro mondo dallo spessore altrettanto concreto della loro architettura sacra; o nel rimbalzare dei medesimi ritmi sinuosi dal mantello di San Martino a un simbolico tralcio di vite, fino su alla chioma di Maria Maddalena, che abbraccia la croce accanto a una versione già espressionista delle ossa di Adamo.
CIMASA CON PADRE ETERNO, ANNUNCIAZIONE E CROCIFISSIONE
ALTARE
CROCIFISSIONE: DETTAGLI DEI LADRONI
ALTARE DETTAGLI DELLA CROCIFISSIONE:
A sinistra
MARIA MADDALENA
AI PIEDI DELLA CROCE
A destra SAN GIOVANNI EVANGELISTA
ALTARE
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SAN GIOVANNI EVANGELISTA
A sinistra
SANTA MARGHERITA E SANTA CATERINA
D'ALESSANDRIA
A destra
RILIEVO DELLO STIPITE
ALTARE
A sinistra DETTAGLIO DI SANTA MARGHERITA
In basso DETTAGLIO DEL PICCOLO DRAGO, ATTRIBUTO DI SANTA MARGHERITA
ALTARE
Pagina precedente NATIVITÀ, SAN MICHELE ARCANGELO E SAN NICOLÒ
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ELEMOSINA DI SAN MARTINO, MADONNA COL BAMBINO IN TRONO, SAN GIACOMO APOSTOLO E MARIA MADDALENA
A sinistra SAN MICHELE ARCANGELO
In basso
DETTAGLIO DELLA NATIVITÀ
ALTARE
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ELEMOSINA DI SAN MARTINO
A sinistra
RILIEVO CON TRALCIO DI VITE
A destra
DETTAGLIO DELL'ELEMOSINA DI SAN MARTINO
ALTARE
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SAN GIACOMO APOSTOLO, MARIA MADDALENA
A sinistra e destra
RILIEVI DEI PILASTRINI
GIOVANNI ANTONIO PILACORTE
1455 ca. - 1531 ca.
«Gio. Antonio Bassini de Pillacurte de Carona de la Val de Lugan» –come ce lo restituisce un documento pubblicato da Paolo Goi – ebbe certamente la sua formazione artistica nella terra natale, il Ticino, nota per aver sfornato intere generazioni di lapicidi e tagliapietre.
Agli inizi del nono decennio del ‘400 si trasferì in Friuli, come avevano e avrebbero fatto molti suoi compatrioti, spinti dalla difficoltà di farsi largo sulla scena artistica a Venezia e dalla abbondante presenza in loco di materia prima aggredibile dai loro scalpelli.
Non distante dalle cave di Travesio, a Spilimbergo, Pilacorte fissò la sua dimora (poi trasferita, negli anni, a Udine, Cividale, Pordenone) e nella zona circostante eseguì le prime opere a noi giunte, come i fonti battesimali di San Pietro a Travesio e della chiesa parrocchiale di Meduno.
Nei decenni seguenti la produzione del lapicida si snodò, con qualche caduta nel puro artigianato, attraverso una sterminata serie di portali, acquasantiere, balaustre, fonti battesimali, che dettarono uno stile pacato di rilettura della tradizione nelle chiese del territorio; opere abitate da una popolazione di esseri rampicanti, realizzate sempre con un senso chiaroscurale degli ornati e un trattamento a piani spezzati della materia che costituiscono la cifra personale di Pilacorte, il quale si dimostra aggiornato sulle opere veneziane dei Lombardo e non ignaro dei raggiungimenti dell’Amadeo o di Agostino di Duccio. Il che vale soprattutto per alcune opere di maggiore impegno e complessità, quali la Cappella del Carmine nel Duomo di Spilimbergo (1498), il portale del Duomo di Pordenone (1511) e il grande altare della Pieve di San Martino a Vito d’Asio (1525-1528).
Pilacorte si ritirò in tarda età a Pordenone presso la figlia Anna e il genero Donato Casella – egli pure scultore e sicuramente partecipe di un’organizzata bottega a conduzione familiare – e sulle rive del Noncello dovette spegnersi; l’ultimo documento che ci parla di lui è il testamento, datato 1531.
TARVISIO
ALLA SCOPERTA DEL TERRITORIO ATTRAVERSO LA SCULTURA
LO SGUARDO DI STEFANO CIOL
In termini storico-artistici, l’opera di Stefano Ciol si potrebbe definire come l’esito di una illustre tradizione di bottega famigliare, radicata a Casarsa della Delizia (PN), dove l’autore vive e lavora; e come in certi ateliers pittorici del passato, l’affermazione del nuovo esponente passa attraverso l’assorbimento delle professionalità consolidate, di tecniche che si sono fatte stile, e attraverso l’impegno nel rinnovarle alla luce anche degli inediti strumenti che la fotografia ha oggi a disposizione, e che continuamente si evolvono.
Nella sua ricerca visiva assume particolare rilievo il paesaggio, fotografato in primis tramite il bianco e nero: a evocarne le forme sono ombre di volta in volta nette come una colata d’inchiostro o dalla profondità lanuginosa, che sembrano adeguarsi alla memoria di sonorità secche o allo sfrangiato riverbero dei silenzi di natura. Ma sempre più significativo è divenuto, nel corso degli anni, il ricorso di Ciol al colore: un elemento che potrebbe sottolineare l’adesione dell’immagine alla realtà e che invece Stefano sa piegare a compiti opposti, facendogli talora assumere una valenza straniante e comunque evocatrice di un non detto, come se fosse una coltre di pigmenti a stendersi luminosa sulle cose e a richiamarle a una superiore intonazione. A colori o in bianco e nero, lo sguardo del fotografo sa insomma innescare i processi mentali che fanno intuire nel visibile orditure insospettate; leggendone la dialettica di ombre e luci, accompagna il soggetto a parlare liberamente con la propria voce.
Né più né meno quanto accade – in una sfera che è di attività professionale, ma che in Stefano coinvolge la dimensione più profondamente creativa –nella documentazione delle opere d’arte. È di fronte alla scultura, in particolare, che i confini tra la piena resa di un panneggio e l’interpretata, poetica morfologia di terreni erosi, creste e pendii possono diventare sottili. Darne atto è fra i propositi di questa mostra.
Lo sguardo di Stefano Ciol su Pilacorte
ATTRAVERSO LA PIETRA
®Stefano Ciol
®Giavedoni Editore
A CURA DI Fulvio Dell'Agnese
PROGETTO FOTOGRAFICO E FOTOGRAFIE DI Stefano Ciol
PROGETTO GRAFICO studiodeperu
GIAVEDONI EDITORE
Via Mazzini 64 Pordenone 33170
T +39 0434 27744
giavedonicornelionum@gmail.com www.ga-b.com
ISBN 9788898176359
®Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o archiviata in un sistema di recupero o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, fotoriproduzione, memorizzazione o altro senza il permesso scritto da parte di Giavedoni Editore.
STAMPA UNICOLOR
Azzano Decimo Pordenone
finito di stampare nel mese di maggio 2022
Le riprese fotografiche sono state realizzate su concessione della:
DIOCESI DI CONCORDIA-PORDENONE
Ufficio Arte Sacra e Beni Culturali
ARCIDIOCESI DI UDINE
Ufficio Diocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici
Si ringraziano le parrocchie coinvolte:
PORDENONE
SEQUALS
Chiesa di Sant’Andrea Apostolo
SPILIMBERGO
Duomo di Santa Maria Maggiore
GAIO DI SPILIMBERGO
Chiesa di San Marco
SAN GIORGIO DELLA RICHINVELDA
Chiesa di San Nicolò
VILLANOVA DI PORDENONE
Chiesa di Sant’Ulderico
PORDENONE
Duomo Concattedrale di San Marco
MEDUNO
Chiesa di Santa Maria e dei Santi Filippo e Giacomo
TRAVESIO
Chiesa di San Pietro
CLAUZETTO
Pieve di San Martino in Vito d’Asio
SAN VITO AL TAGLIAMENTO
Chiesa di Santa Maria dei Battuti
UDINE
GRADISCA DI SEDEGLIANO
Chiesa di San Giorgio
Chiesa di Santo Stefano
BEANO
Chiesa di San Martino
Con il sostegno di:
In collaborazione con:
Organizzato da: Partner di progetto: Con il contributo di:
Comune di San Vito al Tagliamento
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