elio ciol
elio ciol
Assisi la densità del silenzio the density of silence
E. Ciol - Assisi, la densità del silenzio ISBN 978-88-95157-15-3
Assisi
la densità del silenzio the density of silence
coordinamento grafico graphic designer
Carolina Tomasin per edizioni publishers
Punto Marte traduzione testi inglesi translation
QTS srlu - Stefania Cellot
ISBN 978-88-95157-15-3 Copyright Punto Marte edizioni Š per le immagini Elio Ciol
elio ciol
Assisi
la densitĂ del silenzio the density of silence presentazione di / presentation by
Andrey Martynov introduzione di / foreword by
testo di / text by
massimo carboni
Incontro con Elio Ciol…
Vidi le fotografie di Elio Ciol per la prima volta in un libro a casa di Frank Dituri, che viveva nei pressi di Firenze. Era la prima volta che venivo in Italia, insieme a mio figlio Ilja, ed ero totalmente affascinato dalla varietà e dalla bellezza dei paesaggi dell’Italia, inimitabile nella sua bellezza e nei suoi centri medioevali. “Bella Italia.” Arrivammo a Firenze subito dopo avere visitato Gubbio e Assisi, e quelle maestose foto di Ciol, che vidi nel suo libro, consolidarono l’impressione di quanto avevo visto con i miei occhi solo qualche ora prima. Gentilmente, Frank Dituri mi regalò il libro, che poi passò di mano in mano tra i miei amici in Russia, destando sempre ammirazione per l’alta qualità e il forte impatto delle opere di Elio Ciol. Successivamente, all’inizio del 2009, alcune fotografie di Elio Ciol arrivarono in Russia nell’ambito della mostra itinerante, “I soj tornat di Estàt”, di cui ero il coordinatore. La mostra itinerante visitò circa dieci città russe, partendo da Mosca e finendo a San Pietroburgo. Questa mostra era dedicata ai luoghi dove Pier Paolo Pasolini aveva vissuto in Friuli. Ciol conosce molto bene questa regione, in quanto vive a Casarsa da molti anni. Nell’estate del 2009 mi recai a Spilimbergo (Friuli) in occasione di “Spilimbergo Fotografia,” dove Frank Dituri ricevette il “Premio amici del CRAF”, giunto alla 7° edizione, e dove io ricevetti l’“International Award of Photography” (XII° edizione). Finalmente, più tardi quello stesso giorno noi tre, Frank Dituri, Elio Ciol ed io, ci incontrammo. Sfortunatamente, non parlando Italiano, non potei comunicare direttamente con il maestro Ciol, ma fu un grande onore stringerli la mano. Fui molto colpito dall’ospitalità e dal calore paterno di Elio Ciol, che fu così aperto da parlare con me. Purtroppo non potemmo continuare la nostra conversazione in quanto Frank ed io dovevamo presenziare ad un evento ufficiale, così fummo costretti a concludere presto il nostro incontro. Ma quel breve incontro bastò per avviare un nuovo progetto congiunto, con le opere di Elio Ciol e Frank Dituri, per un’importante mostra in Russia, che Ciol intitolò “La Densità del Silenzio.” E’ interessante ricordare che fui presentato a Frank Dituri dal suo vecchio amico giapponese, Hiroaki Miyayama, perché subito dopo la Russia la mostra “La Densità del Silenzio” andrà a Tokyo, Giappone. Niente nelle nostre vite accade per caso.
Meeting Elio Ciol…
I saw the photographs of Elio Ciol for the first time in a book at the house of Frank Dituri, who was living near Florence. I came to Italy for the first time in my life together with my son, Ilja and was completely fascinated by the variety and beauty of Italy’s landscapes, inimitable in its beauty and medieval towns -“Bella Italia.” We arrive in Florence just right after visiting Gubbio and Assisi, so those majestic photos by Ciol, which I saw in his book, consolidated my impression of what I have seen with my eyes just a few hours earlier. Frank Dituri kindly gave me the book as a gift. Later it went from hands to hands of my friends in Russia provoking permanent admiration of the highest quality and strong impact of Elio Ciol’s work. Later in early 2009 some photographs by Elio Ciol arrived in Russia as a part of the traveling show, “i soj tornat di estàt”. I was the coordinator of the exhibition touring about ten Russian towns starting from Moscow and ending in St. Petersburg. This show was dedicated to places where Pier Paolo Pasolini lived in Friuli. Ciol knows this region very well since he lives in Casarsa for many years. In the summer of 2009 I visited Spilimbergo (Friuli) on the occasion of “Spilimbergo Fotografia,” where Frank Dituri was awarded the “Premio amici del CRAF” award, VII Edition, where I also was given the “International Award of Photography”, XII Edition. Finally later that day, all three of us, Frank Dituri, Elio Ciol and I, met. Unfortunately, since I do not speak Italian, I could not communicate directly with master Ciol, but it was a great honor to shake his hand. I was impressed very much with his hospitality and the fatherly warmth of Elio Ciol, who was so open to talk with me. It was a pity because, Frank and I had an official event and we could no longer talk and were forced to end our meeting early. But it was enough time to initiate a new joint project of the works of Elio Ciol and Frank Dituri for an important exhibition in Russia, which was titled by Ciol, “The Density of Silence.” Interesting, I was introduced to Frank Dituri by his old Japanese friend, Hiroaki Miyayama, because right after Russia, the exhibition, “The Density of Silence” will go to Tokyo, Japan. Nothing in our lives happens accidentally.
Andrey Martynov
Direttore della Fondazione Biennale di Mosca Director, Moscow Biennale Art Foundation
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La fotografia e il paesaggio
L’invenzione della fotografia è dovuta in gran parte al desiderio di rappresentare paesaggi e strutture belli o maestosi che non si è riusciti a rendere in modo soddisfacente con la propria mano. I primi inventori del mezzo, in particolare lo scienziato britannico William Henry Fox Talbot, furono i primi a sperimentare metodi per catturare le configurazioni dei paesaggi tracciando le loro proiezioni sullo schermo di vetro di un oggetto simile ad una scatola, chiamato camera obscura. Quando questo tentativo si dimostrò meno facile del previsto, Talbot creò un apparecchio simile, sempre a forma di scatola, con un’apertura che permetteva di mettere a fuoco i raggi di luce per formare un’immagine che poteva diventare permanente mediante azione chimica. Che venisse usato il processo negativo-positivo su carta duplicabile creato da Talbot o lo straordinario processo dagherrotipo perfezionato in Francia, gli edifici ed i paesaggi furono tra i primi soggetti del nuovo strumento fotografico. Intorno al 1840, con l’evoluzione degli apparecchi, dei materiali e dei processi fotografici, e con il perfezionamento del componente chimico dello strumento, il desiderio di catturare immagini dei paesaggi e dei suoi edifici e monumenti rimase un irresistibile motivo per cui la gente si dedicava alla fotografia. Diversi fattori spiegano il precoce interesse nei confronti del paesaggio. Man mano che le città crescevano invadendo la campagna, il mondo naturale che stava scomparendo diventava più prezioso. L’avanzante industrializzazione in parti di Europa e Gran Bretagna sollecitava un più attivo apprezzamento degli alberi, delle rocce, dei cieli, dell’acqua e dei frutti del campo. Al contempo, sempre più persone avevano la possibilità di viaggiare e desideravano conservare dei ricordi sotto forma di immagini che riflettessero accuratamente i luoghi visitati. Gli oggetti di artigianato, che in precedenza avevano soddisfatto l’esigenza di avere un’immagine dei mondi costruiti e naturali, richiedevano troppo tempo per la produzione e quindi risultavano troppo costosi per la crescente classe media rappresentata dai nuovi viaggiatori. Un ulteriore impulso a favore delle rappresentazioni più fedeli del
Photography and the landscape
The invention of photography is owed in great part to a desire to depict the landscape and structures that people found beautiful or awe-inspiring, but which they were unable to render satisfactorily by their own hand. The early inventors of the medium, in particular British scientist William Henry Fox Talbot, first experimented with methods of capturing landscape configurations by tracing their projections onto the glass screen of a box-like object called a camera obscura. When this proved less easy than imagined, he created a similar box device with an opening that would focus rays of light to form a picture that might then be made permanent by chemical action. Whether it was the negative-positive duplicatible paper process created by Talbot or the unique daguerreotype process perfected in France, buildings and landscapes were among the first successful subjects of the new medium of photography. From the 1840s on, as cameras, materials and processes evolved and the chemical component of the medium was perfected, the desire to capture images of the landscape and its buildings and monuments remained a compelling reason to photograph. Several factors account for the early interest in the landscape. As cities grew larger and impinged on the countryside, the disappearing natural world became more precious. Advancing industrialization in parts of Europe and Great Britain invited a more active appreciation of trees, rocks, skies, water, and the fruits of the field. At the same time, more people were able to travel and wished to have souvenirs in the form of pictures that accurately reflected the sights they had seen. The hand-made arts, which previously had fulfilled the need for pictures of the built and natural worlds, were time-consuming to produce and therefore too expensive for the growing middle-class of people who were the new travelers. A further impetus promoting the more faithful representations of the natural world provided by photography were scientific ideas about how this world had evolved. The developing interest in science combined with the romantic predilections of the era to promote landscape imagery, which has remained a motivating
8 mondo naturale offerte dalla fotografia venne dalle idee scientifiche sull’evoluzione di questo mondo. Il crescente interesse nei confronti della scienza si combinò alla predilezione romantica del periodo, promuovendo l’immagine del paesaggio, che è rimasta una forza motivante in fotografia. A questi fattori andrebbe aggiunto l’elemento umano. Non più selvaggia, la terra in molte parti del mondo ed in particolare in Europa Occidentale era stata addomesticata con lunghi anni di agricoltura e allevamento, rivelando l’impronta dello sforzo umano. Questo fu un ulteriore motivo per cui i fotografi sentirono di dover ritrarre non solo il mondo naturale, ma anche le sue interazioni con le persone che vivono in contatto con la terra e da essa traggono sostentamento. Subito dopo la scoperta della fotografia, il desiderio di documentare il paesaggio si diffuse rapidamente in tutta l’Europa Occidentale e nel Nord America. Man mano che aumentava il numero di persone in grado di viaggiare, l’Italia divenne un’attraente destinazione turistica. Tappa d’obbligo di ogni viaggio in Europa tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, attirava chiunque fosse interessato ad esplorare le possibilità commerciali dello strumento fotografico. Ma non fu soltanto la prospettiva di commercializzare immagini di edifici e monumenti storici famosi e giardini e topografie insoliti ad attirare i fotografi della zona ed anche quelli provenienti da luoghi più freddi, meno storici e più rigidamente organizzati. Molti erano rapiti dalla qualità della luce e dal modo in cui essa illuminava le forme e le trame di antiche strutture, ma anche del terreno e del fogliame. I numerosi esempi in Italia di arte dal periodo classico al Rinascimento, che si trovavano ovunque - in piccole chiese di paese come nei palazzi ducali - lungo strade comuni come in grandiose piazze -, erano non solamente accessibili, ma sembravano anche incoraggiare la creazione dell’arte fotografica, più che la semplice documentazione fotografica. I fotografi, il cui interesse poteva essere inizialmente il vantaggio economico, furono influenzati dal carattere artistico del loro ambiente. Circondati da statue e dipinti, producevano immagini che riflettevano questa sensibilità agli aspetti formali dell’espressione artistica; erano sedotti anche da quello che percepivano essere il carattere pittoresco della vita comune quotidiana. Questa visione dell’Italia, del suo territorio e della sua cultura durò fino al ventesimo secolo. Tuttavia, man mano che le macchine fotografiche diventarono sempre più facili da comprare e usare, e che il processo di stampa delle fotografie diveniva facilmente disponibile, sempre più persone erano in grado di produrre sempre più immagini della natura e degli edifici. Molte di queste immagini - probabilmente la grande
force in photography. To these factors, one should add the human element. No longer wild, the land in many parts of the world and in particular in Western Europe had been tamed through long years of farming and animal husbanding, revealing, as it were, the imprint of human effort. This became still another factor impelling photographers to portray not just the natural world, but its interaction with those who live close to the land and draw their sustenance from it. Soon after photography’s discovery, the urge to document the landscape spread rapidly throughout western European and into North America. As more people were able to travel, Italy became a desirable tourist destination. A required stop on any tour of Europe during the late nineteenth and into the twentieth century, it attracted those exploring the commercial possibilities of the medium. But it was not only the prospect of marketing images of famous historical buildings and monuments and unusual gardens and topography that drew resident photographers as well as those from colder, less storied and more rigidly organized places. Many were entranced by the quality of the light and the way it illuminated the forms and textures of ancient structures as well as the terrain and foliage. The abundant examples in Italy of art from classical times through the Renaissance, which appeared to be everywhere - in small village churches as well as ducal palaces - on ordinary streets as well as in grand plazas -, were not only accessible but also seemed to foster the creation of photographic art rather than of mere documentation. Photographers whose interest initially may have been in the possibilities of commercial gain were affected by the artistic character of their environment. Surrounded by statuary and paintings, they produced images that reflected this sensitivity to the formal aspects of artistic expression; they were seduced as well by what they perceived to be the picturesque character of common every day life. This view of Italy and its land and culture persisted into the twentieth century. However, as cameras became easier to acquire and to use, and photographic processing became widely available, great numbers of people were able to produce more and more images of nature and buildings. Many of these images - probably most - were ordinary depictions in the form of snapshots and transparencies without artistic merit. They were meant to remind their makers of where they had been and what they had seen. Still others were well-executed useful documents, acquainting
9 maggioranza - erano semplici ritratti sotto forma di istantanee e diapositive prive di valore artistico. Servivano a ricordare a chi le aveva scattate i luoghi dove erano stati e cosa avevano visto. Altre ancora erano documenti utili e ben realizzati, che avvicinavano gli storici, gli architetti e gli artisti agli elementi decorativi e strutturali dei monumenti architettonici delle epoche passate - basti pensare all’archivio Alinari. Ed altri ancora - come ad esempio Giocamelli - erano incantati dalle forme e dai motivi creati dalla luce che illuminava il terreno. Le fotografie hanno anche offerto una visione più trascendente della terra e della sua gente - nel tempo libero, al lavoro e a casa. Queste immagini rimangono vivide della mente e nella memoria. La capacità di creare un’immagine visiva che vada oltre l’essere semplicemente decorativa o informativa - per quanto importanti possano essere queste intenzioni - non è data a tutti coloro che usano una macchina fotografica. Bisogna essere sensibili al modo in cui le forme sono organizzate, alla qualità della luce e al modo in cui illumina la scena. Per conquistare questo potere occorre essere stimolati da una passione che non è facile da definire o spiegare. Questa trascendenza caratterizza l’opera di Elio Ciol. Il punto di vista dal quale questo fotografo osserva la scena, il modo in cui manipola la luce e il ritmo delle forme, la scelta della pellicola in bianco e nero in un’era che sembra preferire il colore - sono elementi che contribuiscono a creare una sensazione di bellezza calma. Ma in aggiunta alle sue scelte estetiche, nell’opera di Ciol si sente la presenza di uno spirito ultraterreno che cerca l’armonia in tutte le cose. Le sue prime rappresentazioni di lavoratori, contadini e bambini - realizzate nei difficili anni 50 - non evidenziavano la loro miseria, ma li mostravano con notevole empatia e ammirazione della loro mancanza di autocommiserazione. I suoi ritratti del paesaggio naturale e delle sue strutture antiche suggeriscono un mondo in rapporto con se stesso. Questi lavoratori dimostrano un grande rispetto per un terreno fatto di campi ondeggianti e rudi montagne ma anche per un passato rappresentato da vecchie rocce e oggetti in ferro. Questo vale soprattutto per le immagini della città di Assisi, che Ciol ha presentato amorevolmente da lontano e in primo piano, avvolta nella nebbia e sotto un sole penetrante, nelle sue facciate esterne di pietra e nei suoi affreschi interni. Qui, in questo centro del culto francescano, Ciol è riuscito ad animare l’inanimato con lo spirito del santo del tredicesimo secolo che predicava l’amore e la pace in un mondo attanagliato da conflitti intestini. Le sue immagini di persone che dissodano la terra, raccolgono i prodotti, creano utili manufatti e costruiscono magnifiche strutture rivelano l’amore e la venerazione per la sua terra e le sue genti.
historians, architects and artists with decorative and structural elements of the architectural monuments of past eras-one thinks of the Alinari archive. And still other photographers - Giocamelli comes to mind - were enchanted by the forms and patterns created by light as it illuminated the terrain. Photographs also have offered a more transcendent vision of the land and its people-at leisure, at work and at home. Such images remain vivid in the mind and the memory. The capacity to create a visual image that is more than simply decorative or informative - as important as those intentions may be - is not given to all who use a camera. One has to be sensitive to the way the forms are organized, to the quality of the light and the manner in which it illuminates the scene. To achieve this power one has to be energized by a passion not easily defined or explained. This transcendence distinguishes the work of Elio Ciol. The vantage point from which this photographer views the scene, his handling of light and the rhythm of the forms, the choice of black and white film in an age that seems to prefer color-are elements that contribute to a sense of calm beauty. But in addition to his aesthetic choices, one senses in Ciol’s work the presence of an unworldly spirit that seeks harmony in all things. His early depictions of workers, peasants and children - done in the difficult years of the 1950s - did not emphasize their misery, but showed them with considerable empathy and admiration for their lack of self-pity. His depictions of the natural landscape and its ancient structures suggest a world in rapport with itself. These works reveal a reverence for a terrain of undulating fields and craggy mountains as well as for a past embodied in old stone and iron work. This is true in particular of images of the town of Assisi, which Ciol has lovingly rendered from a distance and in close-up, in enveloping mist and piercing sunlight, in its exterior stone facades and its interior frescoes. Here in this center of Franciscan worship, Ciol has been able to animate the inanimate with the spirit of the thirteenth century saint who preached love and peace in a world beset then, as now, by internecine struggles. His images of those who tilled the soil, harvested its produce and created useful artifacts and built stunning structures evince their maker’s love and reverence for his land and its people.
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I luoghi silenziosi Elio Ciol e Assisi
Questo ciclo di immagini fotografiche che Elio Ciol ha dedicato ad Assisi va dal 1957 al 2009. Si distende dunque lungo un arco temporale che supera i cinquant’anni. Tanto più, allora, appaiono motivo di sorpresa la coerenza dello sguardo, la vocazione contemplativa che rimane ferma, la costanza sapientemente durevole di uno stile figurativo asciutto, realistico, che niente concede al gioco di prestigio, al virtuosismo tecnico, alla spettacolarità fine a se stessa. Eppure, nello stesso tempo, si tratta di un’attitudine partecipe, sollecita. Ed anche percorsa da venature simboliche che riescono a conferire sensi ulteriori al realismo dell’immagine. Non si tratta affatto, però, di una coerenza stolida e racchiusa su se stessa, men che meno di una uniformità ripetitiva. L’unità, in questa serie di foto, è fatta di diversità, e sottotraccia si animano silenziosamente ma diffusamente accenti difformi, interessi tematici che oscillano mutando sì negli anni, epperò disponendosi sotto un medesimo, ampio, aperto orizzonte che tutti poi li ricomprende. E la nota fondamentale che colora questo orizzonte all’interno del quale tutte queste immagini diventano davvero visibili e correttamente interpretabili, si tinge di cadenze meditative. Perché è di tutta evidenza che queste fotografie trovano la loro fonte essenziale nel raccoglimento interiore di chi le ha scattate, e analogo raccoglimento sembrano chiedere a chi le osserva con uno sguardo che vada al di là della semplice presa d’atto di un visibile qualunque che si offre, uno sguardo che riesca a penetrarne la primaria intenzionalità, la consapevolezza poetica che le guida. Gli archi, le viuzze in salita e le sparute persone che vi si aggirano fiduciose. I campanili e le porte delle case, i tetti e le pievi, le finestre chiuse e quelle semiaperte, le fontanelle e i lampioni, l’erba che cresce tra le pietre del selciato e le scanalature profonde e ombrose delle colonne consumate dai secoli. Tutto in queste immagini ci parla tacitamente, con gli accenti pausati e intimi di un eloquente, denso silenzio. Ma di che cosa ci parla senza parlare, che cosa ci narra senza interrompere la densità della quiete?
Silent Places
Elio Ciol and Assisi
This cycle of photographs dedicated to Assisi by Elio Ciol dates from 1957 to 2009. As it covers a period of time exceeding fifty years it is all the more surprising to find coherence in his view, an unchanging vocation for contemplation and the durable constancy of a sleek realistic figurative style that leaves nothing to tricks, technical virtuosity, or spectacle for its own sake. And yet, at the same time this is a shared, deliberate attitude, also distinguished by a symbolic grain which manages to confer meanings that go beyond the realism of the image. However, this is not stolid introvert coherence and certainly not repetitive uniformity. In this series of photographs the unit consists of diversity, and beneath it stir silent but ever present varying accents and an interest in themes that oscillate and mutate over the years, collected under the same wide open horizon that gathers them together. The essential note that colours this horizon, in which all these images become truly visible and can be correctly interpreted, takes on a meditative hue. It is evident that these photographs find their essential source in the inner reaches of the photographer’s soul, and they seem to expect the same meditation from those who observe them with an eye that goes beyond a simple acknowledgement of something visible before them, an eye that manages to penetrate their primary intention and the poetical awareness that guides them. Arches, uphill lanes and a few people who frequent them with confidence. Church towers and front doors, roofs and churches, windows closed or ajar, drinking fountains and lamp posts, grass growing between the cobble stones and the deep shadowy grooves on columns consumed over the centuries; everything in these images speaks to us in the slow intimate language of a deep eloquent silence. But what do they speak of, without speaking; what tale do they tell without interrupting the depth of quietness? Assisi is still a place: that’s what these images by Elio Ciol are saying to us, that’s the tale they tell. The sensation of place, the sensation
12 Assisi è ancora un luogo: ecco di che cosa ci parlano queste immagini di Elio Ciol, ecco che cosa ci narrano. Il senso di un luogo, il senso del luogo, è una qualità dell’ambiente insediativo che non può essere còlta dai parametri standard di natura puramente razionalistico-quantitativa tipici dell’urbanistica moderna: perché è stratificazione di tradizioni, di esperienze, di memorie, di narrazioni. Una stratificazione in origine di natura sacrale, poi, nel tempo, di carattere sociale, estetico, politico, che ha permesso che si sviluppasse un senso di radicamento, di appartenenza, di identità. Tutto ciò si dona nella località, nell’esser luogo di un luogo, nella sua più profonda e riposta essenza. Lo comprendiamo già dalle vedute a distanza, ancor prima di accedere in immagine nel tessuto urbano. Guardiamo ad esempio “Arrivando ad Assisi”, “Dalla pianura”, oppure “In una giornata di pioggia”; ma anche , per altri versi, “Verso la pianura” o “Dalla Rocca”. Si ha il senso di una mèta, di un traguardo fisico e spirituale da raggiungere, perché l’insediamento funziona da punto focale di raccolta e condensazione delle proprietà e delle caratteristiche disperse dell’ambiente circostante che si distende su scala geografica. Questo punto focale forma nel paesaggio aperto un insieme definito, un oggetto con i suoi contorni netti, una silhouette. Infatti se si ha un luogo è perché c’è qualcosa che assume sempre una qualità figurale distinta, differenziata, specifica. E qui, in queste immagini nitide, terse, come incise nella luce con un bulino, Assisi appare da lontano il risultato del perfetto equilibrio tra forma costruita e spazio organizzato: lo stagliarsi della sua figura che emerge dalla terra verso il cielo, visualizza e raduna terra e cielo (i mortali e il divino), vita activa e vita contemplativa. “Dalla pianura” è in questo senso davvero esemplare. L’insediamento delinea una silhouette, un ritaglio, un contorno inconfondibile; gli edifici acquistano a distanza una loro qualità figurale assolutamente propria e specifica. Questo complesso struttivo fa da medio tra terra e cielo, tra lo scuro dei campi ed il biancore lanoso e arruffato delle nuvole: salda, riunisce i due ambiti, li conduce alla reciproca compresenza, come se li mettesse di fronte l’uno all’altro testimoniando che in fondo si coappartengono da sempre. E’ l’opera dell’uomo che, fondando un luogo, in un certo senso conclude, porta a termine quella della natura. Questa figura locale che nelle foto via via si articola e si snoda lungo tutto il percorso figurativo, è fatta di differenze che rimangono tali ma che nello stesso tempo trovano un accordo comune, è costruita su difformità che persistono ma che insieme si sintonizzano su di
of the place, is a quality in a settlement that cannot be gathered from the standard parameters of the purely rationalistic-quantitative nature typical of modern urban planning: it is the stratification of traditions, experiences, memories and stories. Stratification that was originally sacred, but over time has taken on a social, aesthetic and political character resulting in the development of a sense of roots, belonging and identity. All this because the place is the site of a place in its deepest concealed essence. We understand this from the long views, even before the pictures take us to the urban layout. See, for example, “Arrival at Assisi”, “From the plain”, or “On a rainy day”; but also “Towards the plain” or “From the Rocca”. We have the idea of a destination, a physical and spiritual goal to reach, because the settlement acts as a focal point for gathering and condensing the properties and characteristics scattered through the surrounding environment on its geographical scale. On the open landscape this focal point forms a defined assembly, an object with clear outlines, a silhouette. In fact if there is a place it is because there is something which takes on the distinctive quality of a different specific figure. Here in these images, so clear-cut as to seem chiselled in light, Assisi appears from a distance the result of perfect equilibrium between constructed form and organized space: its figure stands out as it emerges from the earth and points to the sky to display and unite earth and sky (mortals and the divine), active life and contemplative life. “From the plain” is exemplary in this sense. The settlement outlines a silhouette, a cut-out, an unmistakeable contour; at a distance the buildings acquire the quality of a figure that belongs only and specifically to them. This complex acts as a medium between earth and sky, between the dark fields and the woolly whiteness of the clouds: it solders and unites the two environments and makes them reciprocal, as if they were placed before each other to testify that in the end they have always belonged to each other. It is the work of humans who by founding a place, in a way finish off the work of nature. This locale articulated in the photos, unwinding along a fully figurative path, made of differences that are such but at the same time find common agreement, is built on variances that together tune into a single frequency. Observe the geometrical pattern of the roofs in “A rainy day”: the vertical, horizontal and diagonal lines remain distinct from each other but at the same time create a symphonic complexity. Or “Arrival at Assisi”, where in spite of
13 un’unica frequenza. Basta osservare lo scalarsi geometrico dei tetti di “Una giornata di pioggia”: le verticali, le orizzontali e le oblique rimangono distinte le une dalle altre nella loro specificità direzionale, ma nello stesso tempo danno vita ad una complessità sinfonica. Oppure “Arrivando ad Assisi”, dove nonostante l’immagine appaia così affollata, nonostante siano così disparate e diverse le cose, gli oggetti che nello scatto fotografico ci si offrono - le zolle di terra, i campanili, le nuvole, gli alberi, gli edifici -, nonostante tutto questo, la potenza del luogo riesce a riunire tutto il difforme sotto un unico ma multiforme accento, un’unica nota in cui si odono però ancora i diversi armonici risuonare. Si ricordavano prima gli archi e le strade urbane in salita o in discesa. E poi le piccole fontane cittadine, i cortili con i pozzi. Si incontrano in queste foto poche persone; i cittadini, i passanti sono rari, quasi assenti. Eppure questi spazi sono tutto meno che deserti e desolati. Perché appunto formano un luogo, una stratificazione di memorie e di appartenenze; e dal momento che prima di costruire bisogna saper abitare, questi spazi sono abitati dalla presenza pressoché invisibile ma continua e sollecita delle persone, delle donne e degli uomini che quegli spazi e quelle cose hanno saputo abbracciare e costruire, organizzare e custodire per fondare il senso della dimora, dello stare insieme, della vita comunitaria. Perché edificare e proteggere non vanno mai disgiunti. Perché abitare significa aver cura delle cose che soggiornano presso di noi. Perché il senso autentico del luogo non si origina tanto dalla bellezza e dalla monumentalità tradizionalmente o ancor peggio turisticamente intese, quanto dalla capacità di simbolizzare, di generare racconti che lascino la propria traccia nell’immaginario collettivo. Per questa ragione il senso profondo di un luogo - qui, Assisi - non esiste di per sé e neanche cade come la manna dal cielo: piuttosto si edifica, si costruisce nel corso dell’esperienza collettiva del vivere, un vivere comunitario ed insieme, secondo la lezione testimoniale di Francesco, aperto all’ospite inatteso. Quel senso profondo si articola secondo l’interazione virtuosamente scandita nel tempo tra le cose che mutano e chi quel mutamento percepisce. Ed è proprio questo particolare senso del luogo che con le sue immagini fotografiche Elio Ciol mostra di comprendere profondamente assecondandone gli accenti, le inflessioni, le tonalità emotive cui esso dà origine. Si osservi con attenzione la serie di foto che ritraggono i paesaggi naturali che si distendono ampi e magnificamente pausati nelle vicinanze di Assisi. Non si scorgono figure umane, le costruzioni
the fact that the picture appears to be crowded and the things in the photo - clods of earth, church towers, clouds, trees, buildings - appear so different, the power of the place manages to unite all the variances under a single multiform accent, a single note in which the sound of diverse harmonies can still be heard. Earlier we spoke of arches, uphill and downhill urban streets, the city drinking fountains and courtyards with wells. In these photos we meet few people; local inhabitants, passersby, are rare, almost absent. And yet these spaces are anything but deserted and desolate. This is because they form a place, a stratification of memories and sense of belonging; and in the same way as we need to know how a construction will be used before we build it, we see these spaces inhabited by the almost invisible but constant presence of people; men and women who have embraced them, building, organizing and guarding them in order to establish a sense of dwelling, and living together in a community. Because building and protecting are never separate. Because living in a place means taking care of the things that surround us. Because the origins of an authentic sense of place do not lie so much in traditional beauty and history as it is intended for traditional, or worse, tourist purposes, as in an ability to symbolize and generate stories that leave their trace in our imaginations. For this reason the profound sense of a place - here Assisi - does not exist di per se and does not fall like manna from the sky: it is built, constructed as a collective life experience, a community life lived according to the lesson taught by St. Francesco, always open to unexpected guests. That profound sense is shared through interaction over time with things that change and the people who perceive such change. Through his photographs and attention to the emotions arising from accents, inflections and tonality Elio Ciol shows that he thoroughly understands this sense of place. Observe carefully the series of photos of natural landscapes extending in a magnificent array in the vicinity of Assisi. You will not see human figures; buildings are rare, only just visible. Certainly: in the ploughed fields there are evident traces of human labour. But it is as if it were there in absentia, just leaving; as if (and this is what actually happens) the farmer, once he has performed his fatiguing task, passes the baton to Nature, confident of its secret silent work, imperceptible but always crucial. In the “Prison woods”, the squat construction with portico stands in the geometrical centre of the picture, at the very point of
14 sono rare, appena percepibili. Certo: nei campi arati v’è la traccia possente del lavoro dell’uomo. Ma è come se si proponesse per assenza, in via di levare; come se (ed in effetti così accade) il contadino, una volta portato a termine il suo compito gravoso, avesse ormai passato il testimone alla natura, confidando nella sua opera segreta, silenziosa, impercettibile eppure fin da sempre risolutiva. Nella “Selva delle carceri”, la tozza costruzione a porticato si colloca al centro geometrico dell’immagine, proprio al punto di convergenza al quale confluiscono i dorsali collinari drammaticamente scanditi in luci e ombre: e lì, in quel nucleo nevralgico, quasi affoga e s’inabissa nella vegetazione fitta, spumosa, che sembra crescere e propagare su se stessa. In “Cipressi tra la nebbia” (2009), le sparute casupole non sono che comparse di cui forse si potrebbe fare anche a meno, talmente potente e imperioso si impone il fenomeno naturale che nei soffici batuffoli di bianco vaporoso inghiotte tutto, alberi, campi e costruzioni. Inghiotte, nasconde, azzera il paesaggio, certo. Eppure è esso stesso paesaggio, perché la nebbia ne fa parte, non è affatto un elemento estraneo che interverrebbe in un secondo tempo ad alterarne o deturparne l’integrità. Quegli ammassi di bambagia atmosferica che velano, schermano o sopraffanno cipressi e ulivi affogandoli in un biancore diffuso, sono paesaggio, territorio, ambiente: ed anzi di quelle foto ne costituiscono l’essenza mistica più propria, quasi - si potrebbe dire - il genius loci. Ed in fondo la stessa cosa si potrebbe affermare per le foto che ritraggono la città innevata. In “Luci tra i colli” (1990), il pittoricismo fotografico si dispiega interamente raggiungendo forse il suo diapason, il punto massimo del suo effetto drammatico. La composizione dell’immagine è studiata, meditata, organizzata quante altre mai; l’impaginazione plastica, perfetta; gli intervalli ritmici, calibratissimi. Quattro zonature d’ombra si alternano in un percorso a zig zag con altrettante zonature di luce. Il percorso è ascensionale, ed infatti esso raggiunge con la calma solenne dei grandi spazi la cresta del versante producendosi in un ultimo, spettacolare avvicendamento: dopo l’ombra scura e quasi annerita del profilo collinare che si staglia netto e come profilato a vivo sull’orizzonte, ecco il lucore sgranato ed estremo del cielo aperto che quasi, di nuovo, riaddensandosi cede all’oscurità. Si evocava prima il lavoro dell’uomo sulla terra per trarne rigoglio e fertilità. Che questo lavoro sia un lavoro di vera e propria scrittura sul paesaggio, lo attestano e lo confermano tre foto: “Campagna”, “Campagna con cipresso” e “Geometrie campestri”, tutte e tre del 1992. Arando il campo, l’uomo scrive sul terreno, lo trasforma in
convergence of hill tops dramatically outlined in light and shade: it is there, in that nerve centre, almost overcome, plunging into the thick foaming vegetation that appears to grow and multiply over itself. In “Cypress trees in the mist” (2009), the few houses are just extras we could probably do without, so strong and imposing is the natural phenomenon of soft white blobs of vapour enveloping everything, trees, fields and buildings. It envelopes, conceals and cancels the landscape, certainly. And yet it is itself the landscape because mist is part of it, it is not an extraneous element that intervenes later to alter or spoil its integrity. Those masses of atmospheric wadding that veil, screen or overcome cypress and olive trees, drowning them in a diffused whiteness, are landscape, territory, environment: and in fact they provide the mystic essence of the photos, we could say almost the genius loci. And in the end the same thing could be said for the photos of the snow-covered city. In “Lights in the hills” (1990), the photograph’s pictorial nature is fully exploited and reaches the highest point of its dramatic effect. The composition of the image is studied, meditated, organized like no others; the plastic layout is perfect; the intervals rhythmic and well-gauged. Four shadow zones alternate in a zig zag with as many light zones. The direction is ascending and reaches the peak of the slope with the solemn calm of wide open spaces, showing itself in a last, spectacular event: after the dark, almost blackened shadows of the hilly contour standing out clearly on the horizon, there follows the smooth bright light of the open sky which once again becomes dense and concedes itself to darkness. Earlier we spoke of the work of humans to make the land bloom and be fertile. The effect of this work is of a script for the landscape and this is testified and confirmed by three photos: “Countryside”, “Countryside with cypress tree” and “Rustic geometry”, all dated 1992. By ploughing the land humans write on it, transforming it into a text; reading the text lets us understand the nature of their passage, their footprints on the plain and, on a broader scale, on the earth’s crust: traces that narrate stories of intelligent planning and technical rationality that sometimes border on poetry. Here too the rhythmic sequence of dark and light, the layout of the plains, the orchestrated complexity of vertical and horizontal lines construct the photographic image and determine its spectacular visual impact. Anyone with an eye for contemporary art cannot fail to find undeniable spontaneous similitude with land art that acts on the landscape and transforms its very face. Those enormous impressive strips, almost absolute black, accompany, or better still,
15 un testo leggendo il quale si capisce la natura del suo passaggio, delle tracce che egli lascia sulla pianura e, secondo una più ampia scala, sulla crosta terrestre: tracce che parlano, che raccontano, che narrano storie di intelligenza progettuale, di razionalità tecnica che talora si spingono fino ai confini della poesia. Anche qui, il ritmico alternarsi degli scuri e dei chiari, l’impaginazione dei piani, la complessità orchestrata delle verticali e delle orizzontali, costruiscono direttamente l’immagine fotografica, ne siglano lo stesso fenomenizzarsi nel visibile, ne articolano l’impatto spettacolare. L’occhio esperto ed avvertito dell’arte contemporanea non può non cogliere qui somiglianze spontanee quanto innegabili con le opere di land art che agiscono sul paesaggio trasformandone il volto stesso. Quelle enormi, impressionanti fasce che sfiorano il nero assoluto scandiscono, anzi di più, marchiano l’istituirsi stesso dell’immagine, quasi questa si sviluppasse lentamente attorno a quelli, nascesse come a partire dalla loro presenza istituente. Nell’interpretazione poetica di Assisi che Elio Ciol propone con questa sua serie di immagini, è sicuramente presente anche un elemento di forte dialettica, di contrasto, di conflitto. E questo elemento si esprime - non potrebbe essere altrimenti - attraverso il linguaggio specifico della fotografia intesa etimologicamente come scrittura di luce: perché dove c’è luce non può non esserci anche l’ombra che ne accompagna in controcanto l’intensità, come vuole l’indissolubile vincolo degli opposti. Fondamentalmente due appaiono le modalità con cui Ciol utilizza il bianco e nero. La prima è quella che oppone i due colori (perché è di colori che si tratta, nonostante un luogo comune non li ritenga tali) con una decisione e una violenza contrastiva che ha pochi uguali. Si veda “Crinali difesi” - uno scatto risalente al lontano 1958 - in cui dal nero assoluto del primo piano che ingoia ogni oggetto, azzera ogni cosa, annichila ogni particolare, si passa a quel bianco acceso, quasi abbagliante dei contrafforti e delle facciate dei casolari in distanza. E si rammenti: il nero inghiotte sì tutto ciò che apparirebbe alla vista se appena un lucore lo schiarisse; ma non annulla il visibile, poiché esso stesso è il nulla inoggettivo che si rende visibile, che si offre alla visione, che si dona alla visibilità. Ed è proprio per questo che, come dicevamo, anche il nero, come il bianco, è un colore a tutti gli effetti e non potrebbe non esserlo. Le stesse annotazioni, pur se di poco attenuate, potremmo fare a proposito di “Ripari” (1990) e di “Sotto le mura” (2009), dove i due opposti della scala cromatica sembrano arrestarsi un momento prima di raggiungere
mark, the birth of the image, almost as though it developed slowly around them and arose from their presence. In the poetical interpretation of Assisi proposed by Elio Ciol with this series of images, there is also a strong dialectic element, conflict, contrast. This element expresses itself - it could not be otherwise - through the specific language of photography, in its original meaning of writing with light: because where there is light there is also shadow to contrast its intensity, as the indissoluble bond between opposites requires. There are essentially two ways in which Ciol uses black and white. The first is to oppose the two colours (because they are colours, even though it is common not to consider them so) with rare decisive and violent contrast. See “Hilltops defended” - a shot dating back to 1958 - in which we go from the absolute black of the foreground that devours every object and eliminates every detail, to the bright, almost blinding white of the buttresses and facades of the farm houses in the distance. It is true that black devours everything that would be in sight if only it were illuminated by a beam of light; but it does not cancel the visible, because it is itself the void non-object that becomes visible. For this very reason, as we have said, black, just like white, is a real colour and it could not be otherwise. We could say the same, albeit with a little mitigation, about “Shelters” (1990) and “Beneath the walls” (2009), where the two opposites of the chromatic scale seem to stop a moment before reaching the peak of their contrast, and “Prison retreat” (1963), where compact tar serves as a background against which is set the fragile pattern of the dried branches of a tree suspended over a dark unknown abyss. Think of “In the Rocca: a gateway of light” or “St. Damian’s Cloisters”, both dated 1990, to see and be convinced that these strong decisive contrasts of black and white, the flapping of shadow and light, not only model the open landscape, but also the Assisi interiors, where an invitation to meditation and perhaps to prayer are more evident. The second method employed by Ciol in his special use of black and white photography is that of grading soft yielding semi-tones, halftones and shades of grey. We are still dealing with contrast, but a quieter, less dramatic one, which due to these characteristics appears to adhere more closely to reality captured by the mechanical eye, apparently reproducing details more faithfully and with more realism. In “Balconies in the sun” (1963), the top and bottom parts of the
16 il diapason del loro contrasto, ed anche di “Eremo delle carceri” (1963), dove sullo sfondo di bitume compatto si disegna fragile in chiaro e come a sbalzo il sistema venoso dei rami risecchiti di un albero sospeso sul vuoto scuro e ignoto forse anche a se stesso. E basti pensare a “Nella Rocca: varco di luce” oppure a “Chiostro di San Damiano”, entrambe del 1990, per scorgere e farsi persuasi che questi forti, decisi contrasti di bianchi e di neri, questi sbattimenti di ombre e di luci modellano non solo i paesaggi aperti ma anche gli interni assisiati ove l’invito al raccoglimento e forse alla preghiera si fa più evidente. La seconda modalità che Ciol mette in campo per ciò che riguarda il suo particolare utilizzo del bianco e del nero fotografico è quella che prevede la scalatura calibrata e talora morbida, cedevole dei semitoni, delle mezzetinte, delle gradienze dei grigi. Sempre di contrasto si tratta, ma di un contrasto non più ultimativo, meno drammatico, che proprio in virtù di queste sue caratteristiche distintive sembra aderire con maggiore verosimiglianza alla realtà fenomenica catturata dall’occhio fotomeccanico, riproducendola apparentemente con maggiore fedeltà di dettagli e particolari veristici. In “Balconi al sole” (1963), la fascia alta e la fascia bassa dell’immagine sono appannaggio la prima dello scuro la seconda del chiaro; ma nelle case digradanti, proprio perché calcinate dalla luce bianca del sole mattutino, si aprono squarci e pertugi, buchi e ferite di neri assoluti. Il contrasto è però attutito da una bellissima gamma di grigi (i tetti, le persiane, i contrafforti, i muri, qualche facciata nella parte alta) che riesce a mediare gli estremi e ad addolcirne uniformemente il passaggio dall’uno all’altro. Oppure “Cortile della Rocca” (1958) e “Sulla torre di San Giacomo” (2009), “Casa dei Maestri Comacini” (1964) e “Muri di San Damiano” (1967), ma anche gli oratori e i refettori affrescati, dove il dettaglio della cortina muraria balza in primo piano, la presa fotografica calibrata sui grigi si fa lenticolare e le commessure tra le pietre, le modanature, le rare decorazioni scolpite o dipinte sembra quasi di poterle toccare una ad una, tanto formano una staordinaria texture pittorica (si percorra con la tattilità dello sguardo una foto come “Tricora dell’Abbazia di San Benedetto”, del 1990), un tessuto che nell’immagine è morbidamente continuo e omogeneo pur se nella realtà fattuale è difformemente scabro e irregolare. Ed è propriamente in tal senso che queste foto in particolare sopprimono lo spazio inteso come distanza: perché ci fanno toccare con gli occhi. E ciò significa che la tecnica fotografica ha ridotto l’infinito al finito visibile. Questa riduzione evidentemente non può non accompagnarsi ad un
image are invaded, the former by darkness and the latter by light; but in the staggered lime painted houses gleaming white in the morning sun, there are rents and holes, slits and wounds of an absolute black. However, the contrast is softened by a beautiful range of greys (roofs, blinds, buttresses, walls, some facades in the top part) which mediates the extremes and evens out the passage from one to the other. Or “Courtyard of the Rocca” (1958) and “On St. James’s tower” (2009), “The house of the Comacini family” (1964) and “Walls of St. Damian” (1967), but also the frescoed oratories and refectories, where a detail of the curtain wall leaps to the fore. The photograph gauged on greys becomes lenticular and it seems we can touch the joints between the stones, mouldings and rare chiselled or painted decorations because they form an extraordinary pictorial texture (run your eyes, as if they were hands, over a photo like “The triconch of St. Benedict’s Abbey”, dated 1990), a fabric that is softly continuous and homogeneous in the picture, although in reality it is rough and irregular. It is exactly in this sense that these photos in particular suppress space intended as distance: because they let us touch them with our eyes. That means the photographic technique has reduced the infinitive to a visible finite. Evidently this reduction cannot exist without a change in the structure of our perceptive conscience. But to which important theme do these notes lead us? What raises and re-launches perception and sensitivity, aesthetic conscience and the status of the image? The act of taking a photograph always cuts out a piece of reality. The very equipment used to perform the act is itself a portion of an infinitely wider field than the result presents to our eyes. The rest of the world is no longer there, it is eliminated, ejected from the frame. At the same time, the homage Ciol pays to Assisi reminds us - through his poetical sensitivity and figurative ability - that everything the photographic process eliminates, excludes or ejects, has the same importance as everything overtly shown. Because we feel an implicit participation, intimate and evocative, donated through absence, in a single shot: in the virtual extensions of plastic forms, in the internal power lines that reach out beyond the frame into the real world that surrounds the illusion of the image. But in turn this phenomenon reveals another, perhaps even more essential. The irrepressible sensation of presence is one of the strongest illusions triggered by a photograph: to capture, gather, fix something that has stood irrevocably before the lens. In every shot, even the most banal or amateur, this sense is excited to give definite
17 mutamento nella struttura della coscienza percettiva. Ma a quale grande tema ci rimandano queste annotazioni? Quale motivo sollevano e rilanciano alla percezione e alla sensibilità, alla coscienza estetica e allo statuto stesso dell’immagine? L’atto fotografico è sempre un ritaglio del e nel reale. La stessa apparecchiatura tecnica con la quale esso si compie opera di per sé questo ritaglio di una porzione, di un campo infinitamente più ampio di ciò che il risultato ci offre via via alla vista. Il resto del mondo non c’è più, viene eliminato, espulso dall’inquadratura. Ma nello stesso tempo, questo omaggio di Ciol ad Assisi ci ricorda - con la grande sensibilità poetica e capacità figurativa che lo contraddistingue - che tutto quello che il procedimento fotografico elimina, esclude, espelle, ha la medesima importanza di tutto quello che viene mostrato palesemente. Perché noi ne sentiamo la partecipazione implicita, sottaciuta, evocativa, che nel singolo scatto si dona come per assenza: nei prolungamenti virtuali delle forme plastiche, nelle linee-forza interne ma che si estendono al di fuori e al di là dell’inquadratura, nel mondo reale che circonda l’illusorietà dell’immagine. Ma a sua volta questo fenomeno ne rivela un altro forse ancora più essenziale. La sensazione incoercibile di presenza è tra le più potenti illusioni innescate dalla fotografia: catturare, cogliere, fissare qualcosa che irrevocabilmente è stato presente davanti all’obbiettivo. In ogni scatto, anche nel più banale, nel più dilettantesco, si offre in questo senso una testimonianza definitiva della compattezza senza vuoti e senza falle del reale: che è sincrono e perfettamente simultaneo con se stesso. Ed è proprio questa sorta di integrità senza rinvii che la fotografia - quantomeno quella tradizionalmente analogica - ci testimonia donandocene non tanto il segno quanto la traccia, l’orma, l’impronta. E’ in questo senso che di Assisi città della pace Elio Ciol ci ha restituito la presenza: realtà e il simbolo, l’immanenza e la trascendenza.
testimony of the compactness of reality, without empty spaces or cracks: it is synchronised with itself and perfectly simultaneous. It is this sort of integrity with no return that photography - at least traditional analogical photography - gives us not so much a sign as a trace, a footprint. This is how Elio Ciol gives us the presence of Assisi, city of peace: reality and symbol, immanence and transcendence.
MASSIMO CARBONI
18 19
luci tra i colli
Assisi 1990
20 21
sotto le mura
Assisi 2009
22 23
crinali difesi
Assisi 1958
24 25
la rocca
Assisi 1964
26 27
ripari
Assisi 1990
28 29
cortile della rocca
Assisi 1958
30 31
sulla torre di san giacomo
Assisi 2009
32 33
nella rocca: varco di luce
Assisi 1990
34 35
contrafforti: sacro convento
Assisi 1990
36 37
colonne del tempio di minerva
Assisi 1992
38 39
arrivando ad assisi
Assisi 1990
40 41
dalla pianura
Assisi 1990
42 43
in una giornata di pioggia
Assisi 1958
44 45
discesa a San Rufino
Assisi 1959
46 47
borgo San Giacomo
Assisi 1964
48 49
balconi al sole
Assisi 1963
50 51
vicolo Sant’Andrea
Assisi 1990
52 53
scorci
Assisi 1990
54 55
tricora dell’Abbazia di San Benedetto
Assisi 1990
56 57
muri di San Damiano
Assisi 1967
58 59
chiostro di San Damiano
Assisi 1990
60 61
oratorio di Santa Chiara nel convento di San Damiano
Assisi 1990
62 63
refettorio di San Damiano
Assisi 1990
64 65
casa dei maestri Comacini
Assisi 1964
66 67
chiesa di Santa Croce dei Galli
Assisi 1990
68 69
selva delle carceri
Assisi 1990
70 71
eremo delle carceri
Assisi 1963
72 73
cortile dell’eremo delle carceri
Assisi 1968
74 75
mura del Monastero di Sant’Angelo in Panzo
Assisi 1993
76 77
nell’oliveto: convergenze
Assisi 1958
78 79
campagna
Assisi 1992
80 81
campagna con cipresso
Assisi 1992
82 83
geometrie campestri
Assisi 1992
84 85
casolare assisiate
Assisi 1963
86 87
verso la pianura
Assisi 1964
88 89
nel buio di un temporale
Assisi 1967
90 91
olivi sopra San Francesco
Assisi 1957
92 93
dalla rocca
Assisi 1958
94 95
cipressi tra la nebbia
Assisi 2009
96 97
nebbia nell’oliveto
Assisi 1958
98 99
paesaggio evenescente
Assisi 2009
100 101
verso San Pietro: dissolvenze
Assisi 1957
102 103
la densitĂ del silenzio
Assisi 2009
104 105
basilica nella nebbia
Assisi 1957
106 107
in inverno
Assisi 2009
108 109
bianco incanto
Assisi 1991
110 111
nel silenzio della neve
Assisi 1991
112 113
nevicata
Assisi 1991
114 115
orme
Assisi 1991
116 117
presenze del bianco
Assisi 1991
118
119 pag.
19 21 23 25 27 29 31 33 35 37 39 41 43 45 47 49 51 53 55 57 59 61 63 65 67
didascalie “Assisi, la densità del silenzio”
Luci tra i colli - ASSISI 1990 Sotto le mura - ASSISI 2009 Crinali difesi - ASSISI 1958 La rocca - ASSISI 1964 Ripari - ASSISI 1990 Cortile della Rocca - ASSISI 1958 Sulla torre di San Giacomo - ASSISI 2009 Nella Rocca: varco di luce - ASSISI 1990 Contrafforti: sacro convento - ASSISI 1990 Colonne del tempio di Minerva - ASSISI 1992 Arrivando ad Assisi - ASSISI 1990 Dalla pianura - ASSISI 1990 In una giornata di pioggia - ASSISI 1958 Discesa a San Rufino - ASSISI 1959 Borgo San Giacomo - ASSISI 1964 Balconi al sole - ASSISI 1963 Vicolo Sant’Andrea - ASSISI 1990 Scorci - ASSISI 1990 Tricora dell’abbazia di San Benedetto - ASSISI 1990 Muri di San Damiano - ASSISI 1967 Chiostro di San Damiano - ASSISI 1990 Oratorio di S. Chiara nel convento di S. Damiano - ASSISI 1990 Refettorio di San Damiano - ASSISI 1990 Casa dei Maestri Comacini - ASSISI 1964 Chiesa di Santa Croce dei Galli - ASSISI 1990
pag.
69 71 73 75 77 79 81 83 85 87 89 91 93 95 97 99 101 103 105 107 109 111 113 115 117
didascalie “Assisi, la densità del silenzio”
Selva delle carceri - ASSISI 1990 Eremo delle carceri - ASSISI 1963 Cortile dell’eremo delle carceri - ASSISI 1968 Mura del monastero di Sant’Angelo in Panzo - ASSISI 1993 Nell’oliveto: convergenze - ASSISI 1958 Campagna - ASSISI 1992 Campagna con cipresso - ASSISI 1992 Geometrie campestri - ASSISI 1992 Casolare assisiate - ASSISI 1963 Verso la pianura - ASSISI 1964 Nel buio di un temporale - ASSISI 1967 Olivi sopra San Francesco - ASSISI 1957 Dalla Rocca - ASSISI 1958 Cipressi tra la nebbia - ASSISI 2009 Nebbia nell’oliveto - ASSISI 1958 Paesaggio evanescente - ASSISI 2009 Verso San Pietro: dissolvenze - ASSISI 1957 La densita’ del silenzio - ASSISI 2009 Basilica nella nebbia - ASSISI 1957 In inverno - ASSISI 2009 Bianco incanto - ASSISI 1991 Nel silenzio della neve - ASSISI 1991 Nevicata - ASSISI 1991 Orme - ASSISI 1991 Presenze nel bianco - ASSISI 1991
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biografia Elio Ciol
Elio Ciol è nato nel 1929 a Casarsa della Delizia (Pordenone) dove tuttora vive e lavora. Ha iniziato a lavorare da giovane nel laboratorio fotografico del padre, dove ha acquisito una vasta esperienza tecnica e ha maturato un proprio modo di leggere le opere d’arte. Tra il 1955 e il 1965 ha fatto parte del cineclub di Udine. Ha realizzato in questo periodo vari documentari a passo ridotto, premiati ai concorsi di Montecatini e Salerno. Dal 1955 al 1960 ha fatto parte del circolo fotografico “La Gondola” di Venezia. Nel 1962 ha partecipato come fotografo di scena al film Gli Ultimi di Vito Pandolfi e padre David Maria Turoldo. Nel 1963, a Milano, ha collaborato con Luigi Crocenzi alla realizzazione della “Fondazione Arnaldo e Fernando Altimani per lo studio e la sperimentazione sul linguaggio per immagini”. Nello stesso anno ha esposto all’Ambrosianeum di Milano le foto di un suo servizio sull’attività di Gioventù Studentesca nella Bassa Milanese. A partire dagli anni Cinquanta ha elaborato un linguaggio personale nel settore della fotografia di paesaggio, che è andato costantemente evolvendosi fino ai tempi più recenti e che ha portato alla realizzazione di una lunga serie di libri fotografici e cataloghi di mostre. Nello stesso periodo, l’attività professionale del suo studio è stata dedicata prevalentemente alla produzione di campagne di documentazione di opere d’arte in Italia e in Europa che hanno portato Elio Ciol a collaborare a un’imponente numero di pubblicazioni nel settore della storia dell’arte. Tra le sue mostre più significative, la personale del 1999 promossa dai Civici Musei e dal Comune di Udine nella chiesa di San Francesco e quella promossa dal Comune di Padova nel 2002 nel palazzo del Monte di Pietà. Nel 2004 la Provincia di Pordenone e il Comune di Casarsa della Delizia hanno promosso una mostra delle sue opere più recenti. Nel 2006 è stato invitato a esporre al Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo di Udine. Nello stesso anno la Cohen Amador Gallery di New York ha esposto una sua mostra personale. Nel 2007 è stato invitato per un’antologica al “Meeting per l’amicizia tra i popoli” a Rimini. Nel 2009 una retrospettiva personale della sua intera opera è stata ospitata dal Centro Candiani di Mestre. Nello stesso anno la Regione F.V.G., la Provincia di Pordenone, il Comune di Pordenone e il Comune di Casarsa, in occasione dei suoi 80 anni e 60 di attività professionale, promuovono tre mostre, a Villa Manin “Elio Ciol. Gli anni del Neorealismo”, al Centro Studi P.P.Pasolini di Casarsa “La luce incisa”, nella chiesa di S.Francesco a Pordenone “Il volto e la parola”. Tra i riconoscimenti più recenti: 1991, Cittadino dell’anno a Casarsa della Delizia. 1992, Premio Kraszna-Krausz (Londra) per il fotolibro Assisi a pari merito con i libri di Sebastião Salgado, Paul Strand e Irving Penn. 1993, Premio San Marco a Pordenone. 1995, Premio Speciale Friuli Venezia Giulia Fotografia a Spilimbergo 1996, Premio Kraszna-Krausz (Londra) per fotolibro Venezia a pari merito con Robert Doisneau, Erich Hartmann e Nomi Rosenblum. 1997, World Press Photo di Amsterdam, terzo premio nella categoria “Natura e ambiente”. 1999, Buia, premio Nadal Furlan. 2001, Padova, «Dietro l’obiettivo: una vita», Foto Padova 2001. 2003, Premio Foto Padova 2003 per il miglior fotolibro per il volume Ascoltare la luce.
Sue fotografie sono presenti in questi musei: Metropolitan Museum of Art, New York; International Museum of Photography, Rochester, New York; Center for Creative Photography Tucson, Arizona; Humanities Research Center, University of Texas, Austin; The Art Museum, Princeton University, New Jersey; Centre Canadien d’Architecture, Montréal, Canada; The Art Institute of Chicago; The University College of Wales, Aberystwyth; Victoria & Albert Museum, Londra; Musée de la Photographie, Charleroi; Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte, Udine; Galleria di Arte Contemporanea Pro Civitate Christiana, Assisi; Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo, Udine; e in numerose gallerie private. Elio Ciol ha sinora esposto le sue fotografie in 122 mostre personali e in 121 collettive. Le sue immagini hanno illustrato oltre 200 libri.
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biography Elio Ciol
Elio Ciol was born in 1929 at Casarsa della Delizia (Italy), where he still lives and works. In his early youth he began to work in his father’s photography workshop, where he acquired vast technical experience and developed a personal way of reading works of art. From 1955 to 1960 he was a member of the Udine film society. He made several 16mm documentaries, which won awards at the Montecatini and Salerno Amateur Film Festivals. From 1955 to 1960 he was also a member of the Venetian Photographers’ Club “La Gondola”. In 1962 he took part as a set photographer in the making of the film “Gli ultimi” by Vito Pandolfi and Padre David Maria Turoldo. In 1963 in Milan he collaborated with Luigi Crocenzi in the creation of the “Arnaldo and Fernando Altimani Foundation for the study and experimentation of language through images”. In the same year the Milan Ambrosianeum exhibited his photo service on the activities of the “Gioventù Studentesca” students’ movement in the province of Milan. Since the fifties he has developed his own personal language in landscape photography and this has evolved constantly, as witnessed by a whole series of books of photographs and exhibition catalogues. In the same period the activity of his professional studio was dedicated mainly to the production of documentary campaigns for works of art in Italy and Europe, which led Ciol to work on a large number of publications regarding the history of art. His most significant exhibitions include a personal exhibition in 1999, commissioned by the Civici Musei and the City di Udine in the Church of St. Francis, and the exhibition in the Padua Palazzo del Monte di Pietà, promoted by the City of Padua in 2002. In 2004, the Province of Pordenone and the Municipality of Casarsa sponsored an exhibition of his most recent photographs. In 2006 the Udine Diocesan Museum and the Tiepolo Gallery invited him to exhibit his works. In the same year the New York Gallery of Cohen Amador organized an exhibition of Ciol’s work. In 2007 the “Meeting per l’amicizia fra i popoli” at Rimini invited him to present an anthology. In 2009 a personal retrospective of all his works was organized by the Mestre Centro Candiani. In the same year, which marked Elio Ciol’s 80th birthday and 60 years of professional activity, the Friuli Venezia Giulia Regional government, the Province of Pordenone, the Municipalities of Pordenone and Casarsa promoted three exhibitions: at Villa Manin “Elio Ciol. Gli anni del Neorealismo”, at the Pier Paolo Pasolini Study Centre, Casarsa, “La luce incisa”, and in the Church of St. Francis at Pordenone, “Il volto e la parola”. A few recent acknowledgements of his work: 1991, Casarsa, “Citizen of the Year”; 1992, London, Kraszna-Krausz Award for his photo book “Assisi”, shared with books by Sebastio Salgado, Paul Strand and Irving Penn; 1993, Pordenone, St. Marco Award; 1995, Spilimbergo, “C.R.A.F. Friuli-Venezia Giulia Special Prize for Photography”; 1996, London, Kraszna-Krausz Award for his photo book “Venice”, shared with books by Robert Doisneau, Erich Hartmann and Naomi Rosenblum; 1997, Amsterdam, World Press Photo, third prize in the Nature and Environment category; 1999, Buia, twenty-first edition of “Christmas in Friuli”; 2001, Padua, “Behind the lens: a life” Padua Photo 2001; 2003, Padua, Best photo book Padua Photo 2003 Award for “Ascoltare la luce”.
Elio Ciol’s photographs are exhibited in: The Metropolitan Museum of Art, New York; The International Museum of Photography, Rochester, New York; The Center for Creative Photography, Tucson, Arizona; Humanities Research Centre, University of Texas, Austin; The Art Museum, Princeton University, New Jersey; Centre Canadien d’Architecture, Montreal, Canada; The Art Institute of Chicago, Chicago; The University College of Wales, Aberystwyth; The Victoria and Albert Museum, London; Musée de la Photographie, Charleroi Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte, Udine; Galleria di Arte Contemporanea Pro Civitate Christiana, Assisi; Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo, Udine and in numerous private galleries. Elio Ciol has exhibited his photographs in 122 personal and 121 collective exhibitions. His pictures have been used to illustrate over two hundred books.
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biografia/biography Massimo Carboni
Massimo Carboni è docente di Estetica all’Università della Tuscia di Viterbo e all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Ha pubblicato L’Impossibile Critico. Paradosso della critica d’arte (1985); Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte (1992); Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee (1993); Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento (1999); L’ornamentale.Tra arte e decorazione (2000); L’occhio e la pagina. Tra parola e immagine (2002); Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica (2005); La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti (2007); Di più di tutto. Figure dell’eccesso (2009). Ha curato la seconda edizione di Teoria generale della critica di Cesare Brandi (1998).
Massimo Carboni is a lecturer in Aesthetics at the Viterbo Università della Tuscia and the Florence Accademia di Belle Arti. He has published L’Impossibile Critico. Paradosso della critica d’arte (1985); Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte (1992); Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee (1993); Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento (1999); L’ornamentale.Tra arte e decorazione (2000); L’occhio e la pagina. Tra parola e immagine (2002); Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica (2005); La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti (2007); Di più di tutto. Figure dell’eccesso (2009). He is editor of the second edition of Teoria generale della critica by Cesare Brandi (1998).
Stampato nel mese di giugno 2010 presso grafiche Bernardi srl Printed in june 2010 by grafiche Bernardi srl