S t e fa n o C i o l
ripercorre i luoghi del film
Gli Ultimi
S t e fa n o C i o l a cura di Aldo Colonnello del Circolo Culturale Menocchio
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Stefano Ciol Elio Ciol e Stefano Ciol e, comune riferimento, “Gli ultimi”. il film di padre Davide Maria Turoldo, pensato e realizzato qui nelle terre di mezzo del Friuli nel 1962. Così ne ha scritto Pier Paolo Pasolini: “Piano piano la suite della vita nel paesello pedemontano con le sue case di sassi grigi e le sue strade bianche, nella luce accecante dell’aria di neve, diviene iterazione, litania: la serie degli episodi si fa ossessiva, e i significati della povera vicenda umana trapassano a una simbologia tanto più povera di ornamento quanto più ricca di un quasi fisico dolore” (1962). La vicenda umana di Turoldo frate disobbediente in Cristo e, dunque scomodo per i poteri singoli o congiunti – in particolare per quelli occhiuti e intolleranti allora annidati nelle stanze vaticane -, è costantemente pervasa dalla adesione profonda, spesso angosciata , “mai tradita”, alle fatiche ed alle speranze degli ‘ultimi’, come scelta evangelica. Evidentemente il Friuli non è più, in gran parte, quello dei tempi dell’infanzia di padre Davide: altri sono i volti e le appartenenze degli ‘ultimi’ nei nostri paesi. Cambiati anche i luoghi ed il paesaggio, perché niente permane identico pur sotto lo stesso cielo. Il film “Gli ultimi” e le foto di scena sono ora, oltre che testimonianza, anche documento storico da “leggere” per tentare di coglierne i molteplici significati sottostanti. Elio Ciol ce lo racconta con coinvolgente discrezione. Stefano Ciol rivisita oggi gli stessi luoghi. Ne coglie permanenze e discontinuità: il nuovo che si affianca al vecchio, in dialogo rispettoso e amicale o in arrogante contrapposizione. Qualcosa è andato perduto, qualcosa rimane e resiste, qualcosa sta
1. A me nulla è dovuto. 2. Per il comunicato stampa si può estrapolare dal testo della presentazione
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lasciando il campo al nuovo che cerca spazio. L’occhio del cuore e la competenza del fotografo, di Elio e di Stefano, si fanno permeabili a questo brulicare della vita in una luce che pare riflettere in sé il mondo, le sue tensioni e le sue fatiche, le sue speranze. Un paesaggio, un profilo di montagne, un cielo con le sue nubi, un volto di bambino o di adulto, di uomo o di donna, una casa un tempo abitata ora abbandonata a se stessa sono comunque, a modo loro, canto di vita. Ad essi Elio e Stefano Ciol danno voce che libera verità, dentro una atmosfera poetica e suggestiva. Nel film di Turoldo e nelle fotografie di Elio e di Stefano Ciol la vita respira, sia quando appare tranquilla e pacificata, sia quando è mossa o agitata da tensioni e inquietudini. E reclama rispetto. Per ciò che è stato, per ciò che c’è, per quanto si preannuncia, sia pure con modalità disturbanti. Oltre i segni delle discontinuità si scorgono, nelle foto, e nella realtà, tracce del durare lungo. E di lunga durata è stato l’amore di Turoldo, non sempre capito né accettato nella sua dirompente passionalità, per i luoghi – persone e cose – del suo Friuli. Luoghi di sobrietà, di solidarietà e amicizia, e di cattiverie. Le foto di Elio Ciol e di Stefano Ciol sono anche un risarcimento alla memoria - da non beatificare né domesticare - di padre Davide. Senza far risuonare rituali o ambigue nostalgie. Turoldo era abitato dal suo Friuli anche grazie ai numerosi ‘grappoli’ dei suoi amici. Nel 1988 in un incontro pubblico qui in Friuli padre Davide disse con voce forte e accorata: “Non sono qui a difendere i campanilismi e meno ancora l’antica miseria che io ho celebrato nei miei “Ultimi”. Ma ci sono limiti umani che non si possono superare” e concludeva il suo intervento con queste amare parole: “Da noi una volta il problema era la polenta, e il vivere. E ora ecco che si cercano più facili ric-
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chezze, magari passando sulla pelle dei poveri. Eppure noi sappiamo che cosa significa essere poveri, e sfruttati nel mondo. E guardate che vi parlo con il cuore in mano. Sono appena tornato dal Sud Africa e ho conosciuto il dramma infinito e orrendo di quella povera gente; come quello di moltitudini immense di poveri, in Africa, in Asia, in America…dappertutto. Come possiamo noi, ora, passare sulla pelle dei poveri? Lo dico con l’animo trepidante, lo dico per amore del mio Friuli. Io ho sempre ammirato la mia gente. La ho vista sempre in prima linea nell’impegno, nel rispetto, nella serietà, nel lavoro. Ora non vorrei che diventassimo i primi, ad esempio, anche nella droga, nella corruzione, nel preferire cose alienanti quali la celebrazione di sagre, di partite, di canzoni…” Si potrebbe commentare questa mostra con le parole, cariche di speranza e di fiducia, di padre Davide: (…) E vai, vai leggero dietro il vento e il sole e canta. Canta il sogno del mondo (…) o con quelle di Domenico Scandella detto Menocchio, bruciato sul rogo come eretico recidivo (e consapevole) nel 1599, perché “desiderava che fusse uno mondo nuovo e un nuovo modo di vivere, che la Chiesa camminasse bene – [“almeno la chiesa”, ha scritto padre Davide] - e non vi fussero tante pompe”.
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