La Camera Chiara La Camera Chiara
pubblicazione della Sezione Fotografica CEDAS - Numero 0 - Luglio 2016
Reportage
“Idomeni: la vergogna d’Europa” di Renata Busettini
Autori
Storia
Fulvio Bortolozzo
Hyppolyte Bayard
Alessandro Rossi Sebastiano
La composizione I parte
Il Pittorialismo
Sony World Photography Award 2016
Portfolio Arte
Tecnica News
La Camera Chiara
La Sezione Fotografia del Cedas si propone di favorire lo sviluppo tecnico e creativo dei Soci fotoamatori, promuovendo iniziative idonee a raggiungere tali scopi. Impianti e attrezzature sono a disposizione dei soci. Aderisce alla F.I.A.F.
In questo numero:
Ritrovo: tutti i martedì sera dalle ore 21 alle ore 23 Consultare il sito internet per verificare variazioni di orario e/o chiusure programmate.
www.fiatcares.com/cedas
Direttivo Sezione Fotografia: Delegato: Giuliano Quaranta Consiglieri: Andrea Morello; Mauro Faudarole
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EDITORIALE
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REPORTAGE
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STORIA
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INTERVISTE
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TECNICA
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ARTE
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PORTFOLIO
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NEWS
Pubblicazione non periodica della Sezione Fotografia del Cedas. Torino 2016. Pubblicazione condivisa in formato PDF (Portable Document Format) non stampata su carta. Ogni autore si assume qualsiasi responsabilità derivante dalle proprie immagini inviate a La Camera Chiara per la pubblicazione manlevando la redazione da ogni responsabilità che dovesse derivare dall’utilizzo delle immagini stesse. Tutti i diritti relativi alle fotografie ed ai testi presenti in questa pubblicazione sono riservati ai rispettivi autori. Responsabile: Renata Busettini Redazione: Enrico Andreis; Renata Busettini; Paola Cafferati; Maximiliano Cascini; Max Ferrero; Elisabetta Lucido. Collaboratori: Carlo Ferrari; Alessandro Rossi Sebastiano; Agnieszka Slowik Turinetti. Contatti:
lacamerachiara16@gmail.com copertina: ©Renata Busettini - Il campo profughi di Idomeni durante la Pasqua 2016
Impaginazione e grafica: Max Ferrero, Dante D’elia
La ripartenza
di Maximiliano Cascini “Idomeni: la vergogna d’Europa” di Renata Busettini Hyppolyte Bayard
di Max Ferrero
Intervista al fotografo Fulvio Bortolozzo
di Elisabetta Lucido
La composizione I parte
di Max Ferrero
Il pittorialismo
di Agneszka Slowik Turinetti Alessandro Rossi Sebastiano
di Enrico Andreis
Sony World Photo Award 2016
FOTO IN LIBERTA’ 36 commenti di Max Ferrero 40
APPUNTAMENTI CEDAS informa
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Editoriale
La ripartenza
di Maximiliano Cascini
Con il numero zero si apre un nuovo ciclo per la rivista del gruppo di fotografia del Cedas. Dopo un periodo d’interruzione, servito per riorganizzare la redazione e chiarire la linea editoriale, siamo tornati on line. Oggi, rispetto a qualche mese fa, quando la precedente edizione – “C’è Cedas” - ha interrotto le sue pubblicazioni, siamo più determinati, meglio organizzati e con il desiderio di offrire il nostro punto di vista sulla fotografia a un numero sempre crescente di appassionati cultori d’immagini. Con la nostra rivista vogliamo raccontare il mondo della fotografia in tutti i suoi diversi aspetti. Siamo consapevoli della sconfitta del testo scritto nei confronti dell’immagine, testimoniata per esempio, dalla crisi di Twitter rispetto ad altri social che, al contrario, sono sempre più diffusi: nell’epoca dell’immagine, quei 140 caratteri di testo si sono dimostrati insufficienti per leggere e comunicare il mondo. Il modo più efficace e veloce per trasmettere informazioni, sogni, emozioni e persino storie passa ormai sempre più attraverso la forma visiva. Nella comunicazione attuale, “la comunicazione 2.0”, il segno più interessante nel mondo dell’informazione è indiscutibilmente l’immagine digitale. Abbiamo assistito in questi anni a una vera e propria rivoluzione: il linguaggio e la parola hanno trasferito all’immagine gran parte del suo ruolo. Ogni giorno, circa 3,5 miliardi di fotografie sono “postate”, lette, sfogliate nel mondo. Siamo sommersi dagli scatti e nessuno ci ha mai insegnato a leggerli. Questo straordinario cambiamento è avvenuto in modo repentino, in particolare negli ultimi anni, senza che siano stati codificati e diffusi nuovi strumenti di lettura e interpretazione. Siamo quindi diventati tutti degli illetterati nel mondo della nuova comunicazione per immagini. Fin da bambini, a scuola, abbiamo imparato a leggere dei testi, a usare una o più lingue, abbiamo acquisito lo strumento della scrittura per comunicare, ma la cultura fotografica non ha trovato spazio nei programmi ministeriali. Eppure, a ciascuno di noi è chiesto d’interpretare il mondo a partire dalle sue molteplici “rappresentazioni”: il lavoro, l’amore, la sofferenza, tutte le nostre passioni e le nostre esperienze sono sempre più frequentemente descritte attraverso le immagini. Gli innumerevoli discorsi sul tema dell’emigrazione non hanno nemmeno lontanamente sortito sulle nostre coscienze l’effetto prodotto dall’immagine del corpo senza vita di Aylan Kurdi, il bambino siriano che le onde hanno trasportato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Le fotografie, e la nostra capacità o incapacità di leggerle, fanno parte ormai della nostra cultura: è questa la ragione per cui abbiamo deciso di dare a questa rivista un taglio diverso dal consueto. Proveremo a leggere insieme l’intero vastissimo universo dell’immagine, dai primi pionieristici tentativi di riprodurre il reale attraverso tecniche affascinanti e molto laboriose, fino agli attuali scatti digitali - sia quelle della fotografia professionale sia quelle che, ogni giorno, invadono la rete attraverso i nostri smartphone.
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©Salvatore Giordano
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Reportage
testo e foto di Renata Busettini
Idomeni: la vergogna d’Europa 6 |
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29 MARZO 2016
La giornata non era iniziata bene. Siamo arrivati al ponte che separa la strada per Idomeni al confine con la Macedonia e lo troviamo bloccato. Un piccolo gruppo di rifugiati con donne e bambini protesta per richiedere l’apertura della frontiera. Vorrebbero bloccare il traffico, uno si sdraia davanti ad un TIR e mentre le bambine mi regalano fiori, arriva la polizia. La situazione è molto tesa, potrebbe succedere qualunque cosa; ma dopo una brevissima trattativa, la situazione si tranquillizza, i rifugiati applaudono e ringraziano la polizia ed il TIR prosegue il suo percorso verso il confine. Noi possiamo andare al campo. Sono 12.000 persone, ma forse di più, eppure ci sembra di conoscerli tutti. Un po’ perché ci salutano con un sorriso, i bambini si avvicinano e tanti mi baciano e poi scappano. Non so se è perché sono bionda o perché sono su una sedie a rotelle. O forse per tutti e due i motivi. Al campo abbiamo incontrato Josef, un professore di letteratura spagnola e di psicologia di Granada che dice di essere pazzo (forse un po’ più di noi ma neanche tanto). Lui passa le sue vacanze qui a fare il clown per i bambini. Qui lo conoscono tutti, sta imparando l’arabo
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ed il suo gatto bianco ha fatto amicizia con il gatto siriano che ha provato ad attraversare il confine la scorsa settimana con la sua padrona. Ma non è l’unico incontro speciale che abbiamo fatto qui, abbiamo incontrato quella “bella gioventù” di cui difficilmente si sente parlare. Giovani da tutta Europa che sono venuti qui ad aiutare questa gente ed a far giocare tanti bambini. Se si chiudono gli occhi, sembra di essere in un villaggio turistico quanti sono i bambini che schiamazzano e giocano. Oggi hanno appena installato un nuovo tendone riservato alle donne che devono allattare e che vogliono farlo in un ambiente riservato. Ce ne sono molte, come sono molte le donne incinte. Anche oggi ci sono state delle proteste al campo, le persone sono esauste nell’incertezza di non sapere cosa ne sarà di loro. Hanno speso tutti i soldi che avevano per arrivare fin qua. Molti di loro hanno parte della famiglia che li aspetta in Germania. Una donna al 9° mese ha altri 3 figli, il marito è partito 6 mesi fa e li aspetta a Francoforte. Ci chiedono quando apriranno la frontiera, non sappiamo cosa rispondere. Questa è una domanda ricorrente, purtroppo e non è bello non poter dare alcu-
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La Camera Chiara na certezza. Una donna mi guarda e mi dice: “Tu ci dai speranza, se ce la fai tu possiamo farcela sicuramente anche noi...” il loro inglese è molto elementare, ma alcuni riescono a farsi capire. Ci offrono il loro cibo e ci fanno accomodare nel loro salotto (una coperta di fianco al fuoco). Tra gli incontri di oggi anche una donna curda siriana con i suoi 5 figli, il marito è morto sotto le bombe e lei sta cercando di raggiungere i suoi parenti anch’essi in Germania. La conversazione più lunga l’abbiamo avuta con un ragazzo curdo siriano, lui e la moglie entrambi laureati (lui in francese e la moglie in letteratura inglese), hanno perso tutto. Avevano un negozio di abbigliamento per bambini. Si erano allontanati per le bombe
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e quando sono tornati hanno trovato casa e negozio distrutti. Hanno venduto tutto per intraprendere questo viaggio. Ci hanno raccontato di aver pagato 600 dollari a testa per la traversata, con la promessa che la barca sarebbe stata sicura e confortevole. Si sono ritrovati in 70 adulti e 30 bambini in una barca di pochi metri e non hanno potuto neppure rinunciare perché i trafficanti gli avrebbero sparato. Ma ce l’hanno fatta e sono arrivati fino qui. Ora come tutti gli altri sono bloccati in questo limbo. Che non è vita né morte. Non sono solita dilungarmi in racconti ma, mentre tornavo in albergo stasera, avevo la testa troppo piena di parole e tanta voglia di raccontare, perché è così importante essere qui e poterlo raccontare.
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29 MAGGIO 2016
Il Campo di Idomeni è stato smantellato. Le 12.000 persone che lo affollavano, quando ho scattato queste foto, sono state smistate in vari campi “governativi” dove dovrebbero stare meglio, secondo chi governa. Loro però non volevano andare in un altro luogo per stare meglio, loro volevano stare li, il più vicino possibile a quella rete, a quel filo spinato che impediva loro di proseguire il viaggio. La domanda più frequente che mi veniva posta nella settimana che ho passato ad Idomeni, era proprio quella: “E’ vero che domani aprono la frontiera?” Non sapevo cosa rispondere. La frontiera non si è aperta e donne, uomini, bambini sono entrati a far parte di questo programma di “relocation” ricollocamento che a me suona più come un programma di “deportazione”. Quando ero lì a marzo, stavano già cercando di convincerli che negli altri campi sarebbero stati meglio, si sentiva dire che avrebbero avuto il W-IFI e avrebbero avuto più cibo. Lo spazio occupato dalle tende e dai containers era veramente molto ampio, i bambini
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correvano ed i loro schiamazzi si sentivano che pareva essere in un villaggio vacanze. A parte qualche protesta dettata spesso dalla stanchezza, tutto pareva molto ben organizzato. I volontari erano tanti e cercavano di assistere tutti al meglio. C’era chi si occupava del cibo, dei bimbi, degli ammalati, della distribuzione degli abiti e delle attività ludiche. Non incrociavi occhi senza che lo sguardo fosse accompagnato da un sorriso e da un “thank you”. Grazie, ma grazie di cosa mi chiedevo. Forse grazie di essere qui per testimoniare, per far si che questo limbo non sia dimenticato, per non permettere che il loro lungo viaggio che avrebbe dovuto portarli dalla morte della guerra alla speranza di una vita nuova, si fermi in una terra che non li vuole. Ultimamente nessuno parla più di loro. I miei pensieri vanno ai tanti che ho incontrato e che mi hanno sorriso e mi domando dove sono in questo momento. Tante foto sono state scattate al Campo di Idomeni negli ultimi mesi. Non ne ho viste fatte nei Campi Governativi e questo non è un bel segnale.
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Storia
Hyppolyte Bayard di Max Ferrero
« Questo che vedete è il cadavere di Hyppolyte Bayard, inventore del procedimento che avete appena conosciuto. Per quel che so, questo infaticabile ricercatore è stato occupato per circa tre anni con la sua scoperta. Il governo, che è stato anche troppo per il signor Daguerre, ha detto di non poter far nulla per il signor Bayard, che si è gettato in acqua per la disperazione. Oh! umana incostanza...! È stato all’obitorio per diversi giorni, e nessuno è venuto a riconoscerlo o a reclamarlo. Signore e signori, passate avanti, per non offendervi l’olfatto, avrete infatti notato che il viso e le mani di questo signore cominciano a decomporsi. » Correva l’anno 1839, dopo secoli d’inerzia, una schiera di fotografi si adoperò, in quel periodo, per brevettare il miglior procedimento meccanico possibile di riproduzione fotografica. Niepce aveva ottenuto, nel 1826, il primo risultato positivo della storia, ma la sua tecnica “arcaica”, ne aveva impedito la diffusione. Il 7 gennaio del 1839, lo studioso e uomo politico Francois Jean Dominique Arago presentò ufficialmente la Dagherrotipia, un metodo fotografico autopositivo a copia unica, all’Academie des Science di Parigi. L’inventore del metodo, Luis Jaques Mandè Daguerre, famoso nell’entourage parigino per i suoi diorami (esperimenti scenografici) gongolò, un’ennesima volta, per aver stupito il mondo intero. Questo annuncio inatteso fece fiorire le dichiarazioni di paternità dell’invenzione da parte di una moltitudine di inventori, tra cui, appunto, il nostro Hyppolyte Bayard. A differenza di molti millantatori, Bayard aveva realmente scoperto un procedimento fotografico su carta in grado di produrre più copie da un unico scatto. Quando lo presentò allo stesso Aragò non gli fu sufficiente esibire le prove che dimostravano indubitabilmente che i suoi successi fossero antecedenti a a quelli del concorrente Daguerre. Aragò lo congedò offrendogli 600 franchi a titolo di rimborso spese, consigliandogli di migliorare l’attrezzatura utilizzata e la qualità finale del prodotto. Il 19 agosto 1839, l’Accademia delle Scienze dichiarò pubblicamente l’invenzione del Dagherrotipo. Lo stato francese accordò una pensione annua di 6000 franchi a Daguerre e al povero Bayard non rimase altro che l’amarezza dell’occasione perduta. Nel 1840, si ritrasse fintamente morto, scrisse la frase riportata in apertura di questo articolo, a eterno ricordo dell’ingratitudine del mondo accademico e della sua sfortuna. Nonostante tutto egli continuò la professione di fotografo, ottenendo grandi risultati nel campo della ritrattistica e del paesaggio. Qualche anno dopo, partecipò anche all’importante “missione eliografica” in cui, per la prima volta al mondo, il mezzo fotografico fu utilizzato da un governo (francese in questo caso) per documentare i beni artistici della nazione. Fu solo nel 1943, durante l’occupazione nazista, che un ricercatore italiano, Gian Maria Lo Duca, riscoprì il suo nome e i suoi meriti. Venne, così, definitivamente riconosciuto come uno dei padri fondatori della fotografia. 14 |
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©Carlo Ferrari
Intervista
Fulvio Bortolozzo
di Elisabetta Lucido
Come e quando nasce la tua passione per la fotografia? Nasco come autore di fumetti. Già alle superiori disegnavo fumetti comici ispirandomi a maestri dell’epoca come Bonvi e Silver e questa passione mi spinse ad orientarmi su studi artistici, abbandonando l’Istituto tecnico per passare al Liceo Artistico e poi all’Accademia di Belle Arti, scuola di Scenografia. È proprio all’Accademia che incontrai la fotografia apprendendone i primi rudimenti. Mi avvicinai alla fotografia per un motivo molto semplice ed apparentemente funzionale: desideravo affrontare anche il fumetto realistico e pensai di aiutarmi proiettando sulla carta da disegno con un ingranditore le negative di fotografie che realizzavo appositamente. Abbandonando poi quell’idea, decisi però di iniziare a fare comunque i miei primi esperimenti fotografici acquistando nel 1980 una biottica 6×6 sovietica, la Lubitel 2, che allora era una delle fotocamere più economiche sul mercato che disponesse di tempi e diaframmi regolabili manualmente. Al termine dell’Accademia, durante l’anno di leva (6° scaglione ‘81), mi trovai per motivi di servizio a Firenze e, mentre disegnavo sul mio taccuino uno schizzo della statua di Dante eretta di fronte alla Chiesa di Santa Croce ebbi una sorta di folgorazione: smisi di disegnare e scattai una foto alla statua con la piccola compatta a ottica fissa, che avevo sempre con me in quel periodo, perché in quel momento ciò che volevo era di ottenere qualcosa che fosse il più simile possibile a ciò che stavo vedendo. Per questo prendere una fotografia mi sembrava la cosa migliore che potessi pensare di fare. Quindi è in quel periodo che inizi a fotografare? Si, da lì, poco per volta nel corso degli anni successivi, rinunciai sempre di più al disegno, abbandonando progressivamente il mondo del fumetto, quello dell’illustrazione per l’infanzia e infine anche la progettazione grafica aziendale ed editoriale (tutte attività che svolsi negli anni ‘80 e per parte degli anni ‘90) concentrandomi così quasi esclusivamente sulla fotografia. In quel periodo di passaggio ebbi anche l’opportunità di cimentarmi, in società con altri, nella realizzazione di documentari in multivisione: una tecnica audiovisiva che all’epoca era all’avanguardia tecnologica: con i primissimi 16 |
personal computer della Apple si potevano comandare fino a 15/20 proiettori per diapositive di tipo Kodak Carousel con un commento sonoro sincronizzato. Questa esperienza fu per me anche una grande palestra fotografica, perché per realizzare pochi minuti di proiezione bisognava poter disporre di una quantità enorme di diapositive. Ci occupavamo in prevalenza di documentare il territorio montano della provincia di Torino. Questo per me voleva dire grandi camminate in mezzo a valli, monti, margari ecc. ,scattando come un giapponese nel più breve tempo possibile a tutto quello che pensavo potesse servire per le nostre multivisioni. Un’attività professionale così frenetica abbreviò drasticamente le fasi di presa di confidenza con l’attrezzatura e con tutto quello che è la tecnica fotografica. Finita questa fondamentale esperienza mi concentrai su un lavoro di tipo autoeditoriale più meditato e personale, abbinando alla fotografia, la ricerca storica e iconografica sulle valli torinesi, la stesura dei testi, la cura dell’impaginazione e il progetto grafico per una mia collana di piccole monografie e guide culturali. Da buon veneto tendo a voler fare tutto solo e ancora oggi rimango, in questo senso, fedele alle mie radici. A completare la formazione come fotografo, sempre in quegli anni, giunse la frequentazione della libreria Agorà di Torino (che era allora, quando ancora non c’era inter-
net, un luogo di aggiornamento importante per grafici e pubblicitari torinesi). Per pura passione privata dei titolari, Rosalba Spitaleri e Bruno Boveri, si avvicendavano durante l’anno in libreria conferenze e mostre di autori emergenti e riconosciuti della fotografia contemporanea italiana ed internazionale, oltre a poter trovare lì in vendita i pochi fotolibri e saggi sulla fotografia allora reperibili, alcuni poi divenuti preziose rarità editoriali. Scoprii così un fotolibro che mi travolse definitivamente: Kodachrome di Luigi Ghirri. Da quel tempo, seppur lentamente, andai maturando la necessità sempre più impellente di concentrare ogni mia energia sulla fotografia di ricerca personale. Ti sei ispirato quindi a Luigi Ghirri? Sì senz’altro e molto più che ad altri, ma non solo a lui. Guardavo anche ad altri autori della Scuola italiana del paesaggio degli anni ‘80/’90 (della quale uno dei maggiori rappresentanti ancora viventi è Guido Guidi, che è stato tra i primi in Italia a fotografare il paesaggio marginale
e antispettacolare della provincia). Quindi un po’ a tutti quelli che sono poi diventati dei grandi nomi e che indirizzarono il mio interesse verso una fotografia di luoghi, in prevalenza urbani. Non ultimo, Roberto Salbitani, a cui il Museo di Fotografia Contemporanea diretto da Roberta Valtorta ha di recente dedicato una bella mostra antologica. Quando sei passato al grande formato? Con l’arrivo degli anni 2000 ho deciso di fare il salto e passare al grande formato. Fino ad allora avevo sempre lavorato con sistemi 24x36mm, prima in diapositiva e poi usando negative a colori, in questo seguendo un percorso simile a quello degli autori di di cui parlavo prima, escludendo però Gabriele Basilico che rimaneva fedele al bianco e nero. Presi anche in considerazione di muovermi verso il medio formato, ma alla fine acquistai una fotocamera in legno per pellicole piane 10x12 cm. Con il grande formato cambia totalmente la procedura sul campo, già solo per il fatto che ci vuole molto tempo per mettere in azione la macchina fotografica. Si passa cioè da una fotografia molto istintiva, ed anche molto produttiva (nel senso che puoi scattare molte foto,
tra le quali si sceglierà infine quella veramente buona), a una fotografia molto più contemplativa, perché, magari, in un’intera sessione di ripresa in esterni prendi al massimo due o tre immagini e quindi devi essere ben sicuro di ciò che stai facendo. L’arrivo del mondo digitale ha in qualche modo cambiato la tua fotografia? Sostanzialmente non abbandono l’idea di pensare in grande formato, anche se, dopo una dozzina d’anni di pratica quasi ossessiva della ripresa su pellicole piane, ho iniziato da qualche tempo a lavorare con le digitali, a cominciare dalle compatte che mi riportano verso la Minox, un gioiellino che avevo molto usato in passato per le fotografie più istintive. Ora, con la forma mentis conquistata nel frattempo, posso persino usare a mano libera una qualunque compatta digitale, anche economica, come se ce l’avessi invece sul treppiede e in bolla. Le digitali, anche le reflex, hanno il vantaggio di permetterti una fotografia veloce potendo
così passare, senza soluzione di continuità, da un atteggiamento riflessivo ad uno istintivo. Non ho invece ancora fatto nessuna esperienza con gli smartphone. Un tipo di strumento fototecnico di cui rilevo il successo planetario esponenziale, ma per il quale non trovo ancora applicazioni pratiche di mio interesse. A proposito di smartphone, non credi che tutti questi programmi come Instagram o similari omologhino in qualche modo la fotografia? Si, infatti io sono “nemico” di Instagram o meglio dell’uso smodato e ripetitivo dei filtri preconfezionati di Instagram. Secondo me, lo smartphone, prima di essere un congegno fotografico, è un congegno che trasforma il tempo del fotografico. Io non amo parlare tanto di fotografia, termine ormai vago e fonte di equivoci, quanto di questa cosa che chiamo “fotografico”, cioè dell’atteggiamento di una persona che guarda, percepisce e cerca di ottenere qualche cosa di visibile che abbia una relazione con il suo guardare. Questa è un’attività molto diversa da ciò che fa per esempio una persona che dipinge. Mi spiego meglio: quando si fotografa c’è un mezzo meccanico che produce l’immagine (può essere una reflex, un banco ottico o qualunque | 17
La Camera Chiara altra cosa che sia stata costruita per realizzare un’immagine chimica o elettronica durevole ottenuta automaticamente con l’azione della luce). Io quindi posso imparare dalla macchina come si fanno le immagini, perché ogni macchina le realizza secondo le procedure e le tecniche previste dal suo costruttore. (vedi il concetto di “inconscio tecnologico” di Franco Vaccari). Le fotografie infatti non si fanno, si prendono (vedi i tanti testi di Ando Gilardi). Se invece disegno non imparo direttamente nulla dalla mia matita, perché la matita è uno strumento inerte, che di per se stesso non produce immagini. Solo se lo metto in azione con il coordinamento fra il mio cervello e la mia mano ottengo qualcosa. La macchina fotografica è quindi un congegno sofisticato perché contiene una sua logica di funzionamento. La reflex, in questo senso, è uno strumento molto didattico perché quando noi premiamo il suo pulsante di scatto, il nostro occhio viene buttato fuori dalla “sala parto” nel momento preciso in cui si deposita l’immagine sul sensore o sulla pellicola: l’apparato governato da me la produce quindi al mio posto e il nostro è per questo motivo un lavoro di secondo livello. Sfruttiamo il lavoro di una macchina e l’immagine ottenuta non ci appartiene perché è stata prodotta industrialmente da un oggetto “per noi” e non “da noi”. Dal 1839 all’ultima reflex che deve ancora uscire non è cambiato proprio nulla. Lo smartphone invece fa una cosa in più, che fino ad ora nessuna macchina aveva ancora fatto: ci consente di scattare e condividere la fotografia immediatamente su Internet senza ulteriori fasi intermedie. Solo la Polaroid, in modo ben più primitivo, aveva fatto prima qualcosa del genere, ma sempre di stampine su carta speciale si trattava. La fotografia fruibile fin qui come “oggetto” (se andiamo in una galleria d’arte vediamo delle fotografie stampate, lo stesso se acquistiamo libri fotografici, o anche se proiettiamo delle dia, ché sempre oggetti sono) diventa, con l’uso dello smartphone, “flusso”. Abbiamo per la prima volta l’annullamento quasi totale della distanza fra la produzione e la condivisione. Questo cambia la logica di rapporto con il “fotografico”, che non è più un gesto che si fa in modo isolato, un gesto di concentrazione da cui deriva un numero fisicamente limitato di oggetti visivi, ma diventa un gesto di presenza, di flusso, di costante produzione e comunicazione, un gesto immediato e costante d’esistenza e identità sociale. Instagram, o applicativi similari, richiedono la pubblicazione continua di immagini perché solo così gli altri utenti possono cominciare a distinguermi dal rumore di fondo del restante flusso visivo. La singola immagine non funziona più, ma è lo stile complessivo a colpirci: è come se guardassimo un film, dove non ci interessa il singolo fotogramma. Al momento io non mi sento interessato a questa logica e, se devo scattare una foto, preferisco 18 |
ancora usare una buona compatta piuttosto che uno smartphone. Quindi tu pensi che nel tempo la funzione della fotografia, o per lo meno l’uso che ne facciamo oggi, possa cambiare? Sta già cambiando, anzi è già cambiata. Qualcuno, non ricordo più chi, diceva che la realtà è sempre più avanti delle nostre opinioni. Anche nella fotografia, noi lo capiremo poi, in realtà già oggi per milioni di persone quello che noi qui chiamiamo “fotografia” è già un’altra esperienza. Non è più un’esperienza di selezione, di distillazione, di messa insieme di una serie di immagini per creare una corrente di pensiero (o di gusto o di attenzione su qualcosa) ma è diventata un meccanismo di presenza, socializzazione ed esistenza in vita. Anche quella che era stata tradizionalmente ritenuta una delle funzioni più importanti della fotografia, la “memoria”, viene oggi messa in crisi perché non si stampa quasi più nulla. E noi, fra 50 anni, potremo davvero essere sicuri di rivedere le foto che in questo momento ci stiamo facendo con lo smartphone? Per tornare alle tue fotografie, c’è sempre un’attenzione al paesaggio, ma un paesaggio particolare però, un paesaggio dove c’è del vuoto ed un’atmosfera che a me trasmette quasi un senso di “sospensione”: cosa ci vuoi raccontare con queste immagini? Nulla, sono antinarrativo per precisa volontà. Sono contrario alla fotografia che racconta; se devo proprio mandare un messaggio preferisco altri strumenti. Sono dell’idea che il “fotografico” sia un’esperienza prima di tutto individuale e di conoscenza, non necessariamente di racconto o di comunicazione. Io fotografo perché sono curioso, e cerco di ritrovare con la fotografia esattamente quello che ho visto e percepito. I miei paesaggi vuoti dipendono dal mio modo di essere, nel senso che quando sono in relazione con le persone mi sento partecipe e coinvolto emotivamente, quindi introdurre un oggetto come la fotocamera in una relazione con le persone mi diventa estraneo, mi sembra di interrompere qualcosa. E questa mia sensazione che “guardando le tue immagini ti aspetti che debba succedere qualcosa”, è sbagliata? No, infatti io colgo quel momento in cui non sta accadendo nulla, non perchè non accadrà mai, ma perché magari è già accaduto o sta per accadere. Questo dipende dal fatto che io uso come metro per scegliere la foto da scattare l’ impatto che il luogo ha su di me come persona. Fotografo molto a Torino e molto dove vivo, quindi è difficile che prenda una fotografia in un luogo dove non sono mai andato prima e spesso mi accorgo, a forza di prendere le foto, che quel luogo che credevo di conoscere, in realtà non lo conoscevo affatto, perché tutte le volte mi si pre-
La Camera Chiara senta diverso. E se si tratta di posti che non conosco, se posso, prima di scattare cerco di andarci più volte, di conoscere il luogo, magari anche solo osservandolo a lungo in quel preciso, unico, momento in cui posso starci. Quando decidi di scattare? Quando, di fronte ad un luogo, sento che c’è qualcosa, un po’ come i rabdomanti con l’acqua, e mi sembra di entrare in uno stato di maggiore agitazione. C’è qualcosa in me che mi porta a guardare proprio in quel posto, senza domandarmi il perché o il per come, ma cercando di essere molto attento e preciso nel registrare i limiti della zona che, per qualche motivo, mi attrae e dalla quale fatico ad andarmene via senza aver preso una foto. Il motivo - forse - lo capirò poi, o non lo capirò mai, e non mi interessa: ciò che mi interessa è di essere il più possibile preciso nel rilievo di quel luogo, come dato analitico. Quindi è questo che intendi quando identifichi il tuo lavoro con una “soap opera” dove tu sei protagonista? Come ti ho detto non mi interessa raccontare una storia con immagini, questo lo facevo già quando disegnavo fumetti, ciò che mi interessa realmente è il “fotografico”, cioè il mio atteggiamento da osservatore. Quindi se deve per forza venir fuori un racconto, e questo forse è inevitabile perché non possiamo non comunicare, desidero però che non sia voluto, desidero che il racconto segua una linea in cui, se proprio deve esserci un filo logico che tiene unite le immagini, esso sia rappresentato da questi stati particolari che scatenano in me il desiderio di prendere una fotografia, di cui io non conosco la ragione e che sono solo miei. Per questo non metto titoli alle immagini ed eventualmente l’unica informazione che posso dare è quella topografica e cronologia: luogo e anno. Fotografando gli stessi luoghi descrivi comunque un’evoluzione del territorio, dell’ambiente e quindi soap opera in questo senso? Alla fine decidere cosa si ricava dalle immagini non dipende dall’autore, ma dal fatto, inevitabile, di esistere. In questo senso, è una soap opera con me come protagonista, io naturalmente non vedrò tutti i luoghi del mondo ma vedrò quelli dove la mia vita mi porterà, né sarò in tutte le situazioni possibili e immaginabili. Mi sembra allora un tentativo di essere onesto con me stesso quello di non inventare racconti, ma di lasciare una traccia il più possibile vicina a quello che effettivamente mi ha attratto di quel luogo. Le tue immagini hanno un nitidezza spettacolare, cosa pensi del lavoro in post-produzione? Io credo che in qualsiasi esperienza espressiva le regole definitive non esistono, esiste un percorso che un autore si auto-costruisce prendendo spunto da se stesso, da altri autori, dalle relazioni di tutti i giorni nella vita. I metodi
usati per arrivare ad un risultato non hanno importanza, sono solo strumenti per arrivare all’unità dell’opera. Se l’immagine ha una sua autonomia per la quale mi attira, mi porta dentro, mi spinge a fare delle riflessioni e mi coinvolge in qualche misura, ha raggiunto il suo scopo. Questa è l’unica cosa che io trovo veramente interessante: come è stata realizzata può essere una curiosità che nulla toglie o aggiunge all’immagine stessa. Tu personalmente come utilizzi la post-produzione? Personalmente rifiuto la post produzione troppo evidente, soprattutto quando diventa più evidente dell’immagine stessa: non mi piace l’eccesso. Uso la post-produzione per far somigliare il più possibile le mie fotografie a ciò che ricordo di aver visto. Quando, ad esempio, mi dicono “tu fai una notte molto luminosa” io rispondo “certo, perché è così che io l’ho vista”. In effetti quando arrivo sul posto vedo solo molto buio, ma dopo un’ora che traffico per posizionare la mia fotocamera, il mio occhio si è adattato (cosa che non riesce a fare la fotocamera) e ci vedo come un gatto. La mia fotografia descrive sì il luogo, ma descrive anche il tempo della mia permanenza in quel luogo: ecco perché le mie notti sono luminose. Per queste correzioni non uso gli strumenti di post-produzione di massa come Adobe Lightroom. Non mi sono di nessun aiuto. Ogni fotografia richiede una post produzione propria, anche in singole parti di essa, e solo Photoshop può darmi questo controllo. Tu gestisci anche un blog: hanno più forza comunicativa le parole o le immagini? È un grosso problema: evito il più possibile di accostare alle mie immagini le parole. Evito la didascalia, evito una spiegazione che non sia succinta e sempre riferita ad una serie di immagini e mai ad una singola foto e, anche in questi casi, mi limito a mettere il luogo e l’anno. Noi arriviamo da un linguaggio scritto che ha una storia millenaria ed è dentro di noi con una forza che l’immagine non può avere nella stessa misura, e ancor meno l’immagine fotografica che è relativamente giovane, essendo un’esperienza che parte dal 1839. La parola abbinata all’immagine è uno strumento pericolosissimo perché è troppo condizionante. La fotografia appartiene sì al mondo delle immagini, ma è un’immagine diversa dalle altre perché non la fai tu, ma la fa la macchina, invece troppo spesso noi guardiamo la fotografia come se fosse un disegno o un quadro e ci chiediamo perché quella foglia è un po’ troppo gialla, perché quell’albero è li? Io come fotografo non so rispondere, un pittore probabilmente sì perché, magari, ha studiato a lungo il colore, se inserire o no l’albero, ecc. Noi abbiamo un controllo dell’immagine tradizionale, | 19
La Camera Chiara che chiamo “sintetica”, molto preciso e puntuale mentre abbiamo un controllo sull’immagine fotografica, che definisco “analitica”, decisamente più debole. La fotocamera serve per estrarre dalla percezione generale degli aspetti che si vuole privilegiare rispetto ad altri. Perché questo gioco funzioni la fotografia deve essere a mio avviso, muta, silenziosissima e l’osservazione della fotografia deve essere “a piacere”. Negli anni lo strumento che ho trovato più rispondente a queste due condizioni è il libro, perché sia le mostre sia la rete stessa portano a delle distrazioni. Il linguaggio scritto/verbale è una forma di interpretazione di ciò che il nostro cervello percepisce ed elabora, mentre le fotografie, e le immagini in genere, sono in grado di penetrare nella
nostra mente come dei virus se le si lascia lavorare come sanno, senza interferire con deviazioni verbali. Così, magari, a distanza di tempo ti accorgi che una foto che hai visto ti è rimasta dentro molto più di quanto pensavi o ti fossi reso conto sul momento. Tu hai un’idea molto particolare della fotografia e di quello che tu chiami “il fotografico”: come si concilia questo con eventuali lavori su commissione? Ci vuole una committenza illuminata di antica scuola. Io non sono in grado di svolgere un lavoro a comando che preveda un obiettivo di comunicazione determinato perché va contro la mia natura. Per carità non dico di non averlo mai fatto in passato, ma da quando decisi di privilegiare il mio interesse per l’esperienza del fotografico, decisi anche di non fornire più il classico servizio professionale, ma, semmai, di proporre il mio intervento come attività intellettuale. D’altronde, rivolgendoci ad un avvocato non è sicuro che ci faccia vincere la causa o che un medico ci guarisca: la mia quindi è una proposta professionale nella quale mi impegno con tutte le mie capacità intellettuali a venire sul tuo territorio, a camminarci ( tutte le mie fotografie nascono dal camminare nei luoghi), ad osservarlo, e tutte le volte che si verifica in me l’impulso a prendere una fotografia, lo faccio. Dopo di che seleziono, organizzo e presento il materiale e può darsi che, se sono stato abbastanza attento e preciso, venga fuori una conoscenza nuova del territorio, che può essere molto utile al committente. Come invece può anche darsi che non venga 20 |
fuori niente di utile. Occorre quindi che ci sia una relazione professionale aperta all’insuccesso tra il fotografo e chi gli affida l’incarico. Succede spesso? Ho avuto la fortuna di trovare dei committenti privati e pubblici che hanno accettato questa sfida e, secondo me, si sono portati a casa dei risultati molto utili. Ormai le fotografie le sanno fare tutti e la tecnologia, in questo, ha contribuito molto a ridurre quasi a zero le barriere tecniche di accesso alla professione. Allora l’investimento che tu puoi fare è quello di portare un valore aggiunto di tipo intellettuale. Un fotografo di luoghi è uno specialista nel guardare, io sono un grande “guardatore di luoghi” e forse, guardando, riesco a vedere delle cose che non tutti vedono, ma che possono imparare a vedere attraverso le mie fotografie. Poi possono trarne le conclusioni che ritengono più opportune. Affinché le mie fotografie funzionino in tal senso, devono essere il più possibile oneste e neutre, quindi niente grandangoli esasperati o manipolazioni della luce create ad arte, come con l’uso smodato dell’HDR per esempio. Le fotografie devono essere quello che una persona normale, passeggiando, potrebbe vedere di persona. Questa è una cosa che non ha limiti di tecnologie e di epoche, ci sarà sempre bisogno di uno che ti insegni a guardare ciò che ti circonda e quel maestro può essere il fotografo. Insegni allo IED, cosa consigli ai giovani che vogliono intraprendere questa professione? Consiglio sempre loro di conoscere a fondo la teoria e la tecnica che stanno alle fondamenta della fotografia perché è comunque da questa competenza specifica che si parte. Sempre meglio farlo in una scuola perché se lo fai da autodidatta rischi di metterci più tempo e perderti per strada delle cose importanti. Poi c’è il problema di trasformare questa esperienza del fotografare in una professione. Fondamentale quindi che il giovane capisca da subito che l’obiettivo non è quello di imparare a fare una “bella foto”: un australiano ha messo una fotocamera al collare del gatto (le foto le potete trovare su internet) lui poi fa solo l’editing e pubblica le più “belle”. Questo vuol forse dire che il gatto è bravo? In effetti noi oggi siamo per certi versi simili al gatto, ma ciò che differenzia le immagini è il lavoro di preparazione ed editing. Il fotografo professioni-
La Camera Chiara sta che oggi, e soprattutto domani, può vivere del proprio lavoro sta diventando un esperto specializzato in immagine e comunicazione visiva, anche multimediale e virtuale. In quanto esperto, è sempre meno il produttore materiale dell’immagine e sempre più il consulente fondamentale per collocarla nel corretto percorso di comunicazione. Stanno infatti aumentando lavori di fotografi competenti che impiegano anche fotografie di altri o che selezionano e mettono in campo fotografie di altri. Per i giovani che vogliono intraprendere questa strada, secondo me, si apre un grande futuro come esperti della comunicazione visiva a base fotografica, tutto da inventare. Ovviamente queste sono competenze che non si acquisiscono acquistando una reflex di ultima generazione, ma con la crescita intellettuale e con il talento personale che vanno attentamente coltivati. Per concludere, qual è la foto o il lavoro che più ti rappresenta? Il mio lavoro fondamentale è “Scene di passaggio (Soap Opera)”, che ha diverse fotografie all’interno a cui sono particolarmente legato. Una di queste è l’attuale cover del mio profilo Facebook. È una foto che ho scattato sulla piazza principale di Palmanova, dove si vede un allestimento provvisorio di giostre in un momento del giorno in cui non lavoravano. Quest’immagine è stata anche usata per la copertina del primo libro di poesie di un giovane poeta, Agostino Cornali. È un’immagine che contiene molto di quello che sono in grado di realizzare con questo mio atteggiamento e con l’approccio al fotografico di cui parlavo prima. Un altro
lavoro a cui sono molto affezionato è “Olimpia” realizzato di notte a Torino nel periodo pre-olimpico. Infine, l’altro lato di me, quello più istintivo e compulsivo, è ben rappresentato da “Appunti per gli occhi”, lavoro di flusso torrenziale realizzato con compatte digitali. Per conoscere meglio il nostro autore vi consigliamo il suo blog: CAMERA DOPPIA http://borful.blogspot.it/
Post scriptum Un anno e mezzo è passato da questa intervista e intanto le cose sono andate avanti. Nel 2014, Fulvio Bortolozzo cura il progetto editoriale Questo Paese (http://questopaese. blogspot.it) e nel 2015 avvia il progetto editoriale REST, sempre in veste di curatore ed editore. Un nuovo blog personale si è affiancato a Camera Doppia: Fulvio Bortolozzo (http://borful57.blogspot.it) e anche un sito ufficiale www. fulviobortolozzo.it. E in ultimo, ma non per ultimo, è stato reso attivo pochi mesi fa un profilo su Instagram: https:// instagram.com/borful. Questo significa che ora esiste uno smartphone tra le fotocamere usate e la sperimentazione del flusso visivo sulla rete è in pieno corso.
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Tecnica
La composizione I parte
di Max Ferrero con la collaborazione di Fotozona.it
©Alessandro Landozzi/fotozona
Se abbiamo imparato le nozioni base di esposizione, messa a fuoco e scelta degli obiettivi. Se abbiamo messo in pratica tutte le nozioni teoriche. Se abbiamo cominciato a considerare la macchina fotografica come un mezzo per esprimerci e non come un oggetto misterioso, allora possiamo dire di essere maturi per una delle parti più importanti della fotografia: la composizione. L’inquadratura di un’immagine è una complessa armonizzazione degli elementi riprodotti sulla fotografia. Vi possono essere essenzialmente due modi per procedere alla sua attuazione: il primo è quello che si avvicina alla pittura. Il mirino o il sensore sono le superfici che devono essere riempite. Il fotografo si preoccuperà di occupare gli spazi con tutti gli oggetti, soggetti e sfondi adatti a comporre armonicamente tutte le zone. Questo metodo di lavoro è una preroga22 |
tiva dei professionisti di studio. Con questo metodo essi hanno la possibilità di dominare e posizionare non solo le luci, ma anche gli elementi che comporranno l’immagine finale. Il secondo metodo, quello utilizzato dalla maggior parte degli “amatori” e dai fotografi “on the road”, si avvicina molto di più alla scultura. La realtà da documentare è normalmente sempre più caotica rispetto a quello che si desidererebbe. Il compito del fotografo è di eliminare tutto il superfluo e l’inutile, rendendo l’immagine fluida e leggibile, immediata e coinvolgente. Premettendo che le regole della composizione non sono assolutamente dei dogmi ferrei, è pur vero che alcune nozioni fondamentali è bene conoscerle. Intanto perché per chi inizia a scattare è importante avere degli esempi da seguire, e poi è sempre rilevante conoscere alla perfezione le regole “nobili” che seguono tutti, per poterle superare, cercando un personale percorso visuale. Vediamo una alla volta alcune delle regole più importanti da memorizzare e mettere in pratica. Orizzontale e verticale La scelta dell’orientamento di una fotografia non è cosa immediata. La logica vorrebbe che si preferisse l’orientamento della fotocamera in base alla direzione del soggetto. Se fotografiamo un soggetto orizzontale, è naturale riprenderlo con la macchina fotografica messa nello stesso verso, così di dover indietreggiare eccessivamente per inquadrare l’intero soggetto, o ottenere un taglio eccessivo dell’immagine. Una persona fotografata a figura intera, normalmente, avrà bisogno di un orientamento verticale per
La Camera Chiara ritrarla senza spazi inutili. Fin qui tutto semplice, ma le foto che si creano non sempre sono composte da un unico soggetto. A volte i contenuti possono essere multipli e si completano solo interagendo fra loro. In questi casi la scelta del formato migliore è quello che riesce a “incorniciare” tutte le parti necessarie. In altre occasioni, forse un po’ più complesse, la scelta della direzione è determinata dalle parti della scena originale che s’intendono eliminare. Oltre a questa regola di buon senso, l’orizzontale e il verticale hanno delle caratteristiche specifiche che possono aiutare il fotografo ad incrementare l’impatto visivo dello scatto. Il formato verticale è una peculiarità della fotografia; cinematografia e televisione non usano facilmente questo formato. Il formato verti-
©Roberto Orlando/fotozona
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cale è intrinsecamente originale perché obbliga l’osservatore a guardare secondo una prospettiva insolita rispetto alla visione oculare a cui siamo abituati. Il formato verticale, inoltre, non è adatto per presentazioni su monitor, videoproiettori e televisori che ne ridurrebbero le dimensioni perché tutti predisposti per una visione orizzontale. Il formato orizzontale, al contrario, è l’esatto opposto: fornisce una visione che potremmo definire “tradizionale”, a cui l’occhio e il pensiero sono abituati. Non ha un impatto travolgente ma ha il
©Mauro Trolli/fotozona
grande pregio di essere utilizzabile da qualsiasi apparato e di permettere al fotografo una postura più naturale durante lo scatto. Entrambi questi formati possono essere usati con proporzioni diverse. Le proporzioni sono date dal rapporto tra il lato lungo e quello corto. Avremo così formati denominati 2/3 (il lato lungo sarà 1,5 volte il lato corto). Potremmo utilizzare il formato panoramico 16/9 (già adottato dai moderni televisori) per offrire visioni spettacolari e ampie. Saremo liberi di realizzare fotografie con proporzioni ancora più azzardate, magari un 16/7 o perfino di più. Esistono anche dei formati più quadrati denominati 4/3 adottati da molte fotocamere mirrorless o compatte. Anche se caduto un po’ in disuso esiste ancora una terza via realizzabile facilmente con i mezzi di postproduzione moderni. E’ il formato quadrato. Le sue caratteristiche sono legate all’eleganza dell’equilibrio. Dà all’immagine una sensazione
©Saverio Barbuto/fotozona
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di stabilità, ma allo stesso tempo d’immobilità o staticità. E’ un formato difficile da utilizzare perché è molto diverso da ciò che vediamo nel mirino. La regola dei terzi E’ una regola che tende ad essere sopravvalutata, è un po’ troppo generica, però è indubbio che abbia delle qualità tecnicamente dimostrabili, quindi per iniziare a comporre è sempre utile provare a seguirla. Vediamo in cosa sussiste: suddividendo una fotografia con due rette verticali e due orizzontali tutte equidistanti, otterremo 9 sezioni perfetta©Alessandro Landozzi/fotozona
©Alessandro Landozzi/fotozona
mente uguali. Le linee in questione si chiamano linee di forza e descrivono approssimativamente il percorso di un occhio che osserva velocemente la nostra immagine. I punti d’intersezione delle rette sono denominati punti forti, punti focali oppure punti aurei e indicano le zone in cui l’occhio ha maggiore probabilità di soffermarsi durante la visione. La sezione centrale è denominata zona aurea, ed è l’area maggiormente interessata dall’osservazione perché circondata dalle linee di forza e dai punti focali. Visto che la fruizione dell’immagine avviene come la lettura di un qualsiasi testo, il punto forte d’ingresso sarà il primo in alto a sinistra, quello di uscita l’ultimo in basso a destra. Questo, almeno per la cultura occidentale, che legge i propri testi in questo senso, per altre culture, come quella araba, per esempio, le direzioni s’invertono. Pur essendo tutti importanti, i “punti focali” più rilevanti sono il primo (punto d’ingresso) e l’ultimo (punto d’uscita) perché più facilmente memorizzabili. 24 |
Le linee forti suggeriscono le zone in cui disporre le linee d’orizzonte o le eventuali linee rette verticali, evitando così di disporre tutto al centro, rischiando di rendere meno interessante evitando la composizione. A questa regola, facilmente memorizzabile, s’ispirarono sia i pittori, sia i protofotografi dell’800 che provenivano dalle accademie d’arte. Il suo successo è ancor’oggi talmente popolare che le macchine fotografiche fornite di Live-View, hanno la possibilità d’impostare la griglia già sul visore o direttamente nel mirino. Imparare e comprendere il ruolo della regola dei terzi è molto utile, divenirne schiavi sarebbe un grave errore. Sfruttare meglio queste regole porta irrimediabilmente a creare immagini sempre uguali e ripetitive. Obbliga i fotografi a disporre gli oggetti sempre sulle stesse linee o punti. La standardizzazione non è un fattore necessario ai creatori di “visioni”. Il rapporto figura/sfondo Per figura intendiamo il soggetto che nella nostra fotografia è fonte o protagonista del messaggio. Lo sfondo può essere uno spazio uniforme e definito che esalta o non intralcia la figura in primo piano. Un buon rapporto figura/sfondo permette di riconoscere immediatamente il messaggio dell’autore, individuando gli elementi necessari alla comprensione dell’immagine e quelli che fanno solo da contorno. Per ottenere ciò non è sempre necessario che il soggetto sia grande e dominante, è sufficiente che si stacchi nettamente, senza intralci o digressioni dallo sfondo. Una texture ripetitiva o un colore uniforme possono diventare uno sfondo interessante in grado di valorizzare il soggetto, grazie al contrasto e alla diversità dei molteplici elementi della compo-
©Fioravante Stefanizzi/cedas
sizione. Quando si ha un cattivo rapporto tra la figura e lo sfondo, il soggetto può risultare non abbastanza interessante, in particolare, uno sfondo invasivo, pieno di elementi di disturbo, è capace di minimizzare il soggetto che ha attirato l’attenzione dell’autore. Anche i toni possono aiutare a determinare il rapporto figura/ sfondo. Il vecchio e abusato modello del vaso di Rubin è un esempio tipico di ciò che il nostro cervello è in grado di percepire. L’immagine è formata da due distinti oggetti: Uno è il calice bianco, l’altro sono i profili neri. Essi coesistono contemporaneamente ma il nostro cervello ne individuerà sempre e solo uno, mentre l’altro si trasformerà in sfondo. Questo esempio studiato nel 1915 è diventato talmente famoso che non è più un riferimento preciso alla teoria per cui il bianco tende sempre a essere considerato sfondo perché analogo alla luce e quindi non materico, mentre il nero, paragonato all’ombra, si considera frutto di un oggetto tangibile. L’esempio può essere applicato anche ai colori.
Un soggetto, anche piccolo, ma che presenta colori contrastanti con lo sfondo beneficerà della diversità per risultare in evidenza rispetto allo sfondo. La stessa cosa avviene per le forme o per i contenuti, ma questi temi saranno oggetto di una trattazione futura. La composizione fotografica è un mondo così vasto che
©Pierlorenzo Marletto/cedas
avrebbe bisogno di trattati ben più articolati e complessi. Personalmente mi piace pensare che la “giusta” composizione sia anche il frutto di quel percorso che ciascun fotografo, artista o semplice compositore d’immagini, deve intraprendere per trovare il suo equilibrio. | 25
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Arte
Il pittorialismo
di Agnieszka Slowik Turinetti
“...E come sempre avviene nella storia delle arti, ci furono polemiche, esagerazioni, tentativi ed errori...”
pa, si caratterizzava per l’uso di svariate tecniche e complicati processi chimici come la calotipia, la tecnica della gomma bicromata o della stampa al bromolio. Tutto allo scopo di emulare gli effetti della pittura sulla fotografia tradizionale che, allora, in quei tempi era tenuta in scarsa considerazione.. L’ostilità del grande poeta francese, Charles Baudelaire, nei confronti della fotografia ne è una chiara testimonianza; egli, infatti, sosteneva che la fotografia fosse il rifugio di tutti i pittori mancati, mal dotati o troppo pigri per completare i loro studi. I fotografi che fecero parte di questo movimento erano sostanzialmente degli abili tecnici. Possedevano una grande capacità manuale, uno spiccato senso artistico ed erano sempre alla ricerca di nuovi effetti stilistici.
Edward Steichen gomma su platino 1909
Anche se ebbe un periodo piuttosto breve di successo, il pittorialismo della fine del XIX secolo lasciò una traccia importante nella storia della fotografia. Questo stile fotografico, nato in Euro26 |
Essi imprimevano sulle lastre la loro personale visione romantica e poetica della realtà. Ritoccavano i negativi con pesanti manipolazioni che tendevano a imitare la bellezza di un opera manuale. Secondo le rigide interpretazioni coeve, però, la post- produzione in camera oscura annullava quelle che venivano considerate le qualità essenziali della fotografia, quali la nitidezza e la veridicità. Per gli anti-pittorialisti l’unico scopo della fotografia era la rappresentazione fedele della realtà. Il pittorialismo, nonostante tutto, venne legittimato e riconosciuto come pratica artistica nel 1891 al congresso di Vienna.
OSCAR GUSTAVE REJLANDER (1813-1875) Svezia
Egli fu un personaggio bizzarro e controverso. Progressivamente abbandonò la pittura per dedicarsi alla neonata fotografia. Si dedicò in particolare alla realizzazione di servizi fotografici con un chiaro riferimento all’impegno sociale, realizzando servizi sulle misere condizioni dei bambini di strada londinesi. Di questi basti ricordare “Homeless” o “Povero Joe”, immagini divenute molto famose. La notorietà arrivò nel 1857 con la sua opera più famosa, The Two Ways of Life. Si tratta di un’opera di grande formato (76 x 40,5 cm circa) che da un punto di vista tecnico è costruita in sede di stampa mediante il fotomontaggio di 32 diversi negativi. Un’opera allegorica che appare ispirata dal dipinto di Raffaello “La scuola di Atene”, mentre nell’opera pittorica sono rappresentate la scienza e la filosofia, nella fotografia viene mostrata la contrapposizione tra il mondo della famiglia e quello della dissolutezza: il vino, il sesso e il gioco d’azzardo.
GUSTAVE LE GRAY (1820-1882) Francia Fu uno dei co-fondatori della Société Héliographique nel 1851 e della Société Française de Photographie nel 1854.Oltre che al genere del ritratto si dedica alle riprese di paesaggio e architettura. Sono famosi le sue vedute marine, effettuate sulle spiagge della Normandia, della Bretagna e del Mediterraneo. Le Gray usava il metodo della stampa combinata, cioè di una tecnica che consisteva nello stampare, su uno stesso foglio di carta, negativi dello stesso soggetto ripresi in tempi diversi, al fine di evidenziarne i particolari o gli elementi salienti e comporre così immagini di grande fascino. | 27
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HENRY PEACH ROBINSON (1830-1901) Gran Bretagna
SERGEI LOBOVIKOV (1870-1941) Russia
Fu tra i pionieri del fotomontaggio. Realizzò la sua immagine più famosa “Fading Away “ utilizzando la “tecnica all’albumina”: una lastra di vetro veniva rivestita con un sottile strato di albumina liquida, ottenuto semplicemente da un uovo che una volta seccato, fungeva da supporto per l’elemento fotosensibile (nitrato d’argento). L’opera era frutto di una combinazione di ben cinque differenti negativi: uno per ciascuno dei quattro personaggi, più uno per lo sfondo. Questi venivano tutti impressi separatamente su di un unico supporto creando l’impressione di un’unica ripresa.
DOMENICO RICCARDO PERETTI GRIVA (1882-1962) Italia Nato a Coassolo Torinese è considerato uno dei più longevi esponenti del movimento pittorialista italiano. Formatosi alla Scuola Piemontese di Fotografia Artistica, la sua produzione fotografica si concentrò sulla realizzazione di paesaggi, ritratti e monumenti di grandi città, tutti realizzati magistralmente con stampe al bromolio. La stampa al bromolio è una stampa al bromuro in cui l’immagine viene sbiancata e sostituita da un inchiostro grasso.
EDWARD HARTWIG (1909-2003) Polonia Hartwig fu, senza dubbio, uno dei fotografi polacchi più famosi. Un artista versatile i cui lavori univano la fotografia e la grafica. I temi della sua produzione artistica sono il paesaggio, il ritratto, il nudo, l’architettura, il teatro. Fu particolarmente abile nel ritrarre le foschie mattutine tanto che si meritò l’attributo di “fotografo delle nebbie” . Fu chiamato anche fotografo impressionista poiché i suoi paesaggi, misteriosi e romantici, ricordavano molto la produzione pittorica. 28 |
Membro della Russian Photographic Society, le sue immagini malinconiche della vita di campagna e i suoi ritratti della popolazione rurale costituiscono la gran parte del suo lavoro artistico. Lui stesso diceva “Sono un fotografo contadino, mio soggetto è l’agricoltore, e la sua esistenza mi interessa da ogni angolazione...”. Dopo la rivoluzione del 1917, con l’avvento del leninismo, il movimento pittorialista russo fu condannato alla dissoluzione per via della censura.
YASUZO NOJIMA (1889-1964) Giappone Yasuzo Nojima è una delle più importanti figure della storia della fotografia moderna giapponese. Il suo lavoro spazia dal pittorialismo degli anni venti alla fotografia moderna con influenze Bauhaus del decennio successivo per concludersi con uno sguardo volutamente astratto dalla realtà negli anni del secondo conflitto mondiale. Le sue opere sono un mix irresistibile di estetica occidentale e sensibilità orientale. Nojima è innanzitutto un grande interprete della luce e delle anime. Con l’avvento del digitale, la fotografia è diventata alla portata di tutti e le tecnologie fotografiche avanzate, come Photoshop, hanno favorito il ritorno di questo genere. La fotografia artistica o arte digitale sarà sempre, però, un terreno di controversie e dibattiti accesi, tanto è vero che l’artificio digitale deve ancora guadagnarsi l’accettazione e il riguardo concessi a forme d’arte storicamente consolidate. Mi chiedo allora se l’arte digitale è la fotografia dei poeti o se avesse ragione Nadar che diceva : “Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.”
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Storia Portfolio
Alessandro Rossi Sebastiano Deus ex Machina
letture a cura di Enrico Andreis
In questi anni ho sempre fotografato tutto quello che mi circonda. Ho osservato paesaggi, scattato istantanee di architettura... fermandomi poco su quello che, in realtà, dovrebbe essere quanto di più vicino a me: gli altri esseri umani.
Ho iniziato a guardare i volti delle persone che mi trovavo davanti cercando il punto di contatto con tutto ciò che avevo scattato prima: è nato “Deus ex Machina”.
Credo sia evidente come le macchine, creazioni dell’umanità, abbiano reso l’esistenza più facile, diventando indispensabili. In alcuni casi la dipendenza dell’uomo è diventata quasi morbosa, come se la macchina stessa fosse riuscita davvero ad impossessarsi del suo ideatore. Ho cercato di rappresentare in fotografia questo rapporto, questa tensione continua tra il creatore ed il creato che molto spesso si mescolano e si confondono.
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Mi piace quando un autore ha delle
idee solide e da queste nasce un progetto per “fare fotografia” in modo compiuto; trovo in questo caso che l’idea di rappresentare l’uomo fuso con il proprio prodotto, sia intelligente, mi fa però pensare che ogni ritratto si riferisca al progettista che ha disegnato la struttura, dato che in sovraimpressione vedo architetture; ma vederle proiettate su giovani, quasi adolescenti, un po’ mi spiazza, perché non danno l’idea di navigati architetti. Nulla toglie, comunque, alla validità dell’idea iniziale, ed alla qualità della realizzazione tecnica: l’uso del bianco nero per eliminare all’origine distrazioni è scelta ponderata e centrata, così come le inquadrature strette sui visi unite alle espressioni dei soggetti ben rispondenti al tema arrivando a leggere l’alienazione a cui accenna l’autore nelle sue note esplicative, la “quasi tranquillità”nella accettazione di una situazione adottata come norma di vita moderna. E.A. 32 |
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News
Sony World Photography Awards 2016
di Maximiliano Cascini
Grande partecipazione dei fotografi italiani al Sony World Photography Awards 2016. 1 giugno 2016: inizia la selezione per il SWPA 2017 Il Sony World Photography Awards raccoglie e premia i migliori lavori di fotografia contemporanea dell’anno precedente a livello mondiale. Il concorso è rivolto a fotografi di qualsiasi livello e si articola in quattro categorie principali: Professionisti, Open, Giovani e Studenti. Questo concorso fotografico internazionale è senza dubbio uno tra i più importanti del mondo, basti pensare che per l’edizione 2016 del premio sono state ricevute 230.103 foto da 186 paesi. In particolare, l’Italia è stata il secondo paese per numero di fotografie candidate, ben 16.829, e ben 26 fotografi italiani sono stati selezionati tra i finalisti dalla giuria. Una partecipazione davvero importante, grazie alla quale l’Italia ha potuto vantare il più alto numero di finalisti nelle diverse categorie. Quest’anno, la fotografia italiana è stata rappresentata da diversi progetti, in particolare: la riedizione delle opere iconiche di Irving Penn e Mario Testino, con protagonista la Barbie (Alberto Alicata); le muse di Picasso omaggiate dai sette ritratti femminili (Cristina Vatielli) e dalla trasposizione in forma artistica della tradizione gastronomica italiana (Francesco Amorosino e Ilva Beretta). Tutte le opere possono essere visualizzate sul sito: https://www.worldphoto.org/ sony-world-photography-awards 34 |
Il primo giugno 2016 si è aperta la selezione per il World Photography Awards 2017, siete tutti invitati a aprtecipare, in palio ci sono 30.000$ e la partecipazione è completamente gratuita. Troverete tutte le informazioni necessarie sul sito www.worldphoto.org La redazione de La Camera Chiara ha preso parte alla presentazione della mostra alla stampa, guidata dalla curatrice, Zelda Cheatle.
© Asghar Khamseh, Iran, Photographer of the Year, Professional, Contemporary Issues, 2016 Sony World Photography Awards
Zelda Cheatle, la curatrice della mostra, con RongRong & inri, premiati con il premio “Outstanding Contribution to Photography”, in occasione della presentazione alla stampa della mostra ospitata nella splendida cornice londinese di Somerset House. A destra alcune delle immagini del fotografo iraniano Asghar Khamseh vincitore del premio “L’Iris d’Or Photographer of the Year”. Il premio in denaro che ammontava a $25,000 è stato assegnato per i suoi ritratti delle vittime degli attacchi d’acido. | 35
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to in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in lib a cura di Max Ferrero
Solo 1 di Pierlorenzo Marletto Sony DSC-RX100M2 - 21mm - F/11 - 1/160” - 160 ISO
La fotografia è anche uno sfogo di libertà immaginativa e
può diventare un’escursione nel campo della fantasia. Eppure, ogni volta che osserviamo fotografie che si differenziano dalla visione comune compaiono sentimenti di rifiuto. Sembra che le immagini statiche non possano avere lo stesso spazio immaginifico del cinema, sembra che alla fotografia si voglia lasciare solo lo spazio del “vero”, della documentazione inoppugnabile, storica e asettica. Ben vengano le elaborazioni, i fotomontaggi, le modifiche e le “photoshoppate”, ben vengano le invenzioni e le palesi alterazioni molto più sincere di tante altre foto cosiddette “normali”. Nello scatto proposto la figura umana sembra perdersi nell’infinito del mare e dell’universo, un naufrago che osserva e forse non ha intenzione di chiedere aiuto. La scelta del bianco e nero potrebbe sembrare anomala rispetto all’ambientazione onirica... però, effettivamente... ci è mai capitato di ricordare i colori dei nostri sogni?
Potrebbe essere un angolo qualsiasi del
nostro bel paese: una coppia di “osservatori osservati”; una serie di vecchi oggetti in vendita disponibili e disposti a una nuova vita; uno stemma con delle scritte per fornire fugaci indizi all’osservatore. Tutto è disposto ordinatamente, gli esseri viventi a sinistra su di un’anonima parete monocromatica, la storia a destra, con le antiche pietre e i giocattoli colorati. Tutti aspettano diligentemente che succeda qualcosa, è il fotografo a innescare l’evento, ordinando con precisione gli elementi necessari e disponibili. 36 |
Io e i miei migliori amici di Giuliano Quaranta Canon EOS 350D - 21mm - F/5 - 1/60” - 800 ISO
Il titolo descrive un luogo per conce-
dere una risposta immediata ai nostri quesiti, ma la foto racconta più di un semplice spazio: è l’istante catturato di molti esseri che condividono un presente diverso in uno stesso punto. Vi sono azioni in alto e in basso, a destra e a sinistra, alcuni riflessi ribaltano il reale moltiplicando la ressa degli attori. E’ un’immagine con più letture perché ogni gesto e ogni individuo raccontano qualche cosa di unico e diverso. La scelta del bianco e nero è giusta perché distoglie da cromie inutili. Lo scatto potrebbe ancora migliorare utilizzando un contrasto più marcato e incisivo. E’ una foto d’esempio su come si possa sfruttare, fotograficamente, miriadi di turisti accampati in luoghi fotogenici.
Oslo - Piazza dell’Opera di Eugenio Broggini Canon EOS 70D - 50mm - F/11 - 1/200” - 100 ISO
Tovarish di Mauro Faudarole Nikon D80 - 70mm - F/14,3 - 1/160” - 200 ISO
Colori tenui con dominanti marcate, contrasti non eccessivi e cieli grigi. La postproduzione ci riporta al ricordo che abbiamo dell’URSS ante 1989, cioè prima del crollo del muro di Berlino. E’ proprio la scelta del “dopo scatto” a rendere vincente questa fotografia, giustificando la presenza di un cielo asfittico che domina l’intera composizione. Consiglierei di raddrizzare le strutture a sinistra, ordinando definitivamente la regolarità dell’immagine già incentrata sulla sistemazione delle forme; quelle architettoniche per descrivere il luogo e la guardia per ricordare l’immobilità di un “vecchio” regime. | 37
La Camera Chiara
La Camera Chiara
to in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in li Cattività di Andrea Morello Canon EOS 450D - 53mm - F/5 - 1/1000” - 800 ISO
Roland Bhartes, nel suo libro “la camera chiara”,
asserisce che la fotografia, fondamentalmente, è banale e noiosa. I fotografi migliori riescono a superare quest’ostacolo attraverso shock visivi ottenibili tramite degli espedienti. In questo scatto, continuando ad usare la terminologia del nostro libro di riferimento, hai sfruttato la “trovata” e la “contorsione tecnica”. Due termini che non paiono positivi, e per Barthes probabilmente non lo erano, ma in questo caso sono la vera forza d’impatto dello scatto. Si tratta di una interpretazione e come tale doveva essere rappresentata. Cattività come obbligo a dover vivere in un luogo fuori dall’habitat naturale, e il vero shock è correlare il titolo alla figura umana introducendo questioni legate all’alienazione della vita moderna, al concetto di vita e di significato dell’esistenza. Varie letture a diverse profondità, tutte innescabili da un solo scatto, forse realizzato in cucina.
Molto bella l’illuminazione selettiva che rende Omikuji-dai-kyo di Maria Bolinese Canon EOS 6D - 28mm - F/6,3 - 1/1250” - 400 ISO
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la bambina, e l’oggetto nelle sue mani, come protagonisti assoluti della scena. S’intuisce che è un momento particolare, un po’ magico come solo alcune celebrazioni religiose sanno trasmettere ma, e questo è un MA importante, l’immagine da sola non comunica cosa realmente stia avvenendo e cosa sia quel gesto a cui hai dato così tanta importanza. Probabilmente con più fotografie sarebbe diventato tutto più chiaro, con un solo scatto possiamo esclusivamente avvalerci del piccolo aiuto concesso dal titolo... viva wikipedia che ci dice trattasi di una festa di predizione effettuata nei templi shintoisti giapponesi. La tua foto incurioscisce e cattura ma poi si perde in una mancanza comunicativa generale.
La foto colpisce immediatamente perché utilizza la
luminosità dei colori come effetto attrattivo. Osservandola siamo un po’ tutti come delle api richiamate dai colori dei fiori ma avvicinandoci e indagando meglio, alcune anomalie rendono imperfetto lo scatto. Le scale, le pietre del muretto e lo stesso prato avrebbero dovuto essere più sfocati per interferire meno, rimanendo semplicemente sfondo e non soggetto. Ben venga la scelta della sovraesposizione accentuata ma la prossima volta bisognerà porre maggiore attenzione anche alla profondità di campo. Utilizzare diaframmi ancora più aperti in modo tale che lo sfondo sfumi in uno sfocato meno identificabile ma più piacevole.
Carlotta di Salvatore Giordano Canon EOS 600D - 10mm - F/7,1 - 1/200” - 400 ISO
Moremi Game Reserve; Delta Okavango; Botswana
La bellezza di una foto è direttamente
proporzionale alla curiosità che riesce a suscitare. Gli occhi socchiusi e la parete, alle spalle del magnifico felino, fanno apparire la foto come uno scatto rubato velocemente in uno dei vari parchi naturali visitabili in giro per l’Europa. L’esigenza di confermare l’autenticità del viaggio, attraverso le informazioni presenti nel titolo, convalida la tesi che anche l’Autore aveva qualche dubbio a riguardo. Dal punto di vista tecnico è tutto perfetto, manca l’evocazione dei luoghi selvaggi che si possono leggere nelle informazioni ma non nello scatto.
di Diego Passarotto Nikon D300 - 500mm - F/6,3 - 1/125” - 800 ISO
Spedite le vostre foto a: lacamerachiara16@gmail.com la redazione selezionerà i migliori scatti proposti che saranno commentati da Max Ferrero. Ricordate di fornire: nome e cognome dell’autore - eventuale titolo dell’opera - informazioni varie utili al commento della fotografia attraverso l’utilizzo degli “info-file”. | 39 Le immagini dovranno essere in formato jpeg con una dimensione minima di 1mb.
La Camera Chiara
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©Paolo Siccardi/sync-studio
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Corso fotografico Lightroom base 6 lezioni da due ore presso StudioArts via Caramagna 16 Torino dal 27/09/2016 al 02/11/2016 12 ore totali
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9 giugno 2016 Uno scatto per lo sport Vincitrice del primo premio Open Renata Busettini della sezione fotografica CEDAS Tutta la sezione si congratula con l’autrice.
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Ottobre 2016 Escursione fotografica nei paesaggi autunnali delle langhe
©Giuliano Quaranta
12 giugno 2016 Inaugurazione mostra AGORA’
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presso il Motor Village piazza Riccardo Cattaneo 9 Torino La mostra sarà aperta al pubblico dal 12 giugno al 17 luglio dalle ore 9 alle ore 20
Corso fotografico di tecniche avanzate
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©Max Ferrero
Escursione fotografica nei campi di lavanda della Provenza
©Max Ferrero
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| 43 foto di Renata Busettini
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