La Camera Chiara La Camera Chiara
pubblicazione della Sezione Fotografica CEDAS - Numero Speciale - Febbraio 2017
LA FOLLIA
Ricerca
Villa Azzurra di Giovanni Apostolico
Musica
Storia
Guillaume Duchenne de Boulogne
Reportage
Follemente Rock
“Nocchier che non seconda il vento”
“Si Può fare”
Van Gogh
Cinema
Arte
copertina: Hieronymus Bosch 1453 - 1516. “Estrazione della pietra della follia� 1494 circa
La Camera Chiara
La Sezione Fotografia del Cedas si propone di favorire lo sviluppo tecnico e creativo dei Soci fotoamatori, promuovendo iniziative idonee a raggiungere tali scopi. Impianti e attrezzature sono a disposizione dei soci. Aderisce alla F.I.A.F.
In questo numero:
Ritrovo: tutti i mercoledì sera dalle ore 21 alle ore 23 presso il Sermig - via Borgo Dora 61 Consultare il sito internet per verificare variazioni di orario e/o chiusure programmate.
www.fiatcares.com/cedas
Direttivo Sezione Fotografia: Delegato: Maximiliano Cascini Consiglieri: Giuliano Quaranta; Mauro Faudarole; Potito Lanzetta
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EDITORIALE
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RICERCA
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STORIA
Pubblicazione non periodica della Sezione Fotografia del Cedas. Torino 2017. Pubblicazione condivisa in formato PDF (Portable Document Format) non stampata su carta. Ogni autore si assume qualsiasi responsabilità derivante dalle proprie immagini inviate a La Camera Chiara per la pubblicazione manlevando la redazione da ogni responsabilità che dovesse derivare dall’utilizzo delle immagini stesse. Tutti i diritti relativi alle fotografie ed ai testi presenti in questa pubblicazione sono riservati ai rispettivi autori.
Responsabile: Renata Busettini Redazione: Enrico Andreis; Giovanni Apostolico, Renata Busettini; Paola Cafferati; Maximiliano Cascini; Max Ferrero; Elisabetta Lucido; Giuliano Quaranta, Agnieszka Slowik Turinetti. Collaboratori: Eugenio Broggini; Pierlorenzo Marletto; Carlo Ferrari; Luca Scaramuzza; Mauro Trolli, Andrea Morello. Contatti:
lacamerachiara16@gmail.com
Impaginazione e grafica: Max Ferrero, Tiziana Lombardi
La fotografia e la follia di Maximiliano Cascini Villa Azzurra - Grugliasco (TO) di Giovanni Apostolico Guillaume Duchenne de Boulogne di Max Ferrero
REPORTAGE 24 “Nocchier che non seconda il vento”
di Max Ferrero e Bruno Mellano
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MUSICA
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ARTE
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ARTE
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CINEMA
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FOTO IN LIBERTA’
Follemente Rock di Pierlorenzo Marletto Le mosche nere di Sergio Ragalzi di Pierlorenzo Marletto Van Gogh le malaime di Eugenio Broggini “Si può fare” di Giuliano Quaranta commento di Max Ferrero
© Max Ferrero
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Editoriale
La fotografia e la follia di Maximiliano Cascini
La redazione della rivista La Camera Chiara, dopo la pubblicazione dei primi due numeri (lo zero e l’uno), ha deciso che fosse giunta l’ora di produrre un’edizione speciale, a carattere monografico, dedicata alla relazione tra fotografia e follia. Il fatto stesso di aver compiuto questa scelta ci allinea, per così dire, all’argomento selezionato: solo una redazione un po’ “folle” come la nostra avrebbe, infatti, potuto pensare di stravolgere l’impostazione della rivista per costruirne, dopo due sole uscite una nuova, speciale appunto. Tant’è, se non fossimo tutti, a nostro modo, un po’ folli non ci saremmo lanciati in questa impresa. Così abbiamo deciso d’iniziare una serie parallela di pubblicazioni a tema che si aggiungeranno a quelle già in programma de La Camera Chiara. L’occasione per questo primo numero speciale è nata da una visita fotografica a un edificio abbandonato: Villa Azzurra a Grugliasco, l’ex “manicomio dei bambini”. Queste immagini hanno suscitato un’accurata ricerca all’interno della redazione dei legami, talvolta profondi, altre volte solo formali, che potevano mettere in relazione il mondo della fotografia, o più in generale dell’arte con la struggente dimensione esistenziale propria della follia. Così in questa monografia si può trovare il lavoro di Max Ferrero, “Nocchier che non seconda il vento”, già oggetto di una mostra patrocinata dalla Regione Piemonte, ora commentato da Bruno Mellano, il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Ma, anche, le immagini talvolta sconcertanti delle opere di un artista contemporaneo, quale è Sergio Ragalzi, le cui mosche, scimmie, feti neri e missili dorati ci colpiscono profondamente e ci fanno riflettere sul ruolo dell’arte, poiché esplorano le nostre ansie e paure più recondite. In breve: attraverso l’immagine, la fotografia, l’arte e l’attualità questo primo numero speciale esplora in maniera inconsueta, forse un po’ folle, il lato oscuro del reale. Senza contare che, probabilmente, il tema della “follia”, era latente nella ricerca fotografica del nostro gruppo, basti pensare che qualche anno fa abbiamo pubblicato un libro, che raccoglieva il lavoro fatto attraverso il portale Fotozona.it, dal titolo evocativo ed esplicito: Falling into infinity. Già allora, in quelle immagini, che prevedevano una postproduzione volutamente enfatizzata, erano evidenti i segni di una ricerca che si spingeva ben oltre la superficie dell’apparenza per indagare le profondità più recondite di paure, ossessioni e desideri inconfessabili e proibiti. Con questo numero speciale della nostra rivista di fotografia, si è dunque voluto celebrare la nostra passione per quel lato oscuro che ciascuno reca con sé, come un fardello, e con cui sempre si trova costretto a confrontarsi.
a sx: Uno dei reparti femminili nell’ospedale psichiatrico di Collegno (TO) 1991
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©Wika
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“Ti regalerò una rosa”
Simone Cristicchi 2007
I matti sono punti di domanda senza frase Migliaia di astronavi che non tornano alla base Sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole I matti sono apostoli di un Dio che non li vuole Mi fabbrico la neve col polistirolo La mia patologia è che son rimasto solo Ora prendete un telescopio… misurate le distanze E guardate tra me e voi… chi è più pericoloso? | 7
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foto e testo di Giovanni Apostolico
Villa Azzurra Grugliasco (TO) 8 |
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La Camera Chiara Questo reportage nasce dal mio sconcerto per la facilità con cui negli anni di attività di Villa Azzurra fosse possibile finire in un manicomio e questo accadeva anche a bambini o adolescenti. Io stesso, se fossi nato 10 anni prima, verso i 12 anni di età, quando lo psicologo, consigliato dalla scuola, produsse un referto riguardante la mia persona che diceva: “Il ragazzo ha comportamenti da adulto e tende a isolarsi dai coetanei”, sarei potuto andare direttamente a Villa Azzurra, non sarebbe sicuramente bastato il parere dello psicologo e alcune gocce di calmanti; mi avrebbero sicuramente mandato a Villa Azzurra e “curato” con tecniche violente e inefficaci come l’elettroshock. Ho i brividi al solo pensiero.
Il manicomio dei bambini, chiuso definitivamente nel 1979, è stato per decenni, un vero e proprio lager. Al fondo di via Lombroso, oltre il cancello dell’ex ospedale psichiatrico femminile, subito sulla destra compare un edificio fatiscente, l’ingresso principale riporta ancora la scritta di cosa doveva essere: “SEZIONE MEDICO PEDAGOGICA”. Tutt’intorno il complesso di padiglioni anni 30 è stato riutilizzato, solo quell’angolo di mattoni e vetri rotti, appena celati da una fila di pini e una traballante rete di recinzione, resta abbandonato a se stesso. Migliaia di bambini, 120 per volta, venivano abbandonati alle “cure” di medici aguzzini e infermieri che, per diventare tali, avevano bisogno di due soli requisiti: un attestato di sana e robusta costituzione e la licenza elementare. I bambini erano per definizione “ineducabili”, la formula giuridica per rinchiuderli anche all’età di 3 o 4 anni era: “pericolosi per se stessi e agli altri”. Per essere rinchiusi bastava essere orfano oppure affetto da depressione o epilessia, malattia ancora poco conosciuta. Bastava essere scomodi, irrequieti o irrispettosi. Per gli infermieri i pazienti erano più semplicemente oggetti che venivano spesso legati al cancello del giardino interno, ai termosifoni bollenti d’inverno e ai letti non solo per la notte. Il manicomio c’era già nel 1938, ma fu nel 1964, con la nomina a direttore del professor Giorgio Coda che la violenza fine a se stessa fu giustificata come fine terapeutico. Fu soprannominato “l’elettricista” per la facilità con la quale utilizzava la terapia dell’elettroshock. Ricorreva agli “elettromassaggi pubici” quando i 10 |
bimbi legati per tutta la notte, non resistevano e bagnavano il letto. Secondo il “dottore” la scarica elettrica somministrata ai genitali dei piccoli avrebbe stimolato il controllo della volontà, educandoli. Coda sperimentava lo stesso metodo anche al manicomio degli adulti, su gay ed etilisti. La foto di una bambina di 10 anni legata al letto, nuda e impotente, scattata dal fotografo Mauro Vallinotto e pubblicata su L’Espresso del 26 luglio 1970 fece scoppiare lo scandalo. Venne aperta un’inchiesta che durò alcuni anni. L’istituto Villa Azzurra venne chiuso nel 1979 e il dottor Coda fu condannato a 5 anni di carcere.nha mai
La Camera Chiara visto uscire nessuno.
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Testimonianza del Sig. Graziano Il Sig. Graziano vive da sempre a pochi metri dall’Istituto Medico Pedagogico conosciuto come Villa Azzurra, l’ex manicomio dei bambini di Grugliasco, da quando la sua era una delle pochissime case nella zona circondate da soli campi. Dal giardino di casa sua ci racconta alcuni aneddoti che riguardano Villa Azzurra, alcuni vissuti direttamente da lui, altri che gli furono raccontati da vicini di casa che lavoravano presso l’Istituto. Graziano racconta che, negli anni in cui l’Istituto era aperto, il modo di vedere i malati era diverso rispetto ad oggi: “Sei matto, sei partito, è una tara mentale che ti arriva addosso, ‘sei segnato da dio’ e non c’è nulla da fare”. Non esisteva una cura, ti chiudevano lì e buttavano via la chiave, con te vedevano solo di fare esperimenti.” Prima di Villa Azzurra i bambini erano ricoverati con gli adulti nei padiglioni di Collegno che le persone chiamavano “Le Ville”. L’apertura di una struttura dedicata solo ai piccoli era vista come una vera innovazione, un progresso, l’inaugurazione era acclamata dalla stampa, si stava finalmente facendo “qualcosa di buono per loro”. Ci racconta che da bambino con un gruppetto di
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amici della sua età, compreso il figlio dell’economo di Villa Azzurra, si intrufolavano oltre le recinzioni per andare a giocare tra i pini del giardino interno; da qui potevano vedere, attraverso le finestre che davano luce ai locali interrati, vecchie brande arrugginite con pazienti legati per i polsi o il petto con cinghie o catene. Quando chiedeva ai propri genitori il motivo di ciò che avevano visto, gli veniva risposto che era per il loro bene perché altrimenti cadevano dal letto e si facevano male. Poi, ricorda con un sorriso, arrivava la sgridata e il divieto di introdursi ancora nei giardini delle Ville. Naturalmente per loro il divertimento stava anche nel non rispettare il divieto e così continuarono ad andare finché un giorno l’economo, il padre del suo amico, si accorse di loro e gli impedì di farlo ancora. Per scaldare la struttura nelle caldaie si bruciava un po’ di tutto, compresa la segatura, che veniva raggruppata in una montagnola dentro uno stanzone vicino al locale caldaia; Graziano e i suoi amici adoravano arrampicarsi in cima alla segatura e giocare “a difendere la vetta” ma durante
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La Camera Chiara questi giochi parte della segatura andava persa, facendo aumentare i costi del riscaldamento. E fu proprio a causa del gioco sulla segatura che furono scoperti. Graziano continua il suo racconto dicendoci che potevano essere ricoverati nella struttura anche bambini senza genitori, di cui quindi nessuno si sarebbe preso cura, anche se in perfetto stato psicofisico. Insieme a loro, anche coloro che soffrivano di epilessia, malattia poco conosciuta all’epoca, altri ancora, solo perché più vivaci del normale. Graziano aggiunge: ”D’altronde anche per gli adulti era facilissimo essere rinchiusi in un manicomio e se non veniva nessuno a mettere la firma per dire che eri sano di mente da lì di certo non ne uscivi più. Pensi che mio zio aveva abitudine, dopo il lavoro, di bere alla piola. Una sera fu fermato da due carabinieri, era solo un po’ allegrotto, cantava ad alta voce, ma ai tempi era più che sufficiente per essere portato non in carcere ma al manicomio. La moglie per fargli passare il vizio del bere aspettò 40 giorni prima di andare a mettere la firma per farlo uscire.” Nel corso degli anni in zona hanno costruito tanti palazzi e molti degli infermieri delle Ville vi andarono ad abitare. Una signora che viveva vicino a lui, infermiera presso il manicomio femminile, l’edificio vicino a Villa Azzurra, spesso prestava servizio anche in Villa o comunque si confidava con le colleghe che ci lavoravano. Di quello che vedeva o sentiva raccontava poco a Graziano ma questo poco gli è rimasto impresso nella memoria: ”Non lavavano i bambini, se ‘se la facevano sotto’ si prendeva la pompa e li si innaffiava! Se qualcuno faceva storie o si lamentava più del dovuto ecco che scattavano le punizioni educative.” E ancora: “Di bimbi guariti non si è mai sentito, non gli venivano mai fatte fare gite o attività, di parenti non se ne vedevano quasi mai e quelle
poche volte che qualcuno si presentava, non veniva mai fatto entrare nei reparti ma lo si conduceva in uno stanzone che veniva usato come parlatorio”. Tra le punizioni raccontategli dalla donna la più usata era l’elettroshock, la più spaventosa per i piccoli pazienti che, in coda, in attesa di subire il trattamento, spesso si facevano la pipì addosso. Giuravano di fare i bravi, chiedevano pietà, erano semplicemente terrorizzati! Le punizioni meno pesanti variavano dall’essere legati o incatenati al letto piuttosto che ai termosifoni bollenti d’inverno, se due bambini litigavano tra loro venivano incitati a continuare a combattere sino allo sfinimento. Queste erano le confidenze, quasi confessioni in momenti di debolezza, di una madre di famiglia che prestava servizio lì e che cercava un appoggio morale con una famiglia, quella di Graziano, di vicini amici. Normalmente nessuno osava parlare di ciò che accadeva dentro le mura delle Ville con persone estranee o che non fossero davvero di fiducia, come racconta Graziano: “Il primario era il padre eterno lì, e nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di dire cose inopportune per paura di ritorsioni”. Insieme alla moglie, che ci ha raggiunti, riflettono su infermieri o operatori che lavoravano presso le Ville: “Ne abbiamo conosciuti tanti e frequentati perché avevamo i figli della stessa età e che facevano le scuole assieme; una cosa l’abbiamo notata un poco tutti: quasi tutte le persone che hanno prestato servizio a Villa Azzurra o al manicomio degli adulti, nel giro di pochi anni, chi prima chi dopo han tutti avuto problemi mentali, forse dovuti a tutto ciò che hanno visto, visto fare o fatto” La nostra chiacchierata finisce quando Graziano mi confessa che ha visto portare tanti bambini a Villa Azzurra, ma non ne ha mai visto uscire nessuno.
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“Il cantico dei matti”
Accademia della follia 2015
Noi siamo quelli che chiamano matti Nella notte vaghiamo distratti Pecore nere d’ogni famiglia Noi giochiamo solo con chi ci somiglia Non fa paura la notte più nera Inseguiamo la nostra chimera Siamo viandanti, sognatori Quelli che i benpensanti chiamano errori. | 17
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Storia
Guillaume Duchenne de Boulogne di Max Ferrero
In un periodo fervido d’idee e intuizioni, di fiducia cieca nelle scienze, l’animo umano poté illudersi di sconfiggere l’ignoto. Si passò dalla forza motrice dei cavalli a quello di voluminosi congegni spinti dal vapore. Nuove forme di energia spronarono l’umanità alla spasmodica ricerca di una rivoluzione scientifica e mentale, capace di dare risposte ai misteri più reconditi dell’esistenza, quei segreti atavici che fino allora erano stati affrontati solo dalle religioni e dalla filosofia. L’elettricità, già nota da qualche tempo, divenne uno dei fenomeni fisici di prima importanza. Galvani dimostrò che i muscoli dei cadaveri potevano riprendere vigore e movimento attraverso scariche di energia. A questo concetto Mary Shelley, nel 1816 s’ispirò per scrivere il suo capolavoro: Frankenstein o il moderno prometeo. Michael Faraday, nel 1830, inventò il generatore elettromagnetico di corrente elettrica alimentando ulteriormente le credenze apportate da Franz Anton Mesmer che, alla fine del secolo precedente, aveva teorizzato la cura delle malattie e delle disfunzioni attraverso l’utilizzo della
forza magnetica. Edgar Allan Poe, nel 1844, trasse ispirazione da queste teorie, a metà tra scienza ed esoterismo, creando uno dei suoi capolavori “Rivelazione mesmerica” in cui si narra di un soggetto che, mesmerizzato in punto di morte, trascende la dipartita rimanendo sospeso in una “terra di mezzo” tra la vita e l’oltretomba. C’era un incredibile desiderio di risposte e sembrava che il fermento tecnologico potesse fornire soluzioni a tutto. Il povero essere umano, così oppresso da morte, malattie, dolori e perdite improvvise, cominciò a sperare che anche ai punti più oscuri dell’esistenza potesse essere data una risposta chiara, scientifica e dimostrabile. Fu l’inizio di un movimento culturale chiamato Positivismo, ispirato da un’esaltazione, spesso cieca, dello sviluppo scientifico. Anche la fotografia era parte integrante di questo pensiero diffuso, nata inizialmente per scopi tecnici di riproduzione, divenne presto un fenomeno di massa. Se l’elettricità ispirava la resurrezione della carne, se il magnetismo prometteva la cura del corpo e dell’a-
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La Camera Chiara nima, la fotografia garantiva vita eterna alla propria immagine o a quella dei propri cari. La caducità dell’esistenza, il continuo mutare del tempo, l’entropia biologica poteva essere arrestata per sempre... anche se solo su lamine di metallo o fogli di carta imbevuti di nitrato d’argento e qualche tipo di sale alogenato. Guillaume Duchenne de Boulogne s’inserisce prepotentemente nel filone dei fotografi scienziati che utilizzarono l’arte come mezzo documentativo e di comprovazione. Egli era un medico e fisiologo. Nel 1842, dopo gli studi di medicina, si trasferì a Parigi, dove lavorò, senza incarichi ufficiali, presso numerosi ospedali ed ebbe occasione di entrare in contatto con grandi personalità del mondo della medicina. Qualche anno più tardi, iniziò i suoi lavori sull’elettricità applicata alle diverse terapie di cura. In seguito pubblicò delle ricerche sull’elettrofisiologia delle funzioni dei muscoli facciali. Allievo del fotografo Adrien Tournachon, fratello del famoso ritrattista Nadar, cercò attraverso la fotografia di comprovare le teorie della fisiognomica che definiva il carattere delle persone mediante lo studio dei tratti del viso. Se i primi scatti a pazienti affetti da malattie mentali sono d’accreditare al medico Hugh Diamond, a Duchenne bisogna aggiudicare la palma di primo “carnefice fotografico” della storia.
Hugh Welch Diamond, sovrintendente del Female Department of the Surrey County Lunatic Asylum dal 1848 al 1858 decise nel 1852 di ritrarre le “ospiti” della sua clinica con tre precisi scopi: registrare le differenze fisiche dei pazienti con diverse patologie, utilizzare il mezzo visivo come percezione identificativa da parte del soggetto ritratto, uso del ritratto e dell’auto riconoscimento come metodologia di cura. Gli scatti denotano una sufficiente preparazione fotografica ma la fotografia è solo un mezzo non lo scopo. Gli sfondi sono casuali quasi improvvisati. La massima concentrazione creativa è posta sulle espressioni e sugli atteggiamenti. Il fotografo è una penna che cerca di descrivere al meglio una situazione concreta, rimane ai margini della scena per non alterarne la veridicità. E’ uno studioso in punta di piedi e le sue foto ne rispecchiano sia l’animo sia la metodica. E’ profondamente convinto di poter aiutare i soggetti e come tale attua gli scatti. Le sue fotografie, ai nostri occhi, ci appaiono curiose per lo più per i vestiti e la tecnica grezza dell’epoca rispetto al valore dello studio intrapreso. Guillaume Duchenne de Boulogne, invece, è un ricercatore che s’infila come un chiodo all’interno degli scatti e della carne delle vittime. Egli ritrae i malati nell’attimo in cui una scarica elettrica di alta intensità, indotta da elettrodi acuminati, attraversa il loro corpo. Riprende con godimento la barbarie umana che, con il pretesto della ricerca scientifica, si accanisce sui corpi degli esseri viventi non in grado di opporsi o d’intendere o di volere. Una violenza antica, giustificata da qualche futile espediente, cieca e uguale alla sperimentazione attuale effettuata su cavie da laboratorio. Il dolore o la morte di tali creature era un atto sacrificale da pagare all’’altare della ricerca scientifica e sperimentale. La documen| 20
La Camera Chiara tazione del dottore è ampia. Si riscontra un numero considerevole di scatti, sia al medesimo soggetto, indicante il susseguirsi ripetuto delle sperimentazioni dolorose, sia su numerosi altri soggetti indicante un completo asservimento dell’istituto di reclusione alle ricerche del medesimo. Alcune immagini sembrano volutamente costruite ad arte. Il ricercatore con gli elettrodi in mano si fa ritrarre vicino alla vittima, l’autore materiale degli scatti rimane anonimo ma s’ipotizza la co l l a b o ra z i o n e proprio di Adrienne Tournachon il suo maestro fotografico, prestato, momentaneamente, dall’arte del ritratto alla “gloria” del sapere. Sono degli scatti di rappresentanza in cui il messaggio indica “cosa si fa” e per “merito di chi”, un rituale di vecchia memoria presente nei quadri dei vincitori vicino ai vinti, dei cacciatori accanto alle prede sanguinanti o dei carnefici a lato dei cumuli di vittime. Simboli iconici di potere e di allucinata meritocrazia. Molte fotografie sono puramente descrittive con un primo piano del paziente utile a catturare i cambiamenti di espressione attraverso la diversa disposizione degli elettrodi. Altre, ancora, le più inquietanti, sono tecnicamente le migliori perché studiate ed elaborate a tavolino. Ci permettono di osservare donne inginocchiate con le mani giunte in segno di preghiera. Imploranti la misericordia al vecchio Dio cattolico o al nuovo dio entrante quello del progresso, rappresentato da sbarre metalliche e fili elettrici. Nonostante le sue procedure non ortodosse e le frequenti relazioni scomode con gli elementi più anziani dello staff con cui lavorava, le sue ricerche “esatte e inflessibili” presto gli portarono una fama internazionale come neurologo all’avanguardia nel suo campo. Inoltre egli fu considerato come uno degli sviluppatori della elettrofisiologia ed elettroterapia. Attraverso l’elettricità scoprì anche che i sorrisi risultanti dalla vera felicità non utilizzano soltanto i muscoli
della bocca ma anche quelli degli occhi. Questi sorrisi “genuini” sono conosciuti come sorrisi Duchenne in suo onore. A lui è attribuita la scoperta della distrofia di Duchenne. Da queste aberranti ricerche si affermarono, a breve, due teorie altrettanto deviate e devianti: quella della fisiognomica che pretendeva di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona attraverso le sue caratteristiche fisiche. Teoria che fu la base al razzismo scientifico e dell’antropologia razziale, preludio alla teorizzazione della soluzione finale nazista, le cui conseguenze sono nel bagaglio culturale di tutte le persone dotate di raziocinio. La seconda fu l’utilizzo dell’elettroshock nella cura delle malattie mentali che si protrae ancor oggi, senza alcuna effettiva prova di utilità, per alcune patologie di depressione grave cronica.La fotografia e la scienza sanno essere bestiali, immorali e ignobili non per loro intrinseche colpe ma per l’uso errato e fanatico cui l’uomo sa farsi promotore.
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“La nave dei folli�
Ivan Della Mea 1974
La nave dei folli che rompe in letizia la vecchia cultura con nuova allegria e tutto il dolore giĂ trancia sul ferro del grande lucchetto per dare la via.
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Reportage
Nocchier che non seconda il vento
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dal disagio mentale unito ad attività illegale con rimuovere i soggetti “colpevoli e malati” dal contesto sociale. Una nuova e puntuale “presa in carico” dei pazienti da parte del tessuto sociale dei territori di origine e di residenza è la necessaria premessa per una diversa navigazione. Un viaggio dove tutte le componenti della comunità sono chiamate a svolgere un proprio ruolo attivo. Per dirla in modo poco aulico “siamo tutti sulla stessa barca” e non ci può più essere una stiva buia e nascosta dove rinchiudere chi disturba. Questa profonda consapevolezza, fatta propria dal legislatore, deve ancora essere resa viva con la costruzione complessa e delicata di un sistema efficace ed efficiente di protezione, del singolo e della comunità. L’Italia può essere Paese all’avanguardia nell’affrontare questo mare aperto, ma occorre anche essere consapevoli dei rischi attuali. Le difficoltà emerse sinora sono evidenti. Dapprima due rinvii della scadenza prefissata con norma per la chiusura degli OPG (dal 31 marzo del 2013 a quello del 2014), seguiti dalla conferma di un limite invalicabile (le colonne d’Ercole del 31 marzo 2015) che doveva essere un traguardo ma si è progressivamente ed inevitabilmente trasformato in una linea d’inizio per un percorso volto al superamento della situazione pregressa. Poi la diffida e il successivo commissariamento delle regioni inadempienti (Abruzzo, Calabria, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto), per ritardi, indecisioni, contraddizioni nel dotarsi di punti fermi in questa navigazione “a
Aversa
La realtà rimossa degli ospedali psichiatrici giudiziari, nella loro specificità penitenziaria, sanitaria e sociale è stata posta all’attenzione dell’opinione pubblica ed in cima all’agenda politico-istituzionale per un periodo tutto sommato relativamente breve. Una situazione residuale, quella degli OPG, non messa in discussione dalla chiusura dei “manicomi civili”, superati con la famosa Legge “Basaglia” (n.180/1978), che anzi ha proseguito per decenni a rappresentare un quadro dai connotati ottocenteschi e dai toni medievali, dove troppo spesso i diritti dei malati sono stati messi in secondo piano rispetto alla sicurezza percepita dalla collettività e alla debolezza del tessuto sociale. Il percorso intrapreso dall’Italia per il definitivo superamento degli OPG appare, a ben vedere, una lunga e travagliata attraversata di un mare tempestoso, con rischi di naufragio e pericolo di ritorno indietro. Le leggi (n. 9/2012 e n. 81/2014) hanno alla fine stabilito la rotta e descritto il punto d’approdo. Il reportage “Nocchier che non seconda il vento” di Max Ferrero, assieme a poche altre testimonianze (prima fra tutte le riprese video-registrate della Commissione parlamentare d’inchiesta “Marino” del Senato della Repubblica, attiva fra il 2008 e il 2011), è l’efficace documentazione di un punto di partenza che si vuole lasciare alle spalle. Definitivamente! La meta è significativa ed ambiziosa: superare ed archiviare una modalità di trattamento dei “folli-rei” che ha risposto ai problemi posti alla società contemporanea
- Gennaio 2015
foto di Max Ferrero testo di Bruno Mellano Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte e Vice Coordinatore nazionale dei Garanti dei detenuti italiani.
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La Camera Chiara vista” (le famose residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – REMS - ma non solo!) con la nomina, anche questa travagliata, dell’Onorevole Franco Corleone, Garante dei detenuti della Toscana, quale Commissario unico per il superamento degli OPG. La fotografia della situazione all’inizio del percorso vedeva attivi sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari: Aversa (CE), Barcellona Pozzo di Gotto (ME), Castiglione delle Stiviere (MN), Montelupo Fiorentino (FI), Napoli Secondigliano, Reggio Emilia. Di questi ad oggi ne sono ancora parzialmente aperti due (Montelupo e Barcellona) mentre Castiglione è stato trasformato dalla Regione Lombardia in “Struttura polimodulare per REMS provvisorie”. Nel frattempo il Piemonte, a fatica, si è dotato di due “REMS provvisorie”, presso le cliniche private “San Michele” di Bra (CN) e “Fatebenefratelli” di San Maurizio Canavese (TO), rispettivamente per 18 e 20 posti letto, ma rimane da effettuare l’individuazione di una struttura pubblica per la REMS definitiva. Il Commissariamento governativo di sei mesi, deciso il 19/2/2016 per 6 regioni, ad agosto è stato prorogato di ulteriori 6 mesi per tre regioni (Calabria, Piemonte e Toscana) fino al febbraio 2017. In primo luogo occorre sottolineare le difficoltà dei territori, sia dalla parte dei servizi della salute mentale (già oberati ed oppressi dalla “ordinaria follia” della vita moderna) sia da parte delle comunità locali (in alcuni casi travolte da allarmismi ingiustificati e quasi sempre dalla scarsa conoscenza del problema). Non ultime le difficoltà della magistratura che ancora oggi fatica a recepire pienamente tutte le declinazioni di una possibile presa in carico dal contesto sanitario, che peraltro è ancora in fase di compiuta definizione: non è quindi un caso che le nuove strutture diventino la zattera su cui far salire tutti a forza, anche chi saprebbe nuotare, anche chi avrebbe soltanto bisogno di un più semplice e meno costoso salvagente o di un sostegno temporaneo per traghettare sull’altra riva. In una stagione storica come questa in cui le immagini di sbarchi portano con sé quotidianamente paure, timori non si può trascurare il ruolo della comunicazione non tanto nel racconto dell’esistente, ma nello stesso determinarlo, 26 |
definirlo, condizionarlo. E’ per queste ragioni appena abbozzate e per il feroce dolore e la tragica dolcezza delle fotografie del “nocchier” di Max Ferrero che a questa traversata dobbiamo tutti dedicare attenzione e cura: ne va dell’identità stessa del nostro Paese e di quello che noi stessi vogliamo essere in questo mare in burrasca che ci tocca di traversare.
...dunque se di virtù cotanto abbonda facciasi una virtù conforme al tempo, già per disporsi ella non ha che questa, ormai distesa notte: se tu l’ami, qual mostri, fa, che il suo miglior discerna, e che i suoi fidi non esponga a morte. Pazzo e l’Nocchier che non seconda il vento. Tratto dalla tragedia “La Merope” del Marchese Scipione Francesco Maffei (1675- 1755). rappresentato per la prima volta a Modena nel 1713
Reggio Emilia - Giugno 2014
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Castiglione delle Stiviere - Luglio 2014
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“Wish you were here�
Pink Floyd 1975
Quanto vorrei, quanto vorrei che tu fossi qui. Siamo soltanto due anime perse che nuotano in una boccia per i pesci rossi. Anno dopo anno, correndo sul solito vecchio terreno, cosa abbiamo trovato? Le stesse vecchie paure. | 33
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Musica
Follemente Rock
di Pierlorenzo Marletto
Pazzia, genialità, arte, provocazione, esaltazione, depressione, violenza, autodistruzione. Ormai tutto si è detto e a più livelli (filosofico, sociale, medico, storico, scientifico) a proposito della sottile linea di demarcazione che separa questi stati della mente umana. Per molti questa linea è abbastanza netta, tracciata grazie alle capacità di autocontrollo e di discernimento. Per altri diventa via via sempre più sottile fino a scomparire del tutto. Sembrerebbe che le persone particolarmente geniali facciano più facilmente parte di questo secondo gruppo. Numerosi e famosi sono gli esempi nel campo delle Scienze e delle Belle Arti. E’ quasi un cliché che essere artista comporti anche degli atteggiamenti quantomeno stravaganti se non completamente folli. Il dubbio è che spesso simili comportamenti, alle volte portati all’estremo, non facciano altro che parte di personaggi costruiti ad hoc. L’arte è anche provocazione e scandalo, e tanti cavalcano questa onda solo in cerca di facile ed immediato successo. Per alcuni invece il disagio mentale, associato alla genialità artistica è una questione molto più reale e tangibile.
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Anche il mondo della musica rock è ricco di esempi illustri. Questo genere musicale e tutto ciò che da esso scaturì, nacque fra i giovani come forma di ribellione e protesta verso un mondo che volevano cambiare. Quindi avere atteggiamenti estremi, l’abuso di alcool e droga, creare scandalo nel mondo cosiddetto “perbenista” dell’epoca erano fattori che andavano di pari passo con la ricerca musicale degli artisti, cosa ancora valida ai giorni nostri, anche se in maniera più attenuata. Il rock and roll nacque negli Stati Uniti negli anni ’50 come trasformazione “bianca” della musica “nera” blues a sua volta derivata dai canti degli schiavi africani, ma è in Inghilterra, negli anni ’60 e soprattutto ’70, con il rock psichedelico, il movimento hippie e il punk, che diviene la bandiera della protesta giovanile e di una visione utopistica della vita. Tutto questo, naturalmente si può “ascoltare” nella musica di
La Camera Chiara quegli anni, ma si può anche “leggere” nelle fotografie dell’epoca, e in particolare nelle immagini e nei giochi grafici creati per le copertine degli LP. Quando si parla di rock’n’roll non si può non citare Jerry Lee Lewis, forse insieme ad Elvis Presley, il più grande rocker del periodo. I suoi atteggiamenti “sopra le righe” scandalizzarono l’America puritana dell’epoca: canzoni con chiari ed espliciti riferimenti sessuali, scatenate esibizioni dal vivo (una volta diede fuoco al pianoforte su cui stava suonando il suo grande successo “Great Balls of Fire!”) che gli valsero i soprannomi di “the killer” e di “pianista del Diavolo”, la dipendenza da alcool e droga, comportamenti “strani” anche fuori dal palco (una volta giocando con una pistola sparò “per sbaglio” al suo bassista, ferendolo gravemente; famoso è anche l’episodio in cui, sempre armato di pistola, si recò nella lussuosa tenuta di Presley, Graceland, dove venne fermato dai guardiani a cui disse, sempre “scherzando”, che era li per uccidere Elvis). Sicuramente la vicenda che fece più scalpore per la mentalità molto bigotta di quell’epoca fu il suo rapporto e matrimonio con la cugina di terzo grado allora tredicenne (lui aveva 23 anni), e questo gli costò l’uscita dalla scena musicale, tranne poi venir riconosciuta la sua grandezza dopo parecchi anni. E ora facciamo un salto fino agli “stupefacenti” anni ’70. Furono anni in cui fiorirono un’infinità di artisti di primissimo livello, veri e propri geni, che hanno rivoluzionato il mondo della musica, sperimentando generi e contaminazioni (anche con altre discipline artistiche) mai provate prima di allora. Molti di loro però vennero travolti dal proprio successo: crisi maniaco-depressive, l’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti, la predisposizione alla violenza e all’autoannientamento e, forse, una predisposizione innata alla follia, li portarono spesso a fini tragiche. Un simbolo di quell’epoca è sicuramente il gruppo dei Pink Floyd. Nel loro primo periodo si può trovare quello spirito di sperimentazione che sfociò in album dal carattere spiccatamente psichedelico. Il trascinatore e leader della band in quella fase fu sicuramente Syd Barrett. Nella musica e negli show dei Floyd di quel periodo è evidente l’influsso della creatività di Syd, molto all’avanguardia ma sicuramente poco commerciale, probabilmente se Syd fosse rimasto il leader della band, non avremmo assistito al succes-
so mondiale dei Pink Floyd avvenuto negli anni a seguire. Invece, la mente “fragile” congiunta all’abuso sfrenato di acido lisergico, portarono Syd sempre più ai margini della realtà e della band; in alcuni live si può vedere Syd completamente catatonico, incapace anche di suonare pochi accordi di chitarra. Syd molto semplicemente smise di partecipare alle riunioni e alle prove e di fatto venne estromesso dal gruppo. In quegli anni Syd tentò, fra enormi difficoltà dovute alla malattia mentale sempre più evidente, anche una carriera solista. Riuscì a produrre due album prima di ritirarsi per sempre dalle scene e vivere isolato a Cambridge, suo paese natale, fino alla morte avvenuta nel 2006. Il primo album solista “The Madcap Laughs” (titolo abbastanza emblematico) del 1970 era corredato in copertina, sul retro e all’interno di foto di Mick Rock (famosissimo fotografo di artisti rock tra cui David Bowie, i Queen, Iggy Pop, Lou Reed e tanti altri). Per queste foto Barrett dipinse appositamente il pavimento della sua camera da letto a strisce arancio e viola, spostando tutti i mobili e le sue chitarre contro la parete. A proposito della sessione fotografica per la copertina, Mick Rock raccontò: «Quando arrivai a casa sua per le foto di The Madcap Laughs, Syd era ancora in mutande... La sua ragazza del momento, “Iggy the Eskimo”, era nuda in cucina... »
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Altro gruppo di culto di quegli anni furono i Led Zeppelin fra cui militavano artisti particolarmente strani e “fuori di testa” come il batterista John Bonham, detto anche Bonzo, The Beast o semplicemente Big B., e il chitarrista Jimmy Page. Il primo è ricordato come uno dei più grandi percussionisti rock mai esistiti, ma anche per gli eccessi e le pazzie compiute durante i tour della band. Sempre pronto alla rissa e al casino estremo; sono rimaste leggendarie alcune sue imprese, come quando urinò sul dj di una discoteca di Tokyo che si era rifiutato di mettere musica dei Led Zeppelin, oppure quando in un museo un critico d’arte gli chiese cosa pensava di un determinato quadro, e lui per tutta risposta glielo spaccò in testa, oppure ancora quando andò ad un concerto dei Deep Purple, si imbucò sul palco e iniziò a fare pubblicità dell’album in uscita dei Led
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Zeppelin e se ne andò rivolgendosi al chitarrista dei Deep Purple dicendogli che non sapeva suonare un cazzo. Bonham morì a soli 32 anni nel 1980 durante una sessione di prove in casa di Page. Essendo troppo ubriaco per continuare a suonare, venne trasportato in una stanza e lasciato a dormire. Lo trovarono morto il mattino successivo, soffocato dal suo stesso vomito. Più inquietante è la storia di Jimmy Page. Fervente discepolo del mago nero britannico Aleister Crowley (1875-1947), oltre a essere un devoto lettore delle sue opere, collezionò oggetti appartenuti al maestro come quadri, manoscritti, paramenti e attrezzi usati durante i rituali. Nel 1970 acquistò anche la Boleskine House, un inquietante maniero sulle rive del lago di Loch Ness in Scozia, di proprietà di Crowley dal 1900 al 1918, trasformandola in un santuario dell’occultismo, e cercò di acquistare anche ciò che rimane di un’altra abitazione di Crowley, l’Abbazia Thélema a Cefalù in Sicilia, inoltre aprì a Londra una libreria specializzata in occultismo, magia e esoterismo. Naturalmente Page non volle mai essere definito come un seguace di Satana, dichiarandosi solo un appassionato dell’occulto, certo è che la fama di gruppo rock satanico accompagnò tutta la storia dei Led Zeppelin, e questo mito venne alimentato anche da presunti messaggi che si potevano ascoltare facendo girare al contrario i loro dischi, dai simboli esoterici che rappresentavano i componenti della band, dal motto di Crowley inciso sul vinile del loro album n° III, dalle numerose morti che colpirono i famigliari dei componenti e dell’entourage (fra cui lo stesso Bonham) e anche dalle immagini dei loro album e dei loro video. Tipici esempi di queste immagini che si potevano pre-
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stare a più interpretazioni sono quelle che accompagnano il loro 5° album del 1973, Houses of the Holy, il primo con un vero titolo al posto dei numeri. Le foto furono scattate ed elaborate dai soci Storm Thorgerson e Aubrey Powell del celebre studio Hipgnosis famoso soprattutto per le immagini degli album dei Pink Floyd. L’immagine di copertina fu ambientata nel celebre Giant’s Causeway (il Selciato dei Giganti) nella contea di Antrim, in Irlanda del Nord, una formazione di colonne basaltiche (circa 40.000) a forma prevalentemente esagonale dovuta ad un’immensa esplosione vulcanica avvenuta 60 milioni di anni fa, anche se la leggenda vuole che sia stato il gigante Finn McCool ad averle costruite per raggiungere la Scozia e battersi contro un altro gigante, Benandonner. Effettivamente in Scozia esiste una formazione analoga, chiamata Fingal’s Cave. L’immagine prende ispirazione da un libro di fantascienza di Arthur C. Clarke, Childhood’s End, cioè “la fine dell’infanzia”, da qui l’immagine di bambini che si innalzano scalando la collina verso lo spazio. All’inizio si pensò di effettuare la sessione fotografica in Perù, ma poi si decise di optare per la più comoda e vicina Irlanda. Durante i dieci giorni di riprese, il tempo fu inclemente con abbondanti piogge. Proprio per le pessime condizioni climatiche Powell decise di non scattare con pellicole a colori ma in B&W ed elaborare successivamente le immagini aggiungendo il colore. Inizialmente il colore dei bimbi doveva essere argento e oro, ma il grafico che si occupava della tinteggiatura, per errore, versò sulle loro immagini del colore magenta, e la cosa piacque. La copertina in realtà è la sovrapposizione di 30 scatti, in cui sono presenti, in varie pose, solo due bambini Stefan e Samantha Ga-
tes, fratello e sorella. Se l’immagine di copertina è abbastanza inquietante, che dire di quella dell’interno dell’album? Un uomo solleva un fanciullo verso un raggio di luce (Lucifero?), in una posa tipicamente sacrificale. Naturalmente nei libri di Crowley sono descritti raccapriccianti rituali con sacrifici umani in onore di Satana. Il collegamento sembrerebbe evidente. Il castello in questione è il Dunluce Castle, un maniero abbandonato sul finire del XVII secolo, situato a pochi Km dal Selciato dei Giganti. Un’ultima curiosità: il disco era avvolto da una sottile etichetta su cui erano indicati nome della band e titolo dell’album e che doveva essere rotta per consentirne l’apertura. Non era solo questione di packaging, ma serviva a coprire le nudità dei bambini in primo piano, al fine di evitare polemiche o censure.
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La Camera Chiara A proposito del satanista Crowley, si può dire che fu fonte di ispirazione per molti gruppi rock, fra cui anche i mitici Beatles che lo inserirono nel collage dei loro personaggi simbolo, nella copertina più famosa di sempre, quella del loro album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band del 1967. Sicuramente in questo caso non possiamo parlare di follia, semplicemente avevano voluto dimostrare la propria libertà di pensiero e il proprio spirito anticonformista, basti pensare che nella lista di personaggi scelti da John Lennon c’erano anche Gesù, Gandhi ed Adolf Hitler, poi scartati per evitare eccessive polemiche. Però questa copertina rimanda ad un altro grande ed estroverso artista rock del secolo passato: Frank Zappa, che la volle parodiare nel suo “We’re Only in It for the Money” del 1968, praticamente Zappa accusava i Beatles di far parte della controcultura (the flower power cioè il movimento hippie) solo per i soldi. Anche in questo caso non sarebbe corretto parlare di pazzia vera e propria,
ma di mente assolutamente geniale, musicalmente parlando, associata a uno spirito bizzarro, dissacratore e contro corrente rispetto al pensiero comune. Secondo Zappa, nessuno era in grado di comprendere il senso della sua opera. Al massimo, il pubblico che assisteva ai suoi concerti poteva essere “educato” con strumenti didattici, fra i quali baby-doll volanti, uova, salami e bambolotti vietnamiti massacrati dai marines. Famoso è lo show dove una grossa giraffa impagliata veniva “masturbata” e dalla quale veniva spruzzata panna montata sulle prime file. “Per qualche strano motivo”, commentò Zappa, “la gente si divertì moltissimo”. Zappa morì di cancro alla prostata nel 1993, lasciando in eredità un’immensa produzione musicale, tra l’altro ancora in parte sconosciuta (numerosi sono gli album pubblicati postumi). A conclusione di questo, per forza di cose, limitato e incompleto elenco di artisti “sui generis”, parliamo di un grande personaggio della scena rock più recente, sprofondato nella depressione e nell’autodistruzione, cioè di Kurt Cobain leader dei Nirvana, morto suicida nel 1994. E naturalmente non si può non parlare | 38
La Camera Chiara della copertina “icona” di uno dei loro album più famosi, Nevermind del 1991. Questo fu il loro secondo album in studio, Cobain non nascose mai, successivamente, la sua avversione verso questo album, probabilmente perché prodotto da una major (la Geffen), e quindi forse meno libero e più commerciale rispetto a quanto da lui voluto, oppure perché l’enorme successo (25 milioni di copie vendute) lo condusse a quella fama, forse non cercata e che non fu mai in grado di gestire. La foto di copertina realizzata dall’emergente fotografo Kirk Weddle (specializzato in fotografie subacquee) ritrae l’allora infante Spencer Elden (figlio di una coppia di amici del fotografo) mentre sguazza beatamente nella piscina del Rose Bowl Aquatic Center di Pasadena. Come vi sentireste se veniste a conoscenza del fatto che, in tenerissima età, siete stati fotografati completamene nudi e che almeno 25 milioni di persone vi hanno “scrutato” con attenzione? A tale domanda, durante un’intervista ad Mtv, Spencer rispose ironicamente, che rabbrividiva ancora al solo pensiero, e che qualcuno continuava a chiedergli se le “dimensioni” fossero rimaste quelle dell’epoca! Sicuramente, però, questa immagine gli ha regalato una certa notorietà.
L’idea di una tale copertina venne a Kurt e al batterista Dave Grohl che erano rimasti molto colpiti da un documentario sui parti assistiti in acqua. Naturalmente l’idea di fotografare un parto in acqua trovò la decisa opposizione dei direttori della Geffen, e ciò portò alla scelta di una più tranquilla immagine di un bimbo in acqua. Il dollaro attaccato all’amo venne inserito successivamente in postproduzione su specifica richiesta di Kurt. Forse era una velata polemica nei confronti delle maggiori case discografiche, avide solo di guadagni? Forse rappresentava la perdita dell’innocenza? Era un’accusa al consumismo americano? Chissà. Ad ogni modo, anche l’innocente ma esposta nudità del piccolo Spencer incontrò qualche resistenza all’interno della Geffen, ma, in questo caso, Cobain non volle fare marcia indietro e propose, al massimo, di coprire le parti intime (come nell’album dei Led Zeppelin) con un adesivo con su scritto “se ti senti offeso da questo, sei un potenziale pedofilo”. La casa discografica preferì lasciare Elden come mamma lo aveva fatto.
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“Un matto�
Fabrizio De Andrè 1971
Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole, e la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa, e neppure la notte ti lascia da solo: gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.
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Arte
Le mosche nere di Sergio Ragalzi: le nostre angosce più profonde
di Maximiliano Cascini
L’esplorazione delle nostre paure più inconfessate, di quegli ambiti dell’esistenza che spesso rimangono latenti e inesplorati per l’inquietudine che generano in tutti noi, è il luogo di elezione del lavoro di Sergio Ragalzi. Conosco Sergio da molti anni e posso affermare, senza tema di smentita, che è un artista coerente e sempre uguale a sé stesso e che da anni indaga le profondità dark del nostro inconscio collettivo senza lasciare alcun spazio, nella sua ricerca, alle mode del momento o a suggestioni commerciali. Nella sua lunga carriera, Sergio Ragalzi ha rappresentato cumuli di mosche, enormi feti neri, scarafaggi, scimmie e missili fallici racchiusi in gabbie dorate, proponendosi d’indagare attraverso queste immagini quegli aspetti della nostra esistenza, meno esposti e visibili, in cui si radicano le nostre paure e le nostre inquietudini più profonde. Angosce che, se uscissero dal nostro controllo, potrebbero spingerci verso quella dimensione inquietante e affascinante dell’essere umano
che alcuni classificano con la categoria della follia. Il Lavoro di Ragalzi sembra voler esorcizzare le nostre angosce collettive cristallizzandole in oggetti d’arte che occupano lo spazio grigio che affolla la dimensione di mezzo tra l’estro dell’artista e la genialità spaventosa della follia. In questo modo Ragalzi ci invita a guardare il lato oscuro del nostro essere per poterlo addomesticare; costringendoci a riflettere, ci rende edotti; e questa consapevolezza si fa catarsi e ci libera.
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“White rabbit”
Jefferson Airplane 1967
Una pillola ti fa diventare più grande, e una pillola ti rimpicciolisce E quelle che ti dà tua madre, non hanno alcun effetto Prova a chiederlo ad Alice, quando è alta dieci piedi.
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Arte
Van Gogh le malaime di Eugenio Broggini “Non è propriamente esatto parlare di pazzia nei quadri di Van Gogh, poiché il suo tormento derivava dal malessere di vivere, comune a molti autori, sia nell’arte che nella poesia. Quella che definiamo pazzia nei quadri di Vincent Van Gogh, è una rabbia ed una frustrazione dovuta ad un’eccessiva sensibilità ed ad un senso di precarietà della vita e delle sue aspettative.”
Van Gogh nacque il 30 Marzo 1853 a Groot Zundert nel Brabante settentrionale dal pastore protestante Théodorus Van Gogh e dalla madre Anne-Cornelie Carbentus. Studiò nelle scuole del suo villaggio e infine a Tilburg. A 16 anni si trasferì a L’Aja dove lavorò come garzone da un grande commerciante d’Arte: Goupil, agenzia della casa madre installata a Parigi. Per circa sette anni, Van Gogh visse a contatto con la grande pittura, spostandosi da L’Aja a Parigi e a Londra. Nel 1876, a 23 anni, licenziato, si dedicò assiduamente allo studio della Bibbia. La sua accesa vocazione religiosa lo spinse a dedicarsi alla consolazione delle pene dei poveri spostandosi da Bruxelles a Ramsgate. Nuovamente licenziato, svolse l’attività d’apostolato come assistente di un predicatore metodista. Continuò assiduamente lo studio della Bibbia entrando nei seminari di Amsterdam e nella scuola di evangelizzatori di Bruxelles. Dopo qualche mese, senza attendere i risultati della scuola partì per il Bacino minerario del Borinage in Belgio dove, settant’anni dopo, molti Italiani trovarono la morte. Van Gogh assisteva con ardore la povera gente la quale non capiva questo suo grande ardore dimostrato gratuitamente loro, ma capiva la sua grande bontà di spirito. Questo suo modo di vivere gli procurò ansia ed inquietudine dannose per la sua salute. 46 |
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Testimone di questa sua attività, realizzò il suo capolavoro: I mangiatori di patate. Nel 1880 Van Gogh si rende conto che la sua vita non può essere saziata unicamente con la Religione ma sente – imperativo – il bisogno di un altro modo di esprimersi che può realizzarsi solo attraverso la Pittura. Il fratello Théo, impiegato preso la sede centrale della galleria d’arte Goupil di Parigi, aiuterà suo fratello Vincent fino alla morte. Nel 1883, Van Gogh lascia il Borinage dei minatori e si trasferisce a l’Aja, a Amsterdam nella provincia di Drenthe. Copia da pittori famosi: Millet, Daumier, Courbet. Le opere di Daumier gli insegnano la deformazione realistica, quelle di Courbet gli insegnano la capacità di usare i colori in modo espressivo. Per tre anni: dal 1883 al 1886, dipinge instancabilmente senza alcun riguardo per la sua salute. Ad Anversa si iscrive alla scuola di Belle Arti ma viene retrocesso perché non sapeva dipingere. Abbandona i corsi e si installa a Parigi, dove suo fratello gli procura un alloggio in Rue Lepic nel quartiere di Montmartre. Conobbe i più importanti artisti impressionisti quali Seurat, Signac, Toulouse-Lautrec, Monet, Renoir, Gauguin, Cezanne con i quali il pittore intavolava talvolta lunghe e estenuanti discussioni teoriche sull’uso della luce e dei colori. In particolare, in quel periodo, Van Gogh dipinge la veduta di Parigi da Montmartre 1887 nel quale, sulla sinistra si evidenzia il Moulin de la Galette: ritrovo
ludico/culturale frequentato da tutti gli artisti. Nello stesso periodo scoprì le stampe giapponesi che condizionarono per un breve periodo la sua pittura. Ritenendo però che l’Impressionismo fosse un’arte superficiale intrisa di ottimismo, nel 1888 Van Gogh scappò da Parigi e si trasferì ad Arles, in Provenza. La venuta in Arles di Van Gogh rappresenta per lui la meta agognata dopo le delusioni, le ansie, i dispiaceri da lui subiti dalla nascita ai suoi vaganti soggiorni che lo portarono dalla sua città natale fino a Parigi, attraversando l’Olanda e il Belgio. Finalmente a Parigi, incontrando i più noti creatori dell’Impressionismo, riesce a formarsi una cultura artistica d’avanguardia permettendogli di perfezionare il suo modo di dipingere. Ma questo modo non ha ancora forgiato il suo stile. Nella Provenza, in Arles e nelle città confinanti Van Gogh si rifocilla di sole, calore, colori. La sua voglia di vivere la sua nuova pittura spinge l’artista a sforzi estremi dipingendo con ansia, ispirazione massima fino al logorio del suo corpo e della sua salute. Infatti a suo fratello Théo scrive: “Per il mio lavoro, rischio la vita“. Viaggia instancabilmente nei campi giorno dopo giorno, dipinge la notte, trascura nutrirsi: a volte vorrebbe mangiare i colori. Il suo atto creativo sfocia dal suo cuore, trova le deformazioni dei soggetti soggiogando la Natura ai suoi istinti creativi: crea capolavori. Van Gogh ha trovato “infine” la sua strada. La tavolozza è totalmente rinnovata: si notano gialli, rossi, blu che disposti sulla tela in modo “espressivo” e non più impressionistico creano capolavori che faranno cambiare tendenza a tanti nuovi giovani artisti.
La vigna rossa, Arles novembre 1888. L’esaltazione ambientale invoglia Van Gogh ad invitare ad Arles il pittore Gauguin con il quale aveva stretto amicizia a Parigi. Il suo intento è quello di creare ad Arles un ritrovo d’artisti. Dal 20 ottobre al 24 dicembre 1888 i due artisti vivono e lavorano insieme. Non mancano critiche reciproche e litigi sulla tecnica pittorica. Van 47 |
La Camera Chiara Gogh si sente umiliato dall’amico ed è convinto che Gauguin voglia evidenziare i suoi difetti artistici, fisici e psicologici di essere umano. Gauguin decide quindi di abbandonarlo. Van Gogh lo insegue con un rasoio e, non riuscendo a raggiungerlo si tagliò il lobo dell’orecchio destro.
Il suo aspetto fisico è sensibilmente deteriorato. Il suo autoritratto è ispirato alla struttura e ai colori delle stampe giapponesi: in particolare gli occhi sono disegnati secondo l’ovale giapponese. Il lobo dell’orecchio tagliato lo avvolge e lo regala alla sua amica e prostituta Rachel. Sanguinante si corica e l’indomani è assistito dal postino Roulin che lo porta all’ospe-
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dale. Vi rimane qualche giorno ma ci ritorna poi altre due volte. Il suo stato mentale è compromesso e il Sindaco, con ottanta petizioni, ordina alla polizia di internarlo nuovamente. Solo l’intervento del suo amico e pittore Paul Signac riesce a farlo ritornare nella sua “casa gialla”. Nonostante fosse debole e depresso, Van Gogh dipinse l’autoritratto con orecchio tagliato e pipa. L’8 maggio 1889 si reca di propria volontà all’asilo per malati mentali di Saint Remy de Provance diretto dal dottor Peyron. Qui continua a dipingere e crea i suoi ultimi capolavori: Notte stellata, Ulivi con le Alpilles, strada con Cipresso sotto il Cielo Stellato, caratterizzati da una tensione grafica estrema che sottolinea il delirio emotivo con frenesia di vortici. Ritornato ad Arles subì numerose altre ricadute che durarono fino a marzo 1890. Il 17 maggio 1890 Van Gogh lascia l’ospedale di Saint Remy per trascorrere tre giorni felici a Parigi dal fratello Théo. Conosce la cognata e il nipoti-
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no che porta il suo stesso nome. Lascia Parigi e si stabilisce a Auvers sur Oise dove è curato dal dottor neurologo Paul Ferdinand Gachet che si diletta anche di pittura. In poco più di due mesi dipinge settanta quadri. Gli ultimi capolavori sono Ritratto del dottor Gachet, il Municipio di Auvers, Campo di Grano sotto il Cielo in Tempesta; alla vigilia della sua morte: Campo di Grano con Corvi. Il 27 Luglio 1890 esce per dipingere nei campi. Al suo rientro, dietro insistenza dei coniugi Ravoux che lo ospitano e che si preoccupano del suo stato sofferente confessa di essersi sparato un colpo di pistola al petto. Il dottor Gachet lo assiste e viene subito chiamato il fratello Théo. Van Gogh muore nelle sue braccia all’alba del 29 Luglio. Addosso gli fu trovata una lettera non finita indirizzata a Théo: ”Vorrei scriverti a proposito di tante cose, ma ne sento l’inutilità. Nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione si è consumata per metà”. In una lettera a sua sorella Elisabeth, Théo parlò dei sentimenti di suo fratello poco prima di morire: «Sì voleva morire. Quando mi sono seduto al suo capezzale gli ho detto che avremmo cercato di farlo star meglio… Allora ha detto »: “La tristesse durera toujours!” (La tristezza durerà per sempre). 49 |
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“Shine on you crazy diamond”
Pink Floyd 1974
Ricordi quando eri giovane, brillavi come il sole continua a risplendere pazzo diamante. ora c’è uno sguardo nei tuoi occhi, come buchi neri nel cielo.
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Cinema
“Si può fare”
testo di Giuliano Quaranta
“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla”. Questa era l’ispirazione di Franco Basaglia che riteneva ingiusto e immorale detenere rinchiusi i malati mentali nei manicomi fino alla loro morte e senza cure adatte, se non pesantemente sedati, e che portò all’approvazione della legge 180/78 detta appunto ‘Legge Basaglia’. Prima di questa, i manicomi erano spazi di contenimento fisico dove venivano utilizzati metodi sperimentali di ogni tipo, dall’elettroshock alla malarioterapia, metodi sperimentali di ogni tipo che calpestavano la dignità umana dei malati. “Si può fare” è un film del 2008 diretto da Giulio Manfredonia, ispirato alle storie vere delle cooperative sociali nate negli anni ottanta per dare lavoro ai pazienti dimessi dai manicomi in seguito proprio alla Legge Basaglia. La storia ci porta a Milano nei primi anni ‘80. Nello è
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un sindacalista dalle idee troppo avanzate per il suo tempo. Ritenuto scomodo all’interno del sindacato viene allontanato e ‘retrocesso’ al ruolo di direttore della Cooperativa 180, un’associazione di malati di mente liberati dalla legge Basaglia e impegnati in (inutili) attività assistenziali. Trovandosi a stretto contatto con i suoi nuovi dipendenti e scovate in ognuno di loro delle potenzialità, decide di umanizzarli coinvolgendoli in un lavoro di squadra. Andando contro lo scetticismo del medico Del Vecchio, lo psichiatra che li ha in cura, Nello integra nel mercato i soci della Cooperativa con un’attività innovativa e produttiva; coinvolge i malati, li fa partecipare alle decisioni, li impegna, valorizzando le capacità di ognuno. I malati rispondono con impegno e responsabilità, la cooperativa ottiene appalti. Il trattamento farmacologico viene diminuito, nonostante le resistenze del Dottor Del Vecchio. Tutto sembra procedere per il meglio, ma le avversità sono dietro l’angolo. La pellicola tocca l’animo dello spettatore in un’altalena di sentimenti, dalla gioia alla disperazione, raccontando l’universalità delle emozioni e guidandolo in un mondo difficile, spesso dimenticato e che fa paura perché sconosciuto. In un senso più ampio, il film affronta il tema della ‘diversità’, dell’emargi-
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nazione. Il fatto che Nello sia un sindacalista e non uno psichiatra non è casuale: non sa niente di psichiatria quando conosce i suoi ‘nuovi soci’, li guarda da profano e, in definitiva, li tratta alla pari, come persone. Ne avverte il disagio, ma non è certamente questo il centro del suo relazionarsi con loro, riesce a vedere anche il resto, senza pregiudizi e, anzi, con una forte motivazione nel trovare in loro delle qualità, delle capacità. E in questo Nello rivela una straordinaria, istintiva dote di talent-scout e di motivatore. Tutto ciò è chiaramente molto terapeutico, molto ‘basagliano’, ma Nello non lo sa né, tutto sommato, gliene importa un granché. Credendo fortemente nella dignità del lavoro, Nello spinge ogni socio della cooperativa a imparare un mestiere per sottrarsi alle elemosine dell’assistenza, inventando per ciascuno un ruolo incredibilmente adatto alle sue capacità ma finendo per scontrarsi con inevitabili quanto umanissime e tragicomiche contraddizioni. L’inerzia e l’apatia non sono propri dello spirito umano e ciascuno di noi possiede almeno una dote che, perfino non coltivata, è capace di dare frutti inaspettati, una volta stimolata. La costrizione non può essere il metodo per il recupero del paziente. Per guarire il primo passo è la consapevolezza di avere bisogno di aiuto e, in secondo luogo, la necessaria intesa tra beneficiato e benefattore. In verità, tutti i geni non sono in fondo un
po’ matti? Non possiamo negarlo se persino Erasmo da Rotterdam ha scritto in pieno Rinascimento un’opera spettacolare come “Elogio della follia”. Il film racconta una concezione nuova di approcciarsi alla malattia mentale, si prende il compito di raccontare una visione che pone al centro del progetto terapeutico-riabilitativo il malato con le sue risorse e capacità, soggetto di diritti, con potenzialità che vanno sviluppate allo scopo di reinserire nella società a pieno titolo quelle persone che erano state recluse, isolate e rese marginali dal manicomio. Purtroppo all’entrata in vigore della disposizione, non erano stati preparati quantitativamente e qualitativamente adeguati piani sociali di accoglienza. Attenzione però: il regista evita accuratamente qualunque tipo di enfasi, sfiorando appena la drammaticità senza spettacolarizzarla, in favore di un
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La Camera Chiara impianto arioso, ridente, talvolta comico, letiziando lo spettatore con una commedia che diverte e allo stesso tempo fa riflettere. Manfredonia sceglie un argomento difficile da trattare, tramuta episodi reali in fiction, trattando con la dovuta discrezione un argomento tanto delicato che appartiene alla storia dell’Italia, nel rispetto di chi convive con l’infermità mentale e di chi ci lavora. Sebbene Claudio Bisio dia un’ottima prova recitativa nei panni di Nello, “Si può fare” è il frutto di un lavoro collettivo che vede tutti gli interpreti impegnati a ricreare un ambiente credibile nel quale far muovere a piccoli passi un ensemble di “matti” talmente autentici da strappare un applauso. Il film vuole poi esplorare la vita del malato di mente nel mondo normale. Il cinema ha spesso denunciato la disumanità dei manicomi proponendone la chiusura. Qua si affronta, per così dire, il seguito: che facciamo quando poi i manicomi sono chiusi? È un tema molto poco frequentato dalla cinematografia, come se i malati di mente fossero interessanti solo se sottoposti ad ingiustizie disumane. Parlare della malattia mentale al cinema non è mai cosa facile, anche se se ne parla per raccontare una storia che parla d’integrazione, di solidarietà, di modelli alternativi. I rischi della retorica o del qualunquismo sono sempre dietro l’angolo. E l’inizio di “Si può fare” spaventa
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un po’, con il suo evidente essere apparentemente un “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di casa nostra. Ma superato lo sconcerto dei minuti iniziali, ci si accorge che presto qualcosa cambia. “Si può fare” emerge quindi come un film che racconta una bella favola, capace di far ridere ma di toccare nei sentimenti; che racconta un’utopia possibile e disperatamente ottimista. Per questo si perdonano senza troppi problemi potenziali difetti come un quadro eccessivamente aproblematico della malattia mentale, o alcune soluzioni un po’ facili e scontate di sceneggiatura. Si perdonano perché il quadro in cui s’inscrivono è sostanzialmente positivo, ma anche perché, da elementi come il setting storico-temporale del film, emerge piuttosto netta l’impressione
La Camera Chiara che quella di “Si può fare” sia una storia che parli di qualcosa di ben più ampio che non solo temi come la malattia mentale o la solidarietà. Questo, in estrema sintesi, è il cuore narrativo del film che vuole raccontare una storia di speranza, presente già nel titolo. La vicenda dimostra infatti che con la fiducia, l’attenzione, il lavoro e la fantasia si possono fare tante cose, anche trasformare dei malati di mente in un’azienda che funziona. Tutto questo assume una forza maggiore dal momento che questa storia è ispirata ad una vicenda realmente accaduta. Non c’è da aver paura dei malati di mente, non c’è da aver paura di chi è diverso, chi è diverso non va emarginato. Al contrario in tutti ci sono qualità e potenzialità da valorizzare. Finendo magari per scoprire ciò che ogni psichiatra sa: che tra le malattie dei matti e i difetti dei normali, il confine è spesso sottile. Emblematica è una frase che Gigio, uno dei ‘soci’ rivolge a Nello: “Guarda che noi siamo matti mica stupidi”; questo per far capire che la malattia c’è e deve essere seguita e curata ma questo non annulla la persona in quanto tale e non la rende incapacità di capire ciò che succede intorno, è solo un modo diverso di vedere e vivere ciò che li circonda. Si può fare un film sulla malattia, in questo caso mentale, senza essere scorretti né troppo corretti, senza deprimere, al contrario divertendo e facendo partecipare il pubblico a quella che è una storia collettiva. È anche, più in generale, la storia di una “rivoluzio-
ne” che ha cambiato radicalmente non solo il trattamento sanitario dei ‘matti’, ma la stessa idea di follia e il modo in cui la malattia mentale viene concepita socialmente e culturalmente. L’intento del regista è di essere riuscito almeno in parte a rendere la forza di questo epocale cambiamento. Perché questo è certamente un film che vuole far pensare, ma è anche un film in cui si ride e si piange. “Da vicino nessuno è normale”, dice un vecchio adagio basagliano. I protagonisti della nostra storia sono al contempo completamente fuori dal normale, eppure così simili a tutti noi, tanto che ad un certo punto ci si identifica completamente con loro. Questo era lo scambio di identità che più interessava scandagliare, quello tra i miei matti e lo spettatore. Sperando che accada.
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©Wika
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“The fool on the hill”
Beatles 1967
Giorno dopo giorno solo su una collina L’uomo col ghigno folle sta perfettamente immobile Ma nessuno lo vuole conoscere Vedono che è solo un matto E lui non dà mai una risposta Ma il matto sulla collina Vede il sole tramontare E con gli occhi della mente Vede il mondo girare. | 57
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to in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libert Luoghi della memoria, antri di dolore, edifici dove la sofferenza si è adagiata alle pareti come la polvere accumulata dal giorno della loro chiusura. Luoghi da dimenticare, antri da brivido, edifici dove i fotografi entrano per conseguire suggestioni. Si accede in punta di piedi, chi per rispetto, chi per paura, chi per timore di essere scoperto e chi immedesimandosi nelle tragedie che quelle pareti hanno visto è sentito. Ci si ritrova avvolti da un alone inconsueto, chi lo scrive è stato in alcuni di questi luoghi quando i malati colmavano gli spazi, ora vuoti, attraverso le urla di disperazione. L’appestante odore delle sigarette Alfa si mischiava agli effluvi delle orine sparse a terra e nei pannoloni gonfi e sporchi che indossavano. Ora sono solo delle camere vuote, in quel gioco di decadenza e di luci la fotografia riesce ancora a cogliere delle tracce che ci raccontano storie lontane nel tempo. Gli autori delle fotografie del gruppo CEDAS e gli amici di Fotozona (www.fotozona.it), hanno fornito queste immaginii rielaborando un dramma che è avvenuto e che non dovrebbe mai essere dimenticato, come tanti altri orrori in cui l’essere umano è stato capace di elaborare l’orrore guardando il prossimo come a un “diverso” da eliminare fisicamente. © Giovanni Apostolico - Villa Azzurra - Grugliasco (Torino)
© Carlo Ferrari - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
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© Andrea Morello - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
© Luca Scaramuzza - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
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© Elisabetta Lucido - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
© Giovanni Apostolico - Villa Azzurra - Grugliasco (Torino)
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© Mauro Trolli - vecchi graffiti su un muro dell’ex OP di Reggio Emilia - Padiglione Lombroso
© Renata Busettini - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
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© Mauro Trolli - ex OP San Lazzaro di Reggio Emilia
© Massimo Della Valle - ex OP di Collegno (Torino)
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© Giovanni Apostolico - Villa Azzurra - Grugliasco (Torino)
© Luca Scaramuzza - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
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© Elisabetta Lucido - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
© Andrea Morello - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
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© Carlo Ferrari - ex OP di Mombello (Monza e Brianza)
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©Wika
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“La casa”
Sergio Endrigo 1969
Era una casa molto carina, senza soffitto, senza cucina; non si poteva entrarci dentro, perché non c’era il pavimento; non si poteva andarci a letto, in quella casa non c’era il tetto; non si poteva fare pipì, perché non c’era il vasino lì. Ma era bella, bella davvero, in Via dei Matti numero zero.
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“Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita!” Alda Merini