La Camera Chiara La Camera Chiara
pubblicazione della Sezione Fotografica CEDAS - Numero 2 - Luglio 2017
Racconto di viaggio
“Sud Africa e Botswana� di Diego Passarotto
Autori
Storia
Stefano Lanza
Les barricades di Thibault
Marcello Di Leo
La composizione III parte
Vivian Maier
Sezione fotografica Cedas
Portfolio
I grandi fotografi
Tecnica News
copertina: ©Diego Passarotto - “Giraffa tricefala”
La Camera Chiara
La Sezione Fotografia del Cedas si propone di favorire lo sviluppo tecnico e creativo dei Soci fotoamatori, promuovendo iniziative idonee a raggiungere tali scopi. Impianti e attrezzature sono a disposizione dei soci. Aderisce alla F.I.A.F. Ritrovo: tutti i mercoledì sera dalle ore 20,45 alle ore 22,45 presso Sede Cedas - via Olivero 40- Torino. Consultare il sito internet per verificare variazioni di orario e/o chiusure programmate.
In questo numero:
www.fiatcares.com/cedas
Direttivo Sezione Fotografia: Delegato: Maximiliano Cascini. Vice delegato: Giuliano Quaranta. Consiglieri: Mauro Faudarole; Potito Lanzetta; Fioravante Stefanizzi. La Camera Chiara La Camera Chiara
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EDITORIALE
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REPORTAGE
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STORIA
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INTERVISTE
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TECNICA
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I GRANDI FOTOGRAFI
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PORTFOLIO
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NEWS
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FOTO IN LIBERTA’
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APPUNTAMENTI
La fotografia in Piemonte e le associazioni che la promuovono di Maximiliano Cascini
pubblicazione della Sezione Fotografica CEDAS - Numero 2 - Luglio 2017
Racconto di viaggio
“Sud Africa e Botswana” di Diego Passarotto
Autori
Storia
Stefano Lanza
Les barricades di Thibault
Marcello Di Leo
La composizione II parte
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Portfolio Arte
Tecnica News
Pubblicazione non periodica della Sezione Fotografia del Cedas. Torino 2016. Pubblicazione condivisa in formato PDF (Portable Document Format) non stampata su carta. Ogni autore si assume qualsiasi responsabilità derivante dalle proprie immagini inviate a La Camera Chiara per la pubblicazione manlevando la redazione da ogni responsabilità che dovesse derivare dall’utilizzo delle immagini stesse. Tutti i diritti relativi alle fotografie ed ai testi presenti in questa pubblicazione sono riservati ai rispettivi autori. Responsabile: Renata Busettini Redazione: Enrico Andreis; Renata Busettini; Paola Cafferati; Maximiliano Cascini; Santino Dainese; Max Ferrero; Elisabetta Lucido; Giuliano Quaranta. Collaboratori: Diego Passarotto Contatti:
lacamerachiara16@gmail.com Impaginazione e grafica:
Max Ferrero
Sud Africa e Botswana foto e testo Diego Passarotto Les barricades di Thibault di Max Ferrero Intervista al fotografo Stefano Lanza di Elisabetta Lucido La composizione III parte di Max Ferrero Vivian Maier di Giuliano Quaranta Marcello di Leo di Enrico Andreis Il primo semestre della Sezione Fotografica Cedas di Renata Busettini
commenti di Max Ferrero CEDAS informa
La Camera Chiara
Š Max Ferrero - Famiglia Rom - Torino 1989
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La Camera Chiara
Editoriale
La fotografia in Piemonte e le associazioni che la promuovono di Maximiliano Cascini
Dopo qualche mese di pausa, il gruppo di fotografia Cedas Fiat pubblica il numero due de La Camera Chiara. La redazione, reduce dal lavoro su un numero speciale della rivista, interamente dedicato alla follia e alle diverse forme della sua rappresentazione, è tornata a lavorare nella cornice consueta della rivista, per parlare, attraverso il lavoro del gruppo, della tecnica, del linguaggio e della storia della fotografia nel suo complesso, e con uno sguardo più attento all’attività fotografica del nostro territorio. A questo proposito, mi preme segnalare che da qualche settimana è stato completamente rinnovato il direttivo della Fiaf, la Federazione Italiana Associazioni Fotografiche. I nuovi delegati regionale, Luciano Nicolini, provinciale, Frederick Zamuner, e cittadino, Samuele Marcello, insieme a una squadra di colleghi responsabili dei diversi dipartimenti della Fiaf e, soprattutto, attraverso il coinvolgimento e la passione di tutti i membri dei circoli di fotografia del territorio, daranno vita a una serie di interessanti attività nei prossimi mesi. Ho conosciuto personalmente l’intera squadra, e ho potuto verificare la determinazione e la volontà di un cambio di marcia nell’attività dell’associazione in Piemonte. Noi, il circolo di fotografia Cedas Fiat, come sempre, siamo pronti al cambiamento e soprattutto preparati a lavorare per la realizzazione di interessanti progetti fotografici anche di respiro nazionale, come spesso sono quelli organizzati dalla Fiaf. La nostra rivista proverà a fare da cassa di risonanza per diffondere, a un sempre crescente numero di persone, la passione per la fotografia, in generale, e le informazioni riguardanti la realizzazione dell’attività fotografica sul territorio. Tra le molte altre cose, nei prossimi numeri proveremo a raccontare, per immagini, attraverso il progetto Fiaf “La famiglia in Italia”, la nostra visione della naturale evoluzione della più piccola e importante forma di relazione sociale che è la famiglia, analizzandone non solo gli aspetti formali o estetici, ma cercando di scavare più in fondo per capirne i diversi aspetti sociologici. Inoltre, troveranno spazio sulla rivista le avventure artistiche del gruppo Cedas Fiat riguardanti il progetto, ormai già in cantiere, che sarà presentato alla Kermesse torinese di Paratissima, in novembre: stay tuned.
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Sud Africa e Botswana 6 |
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Racconto di viaggio
foto e testo di Diego Passarotto
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La Camera Chiara Come tutti gli anni agosto è mese di vacanze e per me (e un fidato gruppo di amici) vuol dire viaggiare. Il 2014, del quale vi racconterò, è stato l’anno dell’accoppiata Sud Africa e Botswana. Viaggio durato nel complesso tre settimane, due per il primo paese una per il secondo. Tutto ha inizio sabato 2 agosto all’aeroporto di Malpensa, volo diretto Air France per Johannesburg. Atterrati e liquidate le formalità doganali, il pensiero è stato quello di metterci il prima possibile sulla strada. Direzione Kruger National Park. I sei giorni successivi li avremmo trascorsi percorrendo da sud a nord il più famoso dei parchi in quella porzione di mondo. Per gli amanti di Google Maps, le tappe sono state Crocodile Bridge, Skukuza, Orpen, Olifants, Mopani e Punda Maria che coincidono di fatto con campeggi presso i quali abbiamo soggiornato. I parchi nazionali sudafricani possono essere visitati in autonomia con la propria auto, tuttavia quando cala la notte le alternative sono poche: i “rest camp”, gestiti dal parco, o i lodge privati, per turisti facoltosi. Chiaramente abbiamo optato per la prima opzione. Tenuti in maniera eccelsa e con tutti i comfort, questi campeggi, permettono di pernottare con poche decine di euro a differenza dei lodge per i quali, a volte, non ne bastano centinaia. Varcate le soglie del parco non si tarda molto ad avvistare i primi animali. Chiaramente è tutto nuovo,
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mai visto, si è presi dall’euforia, si scatta a raffica si porta l’attenzione dei compagni verso una direzione piuttosto che un’altra. Come sempre accade, i giorni seguenti si metabolizza il tutto e ci si concentra più sui dettagli. Le nostre giornate mediamente seguivano sempre lo stesso canovaccio, sveglia prima dell’alba per partecipare all’escursione organizzata dal camp coi guardaparco, quindi trasferimento verso la tappa successiva con soste lungo il tragitto in cerca di animali. Le tipologie con le quali i camp ti permettono di prendere contatto con la natura circostante sono due: a bordo di jeep o furgoni oppure a piedi. La seconda è decisamente la più interessante, sebbene le probabilità di incontrare animali siano minori il seguire le tracce della possibile preda e ascoltare le indicazioni di chi la sta inseguendo per te sono ricordi che meritano un racconto al rientro in Italia. Il Kruger ha un’estensione equivalente all’incirca a quella del Piemonte, 350 km da nord a sud, 67 da est a ovest, è un territorio molto vario che comprende boschi, savana, grandi corsi d’acqua. Le possibilità di avvistare i grandi e piccoli erbivori sono garantite, per i predatori le cose si fanno più complicate, ma con un po’ di buona volontà e affidandosi alle guide e alla fortuna si riusciranno comunque a vedere i “big five”: elefante, bufalo, rinoceronte, leone e leopardo. Presaci una settimana di pausa per visitare Città del Capo e la Garden Route, domenica 17 agosto ci siamo imbarcati alla volta del Botswana. Questo paese dal punto di vista naturalistico raccoglie una serie di peculiarità che lo rendono quasi unico. Ha la savana a est al confine con lo Zimbabwe, il deserto a ovest al confine con la Namibia e una vasta distesa d’acqua generata dal fiume Okawango che riversa le sue acque nel deserto del Kalahari, uno
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La Camera Chiara dei pochi delta interni del pianeta. Dei tre ecosistemi ci siamo dedicati a quest’ultimo e la scelta alla fine ha ripagato. Uno stacco completo rispetto ai paesaggi cui ci aveva abituato il Kruger. L’Okawango è il trionfo della vita sull’acqua, flora o fauna che sia. Il parco l’abbiamo girato affidandoci ad un tour operator locale. La formula era quanto di più semplice: fuoristrada con guida di giorno, tende e bivacco non attrezzato la notte. L’esperienza di dormire in mezzo agli animali che liberi girano attorno alle tende non è da tutti i giorni. Una sera ci stavamo intrattenendo attorno al fuoco con il nostro accompagnatore quando, ad un certo punto, nel buio più fitto questi accende la torcia e illumina un gruppo di zebre nella radura ad una trentina di metri di distanza da noi. Qualche minuto dopo riaccende la torcia elettrica ed esordisce con: “E questo è l’animale che noi chiamiamo leone”. A circa venti metri si staglia una leonessa a caccia delle zebre che avevamo avvistato poco prima. La guida ci rassicura che non è interessata a noi e che non si distoglierebbe dal suo compito specie nella caccia in branco, però nonostante tutto consiglia di rimanere fermi, non fare movimenti bruschi. Intanto ci fissa, noi guardiamo lei, il tutto per una quindicina di secondi, poi si volta per tornare a seguire le zebre. Finché si vedono questi grandi felini dalla macchina è una cosa,
quando li vedi da terra senza nulla tra te e loro, la storia è un’altra. Sembra ovvio dirlo visto quanto raccontato sopra, ma i primi piani migliori li ho fatti tutti in questo parco, in parte per l’abbondanza di animali, in parte perché avevo ormai acquisito una certa confidenza con l’attrezzatura, ma molto del merito va alla guida che anche guidando il fuoristrada riusciva a seguire le tracce e le orme degli animali per servirli comodamente di fronte all’obiettivo. Si sente spesso dire che l’Africa ti entri nel sangue e che una volta vista si abbia sempre il desiderio di tornarvi. Non so a cosa sia dovuto, forse al richiamo ancestrale delle nostre origini. Però è quello che è successo anche a noi. I fotografi che mi leggono si domanderanno quale attrezzatura avessi avuto con me. Il corredo era composto da un 12-24 f4, un 18-70 f3.5/5.6 e un 150-500 f5.6/6.3.
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Storia
Les barricades di Thibault 1848 di Max Ferrero
Horace Vernet - barricate nella via Soufflot
Siamo nel 1848, una rivolta dei parigini nei confronti del governo Guizot porta all’occupazione della capitale francese il 22 di febbraio provocando, solo due giorni dopo, la caduta del monarca Luigi Filippo che rinuncerà a soffocare la rivolta nel sangue. Il governo provvisorio rivoluzionario proclamerà la Seconda Repubblica francese il 4 maggio dello stesso anno. Sarà ricordata come la terza rivoluzione francese dopo i moti del 1830 raccontati da Victor Hugo nel suo famosissimo libro “Les Miserables” e dai ben più noti eventi del secolo precedente con la caduta della monarchia e la presa della Bastiglia. Nel giugno del 1848 Parigi è, di fatto, una città divisa in due: la parte orientale, quella dei quartieri popolari e operai fino al quartiere latino sono in mano ai rivoltosi, quella occidentale, da sempre più borghese e ricca, è occupata dall’esercito regolare.
Le classi all’interno della città, distinte e separate già in precedenza alla rivolta, si dividono e si separano ulteriormente: chi cerca l’ordine e richiede il mantenimento dello status precedente, sceglie l’ovest, chi non ha nulla da perdere, i sognatori, i richiedenti diritti, chi vuole avere semplicemente la possibilità di voto alle elezioni sceglie la rivolta e si volge ad est. Il 23 giugno del 1848 l’esercito regolare muove contro le barricate e per quattro giorni le battaglie sono affrontate accanitamente per le strade. La zona operaia con 40-45.000 uomini male equipaggiati si ritrova a resistere all’attacco di 250.000 uomini della Guardia Nazionale e della Guardia Mobile, uomini armati di tutto punto, veterani provenienti dalle guerre in Algeria e supportati dall’artiglieria. A capo di questo esercito c’era il generale Cavaignac e a lui furono assegnati poteri dittatoriali per la restaurazione dell’ordine. In quattro giorni ci furono circa 1.500 morti tra l’esercito e più di 5.000 tra gli insorti. 11.000 cittadini furono imprigionati e di questi 4.000, i più pericolosi per il regime, deportati in lontane colonie della madre patria senza più far ritorno. Questa è la storia dell’evento, descritta a grandi linee e senza sufficienti precisazioni. Si tratta solo dell’antefatto di cui voglio parlare. L’evento descritto fu il primo a essere documentato da | 15
La Camera Chiara due scatti fotografici che divennero la prima testimonianza giornalistica diretta di un evento tragico e giornalistico. 25 e 26 giugno Nei giorni conclusivi della rivolta un fotografo di cui neanche il nome è sicuro, ma il cognome è Thibault, decide di appostarsi, con la sua ingombrante macchina fotografica, alla finestra di un appartamento adiacente alle barricate di Rue Saint Maur Popincourt; non solo, oltre all’innegabile coraggio, ha l’intuito di andarci sia in precedenza sia in seguito all’attacco dei governativi. Il risultato è uno sconvolgente “prima - dopo” in cui possiamo immaginare tutto il dramma degli eventi. Che cosa abbia spinto quel misterioso autore di cui non abbiamo nulla se non la sua unica opera fotografica a rischiare la vita per ottenere una foto non è facile immaginarlo. Nel 1848 molti fotografi si erano arricchiti con la nuova arte ma gli ambiti in cui si potesse creare attività commerciali ed economiche erano strettamente legati alla sfera ritrattistica. Persino le vedute e i paesaggi non riscuotevano particolari interessi e quindi la pista dello scoop economico è da escludere. Si potrebbe pensare a un pioneristico interesse giornalistico ma anche questa è un’ipotesi difficile da sostenere perché le prime foto pubblicate sui giornali appariranno solo 35 anni dopo, quando i tentativi della fotomeccanica trasformeranno i passaggi di grigi in un retino di
punti neri più o meno grandi e distanti tra di loro, in grado di riprodurre tonalità di grigi diversi. Probabilmente era un inviato, da chi non lo sapremo mai, ma la pubblicazione del disegno xilografico ispirato alla scena ritratta, apparirà l’8 luglio del 1848 sul giornale “L’llustration”. E qui comincerà la strana storia del doppio scatto. Quale il primo quale il secondo? Secondo la storia e anche secondo la versione presentata dal Musee d’Orsay di Parigi dove sono custodite le due copie, il primo scatto realizzato il domenica 25 giugno è quello a sinistra. Si notano molto bene le barricate, nella via non c’è nessun occupante a presidiare i punti nevralgici dell’arteria parigina e la nitidezza dell’opera è esemplare. Il secondo, quello a destra, è stato realizzato lunedì 26 giugno dopo l’attacco dei militari. S’intravedono delle ombre di passanti che animano la scena, sono mosse e poco visibili causa una peggior conservazione del dagherrotipo e per i tempi lunghi di esposizione utilizzati dal fotografo. Sicuramente il secondo scatto è quello che colpisce maggiormente, contiene informazioni visive, seppur parziali, di una scena vissuta drammaticamente nell’estate parigina e diventa, | 16
La Camera Chiara di conseguenza, uno dei più preziosi e rari documenti del fotogiornalismo. Ma la ricostruzione storica fatta dai vincitori della rivolta non è convincente. Non è scandaloso affermare che il giornalismo, specie se asservito al potere o a editori interessati, ha sempre piegato la verità al proprio volere e, in questo caso, una storia vecchia di 180 anni continua ancora oggi a raccontare smisurate falsità. Secondo la ricostruzione convenzionale il messaggio che si recepisce, anche un po’ inconsciamente, è che la gente si riversa nelle strade dopo la gloriosa vittoria del governo francese sui malvagi rivoltosi che hanno reso Parigi (lo si nota nel primo scatto) un luogo di terrore e solitudine. E se le foto fossero state invertite? Se lo scatto del 26 fosse quello di sinistra e quello con la gente lo scatto del 25 cosa cambierebbe? Tutto perché s’invertirebbe il messaggio: Parigi era viva e vitale prima dell’attacco e appare morta e desolata dopo il passaggio dei soldati. Un messaggio inaccettabile per i salvatori della patria e della monarchia. L’8 luglio del 1848, le fotografie di Thibault vengono pubblicate o meglio riprodotte a disegno, sull’Illustration comprovando la tesi ufficiale. Ovviamente per provare questa seconda tesi servono argomenti, prove scritte, testimonianze. Tutte cose impossibili da ritrovare ora, soprattutto su di una foto di cui si sa a malapena il cognome dell’autore e di cui esiste una sola copia perché il dagherrotipo era effettivamente una
copia unica e irriproducibile. Le basi della mia ipotesi si fondano sull’esperienza professionale e su dati tecnici che possono comprovare tutti i dubbi che suggerisco. I dubbi logici • Qualsiasi persona sana di mente non sarebbe mai andata nel luogo di un massacro il giorno stesso o quello successivo agli eventi perché i militari erano a caccia dei rivoltosi e chiunque si fosse trovato in quel luogo avrebbe rischiato di essere arrestato e deportato all’estero. • La storia assegna la fine delle ostilità alla data del 26 giugno ma combattimenti sporadici continuarono ancora nei giorni successivi. Nessuno avrebbe animato una via teatro di combattimenti se non fosse stato un combattente stesso. • E’ lecito obiettare che quelle ombre potrebbero essere dei soldati o dei comandanti. Ingrandendo l’immagine si può notare che s’intravedono carrozze civili, le due ombre in primo piano sembrano conver-
sare tranquillamente. Un uomo ha un cilindro come copricapo, abbigliamento tipicamente civile, e l’altra figura sembra femminile. Con i militari queste forme umane non hanno nulla a che vedere. Ma tutto questo è ancora insufficiente per reggere una tesi antistorica è necessario addentrarsi in questioni tecniche di fotografia. Le limitazioni tecniche Le foto in oggetto, che da ora chiameremo A quella con le persone e B quella senza, evidenziano e sottolineano alcuni aspetti di notevole spunto. • La foto A si presenta molto più rovinata rispetto alla B, ciò è dovuto probabilmente al fatto che i giornali | 17
Macchina fotografica a banco ottico
La Camera Chiara
Portalastre fotografiche
l’hanno data in mano a degli incisori perché ne facessero diverse riproduzioni da divulgare a Parigi e in tutta la Francia. La poca cura nella manipolazione ha deteriorato le particelle della lastra di rame per incuria e per notevole sfruttamento. La pubblicazione così celere della prima foto di reportage suggerisce che probabilmente il fotografo aveva già contatti con militari, comandanti o politici influenti. • Le due foto, pur scattate dallo stesso autore, hanno formati diversi. In un’epoca in cui di macchine fotografiche ce n’erano poche come mai l’autore decide di fare la stessa foto dallo stesso luogo sullo stesso argomento ma con due macchine fotografiche di-
verse? La risposta si trova nella poca sensibilità della lastra dagherrotipica. Le lamine per dagherrotipi erano costruite su degli standard che presentavano le seguenti misure: Doppia lastra intera - 21,5x33 cm Lastra intera - 16,5x21,5 cm Mezza lastra - 11x14 cm Quarto di lastra - 8x11 cm Sesto di lastra - 7x8 cm Nono di lastra - 5x6 cm La foto A è più piccola ed è stata scattata con un quarto di lastra, quella senza persone con una mezza lastra. Ciò denota che l’autore aveva una conoscenza tecnica avanzata, sapeva perfettamente che i tempi di esposizione si accorciavano anche sensibilmente utilizzando formati più piccoli perché più corti sarebbero stati gli obiettivi divenendo più luminosi grazie al minor tiraggio di camera (il soffietto delle vecchie macchine). Il fotografo padroneggiava la ridotta scelta di velocità di scatto, era in grado di prevedere e scegliere il giusto formato per il corretto risultato. Scatto veloce quando serve la gente, scatto più lento quando serve la definizione. | 18
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Alphonse Lamartine - Proclamazione della repubblica davanti al Municipio
ritorna attraverso l’instaurazione di un ordine violento ma benevolo. Con la versione antistorica da me proposta, quelle ombre che vediamo sono probabilmente dei condannati a morte che nella notte o nel giorno successivo saranno falcidiati da colpi di cannone o fucilate compatte di fanteria. Nel primo caso la fotografia assurge a elemento documentativo per confermare una verità, nel secondo sarebbe la palese affermazione che la fotografia è un’enorme bugia. Mascherandosi con l’apparenza del vero può essere manipolata nelle forme e nei contenuti, può trasformare il messaggio più palese semplicemente cancellando o ignorando un elemento, modificando una didascalia o banalmente invertendo una data.
Delacroix la libertà guida il popolo
• Una lastra più piccola comporta un obiettivo con ridotta lunghezza focale e, di conseguenza, anche una macchina fotografica più leggera e pratica. Il 25 di giugno, in piena battaglia il reporter doveva muoversi nel pieno agio della situazione. Il 26 giugno, con la battaglia che poco a poco si modera, con gli insorti sempre più ricacciati nelle retrovie, il silenzio e la quiete di un luogo abbandonato potevano essere colti con la dovuta calma, soprattutto se Thibault era supportato dalle forze governative. • Esistevano macchine fotografiche multiformato, cioè lo stesso apparato poteva utilizzare formati di lastre diverse. Ciò non riduce gli aspetti tecnici appena elencati perché Thibault avrebbe dovuto possedere ugualmente due obiettivi diversi. Quello più “corto” sarebbe pesato molto meno del lungo e tutto quello presentato nei punti precedenti coinciderebbe alla perfezione anche con questa supposizione. E’ ovvio che ora nel 2017 la storia non cambi con l’inversione delle date, cambiò la realtà allora, quando era importante placare gli animi e ricostituire l’ordine sociale. Con la descrizione ufficiale la vita gioiosa
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Intervista
Stefano Lanza
di Elisabetta Lucido
Il fotografo di moda Stefano Lanza incontra il Cedas. Stefano Lanza nasce a Torino l’11 dicembre 1992. Inizia la sua carriera di fotografo già da giovanissimo collaborando con riviste, stilisti e noti marchi della moda, per citarne alcuni: Adidas, Marzotto, Liabel. Dal 2015 è super visore per il controllo qualità delle immagini e all’operato delle troupe dei fotografi di “Pitti immagine e uomo” e “Pitti immagine bimbo”.
Come e quando hai iniziato ad occuparti di fotografia? Ho iniziato a muovere i miei primi passi nella fotografia già da giovanissimo. Avevo circa 8 anni, quando mi regalarono la prima macchina fotografica analogica. Nulla di più che una normalissima compatta, con cui facevo impazzire tutti poiché non vi era cosa animata (e non…) che non fotografassi. Poi cominciai a volere di più e finalmente acquistai, all’età di 11 anni, la mia prima reflex. Sempre più preso da questo mondo, ancora poco più che bambino, mi iscrissi ad una comunità fotografica (che oggi non esiste più) che per me fu in quegli anni un punto di riferimento che mi consentì di interagire con altre persone che avevano il mio stesso interesse, ottenendo dai più esperti consigli su come migliorare i miei scatti. Poiché sognavo di intraprendere questa carriera già da undicenne, mi resi presto conto che non bastava solo leggere libri, manuali o frequentare una comunità fotografica e così, alla fine del mio percorso scolastico tradizionale, decisi di intraprendere gli studi presso l’istituto John Kaverdash a Milano conseguendo il master in moda, fotoritocco, tecnica fotografica. Da quel momento mi si aprì definitivamente il mondo della fotografia. Quali tappe deve attraversare oggi un giovane fotografo per diventare un fotografo affermato? Quali sono le principali difficoltà che si incontrano lungo la strada? Quando sarò veramente affermato vi dirò, per ora posso raccontare la mia esperienza. A mio avviso, la strada per diventare fotografo potrebbe essere paragonata, per le difficoltà che si incontrano, alla Divina Commedia: il percorso prevede numerosi ostacoli, ma - allo stesso tempo - se dimostri dedizione e forza d’animo, ti porta a crescere ed
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amare sempre più la fotografia. Le tappe di questo percorso (che ovviamente non è detto che valgano per tutti, questa è la mia esperienza), potremmo dividerle così: 1. “Che bello voglio fare il fotografo”: dopo questa prima affermazione comincia la salita, si comincia prima di tutto a bussare alle porte dei colleghi elemosinando insegnamenti (facendo dunque molta gavetta), rincorrendo i vari fotografi e stressandoli sino a che non ti portano con sé (credo che qualcuno mi sogni ancora di notte). Poi, quando si prende un po’di dimestichezza, bisogna fermarsi e chiedersi: 2 “Cosa voglio fare della e nella mia vita?”. Da questa semplice (quanto complessa) domanda si decide che via prendere e quale specializzazione. Io, assodato che volevo fare il fotografo, optai per la fotografia di moda. Da quel momento cercai, compatibilmente con le mie finanze e le mie prospettive, l’istituto più consono a me, mi misi a studiare interagendo con i docenti e cercando di apprendere il più possibile. Finiti gli studi: 3. “Mettere in pratica ciò che hai imparato”. Io iniziai dall’attrezzatura fotografica, ottimiz-
zandola per il mio settore, e pian piano iniziai a ricercare clienti e agenzie. Le difficoltà sono state ovviamente tante. La prima è stata capire se veramente volevo fare il fotografo quando i miei coetanei sognavano tutt’altro. Subito dopo occorreva affrontare il mondo reale: “Aiuto devo mettermi in regola con il fisco”, “Aiuto devo trovare il commercialista”, e poi dopo tutto questo la vera grande difficoltà: “Trovare i clienti”… E sì, perché per quanto sia bello fotografare, i clienti ti permettono di sopravvivere e finalmente, quando li trovi, si apre un mondo di lucide follie, tra colloqui, lavori urgenti e… tante, tante riunioni. Quanto è stato importante per te trasferirti a Milano? Per me andare a Milano a studiare è stato molto importante in quanto mi ha aiutato a capire come fosse questo mondo, anche se da pendolare, in quanto non avevo il budget per potermici trasferire. Inoltre, mi è servito anche per conoscere molti futuri amici e colleghi, con quali ci confrontiamo spesso per capire come questo mondo si sta evolvendo, discutendo su problematiche comuni e aiutandoci a vicenda. | 21
La Camera Chiara servizi di moda? Luce, location, colore… In una fotografia tutti gli elementi sono importanti. Forse privilegerei la luce, in quanto grazie ad essa tutto si crea e tutto si distrugge: in particolare trovo sia molto importante poter controllare al luce in tutte le sue sfaccettature. Hai delle regole, dei caratteri che si ripetono nelle tue fotografie? Regole vere e proprie no, in realtà cerco di trasmettere qualcosa da ogni scatto, giocando molto sulla luce abbinata agli abiti “outfit” che ritraggo, ricercando molto l’eleganza e la pulizia dell’immagine. A pensarci bene, però, forse una regola che prediligo c’è: scattare il più correttamente possibile, come se Photoshop non esistesse. Sempre di più vedo foto scattate approssimativamente, foto che poi, dopo migliaia di ore di ritocco, diventano decenti. In questi casi mi soffermo a pensare che basterebbe dedicare un secondo in più a riflettere sullo scatto per evitare tante ore di post-produzione.
Cos’è per te la fotografia di moda? La fotografia di moda per me è la rappresentazione della bellezza e dell’eleganza, ambientata e contestualizzata nel mondo in cui viviamo. E’ immergersi all’interno della società, mettendo eleganza e piccoli dettagli quasi impercettibili che danno una nuova chiave di lettura a ciò che ci circonda. C’è un elemento che reputi fondamentale per i tuoi
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C’è un’immagine di donna o di uomo che preferisci creare nelle tue fotografie? Io ricerco l’eleganza e la sinuosità dei movimenti. L’idea di donna che vorrei trasmettere è quella di una donna elegante, sicura, romantica, educata e allo stesso tempo frizzante. Una donna che ti colpisce con uno sguardo e che ti conquista nei modi di fare. Quanta libertà ha un fotografo di moda nel creare un servizio? Sei tu a scegliere le modelle o i modelli da fotografare o le location? Questa è una bella domanda: dipende.
La Camera Chiara Se parliamo di realizzare un progetto editoriale la libertà è molta, in quanto lo costruisci insieme al team con cui scegli di lavorare. Quando si tratta invece di dover realizzare servizi per Aziende, spesso e volentieri la libertà è limitata. Tutto viene progettato e curato con molta precisione, ma occorre rispondere alle esigenze di altri, come per esempio i responsabili del brand, la proprietà, i responsabili del marketing e gli art-director. In questo caso il lavoro è più complesso ma, allo stesso tempo, può dare anche molta soddisfazione perché tutto è curato, anche nei micro dettagli. Per quanto riguarda la scelta delle modelle, dei modelli o delle location dipende, alcune volte la scelta viene demandata al fotografo, altre volte provvede il committente. Da cosa trai ispirazione per le tue fotografie? C’è un fotografo che consideri “un maestro”? Le ispirazioni mi arrivano dal mondo che mi circonda in quanto, in ogni angolo, è possibile vedere una piccola scena da cui ispirarsi per creare qualcosa. Per quanto riguarda i fotografi - invece - non ce n’è uno in particolare ma cerco in generale, perché tutti ti insegnano qualcosa. In particolare ammiro molto Oliviero Toscani per i suoi lavori in studio e Richard Avedon per la sua fotografia in esterno. Seguo anche Giampaolo Sgura e Patrick Demarchelier: osservo i backstage e le immagini di Annie Leibovitz che realizza dei servizi sempre affascinanti e lo stesso dicasi per Peter Lindbergh. Quali obiettivi sono più idonei per la fotografia di moda? Dipende dalla situazione e dal momento. In studio prediligo l’85 mm f/1.8 in quanto è un’ottica magnifica, sia per le sue proporzioni in scatto sia per al sua capacità di adattarsi. Altra ottica molto interessante, soprattutto se si scatta in esterno con molto spazio ed in un contesto cittadino, è il 300 mm f/2.8 in quanto crea degli sfondi molto interessanti. In realtà non esiste un’ottica giusta o una sbagliata: | 23
La Camera Chiara tutto dipende dalla situazione e da cosa si vuole trasmettere. Qual è l’attrezzatura che consigli a chi si avvicina a questo genere di fotografia? Ancora prima di acquistare la miglior attrezzatura sul mercato, consiglio di usare l’occhio ovvero allenare l’occhio a ricercare nell’ambiente una possibile immagine. Per questo mi sento di consigliare di iniziare utilizzando ottiche fisse e non zoom in quanto i primi richiedono uno maggior sforzo nel ricerca della composizione dello scatto. E poi sostanzialmente scattare come se si avesse una reflex a pellicola e non un mitragliatore da guerra. Quale consiglio ti senti di dare ai giovani fotografi che vogliono intraprendere seriamente questo mestiere? Di impegnarsi, di combattere e di non accettare di scattare o produrre qualsiasi cosa gratuitamente
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(o meglio in cambio della classica frase: “Tranquillo avrai visibilità”) in quanto il tempo che si dedica a fare qualsiasi cosa lo togliete alle persone care, quindi il vostro tempo ha un valore. Altro consiglio è di leggere e guardare il più possibile tutto e non fossilizzarsi su banalità, come per esempio la marca della fotocamera. In ultimo, se decidete di partecipare a dei workshop abbiate cura di verificare che siano tenuti da professionisti seri. Il sogno nel cassetto che vorresti vedere realizzato nei prossimi 10 anni? Ce ne sono tanti: forse il più importante è quello di non smettere mai di crescere e di imparare e non dire mai di essere arrivato. Ma soprattutto è quello di continuare a lavorare amando la fotografia, cosa che è sempre più complicata. Un sogno più veniale, invece, è quello di poter scattare in medio formato più spesso.
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La Camera Chiara
Tecnica
La composizione III parte
© Agnieszka Slowik Turinetti
di Max Ferrero con la collaborazione di Fotozona.it
La visione che abbiamo delle foto, non ce ne rendiamo conto, è influenzata in modo sensibile dai bordi dell’immagine. Senza accorgercene, ai lati sinistro e destro diamo una valenza d’inizio e fine, mentre ai lati superiore e inferiore assegniamo una funzione di peso: ciò che va verso il basso è pesante, al contrario, ciò che si proietta verso l’alto, è leggero e impalpabile. Quando osserviamo una semplice foto, che sia a monitor o stampata su carta, il nostro cervello comincia a elaborare un impianto visivo molto articolato basandosi su informazioni semplici e incomplete a due dimensioni. Sembra quasi che una buona fotografia, per quanto difettosa, possa entrare nell’immaginario 26 |
collettivo con una facilità superiore a qualsiasi altra forma di creazione visiva. La foto riesce a essere esaustiva ma anche evocativa, informa ma ha bisogno di un cervello in grado di completarla. Può capitare di osservare immagini dalla semplicità disarmante e chiedersi: “Perché mi piace”? La risposta è data proprio dalle strette limitazioni che la fotografia impone a se stessa: un solo istante in una piccola porzione di spazio. Purtroppo non sapere cogliere l’istante o inquadrare male l’attimo catturato significa perdere la magia dello scatto, complicare la lettura dell’osservatore e lasciarsi sfuggire l’attenzione di chi guarda e vorrebbe apprezzare.
© Luca Scaramuzza/fotozona
© Agnieszka Slowik Turinetti
La Camera Chiara
Nella foto di esempio, la Mole Antonelliana riesce a essere alleggerita perché posta al centro dell’inquadratura, luogo di massimo equilibrio statico. La sua forma filiforme si contrappone all’orizzontalità del tetto diventando il fulcro della stessa fotografia. Ne esce leggera, centrale e unico soggetto dell’intera composizione.
Il peso fotografico del concetto Quando parliamo di peso, non ci riferiamo solamente a un discorso “reale” di massa o gravità. Il peso fotografico dipende da moltissimi fattori, alcuni in relazione con l’esperienza diretta della vita reale, altri imposti dal fotografo attraverso degli espedienti tecnici e compositivi. E’ ovvio pensare che a un oggetto grande sia logico assegnargli una valenza di pesantezza ma con i dovuti accorgimenti questa sensazione può essere attenuata o incrementata. Potremmo dire che il peso fotografico dipende in modo direttamente proporzionale all’importanza dell’oggetto. Ancora meglio potremo dire che il peso è tanto maggiore quanto più un oggetto si trasforma in soggetto. Il soggetto principale di una foto avrà sempre maggior peso rispetto agli altri, che siano soggetti secondari oppure oggetti presenti nella composizione. La formulazione e l’importanza di un soggetto avvengono attraverso alcuni parametri di riconoscimento:
© Alessandro Andreucci/Fotozona
Il palazzo massiccio e pesante poggia sul fondo della composizione. Il palo, che di sua natura non è proprio così vaporoso, appare leggero e filiforme pendendo dall’alto come un lampadario, slegato da qualsiasi orizzonte terreno. La perfetta diagonale sullo spigolo sinistro suggerisce una particolare cura nella scelta compositiva giustificando perfettamente la tendenza della foto a esaltare le fughe prospettiche dovute all’inclinazione verso l’alto della macchina fotografica.
• La figura umana, facilmente riconoscibile, diventa per l’osservatore uno specchio di se stessi. Fornisce misure, distanze e paragoni. La figura antropica è in definitiva la prima che abbiamo osservato all’atto della nostra nascita, è la massima forma di attrazione per uno sguardo perché immediatamente distinguibile anche da soli piccoli particolari.
Tutti gli oggetti sono visualizzati in secondo piano rispetto alla doppia figura umana. Quella del manichino sovrasta quella “reale” perché messa in risalto dalla maggiore luminosità. L’illuminazione, a parità d’importanza, sottolinea il vero soggetto mettendolo in risalto. Un po’ come a teatro quando per evidenziare il personaggio principale si usa il fascio di luce concentrato chiamato “occhio di bue” o seguipersone.
• Il bianco e il chiaro in genere si associano all’etereo, all’incorporeo, fornisce sensazioni di leggerezza e intangibilità. Le forme nere o scure sono materiche e pesanti, reali e corporee. Tutto ciò che è chiaro sarà associato allo sfondo, mentre le figure scure prenderanno il ruolo di soggetto. | 27
© Roberto Orlando/Fotozona
© Angelo Abate/Fotozona
La Camera Chiara
Il tramonto, con tutto il suo carico di enfasi cromatica diventa sfondo alla presenza delle due figure umane anche se in silhouette. Nonostante non ci siano posture o posizioni esaltanti, la composizione è piacevole perché facilmente leggibile.
© Alessandro Landozzi/Fotozona
• Il colore è decisivo per la definizione di peso. La forza dei colori è tendenzialmente soggettiva ma è indubbio, soprattutto nelle frequenze legate al rosso, che alcuni colori sono universalmente più forti di altri. Sia per collegamenti concettuali alla vita reale (sangue - fuoco) sia per motivi fisici (il rosso è più visibile e forte alla presenza di nebbia o forte foschia).
Un piccolo segno grafico rosso immerso in un mare di verde diventa l’elemento significante di tutta la foto nonché il segno per distinguere cosa il fotografo abbia ritratto: due fanali di stop riflessi su di una strada sotto la pioggia incessante
Il peso fotografico della posizione Detto e spiegato quali possono essere i concetti che “appesantiscono” un elemento visivo ora dobbiamo parlare anche dell’equilibrio che ne consegue se essi sono posti oppure no nella giusta e corretta posizione. Se una sola area della fotografia è “riempita” da elementi che hanno un peso, la foto appare squilibrata. Se in un’area della fotografia appaiono elementi inutili o di disturbo alla composizione s’inseriscono dei pesi anomali che sbilanciano l’osservazione dell’immagine e quindi la sua lettura.
La mancanza di un vero soggetto individuabile porta l’osservatore a basarsi completamente sul colore rosso vibrante. Il peso emotivo del colore è bilanciato dalla luminosità del sottopassaggio. Il nero in primo piano, sovradimensionato rispetto al resto, appare equilibrato e utile grazie alla presenza della luminosità cromatica che diventa perno dell’intera foto.
• Quando in una foto c’è una preminenza di elementi uguali a evidenziarsi è il particolare che si stacca dalla massa. Sembra quasi che non sia il bello ad attrarci ma il diverso, la rottura, lo stacco netto e diretto alla monotonia. Ad attribuire un peso non è la percentuale di spazio occupato ma la differenza con la massa identica. 28 |
© Mauro Trolli/Fotozona
La Camera Chiara
Una prima soluzione al dilemma compositivo si può trovare adottando un formato 16:9 tagliando l’elemento di maggior disturbo: il lampione. Le frasche dell’albero non sono state eliminate del tutto, ma la loro visione ne è limitata. La foto non è perfetta ma è decisamente migliorata rispetto allo scatto originale. La fotografia è saper rinunciare a porzioni di realtà, tagliare sapientemente per creare nuove prospettive.
La composizione iniziale è stata completamente stravolta. Con il formato quadrato si è deciso di dare importanza all’elemento che inizialmente sembrava di disturbo. Il lampione bilancia parzialmente la parte sinistra dell’immagine e incrementa il senso d’instabilità dell’unica lampada ora presente nell’inquadratura. Il risultato finale è un equilibrio visivo che tende a esaltare la tensione del filo sospeso senza cercare la simmetria statica presente nelle prime due versioni.
© Stefanizzi Fioravante
L’autore voleva incentrare l’attenzione sui due lampioni sospesi creando una forma di attrazione mediante un equilibrio sospeso ad un filo. I due palazzi sono degne cornici ma la presenza di un albero e della punta di un lampione, in basso a sinistra, squilibrano tutto l’impianto visivo introducendo delle anomalie che disturbano e complicano l’osservazione di tutta la foto.
© Salvatore Giordano
Le silhouettes si staccano nettamente dallo sfondo intenzionalmente chiaro e sovraesposto. La figura imponente del primo albero si frappone tra noi e il sole come un abbraccio protettivo che impedisce all’astro di abbagliarci totalmente. La sua figura, leggermente inclinata verso destra è perfettamente bilanciata da altri due alberi più distanti e piccoli che si inclinano in posizione contraria all’attore principale della scena. Gli alberi che si poggiano su una sottilissima striscia di terra rimangono leggeri e mistici, non si appesantiscono eccessivamente lasciando anche al cielo un minimo d’importanza osservabile anche dal tono grigio chiaro.
La figura del bambino, sebbene dipinta e non reale, e l’imponenza del palazzo soverchiano il decollo del velivolo. Nonostante ciò l’aereo riesce a essere visibile e facilmente individuabile diventando protagonista, anche se non assoluto, della fotografia. Ciò grazie sia al gioco di rimandi direzionali sia ai
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La Camera Chiara
del vero orizzonte con quello fittizio del parapetto. La bellezza dei colori e della luce aggiunge il tocco necessario per farne un ottimo scatto.
Sbilanciare per equilibrare L’equilibrio dei pesi permette la creazione di foto che hanno una visualizzazione facilitata, non creano tensioni e non sviluppano eccitazioni visive nell’osservatore. Realizzare una foto equilibrata non equivale sempre ad avere la foto giusta. Sbilanciare ogni tanto l’organizzazione dei contenuti e dei soggetti aiuta sensibilmente la dinamizzazione delle foto costringendo l’osservatore a spaziare su tutta la superficie dell’immagine.
Con un piccolo taglio l’autore ha compiuto un ribaltamento di pesi in grado di cambiare lo stesso significato dello scatto. Nel primo, la presenza di un palazzo in stile liberty sul litorale ligure appare imponente e soverchiante. Il gioco di quadruplo orizzonte si perdeva e la nave, anche per una questione di grandezza, non riceveva il giusto valore. Eliminando la villa si assegna un maggior peso alla nave, la simmetria dei pali aggiunge un ordine visivo che sottolinea il gioco
Le scale sono perfettamente orizzontali, il loro peso è distribuito in modo omogeneo e statico. La sensazione di pendio veloce è dato dalla posizione dei piedi che, oltre ad essere leggermente mossi, sono sbilanciati in modo deciso sulla sinistra della foto. Il cervello assegna a questa scelta una sensazione di squilibrio che anima l’immagine rendendola viva e in continuo cambiamento. La figura umana concentra l’attenzione a sinistra ma la ricerca del nitido riporta l’occhio a destra.
© Andrea Spera/Fotozona
© Roberto Orlando/Fotozona
pesi apparenti” della foto sembrano suggerirci. L’occhio rimbalza velocemente da un punto all’altro dell’immagine trovando il particolare fondamentale che trasforma uno scatto banale in un gioco visivo degno della migliore street photography. Il braccio del bambino rinvia l’occhio verso destra, i raggi del graffito creano movimenti in diagonale che sospingono l’occhio verso l’indicazione del ragazzo o la cima del palazzo. La diagonale del tetto discendente ci riporta alle ali dell’aereo che tenta faticosamente di librarsi da questa costruzione piacevole e “imprigionante”.
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La Camera Chiara
© Pierlorenzo Marletto
Un prato in discesa riesce a comunicare la sua pendenza con piccoli e sagaci accorgimenti. Nella foto l’autore lascia due porzioni di ombre per dare le prime indicazioni; sceglie un prato con motivi grafici ondeggianti e utilizza un albero in grado di spezzare la monotonia della texture ma anche per suggerire e rilevare il declivio attraverso la sua stessa inclinazione nonché con la posizione decentrata a destra. L’occhio sembra scivolare verso il basso creando una sensazione che avremmo provato nella scena reale. L’albero posto al centro avrebbe distrutto l’interesse ricercando un equilibrio inutile.
© Renata Busettini
Il raccoglitore di strada, vero soggetto della foto, diventa solo una fugace figura che attraversa un mondo colorato e fantasioso fatto di graffiti e murales. La fatica del lavoro quotidiano è mosso, sbilanciato e in direzione contraria alla normale lettura sinistra - destra. Tutto diventa più difficile e faticoso, come la vita stessa dell’abitante della metropoli brasiliana.
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La Camera Chiara
Arte
Vivian Maier
di Giuliano Quaranta
“Credo che nulla sia destinato a durare per sempre. Dobbiamo fare spazio ad altre persone. È come una ruota. Una volta che ci sali su devi andare avanti sino in fondo. Dopo arriverà qualcun altro che prenderà il tuo posto, e così via…” – Vivian Maier”
In una foto la sua immagine si riflette da uno specchio all’altro. Quasi all’infinito. Un super selfie ante litteram, verrebbe da dire: lei, la sua Rolleiflex, un orologio e dei pacchi. C’è la sintesi di una vita in questo scatto senza tempo. Una vita che avrebbe dovuto restare segreta. Vissuta e finita lì. Invece il caso ci si è messo di mezzo e ha voluto che venisse fuori. Perché Vivian Maier è per l’anagrafe una bambinaia, mezza francese, per le famiglie benestanti di Chicago. Strana, misteriosa, per certi versi eccentrica, ma fondamentalmente riservata, se non invisibile. E così lei voleva restare. Il racconto inizia nel 2007 a Chicago con un storico, John Maloof, che volendo realizzare una ricerca sulla città ed avendo poco materiale iconografico a disposizione, comperò all’asta per 380 dollari il contenuto di un magazzino espropriato ad una donna che aveva smesso di pagare i canoni di affitto; da casse e va32 |
ligie accatastate emersero ben presto, oltre ad una mescolanza di oggetti compulsivamente conservati (cappelli, vestiti, scontrini, lettere, vecchi quotidiani, biglietti ferroviari, e perfino assegni di rimborso delle tasse mai riscossi, nonché una scatolina piena di denti), anche un “tesoro” composto da 100.000 negativi non ancora sviluppati, 2000 rullini in bianco e nero e 700 a colori, oltre a 150 film in 8 e 16 mm. Dopo aver stampato alcune foto, Maloof le pubblicò su Flickr ottenendo un interesse entusiastico, virale, e l’incoraggiamento della community ad approfondire la sua ricerca. Eppure, digitando il nome di Vivian Maier nei motori di ricerca non si otteneva alcun riscontro. Iniziando l’opera di catalogazione del materiale in suo possesso, arrivò ad attribuire un volto ed una personalità, seppur con molte parti in ombra, a colei che stava dietro agli scatti. Trasformando in breve
La Camera Chiara
tempo una donna schiva al limite dell’anaffettivo, in una fotografa proiettata nell’olimpo dei grandi fotografi del Novecento. Il giallo si infittì, ma si aprì un mondo. Iniziarono le ricerche, i pezzi del puzzle si composero lentamente uno dopo l’altro. E venne fuori la sua vita: una tata con qualche mania, dei segreti, e una passione nascosta e solitaria per la fotografia. Talmente nascosta che mai pubblicò una foto e mai fece vedere i suoi lavori a qualcuno. La baby-sitter nel suo giorno libero metteva la sua Rollei al collo e girava per le strade. Con uno sguardo curioso, a volte malinconico, altre volte ironico, si soffermava sui piccoli dettagli, le imperfezioni, le persone, racconti di vita che le scorreva davanti agli occhi. Ma c’era soprattutto lei, che spuntava da uno specchio, che si rifletteva su una vetrina, che s’intravedeva in un riflesso. Una donna in continua ricerca
d’identità, che “giocava” con la sua medio-formato, con il caratteristico visore per l’inquadratura posto nella parte superiore. «Perfetta per chi vuole restare invisibile» [cit.]. È stata una vita non facile, quella della Maier. La vera storia della nostra protagonista inizia a New York, dove nacque il 1º febbraio 1926. Dopo tre anni i genitori si separarono e la piccola Vivian si stabilì con la madre Maria, di origine francese, nell’appartamento della fotografa professionista Jeanne Bertrand, in quel momento agli onori della prima pagina, e forse fu proprio allora che la passione per la fotografia marchiò indelebilmente la Maier. Parte dell’infanzia di Vivian si svolse in Francia nello Champsaur. Si sa che tra il 1932 e il 1933 Maria Maier e la figlia si stabilirono nelle Alte Alpi, non molto lontano da Briançon. In quel periodo Vivian parla fran-
cese e gioca con i bambini della sua età; sua madre, scatta alcune fotografie che testimoniano del loro soggiorno lì. Il 1º agosto 1938 le due donne ripartirono per gli Stati Uniti ristabilendosi a New York. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1950-1951, Vivian tornò in Francia per mettere all’asta una proprietà che le era stata lasciata in eredità. La giovane donna ripartì nell’aprile del 1951 per New York dove iniziò a lavorare come baby-sitter. Con il ricavato della vendita, comprò una fotocamera eccellente, una Rolleiflex professionale, e viaggiò nel Nordamerica e a Cuba. Nel 1956 si stabilì definitivamente a Chicago, dove continuò a fare la governante per bambini. Era stata assunta dai coniugi Gensburg per prendersi cura dei loro tre ragazzi. Vivian non prediligeva fare la tata, ma, non sapendo che altro fare, quello fu il mestiere che esercitò per quarant’anni. I bambini, pe| 33
La Camera Chiara raltro, l’adoravano: per Lane Gensburg, Vivian «era come Mary Poppins», non parlava mai da adulta ai bambini, ed era determinata a mostrare loro il mondo al di fuori del ricco sobborgo in cui vivevano. Per 6 mesi tra il 1959 e il 1960 Vivian intraprese da sola un viaggio intorno al mondo, sempre accompagnata dell’inseparabile macchina fotografica. I suoi percorsi alla ricerca dell’esotico la costrinsero a cercare l’insolito anche nel cortile di casa. Aveva un bagno privato che le servì anche come camera oscura; ciò le permise di elaborare le sue stampe e sviluppare i suoi rollini in bianco e nero, dando libero sfogo alla sua passione. Diventati grandi i tre Gensburg, Vivian Maier continuò la sua attività in altre famiglie con bambini piccoli. Da quel momento smise di sviluppare e di elaborare i suoi negativi e successivamente decise di passare alla fotografia a colori con diverse fotocamere, tra cui una Kodak e una Leica IIIc, scattando in gran parte su pellicola Kodak Ektachrome da 35 mm. Teneva le sue cose, circa 200 scatole di materiale, in uno spazio concesso dai suoi datori di lavoro; la maggior parte erano fotografie o negativi, ma anche giornali, “accatastati in pile alte sino alla spalla”, e qualche volta registrava audiocassette di conversazioni avute con le persone che aveva fotografato. Negli anni ‘80, le ristrettezze finanziarie e la mancanza di stabilità bloccarono la Maier, ed i rollini non sviluppati cominciarono ad accumularsi, mentre si spostava da una famiglia all’altra; iniziò a mostrare, anche nelle sue opere, una compulsione a conservare le cose che avrebbe trovato in bidoni della spazzatura o buttate in terra ai margini del marciapiede. Mentre l’età avanzava, le difficoltà economiche si aggravavano. Le sue casse, da ultimo, andarono a finire
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in un magazzino preso in affitto, il cui noleggio non poté essere sostenuto a lungo. Alla fine degli anni ‘90 i fratelli Gensburg, con i quali aveva per molto tempo mantenuto un legame, la rintracciarono in un piccolo alloggio economico e la trasferirono in un grazioso appartamento vegliando su di lei. Ma sul finire del 2008, ebbe un incidente cadendo sul ghiaccio e battendo la testa, per cui fu ricoverata in ospedale. I Gensburg per garantirsi che ricevesse le migliori cure, la fecero trasferire in una casa di cura. Nonostante queste affettuose attenzioni, Vivian Maier morì poco tempo dopo, il 21 aprile 2009, senza che né lei né i Gensburg sapessero che due anni prima, a causa degli affitti non pagati, il suo box era stato messo all’asta, e prima che John Maloof, che cercava sue notizie e voleva valorizzare la sua opera, potesse trovarla e incontrarla. Purtroppo ancora molti dei dettagli della sua vita restano sconosciuti. Comunque, da qualsiasi parte si faccia iniziare la storia, la figura di Vivian Maier rimane tuttora avvolta nel mistero: restano infatti insoluti tanti interrogativi, non solo riguardanti la sua vita privata, quanto su come lei, solitamente riservata, avrebbe reagito a tutta l’esposizione mediatica e soprattutto alla manipolazione dei suoi negativi. Non resta allora che immergersi nelle sue immagini, scatti capaci di isolare dalla commedia umana in scena nelle strade di New York e Chicago, un gesto, un fugace scambio di sguardi, il broncio di una bambina. Con la sua falcata marziale percorreva quartieri eleganti e bassifondi, passando dall’eleganza altezzosa di giovani signore, alla sanguigna spontaneità degli immigrati, fino a cogliere la grigia rassegnazione di homeless e mendicanti. Aveva la capacità di entrare
La Camera Chiara re finalmente risposta alla domanda che, in una delle sue registrazioni, rivolse a un bambino: «E ora, dimmi, come si può vivere per sempre?»
con la macchina fotografica nella zona della riservatezza e degli affetti. Nel momento in cui lei superava questa soglia, si può dire che la fotografia le apparteneva, che la fotografia era dentro di lei. Ma la fotografa era anche capace di utilizzare i codici dell’informe, sovvertendo generi e categorie, addentrandosi nel degrado sociale e lasciandosi incantare dall’estetica del rifiuto e dell’objet trouvé. Ecco allora quell’indugiare dell’obiettivo nei cestini della spazzatura, le passeggiate al mattatoio insieme ai bimbi che accudiva, e le sortite nei luoghi teatro di fatti di cronaca nera. Tra le centinaia di foto finora pubblicate però,
Lo stile fotografico Il fatto che la Maier abbia trascorso gran parte della sua giovinezza in Francia probabilmente affinò la sua capacità visuale sulla società e le città americane. La fotografa Mary Ellen Mark ha paragonato il suo lavoro a quello di Helen Levitt, Robert Frank e Diane Arbus.Nel 1952, l’opera di Vivian cambiò radicalmente. Iniziò a riprendere con un formato quadrato. La costosa Rolleiflex che acquistò fu un salto enorme dalla fotocamera amatoriale usata inizialmente. Il suo occhio era cambiato. Stava catturando la spontaneità di scene di strada con una precisione che ricordava Henri-Cartier-Bresson, ritratti di strada evocativi di Lisette Model, e composizioni fantastiche simili a quelle di Andre Kertesz. Fu l’anno in cui lo stile di Vivian cominciò a prendere forma. Le fotografie più famose raffigurano scene di strada a Chicago e New York durante gli anni ‘50 e ’60: ricchi acquirenti dei grandi magazzini di Chicago a passeggio, che chiacchierano in tutta la loro eleganza davanti all’obiettivo della Maier. Anche se i soggetti che più ci colpiscono sono quelli di persone ai margini di quell’America ricca e di successo degli anni del boom: i bambini, le cameriere nere, i barboni sfatti sulle verande dei negozi. Molti sono gli scatti di passanti cat-
colpiscono soprattutto gli autoritratti in cui la figura di Vivian Maier, che mai si concesse un vezzo estetico, entrava nel flusso della narrazione, moltiplicandosi e frammentandosi nel gioco di riflessi di specchi e vetrine. È in questa intima ricerca e de-costruzione della propria identità che Vivian si rivela e pare trova-
turati in momenti casuali ma che danno comunque un impatto ed emozionano. Poiché la Maier utilizzava quasi sempre il medio formato piuttosto che una fotocamera 35 mm, le sue foto presentano più dettagli che non in quelle della maggior parte dei “fotografi di strada”. Inoltre che ci | 35
La Camera Chiara sono un numero elevato di autoritratti nel suo lavoro, in tante ingegnose permutazioni, come se stesse controllando la propria identità o interpolando se stessa nell’ambiente. Un personaggio oscuro, che ha spesso fotografato la sua ombra, forse un modo di essere lì e allo stesso tempo non del tutto lì. Le fotografie della Maier richiamano molti scatti famosi dell’ultimo secolo, e tuttavia hanno un’estetica propria; si possono aggiungere alla storia della street photography del 20° secolo sommando una meticolosità quasi enciclopedica, virando vicino ai grandi fotografi a cui quasi tutti possono pensare, e poi scivolare in un’altra direzione. Eppure mantengono un elemento distintivo di calma, una chiarezza compositiva e una gentilezza caratterizzata da una mancanza di movimento improvviso o di emozioni estreme.
La rivelazione ed il mito di Vivian Maier Nei suoi ritratti allo specchio, tanti, quasi compulsivi, Vivian Maier non si guarda pressoché mai negli occhi. Cioè, non ci guarda mai negli occhi. Evita il nostro sguardo. Come se non esistessimo. Guarda forse i suoi occhi riflessi nello specchio, ma non guarda in camera, quindi - e da fotografa lo sa bene - non guarda gli occhi del suo doppio fotografico, che di conseguenza non guarderà noi. Il suo sguardo ci passa, letteralmente, sopra la testa. In quegli autoritratti si presenta senza possibilità di equivoco come fotografa, la Rollei all’ombelico in posizione di tiro, ma allo stesso tempo si nega, e ci sfugge. Passa oltre: non siamo per lei. Va oltre. Dove? E’ la Mary Poppins della fotografia, no? Sì, e il paragone benché abusato, ha una sua verità profonda. Perché, in quella fiaba che ci affascinò da bambini e poi anche da adulti, l’angelica Mary Poppins che scende dalla sua nuvola, dove potrebbe passare l’eternità a incipriarsi il nasino? Non lo sap-
piamo. Lo fa e basta, elargisce generosamente la sua grazia ai mortali e poi se ne torna fra le nuvole, senza dare spiegazioni. Così Vivian. Le ragioni profonde della sua vocazione fotografica ci restano oscure. Soprattutto, ci resta oscura la motivazione della sua scelta di rimanere muta, solitaria, incomunicante. La domanda “Per chi fotografava Vivian Maier?” non ha ancora una risposta soddisfacente. Per lei medesima forse? Si scrive sempre per qualcuno, si fotografa sempre per qualcuno, anche se costui potrebbe essere una figura così ideale da non apparire mai al mondo. Ma questo fatto, che Vivian abbia conservato gelosamente tutte le proprie immagini, non le abbia mai buttate, bruciate, non significa forse che attendeva il loro destinatario? In fondo, se possiamo vederle oggi, è proprio perché Vivian cocciutamente le preservò, stivandole in un magazzino che fu venduto perché lei era ormai sul lastrico. Il caso ha deciso che avessero in noi quel lettore che Vivian non aveva ancora identificato. Quel che è certo, è che non pensava che fosse giunto il momento di mostrarle a nessuno. Neppure a se stessa. Certo, scelse e stampò personalmente, fino a quando ebbe disponibilità, un certo numero di negativi, che sono sicuramente le uniche fotografie che portino a buon diritto la sua firma. Una foto è d’autore quando l’autore la autorizza. Comunque, neanche quelle ebbero accesso allo spazio della pubblica visione. Nessuno può negare che la stragrande maggioranza delle fotografie non furono autorizzate dal riconoscimento della loro autrice. Oggi sono pubbliche: ma autorizzate da autori diversi da lei , ovvero dai proprietari di quell’archivio, che hanno tuffato le mani in quel mare magnum estraendone le foto più belle. Ma più belle per chi? Per loro? Per noi? Per Vivian? È dunque il mistero glorioso di una persona chiamata Vivian che trionfa. La sua vita come roman| 36
La Camera Chiara zo dell’arte involontaria, come ennesima incarnazione dell’artista romantico sconosciuto e incompreso. Voleva forse tenere nascosta una parte della sua identità. Ogni tanto registrava dei pensieri su cassetta e proprio in una di quelle registrazioni vocali disse: “Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo”. Ecco, in quella frase è racchiuso il significato della sua opera: Vivian Maier cercava se stessa attraverso l’arte della fotografia. Per questo non mostrava il suo lavoro a nessuno, perché quel lavoro rappresentava il suo mondo più intimo. Un enigma, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma. Il “teatro di vita” di Vivian è passato davanti ai suoi occhi, per la sua macchina fotografica, per catturarne i momenti più epici. Ma che cosa desiderava cogliere delle persone che fotografava? Il mistero e i piccoli segreti che ci sono in ognuno di noi. Era come se volesse creare un gioco di specchi tra se stessa e gli individui che immortalava: fotografava di frequente persone sole, emarginati, disoccupati e lo faceva con empatia. Sì, questo è il punto: aveva uno sguardo empatico. Un’empatia difficile da comprendere: dal documentario ‘Finding Vivian Maier’ risulta che la Maier fosse una donna poco socievole, chiusa, riservatissima. E dalle testimonianze di quasi tutti coloro che l’hanno avuta come baby sitter affiora il ritratto di una donna a suo modo sociopatica, forse a causa di un trauma su-
bito in gioventù, ipotizzano alcuni degli intervistati. Era una socialista, femminista, un critico cinematografico, quel tipo di persona che parla in modo chiaro e diretto. Donna eccentrica, strana, sola e molto solitaria, da quel che risulta non aveva veri amici né è mai stata fidanzata. Ma non era una pazza. Crediamo che Vivian sapesse di essere una grande fotografa. Ma per mille coincidenze, e forse per la grande paura di essere rifiutata, non ha avuto visibilità. I racconti da parte delle persone che la conoscevano sono tutti molto simili: bizzarra, forte, supponente, altamente intellettuale, e molto riservata. Indossava un cappello floscio, un abito lungo, un cappotto di lana, e scarpe da uomo, e camminava con un passo imponente. Un’originale e imperturbabile impenitente. La fotografia era quasi l’unico modo in cui interagiva con gli altri, fatta eccezione per le persone di cui si occupava. La storia di questa tata che adesso entusiasma il mondo con le sua fotografie, e che quasi per caso ha immortalato alcune delle meraviglie e le peculiarità delle metropoli americane più interessanti della seconda metà del ventesimo secolo, è apparentemente al di là di ogni immaginazione. Le persone per cui ha lavorato per anni, la cosa più vicina a una famiglia che abbia conosciuto, l’hanno fatta cremare e hanno sparso le sue ceneri nei campi in cui portava i bambini. Vivian era uno spirito libero e seguì la sua curiosità ovunque essa la portava. E’ quasi come se avesse lasciato un puzzle perfettamente organizzato per essere messo insieme solo dopo la sua morte.
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Storia Portfolio
Marcello Di Leo
“La traccia” - Montagna in bianco e nero letture a cura di Enrico Andreis
Lasciare il proprio rifugio nella neve per seguire una traccia verso nuovi orizzonti. Attraversare boschi, percorrere creste, sopra i laghi gelati, affrontare ghiacciai, a rimirare le ombre, verso l’ignoto, ciascuno inseguendo il proprio sogno. Queste parole e le immagini proposte esprimono le sensazioni di chi, appassionato di montagna, in particolare quella invernale, percorre paesaggi resi immacolati dal candore della neve. La traccia che il nostro passaggio lascia sulla neve rappresenta il percorso di ognuno verso un sogno, un desiderio che si spera si realizzi, una luce che, contrapponendosi alle ombre, fa affrontare le più varie difficoltà. La traccia è l’effimero lascito del nostro passaggio, del percorso che dobbiamo inventarci ogni giorno e che soltanto seguendola a posteriori fa capire, a chi la osserva, qual è la meta di ciascuno, le gioie e le difficoltà che sono state incontrate nel percorrerla, ben sapendo che un colpo di vento o una nevicata le cancellerà lasciando nuovi spazi intonsi a chi verrà dopo. Questo lavoro è ovviamente giocato sul fatto che la montagna invernale non offre elevati cromatismi ma spettacolari giochi di luci ed ombre che, perciò, rendono l’uso del bianco e nero perfetto per esprimere le sensazioni che si provano vivendola. | 39
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Nella fotografia di montagna, per chi ha superato le “primavere” della gioventù, è quasi d’obbligo ricordare il fotografo che forse più di altri ha interpretato l’ambiente con la sua passione e la sua magistrale esperienza e bravura: mi riferisco naturalmente al compianto amico Giuseppe Balla. La conoscenza della montagna che derivava da anni di frequentazione e le capacità puramente fotografiche di scegliere momenti, luci ed inquadrature, lo hanno portato ad autentici capolavori (ricordate “il lavoro del vento”?) Dopo l’excursus nella memoria e nella nostalgia e venendo alle immagini che ci propone qui Marcello Di Leo, salta subito all’occhio il “mestiere”, non sono infatti scatti improvvisati ma frutto di capacità compositive mature, dove il paesaggio è documentato per quello che nell’immaginario collettivo rappresenta l’alta montagna: un maestoso ambiente nel quale l’uomo è e si sente piccolo nel confronto con la Natura. Gli escursionisti sono infatti usati solo come contrappunto all’ambiente, puntini immersi nello spazio che li ospita; anche le tracce lasciate hanno il sapore dell’effimero, del segno che rimane soltanto finché la montagna lo permette. Basta infatti una folata di vento o una spazzolata di neve per cancellare i segni della presenza umana. Ecco per me la forza di queste immagini: la descrizione di una condizione di inferiorità dell’uomo che spesso è sottovalutata, fanno meditare e questo è estremamente positivo. Della tecnica di ripresa si è detto, bello sarebbe poter apprezzare queste opere al meglio delle possibilità odierne di stampa, meritano sia qualità che grande formato Enrico Andreis | 41
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News
Il primo semestre della Sezione Fotografica Cedas di Renata Busettini
© Salvatore Giordano - “Lo sport unisce”
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© Giovanni Apostolico - “Fotografica-mente”
© Renata Busettini
Una primavera in prima linea per i fotografi della Sezione Fotografia Cedas fitta di impegni fotografici e riconoscimenti. Ben cinque premi sui diciassette messi a disposizione dagli organizzatori del concorso nazionale UNO SCATTO PER LO SPORT sono stati assegnati a fotografi appartenenti alla sezione:
PRIMO CLASSIFICATO ADAPTIVE Renata Busettini “Martina oltre ogni limite” TERZO CLASSIFICATO OPEN Massimo Ferrero “bandiera rossa” SECONDO CLASSIFICATO AUTORITRATTO Giovanni Apostolico - “Fotografica-mente” PREMIO SPECIAL E FONDAZIONE RE REBAUDENGO Renata Busettini - “Martina oltre ogni limite” PREMIO SPECIALE ASSOCIAZIONE PRIMO NEBIOLO Salvatore Giordano - “Lo sport unisce”
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Quattro autori Andrea Morello, Maria Bolinese, Max Cascini e Massimo Della Valle hanno esposto i loro progetti fotografici a Brescia nell’ambito della manifestazione “GIVE PHOTOGRAPHY A CHANCE” organizzata all’interno del Brescia Photofestival che si è tenuto dal 7 marzo al 15 giugno.
© Pierlorenzo Marletto - “Falling to infinity”
Marcello di Leo: “La Traccia” Gli autori hanno avuto la possibilità di presentare i singoli progetti durante le aperture delle mostre. Questa manifestazione, alla sua prima edizione, è nata con l’intento di diffondere e divulgare la cultura fotografica nella città di Rivoli. Oltre le mostre ci sono state una serie di iniziative per discutere insieme di fotografia. Complimenti a tutti gli autori. Marcello Di Leo presenta il suo lavoro
E sono del Cedas ben 4 autori sui 12 selezionati dalla giuria di RIVOLI CITTA’ FOTOGRAFICA e che hanno esposto nelle location messe a disposizione dall’organizzazione dal 17 giugno al 2 luglio: Pierlorenzo Marletto: “Falling into infinity” Renata Busettini: “We won’t go to Germany” Giovanni Apostolico: “Folle dimenticare” | 43
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to in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà a cura di Max Ferrero
Ray of light di Salvatore Giordano Canon Eos 600D D800 - 12mm - F/5,0 1/4000” - 6400 ISO
La luce è essenziale ma in questo scatto è sog-
getto. Quante volte siamo riusciti a elevare la porzione visiva dello spettro elettromagnetico a elemento fondamentale dello scatto? Quante volte siamo stati attirati dall’incorporea presenza dei fotoni o dall’alito del vento o dal profumo di un fiore? Di solito lo scatto cattura ciò che è materico, tangibile e reale, qui è il contrario: abbiamo la percezione del reale che, solo in parte, si svela a noi grazie ad una fessura a un raggio sapientemente catturato attraverso la diagonale del formato per sottolineare (se mai ci fosse stato qualche dubbio) che la regina indisscussa era lei... la luce. Purtroppo c’è un errore, imperdonabile perché legato alla luce stessa: l’utilizzo di altissimi valori ISO per una fotocamera che non può permettersi questi parametri. Lo scatto presenta un evidente disturbo di rumore cromativo facilmente evitabile anche solo con 1600 ISO.
E’ indubbio che il tema naturalistico sia
molto attraente per gli amanti della fotografia. Sono necessarie alcune attrezzature tecniche quali ottime macchine e obiettivi di lunga focale in grado di catturare eventi distanti per fermarne l’azione senza interagire o disturbare gli animali. Non basta solo riempire il fotogramma evitando di lasciare spazi vuoti, occorre anche cogliere dei momenti particolari in cui l’animale, la cicogna in questo caso, faccia un’azione che ci possa incuriosire al di là del suo semplice “esserci”. La foto funziona, cattura ma poi si nota, troppo velocemente, del taglio anomalo di una zampa. Così com’è sembra un errore, meglio tagliarla di più e far pensare che sia voluto. 44 |
Cicogne di Fioravante Stefanizzi Canon EOS 7D MK II - 170mm - F/8 - 1/500” 200 ISO
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à Foto in libertà Foto in libertà Foto in libertà Foto in lib
Commentare una foto analogica attra-
verso una controparte digitalizzata è come volersi pesare sulla luna. I parametri non corrispondono e i valori sono alterati. Se scansioniamo un negativo si perde tutta la bellezza della vecchia e amata pellicola senza aggiungere alcun valore allo scatto, anzi. Quindi non parlerò di grana o di valori tonali, quelli dovrebbero essere valutati su di una stampa vera con carta fotografica. Qui mi soffermerò ad ammirare la scena spontanea e piacevole che è esistita e si è conclusa in una sola frazione di secondo. Il fotografo ha saputo cogliere quell’attimo facendo collimare tempi e diaframmi, messa a fuoco ed inquadratura senza l’ausilio del controllo a monitor. In fondo è questa la magia dell’analogico, l’alone di mistero che circonda il ricordo dello scatto, l’inscurezza del successo fino a processo di sviluppo e stampa ultimato.
Il bambino e la colomba di Massimo Della Valle Leica M7 - 35mm - F/2 Pellicola Fujifilm 200 ISO
La figlia dei campi di Potito Lanzetta Canon Eos 100D - 147mm - F/4 - 1/60” - 400 ISO
Il trucco c’è ma non si vede: il flash. L’ottima gestione tra la luce artificiale del fotografo e quella
ambientale è stata gestita perfettamente. Il bianco e nero, poi, impedisce d’osservare possibili e probabili discordanze cromatiche delle due fonti luminose. Il risultato è una buona istantanea che vive della curiosità dei copricapi rimandando il nostro pensiero a feste d’oltre atlantico nella terra dei cow boy che, in questo caso, sono sostituiti da figure del gentil sesso suscitando ancor più interesse grazie alla loro inconsuetudine. La scelta di un diaframma mediamente aperto ha permesso d’ottenere un ottimo bokeh sullo sfondo. Si capisce che c’è il flash solo perché le donne in secondo piano, quelle non colpite dalla luce lampo, hanno una perdita di nitidezza dovuta a un mosso tipico della tecnica di fill-inn del lampo elettronico. Nello scatto mancano i bianchi, anche le luci sullo sfondo sono grigi molto chiari, ciò comporta una leggera perdita di contrasto che nel bianco e nero è fondamentale per ottenere il massimo risultato possibile. La grana è pronunciata ma secca e piacevole. Nella stessa foto, ma a colori, sarebbe stato un elemento di forte disturbo. | 45
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S.T. di Antonio Abozzi Fujifilm X-A2 - equivalente 65mm - F/7,1 1/4000” - 200 ISO
Tarassaco, soffione, dente di leone, taraxacum officinale, quanti nomi per un’unica pianta. Sicura-
mente pochi se paragonati agli scatti realizzati dagli amanti della fotografia. Il soffione è perfetto per rappresentare il vento, per giocare con il sole, per concentrarsi su di una forma piuttosto che su un colore e in questo scatto, ciò che attrae e la rende vincente, è proprio il colore dello sfondo: un azzurro intenso frastagliato da rami e foglie molto sfocate. La corona dell’erba medicinale sfuma in una ghirlanda sovraesposta che non appare come errore ma come ulteriore scelta di rappresentazione. Avrei staccato maggiormente la diagonale scura spostando il soggetto leggermente più a destra riempiendo in modo più equilibrato l’intera porzione d’inquadratura.
C’è una dominante verde su tutta la foto mista a
una lieve mancanza di contrasto. I dati sono visibili chiaramente osservando gli istogrammi. Il dubbio per un commentatore e: questi errori sono voluti o sono subiti? Senza poter comunicare con l’autore, il quesito potrebbe rimanere irrisolto. Purtroppo altri elementi della foto concorrono a dare una risposta ai quesiti che sorgono naturalmente. Tutto appare distante, troppo spazio a destra e troppo a sinistra. Il soggetto è lontano e, pur compiendo un ottimo salto, risulta poco coinvolgente e non c’induce all’osservazione accurata. Le mancanze compositive avranno già condizionato la visione dell’osservatore che percepirà i colori alterati come errore e non come scelta. Anche l’orizzonte storto non aiuta.
Volteggiatori di Eugenio Broggini Nessun dato negli info file
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Gay pride di Torino 2017, un luogo
pieno di gente, trasgressione e colori. La foto presenta solo alcuni di questi elementi e, secondo il mio giudizio, rimane incompleta se proposta come scatto singolo. Ottima la posizione del palloncino che sfrutta la diagonale di una difficile e ardita scelta del quadrato. Molto interessante il gesto della ragazza a destra che con la mano aperta sul petto trasmette passione e amore. Su questa diagonale sx alto - dx basso si svolge tutto il racconto. Intorno a questo spazio c’è poco altro, gente un po’ troppo tranquilla, gesti persino eccessivamente contenuti, tutto troppo calmo per stuzzicare il nostro interesse sull’argomento. Interessante osservare la gestione dell’esposizione al limite della latitudine di posa della macchina. La sovraesposizione del sole e l’alone da diffrazione sul collo della ragazza erano inevitabili ma sottolineano la giornata di forte calore.
S.T. di Andrea Morello Canon Eos 6D - 24mm - F/6,3 - 1/320” 100 ISO
Jalsaimer di Roberto Melchioretto Nikon 600D - 70mm - F/7,1 - 1/400” 200 ISO
Lo scatto è sicuramente interessante ma la sua attrazione è più merito del soggetto rispetto alla creatività o capacità di cattura del fotografo. Con l’aumento dei viaggi esotici da parte degli amanti della fotografia, si osserva una ridondante produzione di ritratti “autoctoni”, moltissimi di essi sono su bambini o anziani, soggetti “semplici” perché incapaci di negarsi o di arrabbiarsi davanti a un obiettivo che ruba lo scatto. Non voglio dire che foto simili debbano essere evitate; l’esotismo, la particolare cromaticità e la bellezza della bambina sono motivi di forte attrazione ma li ritengo insufficienti per caratterizzare un ottimo scatto. Gli occhi, proprio perché il soggetto osserva in camera, non fanno presupporre che la foto sia un’istantanea, piuttosto un ritratto veloce in cui, però, non è stata posta particolare attenzione alla luce che genera fastidiose ombre sotto gli occhi della giovane abitante di Jalsaimer. | 47
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Š Marcello Di Leo
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