Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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ALTRI PAPARAZZI
Tra i suoi tanti meriti, che sono proprio tanti, l’allestimento di Fellini 100 | Genio immortale. La mostra, a cura di Studio Azzurro, di Milano, ha anche il merito di aver preso in considerazione una regia spesso ignorata e molto dimenticata: quella dell’episodio Toby Dammit, finale dei tre riuniti nel film Tre passi nel delirio (Histoires extraordinaires), del 1968, esplicitamente ispirati a racconti di Edgar Allan Poe (1809-1849), iniziatore e maestro indiscusso del racconto poliziesco, della letteratura dell’orrore e del giallo psicologico. Al Castel Sismondo, in piazza Malatesta, a Rimini, dal quattordici dicembre al successivo quindici marzo, la mostra è anticipatoria delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Federico Fellini: 20 gennaio 1920-2020, per l’appunto a Rimini, in Romagna (il registra è mancato il 31 ottobre 1993). In tutta onestà (intellettiva), il film merita l’oblio che l’avvolge. Nessuno dei tre episodi è degno di alcuna nota, nonostante l’altisonante ispirazione (Edgar Allan Poe) e il valore dei registi coinvolti; oltre Federico Fellini, appena menzionato e al quale intendiamo rivolgerci, Roger Vadim (Metzengerstein) e Louis Malle (William Wilson). E, ancora, nonostante lo spessore degli attori rispettivamente protagonisti: Jane Fonda, in Metzengerstein, Brigitte Bardot e Alain Delon, in William Wilson, e Terence Stamp, in Toby Dammit (con la partecipazione di Salvo Randone, la fotografia di Giuseppe Rotunno, il montaggio di Ruggero Mastroianni, la musica di Nino Rota e la scenografia di Pietro Tosi, nomi di prestigio assoluto e indiscutibile... ma il risultato rimane più che modesto). Comunque, proprio qui restiamo, circa in compagnia di Federico Fellini, per un episodio con retrogusto fotografico, nostra intenzione istituzionale. La combinazione tra le ossessioni del regista, anche co-sceneggiatore, e gli incubi di Edgar Allan Poe produce un copione nel quale si racconta di un attore alcolizzato (per l’appunto, Toby Dammit, interpretato da un Terence Stamp in chiave quasi autobiografica), che accetta di girare un western all’i-
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taliana, ai tempi filone cinematografico prolifico, perché gli viene offerta una Ferrari. È ossessionato da un inconscio richiamo, e finirà per trovare la morte in una folle corsa con la sua spider nuova fiammante. Il suo arrivo all’aeroporto di Roma, i cui saloni di attesa sono animati da una vasta serie di fantasiosi personaggi “da circo”, coinvolge alcuni fotocronisti alla ricerca di celebrità da consegnare ai rotocalchi popolari. Infastidito, Toby Dammit cerca di liberarsene, aggredendoli e gettando loro contro la propria valigia, che colpisce uno dei cronisti, gettandolo a terra. A otto anni da La dolce vita, film del 1960 [sul quale ci siamo soffermati in tante occasioni, inutile ripetere], in questo dialogo serrato tra l’attore e i fotografi, compare il neologismo “paparazzi”, declinato in chiave spregiativa: in giro tondo, su se stessa, questa potrebbe essere la prima ufficialità cinematografica del passaggio dal comprimario del film epocale di Federico Fellini -Paparazzo, nell’interpretazione di Walter Santesso- al neologismo (per lo più, denigratorio) che ne è scaturito.
Probabilmente, l’appellativo “paparazzi”, in chiave dispregiativa, nella sceneggiatura (nel dialogo) dell’episodio Toby Dammit, terzo di Tre passi nel delirio, con la regia di Federico Fellini, del 1968, è il primo utilizzo certificato del celebre neologismo, nato con La dolce vita, dello stesso regista: dal cognome del fotocronista Paparazzo, nell’interpretazione di Walter Santesso [tante le nostre rivelazioni, la più recente delle quali, lo scorso maggio]. E qui, tralasciamo di inorridirci per la scenografia delle improbabili macchine fotografiche dei fotografi coinvolti nella vicenda, all’aeroporto di Roma.
Testimoniando da rivelazioni dello sceneggiatore della Dolce vita, Ennio Flaiano (i cui meriti non si limitano certo solo a questo), anche sulla genesi del nome di Paparazzo abbiamo già relazionato: fino allo scorso maggio, con approfondimento da Catanzaro, di sua origine. E anche in questo caso, non ribadiamo, né ripetiamo. Invece, confermiamo una volta ancora quanto le declinazioni e attribuzioni del neologismo di “paparazzo” siano infinite. Addirittura, ricordiamo anche una linea di carta per fotocopie, individuata qualche anno fa negli Stati Uniti [qui, in Archivio]. E, poi, non mancano gli errori storici, come la definizione del fotografo Robert (interpretato da Elliott Gould, fotografo anche nell’ammirevole Piccoli omicidi, di Alan Arkin, del 1971), in Il mistero della signora scomparsa, del 1979, remake di una più sofisticata commedia di Alfred Hitchcock, La signora scompare. Nei panni di Robert, fotogiornalista di Life, Elliott Gould viene appellato “paparazzo” in una vicenda ambientata nel 1939, vent’anni prima della Dolce vita, di Federico Fellini. Comunque, poco importa! ❖