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Con decentramento

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Editoriale

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Trovarobe

di Antonio Bordoni - Ritrovamento di Alessandro Mariconti

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CON

AAncora in compagnia di Alessandro Mariconti edellasuapassioneperdotazioni fotograficheinconsuete, magari anche artigianali, che accompagna il passo commercialedell’indirizzo rivolto ad attrezzature usate, antiquarie e da collezione: Photo40, via Foppa 42, 20144 Milano (www.photo40.it). Giusto lo scorso dicembre, abbiamo presentato e commentato una configurazione6x6cm simil Hasselblad SWC, con grandangolare fisso Super-W

Komura 47mm f/6,3, su otturatore centraleCopal 0, provenientedallafamiglia ottica per il grande formato fotografico acorpi mobili di qualche decadefa, in tempi econ modi dominati dai riferimenti d’obbligo Schneider e

Rodenstock (con moderata compagniadi unaperformante gammaNikkor, edi dimesseproposteFuji, Congo e Komura, per l’appunto).

Luci della ribalta, oggi, sulla altrettanto grandangolare Orbitar, sempre con obiettivo fisso, questa volta cautamente decentrabile (1 0mm verso l’alto e altrettanti dieci millimetri verso il basso, con ampio bottone di blocco), SchneiderSuper-Angulon 47mm f/8, su otturatore centrale Synchro

Compur, che ne consente ladatazioneprobabilenon oltregli anni Settanta del Novecento; più verosimilmente ai precedenti anni Sessanta. Magazzino portapellicola a rullo 120 Graflex formato (statunitense) 2 1/4 x3 1/4 pollici, traducibili in formato reale 5,7x8,2cm (57,15x82,55mm), considerabili prossimi al nominale 6x9cm, di riferimento e richiamo comune.

Attenzione: qualcuno potrebbe essere indotto a specificare “meglio” 6x8cm, ma si debbono considerare i tempi di riferimento certi, quando la cadenzadei rulli 120/220 erascandita sui passi 4,5x6cm, 6x6cm, 6x7cm e 6x9cm; le progressioni “panorama” 6x12cm e 6x17cm sono state introdottesuccessivamente, magari apartire dalle configurazioni Linhof Technorama dagli anni Ottanta, sempre del Novecento; così come l’identificazione 6x8cm è altrettanto prossima, e non remota, ed è attribuibile dall’originaria Fuji GX680 di buona

DECENTRAMENTO

Prodotta da Burke &James Inc, di Chicago, Illinois, Stati Uniti, l’affascinante Orbitar 2 1/4 x3 1/4 Wide Angle è una decentrabile molto semplificata degli anni Sessanta (presumiamo). Perquanto l’obiettivo Schneider Super-Angulon 47mm f/8 sia decentrabile (10mm verso l’alto e il basso), la configurazione non ha nulla da spartire con le raffinatezze del sistema Silvestri.

Sequenza coerente del decentramento verticale dell’obiettivo grandangolare Schneider Super-Angulon 47mm f/8, con cerchio immagine adeguato alla copertura garantita del formato di ripresa 6x9cm della Orbitar Wide Angle: da 10mm verso l’alto a Zero, a 10mm verso il basso. Come considerato, valutato e rilevato, si tratta diuna configurazionefotografica sostanzialmenteelementare: obiettivo grandangolare, magazzino portapellicola

a rullo 120/220 e corpo macchina squadrato di necessario collegamento. Questa èstata base e sostanza di tante interpretazioni artigianali dei decenni (tra)scorsi. Da qui, soltanto l’italiano Vincenzo Silvestri è riuscito a decollare verso un design meno ovvio, un autentico sistema, una raffinata costruzione dipersonalità industriale. Comunque, affascinante ritrovamento di Alessandro Mariconti (Photo40)... trovarobe.

memoria [Fuji GX680 II Professional, in FOTOgraphia, del dicembre 1994; Fuji GX680 III Professional, in FOTO graphia, dell’ottobre 1998].

Altrettanto attenzione: le identificazioni medio formato “sei pertot” centimetri sono sempre prudentemente approssimative. Il lato 6cm non è mai tale, perché l’altezza totale 6cm del rullo120/220(appunto) ècomprensiva dei bordi perimetrali di trattenimento del film sul piano focale; soltanto i sistemi fotografici perpellicola70mm a doppia perforazione hanno potuto esporre 6cm di film. Altrettanto, i lati lunghi, quantificati 7cm e 9cm, non sono mai arrivati a tanto, ma si sono “fermati” qualche millimetro prima.

Così che ogni sistema fotografico a pellicola a rullo 120/220 e ogni magazzino universaleportapellicolaèstato definito da dimensioni proprie, sempre diverse da quelle altrui. Tra i tanti, tra tutti, la tedesca Linhof, ai tempi soddisfatta e appagata da una sostanziosa leadership commerciale (poi, smantellata dall’efficacia della modularità diffusa del sistema a banco ottico Sinar, da Schaffhausen, in Svizzera), si estese aidentificare “Ideal Format” / Formato ideale il proprio 6x7cm nominale, in dimensioni reali 56x72mm /2 1/16 x2 3/4 pollici: nei fatti, esattamente proporzionale al 4x5 pollici e 8x1 0 pollici (rispettivamente, 1 0,2x1 2,4cm e 20,4x25,4cm) delle pellicole piane allora in uso.

Tornando alla Orbitar individuata e acquisita da Alessandro Mariconti, in attuale soggetto, va registrata la sua produzioneaccreditataaBurke&James Inc, di Chicago, Illinois, Stati Uniti, con relativacertificazionesullatarghetta di identificazione, sul frontale. Anche e ancora in questo caso è lecito annotare che si tratta di una ulteriore interpretazione della configurazione grandangolare (con decentramento), cheil soloVincenzoSilvestri, di Firenze, èriuscito afarevolveredall’artigianato (e individualità) a una concreta e tangibile offerta/proposta tecnico-commerciale, estesasi a sistema: dallo SchneiderSuper-Angulon 47mm f/5,6 fisso, originario, in iperfocale, piuttosto checon elicoidedi messaafuoco, agli obiettivi intercambiabili; dal 6x7cm e 6x9cm di partenzaal 4x5 pollici /10,2x 12,7cm; da-a tanto altro ancora.

Burke & James Inc, di Chicago, in Illinois, Stati Uniti [dove ha avuto sede anche la leggendaria L.F. Deardorff & Sons, dal 1923 al 1988], è stato un produttoreeimportatoredi apparecchi fotografici professionali eobiettivi. L’aziendaèradicataindietroeindietro, nel Tempo: fu fondata da Henry Burke e David James, nel 1897. Haprogettato eprodottosistemi scientifici (peresempio, peril rilevamento di improntedigitali), attrezzature per arti grafiche e macchinefotografichegrandeformato (e questa attuale Orbitar 6x9cm fa sistemacon unaanalogaconfigurazione

Perquanto non sia necessario approfondire le prestazioni ottiche e grandangolari dello Schneider Super-Angulon 47mm f/8 della Orbitar 6x9cm, qui in funzione con decentramento verticale, èdoveroso sottolineare l’impiego combinato con magazzini portapellicola a rullo 120/220Graflex (formato reale 57,15x82,55mm).

4x5 pollici, con Schneider Super-Angulon 65mm f/8, su otturatorecentrale Compur MX e dorso portapellicola ruotabiledi trecentosessantagradi, ricavato dal sistemaabanco ottico Calumet, sempreprodotto aChicago). È probabile che alcuni di questi siano stati attribuiti a marchi aggiuntivi: certamente, Rexo, Watson e Ingento.

Niente da aggiungere sulla Orbitar 2 1/4 x3 1/4 WideAngle; soltantosegnaliamolapresenzadi ben dueslitteportaaccessori, unacentratasull’obiettivo -dunque destinata a eventuali mirini esterni di inquadratura, per l’impiego a mano libera, agevolato dall’ampia impugnaturalateraledi cuoio -, el’altra più discosta, magari indirizzata a un flash elettronico d’appoggio.

Invece, e d’obbligo, altro ancorada sottolineare su Alessandro Mariconti, chel’harintracciataeproiettataanuovaesistenza. Dovestanno il suo valore e lasuaintelligenza, in espressione di saggezza? Nel ritrovaretestimonianze e certificazioni di un tempo durante il quale la progettualità fotografica ha fatto prezioso tesoro delle potenzialità dellacostruzione meccanica, afronte dellaqualesono stateanche realizzate configurazioni pratiche -come questa oggi in passerella- capaci di soddisfare bisogni ed esigenze pratiche. Autentiche “invenzioni”, e tante ce ne sono state, che hanno illuminato un cammino estremamente fertile e proficuo.

Ne abbiamo incontrata un’altra. ❖

NEOLOGISMO ASSOLUTO

Tante e ripetute le retrospettive sulla stagione riferita ai paparazzi... non tutte diqualità sufficiente. Dalla quantità, isoliamo due iniziative lodevoli, entrambe dipaternità coincidenti: Paparazzi. Fotografie 1 953-1 964, in mostra a PalazzoFortuny, di Venezia, nel 1988; con fotografiediVelioCioni, Marcello Geppetti, Tazio Secchiaroli, Elio Sorci, Sergio Spinelli, Master Photo e New Roma Press Photo; volume-catalogo Alinari; e Fotologia / 7; Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 1987. di Maurizio Rebuzzini

Riconosciamolo, ammettendolo, senza inutili falsemodestie... fuori luogo. Permillemotivi -tutti maturati nel percorso che ci induce a osservareeconsiderareanchemanifestazioni parallele e trasversali della Fotografia-, abbiamoedificatounacertaesperienzae(forse) competenza relativamente alla presenza della stessa

Fotografia nel Cinema. Se vogliamo considerarla così, questa preparazione non procede da sola, ma è parte ( 2 ) consistentedi un insiemevariamentemodulato. Ovvero, P H I A è in (buona) compagnia di altre diagonali affrontate e O F O T O G R A perseguite, a propria volta riferite alla parteci della Fotografia -in quanto tale- nei fumetti, in in narrativa, nella vita quotidiana... altrove. pazione filatelia, I A R C H I V m Però, siamo eno affascin sinceri e on anti e condi esti, visib al ili tre di convergenze quelle del Cin sono ema.

Proprioil Cinema, adifferenzadi altri indirizzi, hamodo di coinvolgere e farpartecipare qualsivoglia interlocutore. Al contrario, è molto improbabile la conoscenza comune e partecipataafumetti, filatelia, narrativa, vita quotidiana, nell’ordine appena enunciato. Di Cinema, possiamoparlarepraticamenteatutti; peril resto, sono necessarie preinformazioni selettive e discriminatorie.

Se non che, ancorain preambolo sull’intenzione originaria(del sessantesimo dallaDolcevita, di Federico

Fellini, del 1960: dunque, Sessantapiù sessanta), per quanto il Cinemapossacomporre tratti di un territorio comune e approvato, anche tra coloro i quali hanno in mente la Fotografia... non è proprio così. Infatti, è noto e risaputo: chi sapoco è portato ainnalzare quel

“minimo” avalore assoluto ed elevato; mentre, chi sa molto è consapevole che quel’“intensità” è parte di un insieme più ampio, vasto ed esteso.

È per questo, è ancheper questo, che sbocciano e fiorisconopresunti esperti, soprattuttoin Fotografia, per il cui ambito non sono richiesti né percorsi accademici accreditati, né capacità acquisite sul campo, nel corso di impegni individuali.Tanto,il recipienteCinemagiustifica molto; tanto, il contenitore Fotografia è quantomeno dubbio e incalcolabile. Quantomeno, qui in Italia.

Ciackda La dolce vita, con Federico Fellini e Anita Ekberg. ANCORA, IN ANTICIPO

Tutta l’improvvisazione riservata alla presenza della Fotografiaal Cinema, trasue sceneggiature e sue scenografie, registra un proprio apice subito rivelato: la

N O L R U A T R P I G I U L R E I P

Sessant’anni fa, nel Millenovecentosessanta (dunque, Sessanta più sessanta), con il film Ladolcevita, di Federico Fellini, nelle sale dal quattro febbraio, è nato il più consistente neologismo del nostro Tempo. Dal personaggio fotografo Paparazzo, nell’interpretazione di Walter Santesso, all’identificazione di una categoria, di un approccio, di un atteggiamento... spesso, in declinazione negativa e irriverente. A proposito della presenza della Fotografia al Cinema, in sue sceneggiature piuttosto che in sola scenografia, una riflessione aggiuntiva e complementare, che scarta a lato e mette in angolo approssimazioni di contenuto caratteristiche di quanti si esprimono alla luce di proprie evidenti incapacità

Walter Santesso, neipanni di Paparazzo, in una scena epica della Dolce vita, all’Hotel Excelsior, dove ha luogo l a conferenza stampa di Sylvia (Anita Ekberg).

In una bibliografia quantitativamente estesa, ma non sempre qualitativamente confortante, selezioniamo due titoli relativi al film La dolce vita, in attuale sessantesimo (Sessanta più sessanta), che si elevano sopra tutti, sia per contenuti, sia per superbo apparato fotografico. Ovviamente, pur mantenendoci nell’intento sovrastante di osservare, piuttosto di giudicare, qui e ora, valutiamo... professionalmente, perquanto ognuno, producendo libri, si mette in condizioni di essere quotato. Distantiper rispettivi anni di edizione, ma coincidenti per sostanza delle illustrazioni (in dimensionigenerose): La dolce vita. Il film di Federico Fellini , a cura di Gianfranco Angelucci; testi di Federico Fellini e Gian Luigi Rondi; fotografie di Pierluigi Praturlon; Editalia, 1989; 320pagine 30,5x27cm / La dolce vita; Logos, 2011; 552 pagine 29x29cm.

) 2 ( N O L R U A T R P I G I U L R E I P

) 2 ( P H I A F O T O G R A O I V I H C R A sopravvalutazione di un film che tutti citano, qualcuno ha perfino visto (e, riguardato oggi, a più di cinquant’anni dallapropriaattualità, risultadi unanoiaabissale, rivela stereotipi intollerabili e divulga ancora una sostanziosamiseriaintellettuale), nessuno haapprofondito, almeno dal palcoscenico della Fotografia.

In effetti, Blow-Up, di Michelangelo Antonioni (altrove, mararamente, Blowup), del 1966, meriterebbe anche riflessioni approfondite. Se non che, unapletora di pseudo esperti (in Fotografia?) si è sempre limitata alla superficie a tutti apparente, ai contenuti più facili: Nikon F, un poco di Hasselblad 500C e rare escursioni oltre.Addirittura, si registrano pellegrinaggi nei luoghi londinesi del film [per esempio, Guido Tosi, in FOTO graphia, del febbraio 2016].

Ma, attenzione, in Blow-Up, la Fotografia svolge un ruolo fondante: è base narrativae riflessivadi angosce profonde e presto individuate. Francamente, datempo facciamo nostro un antico pensiero ben espresso, che definisce il senso dellasceneggiatura(ispirataal racconto Lebavedeldiavolo, di Julio Cortázar, e firmata daMichelangeloAntonioni conToninoGuerrae Edward Bond): lavicendadel fotografo londinese di modache crede di aver visto (e fotografato) un omicidio «È una riflessione sull’impossibilitàdel cinemadi “dire il vero” e sui rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (Paolo Mereghetti: Dizionariodeifilm; Baldini & Castoldi, dal 1993).

Per quanto, rivista oggi, questa testimonianza sull’angosciaesistenziale contemporaneaabbiapersoun molto (tutto?) della propria sottigliezza originaria e ha smarrito per strada tanto altro, rimane il fatto che, nel film, laFotografiaècomplementooggettochesi impone come chiave espositiva e interpretativa. Punto.

SESSANTA PIÙ SESSANTA

Atutti gli effetti, Ladolcevita, di Federico Fellini, è un film epocale: non tanto per se stesso (come pure lo è... anche), quanto peri propri riflessi sulla società e il costume, del tempo e oltre. In un momento nel quale l’Italia -prima di altri paesi- stava imboccando una propria via in ascesa (perquanto a spirale su se stessa), incamminandosi verso una strada di boom economico -o presunto tale, o così storicizzato, dopo-, e il Pianeta stava per essere travolto dal vento degli anni Sessanta, Ladolcevitariflettevasu un certo passato prossimo, in chiave di presente.

Liquidiamo presto ogni ulteriore parallelo possibile e plausibile con il film di MichelangeloAntonioni, appena liquidato, alla luce di due coincidenze non secondarie (la seconda, indotta dal nostro particolare punto di vista, viziato e indirizzato): doppiaregiaitaliana e coincidente sostanziosa presenza della Fotografia. Ancora in comune: entrambi i film raccolgono dalla Vita, per restituirle qualcosa.

Ripetiamolo ancora, ribadendolo: Blow-Upregistra «l’impossibilità del cinema di “dire il vero” e i rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (ancora con e da Paolo Mereghetti) e ricambiacon unasemplificazione scenicache hafinito per influenzare tanto brutto cinema.

Dunque, alla rappresentazione di Blow-Upva addebitata la linea discriminatoria tra una visione cinematografica della Fotografia precedente e una seguente. In particolare, gli vaoggettivamente imputato di averstabilitoi connotati cinematografici del fotografo porno, o -comunque sia- sporcaccione, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretatosulloschermodaDavid Hemmings, senzaperò la sua intelligenza e senza i suoi dubbi.

All’indomani di Blow-Up, dallametàdegli anni Sessanta del Novecento, in un tempo di grandi sommovimenti, ma inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole al di sotto del limite medio di accettabilità, che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale: «Il fotoamatore è diventato un maniaco sessuale, un appassionato del coito ripreso con la macchina fotografica», ha presto rilevato Maurizio Porro, su Photo13, dell’ottobre 1971.

Da cui, una fiumana di “robuste oscenità”, censite in FOTOgraphia, dell’aprile 2014.

SOSTANTIVO... IN NEOLOGISMO

Anche Ladolcevita, di Federico Fellini, si ispiraauna certarealtà, perquanto più evidente e palese delle introspezioni di MichelangeloAntonioni. In metafora, descrive laVitaallaluce dellaribaltaromanadi viaVeneto, acorollario di unafloridastagione degli studi cinematografici frequentati dacastinternazionali, soprattutto statunitensi.Anche e altrettanto, il film contraccambia: consegnandoil più notoneologismodel Secoloscorso, in proiezione ancora in avanti... “paparazzo”.

Neipanni del giornalista Marcello Rubini, Marcello Mastroianni attorniato da fotocronisti della Dolce vita: WalterSantesso(Paparazzo), G iulio Paradisi, Enzo Cerusico e Enzo Doria.

Originariamente, Paparazzo è lo sfacciato fotografo del film Ladolcevita, nell’interpretazionediWalterSantesso (qualcuno, per errore, combina Paparazzo con un altrodei fotografi presenti nellasceneggiatura/scenografia, e non identificatodaalcun nome, interpretato daEnzo Cerusico). Permille e mille motivi, non necessariamente tutti leciti, il neologismo haimmedesimato una intera categoria, in declinazione negativa.

La genesi del nome Paparazzo, di forte personalità fotografica, è affascinante e meritaun ritorno specifico e mirato. La fonte è autorevole: Ennio Flaiano, che ha firmatoil soggettodi Ladolcevitainsiemecon Federico Fellini (eTullio Pinelli). Invitato a raccontare come si sia arrivati a delineare il personaggio di Paparazzo, Ennio Flaianohacompiutounadisaminailluminante, raccolta nella sezione FoglidiviaVeneto, in La solitudinedel satiro(Rizzoli Editore, 1973; e Adelphi, dal 1996).

In annotazioni del giugno 1958, in tempi preparatori del film, girato di lì apoco e arrivato nelle sale cinematografiche nell’inverno 1959-60 (3 febbraio 1960, di solenne Prima, e successivo quattro, di distribuzione nelle sale), EnnioFlaianoscrive: «Unasocietàsguaiata, cheesprimelasuafreddavogliadi viverepiù esibendosi chegodendorealmentelavita, meritafotografi petulanti. ViaVeneto è invasa da questi fotografi. Nel nostro film cenesaràuno, compagnoindivisibiledel protagonista. Fellini haben chiaroin testail personaggio, neconosce il modello: un reporterd’agenzia, di cui mi raccontauna storiaabbastanzaatroce. Questotaleerastatomandato al funeraledi unapersonalitàrimastavittimadi unasciagura, perfotografarelavedovapiangente; ma, peruna qualche distrazione, la pellicola aveva preso luce e le fotografie non erano riuscite. Il direttore d’agenzia gli disse: “Arrangiati. Tra due ore portami la vedova piangente o ti licenzio e ti faccio anche causaperdanni”. Il nostro reportersi precipitò alloraacasadellavedovae la trovò che era appena tornata dal cimitero, ancora in gramaglie, e vagante da una stanza all’altra, istupidita dal doloreedallastanchezza. Perfarlabreve: dissealla vedova che se non riusciva a fotografarla piangente avrebbepersoil postoequindi lasperanzadi sposarsi, perchés’erafidanzatodapoco.Lapoverasignoravoleva cacciarlo: figurarsi chevogliaavevadi farelacommedia dopo aver pianto tanto sul serio. Ma qui il fotografo, in ginocchio, ascongiurarladi essere buona, di non rovinarlo, di piangere solo un minuto, magari di fingere!, solo il tempo di fare un’istantanea. Ci riuscì. La povera vedova, unavoltapresaal laccio dellapietà, si fece fotografarepiangentesul lettomatrimoniale, sulloscrittoio del marito, nel salotto, in cucina.

«Oradovremmomettereaquestofotografoun nome esemplare, perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio “vivrà”. Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di [Gustave] Flaubert, che ci mise due anni a trovare il nomedi MadameBovary, Emma. Perquestofotografo non sappiamo che inventare: finché, aprendo a caso quell’aureolibrettodi GeorgeGissing chesi intitolaSulle rivedelloJoniotroviamo un nome prestigioso: “Paparazzo”. Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore delle Calabrie, del quale Gissing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino».

Dacui: danome proprio, Paparazzo è diventato nome comune.Aciascuno, il suo... [in anticipazione volontaria, in FOTOgraphia, dello scorso dicembre].

In proseguimento, rileviamo che le note del Grand Tourdi George Gissing, al Sud d’Italia, sono più correttamente titolate SullarivadelloJonio, al singolare, per quanto alcune edizioni le declinino al plurale, come da citazione di EnnioFlaiano: SullerivedelloJonio. In ogni caso,tanteediverseleedizioni (in originale,BytheIonian Sea. NotesofaRambleinSouthernItaly; 1901 / in titolocompletoSullarivadelloJonio.Appuntidiunviaggionell’Italiameridionale; primaedizioneitaliana, 1957).

Da qui, il passaggio in questione.

Nel tredicesimocapitolo, Lacimaventosa, riferendosi al proprio soggiorno a Catanzaro, ospite dell’Albergo Centrale, in corso Mazzini 189, George Gissing scrive: «L’albergo mi offriva poco svago dopo la Concordia di Crotone, manon mancavadi elementi caratteristici. Peresempio, trovai nellamiacameraun avviso stampato che faceva appello, in termini molto espressivi, a tutti gli occupanti della stanza. Il proprietario -così stava scritto- aveva saputo, con grandissimo dispiacere, che certi viaggiatori che dormivano sotto il suo tetto avevano l’abitudine di consumare i loro pasti in altri ristoranti. Egli desiderava render noto che tale comportamento non solo ferivai suoi sentimenti personali -tocca ilsuomorale- ma danneggiava la reputazione del suoalbergo.Assicurandotutti che avrebbe fatto del suo meglio per conservare un alto livello di perfezione culinaria, il proprietario concludevapregando i rispettabili clienti di concedere i loro favori al

) 2 ( I N O D R O B O I N T O N A

Il 23 ottobre 1999, l’amministrazione comunale di Catanzaro ha posto una lapide in corso Mazzini 189, che testimonia il fatale incontro tra lo scrittore inglese George Gissing, in Italia per un Grand Tour ( By the Ionian Sea. Notes of a Ramble in Southern Italy / Sulla riva dello Jonio. Appunti di un viaggio nell’Italia meridionale ), e l’albergatore Coriolano Paparazzo, dal quale è nato uno deipiù celebri neologismi della nostra epoca.

TAZIO SECCHIAROLI (1925-1998) Universalmente identificato come ispiratore della figura del “fotografo petulante” (e altro) che Federico Fellini ipotizzò p er il suo film La dolce vita («compagno indivisibile del protagonista», da Ennio Flaiano), Tazio Secchiaroli è da conteggiare tra gli eccelsi ed eminenti fotografi italiani del Novecento. Tanti i suoi meriti, altrettante le sue tipicità (e qui, e ora, non evochiamo, né richiamiamo, aneddoti gustosi che ci ha raccontati più di venti anni fa... non aggiungono nulla, perché potrebbero essere equivocati).

Con Laura Carbonara, da FOTOgraphia, dell’ottobre 1998, in annuncio di scomparsa (ventiquattro luglio, a settantatré anni).

«Un lampo di flash, un fotografo che scatta in sella a una Lambretta, mentre il complice, alla guida, si avvicina il più possibile alla scena da riprendere. Questa è l’immagine simbolo del paparazzo, quel personaggio curioso e invadente nato a Roma, in via Veneto, negli anni Cinquanta e battezzato con questo nome dal regista Federico Fellini nella Dolce vita, del 1960.

«Alla guida di quella Lambretta, nel lontano 1952, c’è Tazio Secchiaroli, al tempo ancora semplice galoppino, ma destinato a diventare uno degli interpreti più famosi della mondanità romana e internazionale, maestro nell’arte dello “scatta e fuggi”, noto soprattutto per le repentine ritirate, inseguito da un agile e inferocito Walter Chiari, o insultato da Ava Gardner, sorpresa con un asciugamani in vita.

Conteggiata come immagine simbolo di via Veneto, che in seguito ha identificato la figura del paparazzo, la fotografia del 1952 che riprende Tazio Secchiaroli alla guida di una Lambretta, mentre Luciano Mellace scatta con l’immancabile Rolleiflex e flash [a sinistra], èporzione di un fotogramma 6x6cm (ancora, Rolleiflex) [in alto] che fa parte di una serie scattata da Franco Pinna in occasione di un intervento della polizia, a Roma, con fermo di un ragazzo.

«[...] Esauriti gli anni di via Veneto, che all’uscita del film di Federico Fellini erano già avviati alla propria conclusione, Tazio Secchiaroli, fondatore -nel 1955- con Sergio Spinelli dell’agenzia fotogiornalistica Roma Press Photo, lasciò da parte la cronaca per approdare al magico mondo del cinema. Vi entrò come personaggio, come simbolo, ma anche e soprattutto come fotografo di scena, il preferito da Federico Fellini, e ritrattista personale dei grandi divi, Sophia Loren (Sofia), Marcello Mastroianni e Gregory Peck prima di altri.

«La sua vita è rimasta sempre divisa tra la ricerca dello scoop, delle fotografie rubate, magari travestendosi da muratore e arrampicandosi sulle travi del soffitto durante le riprese, e il ruolo ufficiale, negli studi di Cinecittà.

«Come tutti i paparazzi, Tazio Secchiaroli era odiato e amato: evitato da chi cercava di nascondere relazioni segrete, vizi privati e umane debolezze; ricercato da quanti, momentaneamente lontani dalle scene, avevano bisogno di un po’ di pubblicità. Per poi essere allontanato anche da questi, appena raggiunto il proprio scopo.

«[...] Va annotato che Tazio Secchiaroli si è sempre battuto contro tutte le accuse [alla propria categoria professionale], in difesa dei colleghi, seppure così diversi dalla storica banda di via Veneto.

«Lui è appartenuto a un’altra epoca, agli anni in cui l’inseguimento era per lo più a piedi, o in Lambretta, e i trucchi per aiutare la fortuna avevano lo stesso sapore delle bizzarre genialità dei film di Totò: una bucatina alle gomme della spider, per rallentare la fuga di Walter Chiari e Ava Gardner; le maniche della camicia rimboccate e un po’ di sporco in faccia, per avvicinarsi come tecnico ai set cinematografici; il pranzo su un tavolino apparecchiato in mezzo alla strada, di fronte alla villa del ragionier Casarotti, per rubargli una fotografia. Un’epoca durante la quale anche il fotografo era diverso, più naïf, più paziente, più vicino alla propria preda, soprattutto fisicamente, anche solo per i limiti dell’attrezzatura [...]».

ristorante dell’albergo - sionorava pregareisuoirispettabiliclientiperchévoglianobenignarsiilristorante; e quindi si firmava: Coriolano Paparazzo». Eccolo qui!

DIETRO LE QUINTE

Perquanto nel «fotografo petulante che invade viaVeneto, compagno indivisibile del protagonista[di Ladolcevita(Marcello Mastroianni, nei panni del giornalista Marcello Rubini)], ben chiaro a Fellini», si sia sempre riconosciutalapersonalitàdi Tazio Secchiaroli, grande amico del regista, spesso suo fotografo di scena, per Ladolcevitafu scelto Pierluigi Praturlon (1924-1999), professionista acclamato, oltre che dimenticato, nel nostro paese: la voce Wikipediaè in inglese.

«Essere fotografo di scena vuol dire seguire tutte le riprese, realizzare le fotografie di tutte le scene che si girano. Questo poteva essere facile, quando si girava in esterni; bastavascattare, ma-siccome lasensibilità dellepellicolenon erapari aquelledi oggi [tantopiù alle equivalenze dei sensori digitali], quando si giravain interni, con illuminazione artificiale, bisognava -invecechiederelafotografiaafinescena.Ovviamente,iofacevo un po’ più in frettadei vecchi fotografi, che ci impiegavano un quarto d’ora con treppiedi e panno nero. Io ci mettevodieci secondi». Così, al registratoredi EnzoFiorenza (per un libro della casa editrice Napoleone, La cittàdelcinema.Produzioneelavoronelcinemaitaliano 1930-1970, pubblicato nel 1979), Pierluigi Praturlon ha raccontato i suoi esordi come fotografo di scena.

Era il 1949: sul set di TotòimperatorediCapri, di Luigi Comencini, nasceva, in Italia, un mestiere già diffusissimo a Hollywood. Le fotografie di Pierluigi Praturlon diffusero nel mondo l’idea che a Capri i vip facessero il bagno vestiti. Era la prima volta che le fotografie scattate sulla scena (meglio sarebbe dire: fuori scena) venivano utilizzate a scopi giornalistici; infatti, fino ad allora, erano servite soltanto perillustrare cartelloni promozionali e locandine.

In realtà,Pierluigi Praturlon si misesubitoafotografare, oltre gli attori in posa, anche tutte le situazioni che potevano creare notizia: una litigata (vera o mimata, era irrilevante), un divoallepresecon il cestinodellapausa pranzo, una comparsa buffa. Aggiunse, cioè, quel che gli americani non avevano: l’attualità colta al volo. «Dipendevaanchedal fattochelavoravanocon macchine eccessivamente grandi: la più piccola era una Speed Graphic. Io incominciai subito a usare la Rolleiflex».

Negli anni Cinquanta, Roma è stata capitale del cinema, e all’aeroporto di Ciampino approda anche Sylvia (Anita Ekberg), l a bellissima diva svedese-statunitense, accolta con l’immancabile stereotipo della pizza.

A questa velocità di movimento -comune a tutti i suoi colleghi- si deve la rapida trasformazione del fotografo di scena in fotografo d’attualità, altrimenti detto “paparazzo” (dagli anni Sessanta in poi). Ma questa, è un’altra storia, che abbiamo appena rimarcato. Il comun denominatore rimane, ovviamente, il divo e la sua mitizzazione.

Pierluigi Praturlon, romano di origine friulana, ha “inventato” fiordi stelle. Lapiù famosaèAnitaEkberg, dal set della Dolcevita: facendole lavare i piedi nella fontanadi Trevi, nel settembre del 1958, Pierluigi realizzò non solo un buon servizio fotografico, ma fornì anche aFederico Fellini unadelle idee-forzaperil film. È stato il fotografo preferito di Audrey Hepburn e, lavorando a Hollywood, ha lanciato Raquel Welch (nel 1964). Con SophiaLoren (Sofia!), hascattatounadelle immagini simbolo dellastoriadel cinema: lafotografia della “ciociara” accasciata e piangente nella strada polverosa. È il più famoso dei fotografi di scena, quello che è diventato più “personaggio”, tanto dapotercoltivare laleggendache, aindicarlo (come permolti divi), bastasse il nome di battesimo. Il vero motivo, però, è che Pierluigi ha avuto un cognome difficilissimo da pronunciare, soprattutto per gli stranieri.

Per gli addetti ai lavori, i nomi noti (sconosciuti al grande pubblico) sono però numerosi. Oltre ai collaboratori di Pierluigi Praturlon (che nel 1953, dopo aver lavorato con i produttori Carlo Ponti e Goffredo Lombardo, si era messo in proprio), come Bruno Bruni, va ricordatoMimmoCattarinich, che dal 1954aoggi non si smentisce come talent scout. Alternando fotografia di scenacon fotografieglamour, hamessoanudomoltissime bellezze. Poi c’è Roberto Biciocchi, fotografo personale di Gina Lollobrigida. Tra i fotografi delle generazioni più vicineai nostri giorni èdacitareGianfranco Salis [FOTOgraphia, febbraio 2010 e marzo 2016].

Nessuno si lamenti perché in questo rapido elenco, compilato a memoria e puramente esemplificativo, non si trovino “classici” come Paul Ronald o Mario Tursi, o Italo Tonni o Tonino Benetti, per non parlare di Tazio Secchiaroli. Ciascuno di loro ha, nelle proprie fotografie, un frammento di storia del cinema.

E, daqui, lasciamolaparolaad altri (presunti) esperti, che si esprimono perché in Fotografia «non sono richiesti né percorsi accademici accreditati, né capacità acquisite sul campo, nel corso di impegni individuali».

Per noi, è tutto... forse. ❖

N O L R U A T R P I G I U L R E I P

Nel film Crocodile Dundee (in Italia, Mr. Crocodile Dundee), un aborigeno australiano fa notare alla giornalista statunitense Sue Charlton che non può fotografarlo. Amemoria, il dialogo: «Scusa, mi rendo conto... la tua credenza... ti rubo l’anima...». «No! -èla risposta prontaHai il tappo sull’obiettivo». In una delle fotografie di scena del talentuoso Pierluigi Praturlon, sul setdi La dolce vita, che il nostro punto di vista viziato eleva spesso a valore assoluto del film (anche in odierna copertina di numero), i fotocronisti che si accalcano sotto la scaletta dell’aereo dalquale sta per scendere la diva e divina Sylvia, interpretata dall’affascinante Anita Ekberg, sono equipaggiati da e con una vasta serie di apparecchi fotografici eterogenei tra loro: tante biottica Rolleiflex, qualche Speed Graphic del fotogiornalismo statunitense dei tempi e almeno tre Leica, di diversa generazione tecnologica. C’è anche una reflex (Rectaflex?), a destra della scaletta, appoggiata al corrimano... con tappo sull’obiettivo.

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