COMUNICRAZIE
CLAIRE BARDAINNE
CLAIRE BARDAINNE
“ Tra le rovine dell’arte e della politica, dalle viscere del paesaggio tecnosociale: la massa si fa avanguardia. L’avanguardia del piacere ”.
VINCENZO SUSCA
Un libro per dare spazio alla profondità dell’effimero.
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Grafica, designer e scenografa formatasi all’École Estienne e all’École Nationale Supérieure des Arts Décoratifs di Parigi. Codirettrice artistica e cofondatrice dello Studio de création BW, in cui elabora le identità visuali e cura la scenografia di eventi per marche e istituzioni culturali. McLuhan fellow all’Università di Toronto. Collabora con le riviste Polis, Sociétés e Les Cahiers européens de l’imaginaire. claire@studiobw.com
VINCENZO SUSCA
RICREAZIONI
EURO 18
GALASSIE DELL’IMMAGINARIO POSTMODERNO
Docente di sociologia alla Sorbonne e ricercatore al CeaQ (Parigi). Collabora con l’Università IULM di Milano. McLuhan fellow dell’Università di Toronto. Codirettore editoriale dei Cahiers européens de l’imaginaire. Scrive per L’espresso. Tra le sue pubblicazioni: Transpolitica, 2008, con D. de Kerckhove; Ai confini dell’immaginario, 2006 (tradotto in Brasile); Tutto è Berlusconi, 2004, con A. Abruzzese (tradotto in Francia). vincenzo.susca@ceaq-sorbonne.org
AURA ELETTRONICA
TECNOMAGIA
BARBARI
FANTASMAGORIE
CLAIRE BARDAINNE + VINCENZO SUSCA
RICREAZIONI GALASSIE DELL’IMMAGINARIO POSTMODERNO PREFAZIONE DI MICHEL MAFFESOLI
ESTETICHE
IDENTITÀ CARNEVALE
FUORI COLLANA TUTTI I DIRITTI RISERVATI ISBN 978-88-95923-07-9 WWW.BEVIVINOEDITORE.IT INFO@BEVIVINOEDITORE.IT © COPYRIGHT 2008 FRANCESCO BEVIVINO EDITORE SRL - MILANO/ROMA PROGETTO GRAFICO E ICONOGRAFIA: CLAIRE BARDAINNE WWW.PICKWICK.IT MAGAZINE ELETTRONICO DEDICATO AL MONDO DEL LIBRO
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CLAIRE BARDAINNE + VINCENZO SUSCA
RICREAZIONI GALASSIE DELL’IMMAGINARIO POSTMODERNO PREFAZIONE DI MICHEL MAFFESOLI
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Per noi, tutto è un’occasione per divertirsi. Quando ridiamo, ci svuotiamo ed il vento passa in noi, smuovendo porte e finestre, introducendo in noi la notte del vento. Noi abbiamo bisogno di distrazioni. Resteremo ciò che siamo o ciò che saremo. Abbiamo bisogno di un corpo libero e vuoto, abbiamo bisogno di ridere e non abbiamo bisogno di nulla. Paul Éluard, Développement Dada
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PREFAZIONE
PREMESSA
MOSTRI
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TOTEM
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IDENTIT
WEB DISSEMINAZIONE
MOLTEPLICITÀ
AUTONOMIA DELLE FORME SIMBOLICHE
NOMADISMO DEMOCRAZIA
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fantasmagorie
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DIASPORA
CRAZIE
COMUNITÀ
BELLEZZA
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RELIGIOSITÀ
comuni COMUNIONE
GRAFIA
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T E C N O M A G I A
COMUNICAZIONE
foto
MEMORIA
TRANSPOLITICA
INDUSTRIA CULTURALE FETICISMO
IL CORPO È IL MESSAGGIO
DI MICHEL MAFFESOLI
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ESTASI
TATTILITÀ
ELETTRONICA
CONGIUNZIONI 82
SPETTACOLO
I SENSI SI METTONO A PENSARE
BARBARI 86 BOLLE 100
RELATIVISMO
SENSIBILITÀ
DISTRUZIONE CREATRICE CONTAGIO VIRALE
ELETTRICITÀ TRIBÙ
INVERSIONE TRA VISIBILE E INVISIBILE
SFERA PUBBLICA TANA
REVERSIBILITÀ MASCHERE TRASPARENZA
CYBERSPAZIO MISTERO
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POLITEISMO PAGANESIMO
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TETICHE ECCESSI
LA MASSA SI FA AVANGUARDIA EFFERVESCENZA
DISTRAZIONE DISTRUZIONE 126
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SABOTAGGI 134
OMBRA CONFUSIONE
DIVERTIMENTO
SOVVERSIONI
CARNEVALE
FESTA GIOCO
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ANOMIA MUTAZIONE
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CREDITI
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di Michel Maffesoli
PREFAZIONE Création, recréation, récréation Creazione, rifondazione, ricreazione
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Una sonata a quattro mani. Non é forse la più difficile da suonare e al tempo stesso la più piacevole da ascoltare? Voilà ciò che ci propongono con brio Claire Bardainne e Vincenzo Susca. L’esercizio è riuscito. Si tratta di una composizione – nel vero senso del termine – appassionante. Esordisco tuttavia con un disaccordo: l’incontro di due vite e dunque di due opere non è mai, come sostengono gli autori rispetto al loro, “fortuito”. Ricordiamoci l’aforisma di André Breton e dei surrealisti, spesso citati nel corso delle pagine che seguono: “l’azzardo è oggettivo”. A ben vedere, l’aspetto caratteristico dell’avventura esistenziale è rendere evidente ciò che deve succedere (“adventura”). Nel nostro caso, questo “incontro” non fortuito propone un caleidoscopio segnato – come ogni aspetto che riguarda la postmodernità – dall’ambiguità, dalla polisemia, da intense tensioni e da paradossi. Altrettanti dati che sottolineano in modo pertinente la fecondità della creazione. Ecco quindi evincersi, come correlato di un tale registro, la sinergia rivendicata nel testo tra scienza, arte e letteratura. Per riprendere un termine che rinveniamo curiosamente sia nell’opera di Émile Durkheim, sia nella New Age contemporanea, Bardainne e Susca ci conducono abilmente nel cuore stesso dell’Olismo postmoderno. Su tale punto gli autori insistono molto, ricordando che ciò che ci presentano non è né saggio, né un libro d’arte! È bello non essere niente, perché tale nulla costituisce il tutto dell’essere. Questo libro basta a se stesso, o piuttosto invita il lettore a entrare in interazione con il percorso intellettuale proposto dagli autori. A noi resta sognare a partire da esso. A noi, grazie a questo testo, il compito di fare “del nostro mondo immaginario il mondo”. È questo, infatti, il cuore battente di Ricreazioni: farci prendere coscienza del cambiamento di paradigma di cui bisogna davvero essere ciechi per non percepirne gli effetti. Da parte mia, ciò che vi leggo è il dato secondo cui ad immagine di ciò che è stata la politica per la modernità, l’estetica rischia di essere il tratto saliente della postmodernità.
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Estetica che bisogna comprendere nel senso etimologico del termine: provare insieme delle emozioni. Una tale estetica si staglia oggi come elemento di ri-fondazione della comunità – la tribù postmoderna di cui ancora non abbiamo ben stimato tutte le conseguenze. L’estetica è abitata da un “furore di vivere” che non può far altro che scioccare gli spiriti dei poteri istituiti, capaci solo di ripetere e di analizzare i pensieri e i modi di vivere medi, “normali”. L’estetica afferma invece che l’essere è un evento e un avvento. Riprendendo l’opposizione tra modernità e postmodernità, si può sostenere che nel quadro della prima la storia si svolge, mentre nell’ambito della seconda l’avvento accade. Irrompe. Forza e violenta. Da qui l’aspetto brutale, inatteso e sempre sorprendente che non manca mai di avere. Ritroviamo anche la differenza di tonalità tra il dramma, o la dialettica, i quali postulano una soluzione possibile, e la tragedia, distinta da un’aporia fondatrice. Tale chiave di lettura permette di comprendere appieno ciò che il libro propone riguardo ai barbari, ai sabotaggi, alla distruzione-distrazione e al resto dei fenomeni di distruzione creatrice descritti. L’avvenimento è singolare. La sua unicità si radica tuttavia in un substrato arcaico atemporale. Si tratta, evidentemente, di “arcaismi” ripensati e riattualizzati in funzione del presente, vissuti in un modo specifico. È esattamente ciò che ci indicano nel testo i riferimenti alle fantasmagorie diffrante su Internet, all’aura elettronica, così come la folgorante dimostrazione della “tecnomagia”. Sulla stessa scia d’onda definisco la postmodernità come “la sinergia tra l’arcaico e lo sviluppo tecnologico”. L’estetica tribale, la perdita del sé nell’altro e tutti gli excursus messi in opera in Ricreazioni non fanno altro che porre l’accento sull’intensificazione della potenza di ciò che appartiene all’ambito dell’impersonale. Nel cuore di un tale ritorno del destino è in atto la negazione stessa dei fondamenti filosofici dell’occidente moderno: il libero arbitrio, le scelte degli individui o dei gruppi sociali agenti in concerto per dirigere la Storia, e naturalmente il grande fantasma dell’universalismo che di tutto ciò è la conseguenza.
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Si intuisce quali siano, in parallelo, le situazioni in cui si esperisce un “surplus di essere”: grandi assembramenti, affollamenti di ogni sorta, multipli stati di trance, fusioni sportive, eccitazioni musicali, effervescenze religiose o culturali. Esse sono diverse condizioni che innalzano l’individuo a una forma di pienezza non consentita dalla grigia griglia della funzionalità politica o economica. Ognuno di questi fenomeni è permeato da una sorta di partecipazione magica a ciò che è strano e straniero, a una globalità in grado di oltrepassare la natura reclusa dell’individuo. È qui in moto una globalità olistica che appartiene all’ordine del sacro, con cui tutti tendono oggi ad entrare in comunione. Ironia della tragedia, o “furbizia” dell’immaginario collettivo, che riversa nel circuito sociale la dimensione numinosa che la modernità credeva di avere evacuato dalla vita collettiva? Reincanto del mondo? In ogni modo possiamo sostenere che assistiamo innegabilmente al superamento dei concetti di utilità e di funzionalismo moderni. Eccoci di fronte, in qualche modo, alla creazione come rifondazione e allo stesso tempo ricreazione. È esattamente questo che proponeva la società premoderna. Possiamo ipotizzare che ciò riprenda forza e vigore nell’ambito della postmodernità. In ogni caso, ecco ciò che Claire Bardainne e Vincenzo Susca sottolineano con “maestria”: “siamo fatti della stessa stoffa dei nostri sogni” (Shakespeare). Noi, non “io”. Il noi e non il “sé”. L’inconscio, come il mito, è essenzialmente collettivo.
Les Chalps, 8-VIII-2008 Michel Maffesoli Professore alla Sorbonne, Parigi Direttore del CeaQ Traduzione dal francese di Tito Vagni, Università IULM, Milano
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PREMESSA
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Vibrazioni, tribù, estasi, passioni, giochi, feste, sovversioni, idolatrie, diaspore, barbarie... Come interpretare i fermenti che scuotono l’ordine delle nostre società? Quali sono i totem della cultura contemporanea? Cosa si cela dietro le creazioni, le celebrazioni e le comunicazioni dall’apparenza più frivola che marcano lo scenario sociale?
Ricreazioni è il frutto dilettevole dell’incontro fortuito tra le nostre due biografie, due percorsi tanto eterogenei quanto comunemente animati dalla passione per la ricerca e da una fervida attenzione – al limite della complicità – nei confronti delle esultanze ludiche, dei piaceri e degli incantesimi sprigionati dalle forme culturali emergenti nel seno della vita quotidiana. Con questo testo consegniamo al lettore una sorta di fotografia dell’immaginazione in cui abbiamo immortalato e posto in sinergia disegni, parole, riferimenti scientifici, letterari e artistici in grado a nostro avviso di restituire alcuni frammenti pertinenti del paesaggio caleidoscopico in cui abitiamo, laddove sembra stagliarsi in primo piano, come protagonista della scena, una sensibilità edonistica diffusa. Le pagine che seguono sono contemporaneamente il racconto e l’inseguimento del suo vagabondaggio iniziatico. Il libro prende le mosse da questo afflato di base, accarezza tale pellegrinaggio per abbozzare il ritratto delle galassie da esso promanate e dell’ambiente che si delinea loro attorno, un contesto effervescente e caotico perché segnato dall’incipiente compenetrazione tra società, estetica e tecnologia. Da una perdita del centro a favore di tutti i centri del mondo. Il nostro esercizio – ma attenzione, da questo momento in poi si tratta anche del vostro – è teso quindi a tentare di sfiorare le tante sparpagliate tracce di nulla che compongono il tutto della nostra epoca.
Sono gli spettatori a fare i quadri. Marcel Duchamp
Dare spazio alla profondità dell’effimero. Questo non è un saggio. Questo non è un libro d’arte. Parigi-Roma, 21-VII-2008
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Nessuno può concepire la varietà di sentimenti che mi spingevano avanti, come un uragano, nel primo entusiasmo del successo. La vita e la morte mi sembravano barriere ideali che dovevo prima infrangere per riversare un torrente di luce sul nostro mondo immerso nelle tenebre. Una nuova specie mi avrebbe benedetto come suo creatore e sua origine; molti esseri perfetti e felici avrebbero dovuto a me la loro esistenza. Nessun padre avrebbe potuto pretendere gratitudine così totale dal proprio figlio come quella che avrei meritato da loro. Continuando in queste riflessioni, pensai che se potevo dare vita alla materia inanimata, sarei riuscito col tempo a riportare la vita dove ora la morte mostrava di aver destinato il corpo alla corruzione. Mary Shelley, Frankenstein
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo lo spirito su cui si sono mosse le tecnostrutture induce a rimuovere ogni ostacolo frapposto tra il dispiegamento trionfale della marcia del progresso e l’architettura fisica e immateriale su cui la vita quotidiana riposa. Il corpo corrotto ereditato dalle culture pre-scientifiche e pre-moderne sarebbe potuto essere dotato di nuova vita, depurato dell’ombra che la sua immanenza con la morte e con l’oscurità delle passioni più torbide porta con sé. Se Frankenstein mostra bene l’ideologia della tecnoscienza e la sua indifferenza rispetto agli umori e alle forme della vita cosi come essa è data, il mito del
VAMPIRO
si fa invece metafora di quanto la morte e la natura inorganica della tecnica possano avvincere e trarre a sé il corpo dei vivi. Il vampiro per vivere si nutre del sangue di giovani donne, metafora dell’innocenza e della sensualità; indifferente al loro desiderio di vita le seduce sino ad avvinghiarle e privarle della loro umanità. Così appare la tecnica agli occhi dell’operaio immesso nel ciclo produttivo dopo essere stato strappato dal proprio contesto di vita, gettato in un mondo in cui l’inorganico – la morte – governa il suo corpo e lo subordina alla sua politica. L’eccitazione timorosa scatenata dalla figura del vampiro, desiderio e allarme di cui l’individuo moderno non può fare a meno di essere preda, è la cifra dell’ambiguità della tecnica, accompagnata com’è da una parte della minaccia di fare tabula rasa dell’uomo, e dall’altra dalla promessa di garantirne nuova vita e inebriarlo di felicità inimmaginabili.
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Per questo nel film Dracula di Francis Ford Coppola la giovane donna vive uno stato di indecisione panica di fronte allo straniero-vampiro; tanto più ne teme la mostruosa inumanità quanto più ne è vittima, come se la sua compita condotta di vita da buona borghese l’avesse talmente tanto alienata dalla sua natura da farle preferire la morte per continuare a vivere. Il vampiro esercita sul suo corpo una fosca fascinazione, sollecitando uno stato non-razionale che la invita alla fuga, convocandola irrevocabilmente ad abbandonarsi ai piaceri più lascivi della carne. Il suo panico corrisponde a quello del cittadino metropolitano che per la prima volta si accinge a varcare le soglie della piazza, trovandovi un mondo che non è più e non è ancora il suo. Un universo in cui l’altro è contemporaneamente un pericolo e un oggetto del desiderio. Spazio dove l’io borghese, con tutte le sue restrizioni morali, si abbandona all’orgia. La civiltà borghese nel momento stesso in cui stende la propria rete di strutture e poteri per governare il mondo, accende una sconfinata e ingestibile serie di desideri di una survita immaginaria che, per realizzarsi, implica a lungo termine la sua stessa morte.
GIOCO DI MORTE E DI VITA DÉBORDEMENT NOTTE
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Così come il demone creato dal dottor Frankenstein punisce la tracotanza del suo incauto padre inseguendolo sino a seminare morte nella sua vita, come il vampiro per soddisfare la propria brama di carne e di sangue dovrà spegnere la vita della sensuale borghese, l’industria culturale, dopo essere stata pianificata dalle politiche culturali dei laboratori tecno-scientifici al servizio del progresso, sarà investita giorno dopo giorno di tensioni, pulsioni e magmi onirici antiistituzionali e anti-moderni, che per essere soddisfatti richiedono la dissipazione del sistema che li ha generati. Dracula vive della morte altrui, Frankenstein resta in vita solo per spargere morte nel mondo crudele che ha giocato con i suoi sentimenti e con la sua mostruosità.
L’industria culturale è un continuo laboratorio di immaginari e piani che accostano un’altra vita a quella morente nelle fabbriche e nell’alienazione generalizzata del mondo moderno, una vita-altra che continuamente allude alla morte e si nutre del
FASCINO DEI
fantasmi.
Si celebra così un matrimonio clandestino tra il quotidiano e il sistema della comunicazione, un legame che detourna e scavalca le istituzioni e le loro razionalità. Mentre le seconde evocano e fanno leva sulla bellezza, sulla morale e sulla razionalità astratta, l’abbraccio voluttuoso tra i primi instaura una danza attorno alle passioni torbide, al kitsch, al banale, all’onirico, all’emozionale e a tutto ciò che rinvia a un’esistenza imbevuta di dispendio e di eccessi. La morte, il corpo erotizzato e erotizzante, il fascino del grande delinquente e di chi sabota la legge, divengono le costanti dell’immaginario collettivo oltre qualsiasi tentativo di indirizzo pedagogico. Non è un caso che il medium che innesca la cultura dello schermo e funge da prodromo all’elaborazione matura dell’industria culturale e dei suoi pubblici, la fotografia, sia dall’inizio un mezzo utilizzato e amato per rappresentare gli spettri, in nome della sua capacità di rendere presente un’assenza.
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La moda prescrive il rituale secondo cui va adorato il feticcio della merce; Grandville estende i diritti della moda agli oggetti dell’uso quotidiano e al cosmo intero. Seguendola nei suoi estremi, egli scopre la sua natura. Essa è in conflitto con l’organico; accoppia il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere. Il feticismo, che è alla base del sex-appeal dell’inorganico, è la sua forza vitale. Il culto della merce lo mette al proprio servizio. Walter Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo
Ogni mezzo di comunicazione vive a spese del reale*, come sfida e rilancio rispetto alle forme in cui esso è schiacciato o alle pulsioni che deve sopprimere per non contravvenire alla morale e alla legge dominanti. La morte, la distruzione e le catastrofi delle quali l’industria culturale continuamente si nutre e alle quali costantemente rimanda sono altrettanti modi di garantire sul piano immaginario il trapasso di una condizione sociale avvinghiata a logiche in opposizione alla dimensione onirica e festiva del corpo sociale. Per giungere al piacere, quindi per liberarsi dalle costrizioni a cui il sistema tende costantemente a sottomettere, il vissuto collettivo deve passare per il momento catastrofico in cui elabora il sentimento della morte, della distruzione.
MORIRE
PER TORNARE A
VIVERE
DANZA
DI MASCHERE
in cui la morte e l’altro da sé sono i sovrani. Il sistema della moda vive della stessa tensione. Calibrato sul corpo, anch’esso convocato in prima battuta a “uniformare” il sistema sociale in modo tale da coprire la nudità e le sue oscenità con un rivestimento funzionale, ben presto dovrà adeguarsi – sino a rincorrere – ai capricci dei sensi sui quali si è adagiato e al loro desiderio incessante di congiungersi e dissociarsi freneticamente dall’altro e dal mondo.
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Il feticcio della merce, che come indica Guy Debord verrà completato dal feticismo dell’immagine, tende a stabilire un cerchio magico tra il pubblico, gli oggetti e l’immaginario. Esso trasfigura il mero valore materiale delle sostanze di cui si nutre e dà vita a un universo simbolico in cui l’adorazione di un totem diviene il tramite della contemplazione di una tribù. La venerazione della merce è il risultato paradossale del processo di secolarizzazione, allorché dopo l’estinzione della carica sacrale e mitologica delle religioni, dopo aver spento l’adesione al politico inteso come forma profana di religione (Karl Marx), il pubblico, bramoso com’è di sognare, sacralizzare e bagnarsi nel mito, si specchia della propria bellezza e, attraverso l’estetizzazione della vita ordinaria e le invenzioni dell’immaginazione, svela il fascino del quotidiano sino ad ergerlo a icona del qui e dell’altrove. Il feticismo diviene nel secondo Novecento, allorché l’industria culturale giunge al suo apice espressivo, un tratto saliente della religiosità postmoderna, che riposa sul principio della trascendenza immanente. Esso fa leva sulla propensione a rendere sacro ciò che in principio è semplicemente materia, che non rinvia ad altro se non a una vita mondana
REINCANTATA.
La trascendenza si fa immanente, il divino si incarna nel corpo sociale. Michel Maffesoli, La part du diable
I riti e i miti che si consumano attorno ai fuochi dell’industria culturale e delle sue protesi restituiscono così un mondo immaginale inedito rispetto a quello pensato e razionalizzato dalle classi dirigenti, un universo di senso e di sensi in cui il corpo sociale si immunizza rispetto alle pressioni esterne ed elabora forme dell’abitare consone al proprio ritmo di vita e alternative rispetto alle trame sistemiche.
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Il sistema degli oggetti è relativizzato dalle potenze societali con le quali entra in contatto in un rapporto costantemente dialogico, dove l’equilibrio tra chi possiede e chi è posseduto è meno importante del corpo ibrido che l’incrocio tra le genti, le immagini e i materiali pone in essere. Il feticismo della merce diviene così non tanto il dispositivo tramite il quale si accetta la subordinazione a un ordine di cose, ma la tattica di trasfigurazione che il corpo sociale attiva per assetare i propri desideri e continuare a vivere oltre il principio di utilità imposto dalle dinamiche istituzionali. L’industria culturale garantisce così segretamente, sottobosco, una survita che lentamente dissangua e disarticola il discorso e la logica delle istituzioni che la soprassiedono, lasciando fermentare sensibilità talmente esterne alle prospettive del sistema da costituirne una
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UNA SORTA DI SCHEGGIA IMPAZZITA. Nei magazzini dell’immaginario e negli involucri della merce giacciono e sono alimentate tentazioni di fuga dal sociale, micce esplosive nei confronti dell’ordine costituito, sogni talmente bollenti da turbare la tranquillità dei censori e degli amministratori, perennemente preoccupati a calibrare i contenuti dello spettacolo e a mantenere un equilibrio ragionevole tra la tensione dissipativa del pubblico e il contegno di cui il sistema ha bisogno per perpetuarsi. Ciò che lo spettacolo svela è l’esistenza di un corpo lungi dall’essere ridotto all’asepsi, pronto a infiammarsi al cospetto
di fughe estatiche e di brividi amorosi. In questo modo si spiega bene l’attenzione che le istituzioni moderne concentrano sul corpo nelle sue differenti modulazioni, sulle sue pulsioni carnali così come su ogni situazione in cui esso possa cedere alle tentazioni anomiche (Michel Foucault).
Le esposizioni mondiali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre. L’industria dei divertimenti gli facilita questo compito, sollevandolo all’altezza della merce. Egli si abbandona alle sue manipolazioni, godendo della propria estraniazione da sé e dagli altri. Walter Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo
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Fremiti amorosi e violenti scandiscono gli addensamenti che iniziano a manifestarsi nelle metropoli, territori ďŹ sici che sprigionano auree immaginarie, nebulose oniriche che si sovrappongono una all’altra nell’elaborazione di un sentire comune origine di ogni tensione
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TRANS POLITICA.
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Nel gioco di specchi che si instaura tra vita quotidiana, merci e immagini dell’industria culturale viene ricamata un’armatura molle sul corpo della massa, pronta a garantirne la sopravvivenza in un modo o nell’altro, sempre in grado di conciliare la vita e la morte, di proiettare il pubblico al di là di se stesso, a partire dalle spaziature del proprio abitare. Quando Max Ernst scopre che il frottage può offrirgli una via privilegiata all’esperienza del “dérèglement de tous les sens” preconizzata da Rimbaud, si rende conto di quanto uno spettacolo imprevisto, nel quale il suo ruolo è limitato a quello di un agente passivo, possa scatenare eccitazioni e forme di partecipazione magica al mondo e alle sue cose: “Nuotatore cieco, mi sono fatto vedente. Ho visto. E mi sono sorpreso innamorato di ciò che vedevo, volendo identificarmi in esso”. La stessa scintilla si innesca nel corpo dello spettatore di fronte alle esposizioni universali e alle loro meraviglie, e in seguito in quello dello spettatore cinematografico al cospetto del grande schermo. Essi si innamorano di ciò che vedono per le sensazioni e le fughe che gli oggetti o i segni contemplati sobillano, per la catena di rimandi che pongono in essere tra l’ambiente e il sogno, tra il sé e l’altro da sé. La fantasmagoria in cui l’uomo accede per lasciarsi distrarre sottintende una fuga al confine tra la perdizione volontaria e l’ineluttabile ipnosi, come se l’individuo moderno non possa far altro, per rendere la propria esistenza completa, che sdraiarsi sui divani dell’intrattenimento infinito (Maurice Blanchot). L’uomo ascende così allo stesso piano della merce sino a confondersi al suo interno e a lasciarsene penetrare negli strati più reconditi del proprio corpo e della propria immaginazione, instaurando così un rapporto di dipendenza che gli consente di guardarsi dall’esterno di se stesso, di sperimentare il senso del proprio corpo a partire da ciò che giace ai suoi bordi...
...ESTASI
Tutto ciò che non è me è incomprensibile. Che la vada a cercare sulle rive del Pacifico o che la raccolga nelle contrade della mia esistenza, la conchiglia che adagerò sul mio orecchio risuonerà la stessa voce. La scambierò per quella del mare ma sarà solo il rumore di me stesso. Tutte le parole, se non mi accontento più di guardarle nella mia mano come degli oggetti graziosi di madreperla, tutte le parole mi permetteranno di ascoltare l’oceano, e nel loro specchio sonoro non ritroverò nient’altro che la mia immagine. Il linguaggio, a discapito di ogni apparenza, si riduce al solo Io e se ripeto una qualsiasi parola, questa si spoglia di tutto ciò che non è me sino a divenire un rumore organico tramite cui la mia vita si manifesta. Non c’è altro che me al mondo e se alcune volte ho la debolezza di credere all’esistenza di una donna, mi basta piegarmi sul suo seno per ascoltare il rumore del mio cuore, per riconoscermi. I sentimenti non sono altro che linguaggi per facilitare l’esercizio di alcune funzioni. Porto nel mio taschino sinistro un mio ritratto fedele: è un orologio in acciaio bruno. Parla, marca il tempo, non capisce nulla. Tutto ciò che è me è incomprensibile. Louis Aragon, Moi
attraverso cui la fuga dal sé coincide con la scoperta di ciò che eccede il soggetto, la grande cosa di cui esso fa parte senza saperlo: l’inquietante alterità che brama ardentemente, oltre la lava dell’io. 29
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foto GRAFIA
30 A qualche anno dalla sua invenzione e appropriazione sociale, possiamo iniziare a percepire in che modo l’avvento della fotografia digitale abbia modificato dapprima la pratica dello scatto e in seguito lo sguardo di chi si colloca alle spalle dell’obiettivo. Siamo contemporaneamente autori e spettatori di un
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PROFLUVIO DI IMMAGINI CHE DISSOLVE
il valore più squisitamente estetico e sacrale dello scatto – alla ricerca del sublime – in favore di un’intensificazione della quantità e della condivisione degli album fotografici. È ciò che avviene in flickr.com.
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L’azzeramento dei costi dello sviluppo e
L’ E S P A N S I O N E delle memorie digitali ci sollecitano ad
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i dettagli anche più futili della nostra esperienza, mentre la natura connettiva delle nuove tecnologie preme affinché mettiamo questi ultimi a disposizione del pubblico.
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Nei luoghi più o meno affascinanti, durante i grandi riti della vita collettiva, così come nei momenti più sensibili della nostra esistenza, siamo
ACCECATI
dall’avido bisogno di immortalare l’immagine, preferendo delegare all’occhio della macchina fotografica e alla sua memoria le azioni che prima compivamo autonomamente. Subito dopo avvertiamo l’esigenza di mettere in scena l’intimità della visione, come se da soli non fossimo in grado di farla esistere adeguatamente. La memoria individuale viene quindi estesa in una sorta di maestoso corpo tecnosociale che ne archivia e socializza ogni istante.
L’estetica si vaporizza tra le dita dei milioni di neofotografi e i gruppi si fondono attorno al valore primordiale dell’immagine. Foto dopo foto la quantità si fa qualità e il gioco diviene sempre più fine e gradevole, ridefinendo i canoni tradizionali della bellezza e mettendone in crisi i suoi custodi.
Ecco schiudersi, al di là dell’Arte, il “bello” della nostra epoca.
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TECNO M A G I A
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TECNICA, MAGIA E RELIGIONE ERANO IN PRINCIPIO
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intrecciate in un nodo indissolubile, cosicché il più alto grado di esperienza mistica corrispondeva naturalmente al livello più fine di agire tecnologico e di arte occulta. Il totemismo, pratica di religione tribale tramite la quale un gruppo, per mezzo di una frizione estatica, entra in congiunzione con la divinità e la natura che lo circonda, rappresenta la figura emblematica della coincidenza tra i tre fattori. Il processo di civilizzazione ha inferto in seguito uno strappo radicale a tale paradigma. In modo particolare, la modernità e la sua tecnologia caratterizzante, la stampa, hanno generato un processo di frammentazione tra parole e cose, corpo e spirito, sacro e profano, agente in direzione di un disincanto del mondo e quindi di una progressiva razionalizzazione dell’esistenza (Max Weber). L’effervescenza religiosa viene così estirpata dal corpo della tribù e istituzionalizzata nella trascendenza dei testi sacri: la Bibbia è il primo libro stampato e con essa si inaugura l’onda lunga del tempo moderno; la magia è relegata negli inferi della vita quotidiana e stigmatizzata come nebbia della coscienza; la tecnologia è posta come mezzo del dominio dell’uomo sulla natura, strumento atto a risolvere problemi e attrezzo utile ad accentuare la separazione nei confronti dell’altro. Nascono così gli stati-nazione e i loro confini invalicabili, si diffondono le scienze con i loro saperi e metodi prescrittivi inaccessibili ai più e si impone sul mondo la casta elitaria dei custodi del verbo politico, religioso, tecnico, artistico... Il punto di massimo splendore di quest’epoca tuttavia porta con sé, come l’ultimo bouquet dei fuochi d’artificio, anche il suo tramonto, l’annuncio della sua catastrofe. Come ha notato Marshall McLuhan già negli anni Sessanta, la diffusione sociale dei nuovi media elettronici si pone come l’agente di deflagrazione della cultura moderna e del suo ordine politico, sociale, identitario ed economico. Per quanto tale invenzione provenga dai laboratori tecnoscientifici elaborati già a partire dal XVIII e XIX secolo, essa si dirige, nel suo uso e consumo, contro le intenzioni dei suoi creatori – come il mostro creato dal dottor Frankenstein per esaudire i suoi sogni di gloria. La manipolazione sociale dell’innovazione tecnologica si presenta come la principale scintilla che origina la catena degli effetti perversi di quella che Guy Debord ha chiamato la “società dello spettacolo”. Basti a tal proposito soffermarsi sulla parabola di Internet per afferrarne il senso: inventata a scopi militari e accademici, essa è trasformata nel bacino dove si sperimentano forme di collaborazione, di connessione e di intelligenza sensibile dotate di una forte connotazione antimoderna: non-verticali, non-razionali, non-ideologiche, separate dalle élite, impertinenti nei confronti della legge istituita e disgiuntive rispetto all’ordine delle nazioni.
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QUI LA SFERA PUBBLICA SI
in tanti addensamenti a carattere neotribale, ognuno dei quali dotato di un proprio ordine etico che travalica la morale universale, i suoi strumenti e i suoi paradigmi. È per questo che la maggior parte dei cybernauti viola la legge del copyright spontaneamente, senza scrupoli, sacrificando i propri doveri di cittadinanza all’edonismo e al piacere di congiungersi al gruppo tramite informazioni, simboli, suoni e affetti condivisi. La stessa vocazione sollecita l’impiegato di turno a ridurre surrettiziamente il proprio tempo di lavoro approfittando del proprio schermo digitale per chattare su Msn Messenger o su Skype, per scambiare foto in flickr.com, per giocare a carte su burraconline.com o per “rimorchiare” in Second Life.
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La tecnologia si manifesta così come l’arnese tramite cui affinare e socializzare le radicate tattiche di furbizia popolare, tutti quei metodi minuscoli tramite cui il popolo si è sempre difeso dallo sguardo aggressivo e pedante del potere. Il passaggio al quale assistiamo assume i tratti di una vera e propria
mutazione antropologica, dove ciò che prima si esprimeva in termini di
RESISTENZA
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si traduce oggi in
CREAZIONE E RICREAZIONE. Nel momento in cui i nuovi media consentono da una parte la produzione del linguaggio e dell’ordine simbolico a partire dalla manipolazione della loro grammatica di base, dall’altra la connessione e la condivisione di sensibilità prima troppo esigue e sparpagliate per manifestarsi in modo operativo e visibile, la mappa del potere e il volto della tecnologia si alterano.
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P AT T
F U S IO N
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Il legame che scaturisce dalla congiunzione tecnomagica non si poggia più su un contratto razionale e astratto – il “contratto sociale” – ma su un patto in cui l’emozione, gli affetti e i simboli condivisi si pongono come le nuove matrici dell’essere-insieme, come i nuovi presupposti di ogni fusione collettiva. Non potremmo comprendere con sufficiente pertinenza le chiacchiere insensate delle chat line, i fiumi di emoticon e di battute che scorrono tra un telefonino e l’altro, le identificazioni multiple nei confronti dei nuovi miti della cultura spettacolare, senza intravedere alle loro spalle la pulsione erotica che muove il fondo della vita sociale, il desiderio ardente di congiungersi in modo olistico all’altro da sé.
PU LS IO NE ER OT IC A
OLISMO
CONNESSIONE
La parola non è altro che il culto e la formula magica tramite cui si manifesta la vocazione di ogni comunità nascente a saldarsi in uno stato di comunione per mezzo di una comunicazione.
CULTO
Qui il contenuto passa in secondo piano rispetto all’effervescenza sociale, la quale, come accade nel Web 2.0, si pone come il cuore stesso del medium. Per questa ragione i new media tendono a caratterizzarsi non come vettori di contenuto, ma come agili ambienti connettivi. EF FE RV ES CE NZ
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Il corpo è il messaggio dei nuovi media elettronici. Il nostro tessuto è la superficie, il protagonista inconscio, di un doppio processo che, per quanto appaia come invisibile – e proprio per il fatto che non riusciamo a scorgerlo e tanto meno a capirlo – ha degli effetti dirompenti sulle trame della nostra cultura. Senza saperlo, stiamo
tutti divenendo dei
CYBORG.
Da una parte estendiamo il nostro sistema nervoso centrale al di fuori del nostro cervello nelle memorie digitali, negli schermi audiovisivi, nei depositi di informazioni on line...
ESTEND
... e dall’altra lo riassorbiamo in modo espanso nella nostra pelle tramite i dispositivi portatili come i telefonini, i palmari, i lettori mp3, le microtecnologie e quelli che vengono chiamati i wearable computer. Ciò accade in modo al tempo stesso naturale e inconscio: sappiamo come ripescare i dettagli della nostra esistenza in un palmare ma ignoriamo il processo tramite cui ciò è reso possibile.
RIASSORBIAMO
Nella nostra epoca elettronica, vestiamo tutta l’umanità come la nostra pelle. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare SAP
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fantasmagorie
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Una delle distinzioni fondamentali tra la tecnologia e la magia risiede nel principio secondo cui nella prima vi è una proporzione congrua tra cause ed effetti, tra lo sforzo prodotto e il risultato ottenuto. Nell’era della tecnomagia viene invece disarticolato il principio meccanico e funzionale che ha funto da perno all’agire tecnologico.
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Gli esiti di un’azione non hanno niente a che vedere con quest’ultima e sono frutto di un mistero, elaborati nell’ambito dell’invisibile. Basti pensare a tal proposito alle reti senza fili Wi-Fi. È il computer o il telefonino a comunicarci se esse sono accessibili. Nel momento in cui non ne veniamo a capo, imploriamo il destino o ci rivolgiamo ai nuovi maghi: i nerd. Questi ultimi sono i depositari di un sapere occulto che serve ad iniziarci al nuovo mondo, quello in cui, per parafrasare Shakespeare,
“siamo fatti della stessa stoffa dei nostri sogni”.
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In quanto maestri di un universo ai più oscuro, calati nell’ombra delle proprie stanze e dei propri garage, i giovani esperti di nuove tecnologie sono accompagnati nell’immaginario da figure come quella dei “pirati” e dei “barbari”, giacché, come questi ultimi, essi sono portatori di una conoscenza alternativa rispetto a quella fissata nelle istituzioni del sapere e del potere moderni. Ogni comunità virtuale, rete di blogger, tribù urbana, al di là del proprio agire tecnologico e degli strumenti di cui si avvale, serba in sé una storia, una verità, uno stile di vita e un immaginario a se stanti, dei mondi che fanno “società” attraversando i confini e i paradigmi sinora imperanti.
Si tratta di paesaggi sociali ad alta densità simbolica ed emotiva in cui la religiosità, la magia e la tecnologia coincidono. A differenza delle fantasmagorie che hanno caratterizzato l’avvento dell’epoca cinematografica e televisiva, siamo in questo caso al cospetto di universi dove i
fantasmi possono essere toccati.
Autonomia delle forme simboliche.
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Qui l’aspetto tattile dell’esistenza è tirato in causa insieme con l’immaginazione. Nelle sale del cinematografo, il pubblico, come in uno stato di allucinazione, si proiettava sullo schermo e si lasciava trasportare, secondo l’interpretazione di Edgar Morin nel suo libro Il cinema o l’uomo immaginario, nei corpi delle star.
Nel cyberspazio ci estendiamo invece in maschere che noi stessi abbiamo generato.
Le cose invisibili sono le sole reali. William Godwin, Mandeville
Sulla scia della stessa tendenza, sempre più adolescenti elaborano il proprio blog senza avvalersi di aiuti esterni, molti giovani studenti americani utilizzano la storia di Harry Potter come base per elaborare altrettanti universi magici di cui essi sono contemporaneamente i protagonisti e i nuovi maghi. Possiamo estendere il discorso della magificazione del mondo al di là della sua declinazione tecnomagica. Notiamo quindi l’intensificarsi del ricorso ai fiori di Bach, all’astrologia, alle tecniche spirituali della New Age, così come la popolarità di film come Il Signore degli Anelli, Ratatouille e lo stesso Harry Potter. A ben vedere, il successo di queste narrazioni è direttamente proporzionale alla crisi delle religioni, delle ideologie storiche e del riduzionismo scientifico. Una fiammata di neomisticismo divampa così negli scenari sociali, adombrando le premesse più logiche e razionali della cosiddetta “società della conoscenza”.
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Ci trasformiamo inconsapevolmente in tanti piccoli maghi di un mondo reincantato, in cui diveniamo al tempo stesso soggetti e oggetti di inedite possessioni, idolatrie e nuovi sacrifici. Gli altari del consumo e della comunicazione si pongono quindi come sostituti di ciò che fino ad oggi è stata la religione prima e la politica poi, ma ciò non implica necessariamente l’apparizione di un mondo nitido e armonioso. Potremmo anzi dire che la cultura postmoderna contribuisce, nel bene e nel male, ad integrare l’ombra – la parte maledetta (Georges Bataille) – che per molti anni i sistemi socioculturali hanno marginalizzato e rimosso. Ciò che appare in modo inedito è tuttavia la natura del sacrificio in questione: le tribù contemporanee danzano attorno ai nuovi totem pensando al proprio benessere e in ossequio alla propria religione, senza aderire a nessuna trascendenza o ad alcun progetto che non rientri nell’universo affettivo e immaginario del gruppo. In questo scenario i nuovi riti iniziatici non sono né scritti, né prescritti, facendo piuttosto parte del sapere incorporato della comunità. Per essa, la tecnologia non si presenta più come una mera panoplia di strumenti tramite cui risolvere problemi, assolvere funzioni o adattare l’ambiente, assumendo invece le sembianze di una tecnomagia atta a congiungere soggettività sociali attorno a vibrazioni emotive, a piaceri info-estetici e a pulsioni ludiche.
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Navigare in questo ambiente equivale pertanto a porre se stessi come taumaturghi di un paesaggio di cui la tecnica è solo la porta di ingresso.
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Un portale dove
l’immaginario si fa oggettivo e pressa sul mondo affianché l’universo fisico entri in congiunzione e assuma le sembianze di quello invisibile.
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D I A S P O R A
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Ormai da molto tempo siamo assillati da un allarme:
la democrazia occidentale è in
CRISI.
I segni di questo stato si manifestano sotto molteplici sfaccettature: disaffezione nei confronti della politica, diserzione dei grandi riti del mondo moderno, indifferenza nei confronti delle idee-guida su cui si sono adagiati i paradigmi istituzionali, traduzione in spettacolo di tutto ciò che fino a pochi decenni fa costituiva l’anima della vita pubblica (dibattiti elettorali, simboli politici, piani programmatici). Le voci dalle quali zampilla in modo lancinante il grido preoccupato dell’obsolescenza del modello politico contemporaneo sono perlopiù quelle di chi è stato sino ad oggi il custode dello status quo: le élite che compongono l’intellighenzia (politici, intellettuali, imprenditori, artisti, giornalisti...). È infatti evidente che più il sistema perde l’appeal del suo pubblico e più le sue gerarchie e i suoi privilegi, così come i suoi rappresentanti, tendono ad essere delegittimati.
La natura, le forme e l’esito della
diaspora volontaria dalla democrazia possono essere colti in modo preciso alle spalle del grande avvicendamento che sta maturando nel seno del sistema comunicativo occidentale, ed in particolare nell’avvento dei nuovi media elettronici, i quali stanno rapidamente assumendo il ruolo che la televisione ha avuto nel corso degli ultimi cinquanta anni.
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Che succede allorché la società non si organizza più attorno al libro e neanche allo schermo televisivo, optando invece per YouTube, i blog, FaceBook, MySpace o le reti costituite dalle fitte trame di sms, chat, forum o post? Qual è la forma di potere che si affaccia su uno scenario contraddistinto dalla proliferazione di tribù, passioni ludiche, mitologie elaborate dal basso, capacità cognitive tanto più fini quanto più predisposte orizzontalmente e tramite la conversazione?
PIRATA DELINQUENTE,
Se qli aggettivi
e
riservati a coloro i quali violano le norme sul copyright, condividono illegalmente informazioni, suoni e video, servono ormai non più a definire una minoranza ma a dipingere il ritratto della maggior parte dei cybernauti, ciò non indica tanto che la società è mossa da un istinto barbarico o incivile, quanto che
le norme vigenti non le corrispondono più.
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Nel momento in cui la conoscenza non passa più per i canali verticali e pedagogici tradizionali, bensì si elabora connettivamente e si scambia nelle varie Wikipedia, siti di approfondimento o reti di blog tematici, piuttosto che rimpiangere i vettori che svaniscono, siamo chiamati a prendere atto di una nuova forma di sapere che non è necessariamente più stupida o fragile di quella che soppianta. Il dato secondo cui la creatività e la socialità si manifestano oggi sotto forma di passioni e di simboli svincolati dagli imperativi categorici della politica e dell’economia moderne, quindi al di là dell’individualismo, della proprietà privata e degli scambi commerciali, lascia trasparire non la semplice degenerazione della società, quanto una sua diversa configurazione, animata da un afflato transpolitico.
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La democrazia appare alle nuove soggettivitĂ che si affacciano sulla scena come priva di appeal per una serie di ragioni e di passioni pertinenti al loro modo
DI ESSERE, DI COMUNICARE E DI ABITARE. 59
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La democrazia si riferisce a un demos intangibile e ignoto in cui le nuove tribù non si riconoscono, incorporeo rispetto alla natura sensibile dei raggruppamenti neocomunitari e delle loro continue interazioni sensoriali. Tale demos non ha mai governato: il termine democrazia è ormai percepito nella coscienza comune come un’antifrasi che indica il potere di pochi su molti. Questo modello politico riposa su ideali astratti e proiettati nel lungo termine che non mobilitano la partecipazione di gruppi e persone sempre più saldati a simboli e passioni che possono consumarsi e comunicarsi nella prospettiva concreta del carpe diem, qui e ora. I confini degli stati-nazione – le grandi case delle nostre democrazie – risultano rigidi e arbitrari rispetto agli impulsi nomadici che animano i flussi culturali della postmodernità. Questi ultimi si manifestano come tante bolle transitorie che di volta in volta decostruiscono e ricostruiscono i contorni della sfera pubblica istituita, nel loro andirivieni tra localismi e globalismi, tra pelle e schermo. In questo quadro la legge e il contratto sociale si palesano come cristallizzazioni forzate di un ordine universale e astratto incoerente rispetto alle molteplici declinazioni in cui i gruppi, le tribù e i network si esibiscono. La loro prospettiva è ormai transnazionale, il territorio che abitano integra nelle trame urbane le connessioni elettroniche e contribuisce così a disarticolare i limiti, le identità e i poteri precostituiti. Le culture digitali – epifenomeno dello spirito postmoderno – non sono più alla ricerca di una rappresentanza, né appaiono disposte a delegare ad altri le decisioni che concernono il proprio ordine di vita. La riduzione della distanza che intercorre tra spettatore e schermo, rivelata dallo sviluppo dell’industria culturale degli ultimi cento anni – dal cinema alla televisione sino ai display dei dispositivi portatili, palmari e dei wearable computer – è in tal senso istruttiva e si offre come metafora della brama di protagonismo che sempre più puntella lo scenario sociale.
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IMPUL S I NO M A DICI
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Il cybernauta non si lascia pi첫 rappresentare ma
SI
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PRESENTA nello spazio pubblico
con la sua capacità autonoma di manipolazione del linguaggio, non più in quanto individuo isolato e separato, ma con alle spalle una comunità costituita da affinità elettive che scavalcano il tempo, lo spazio e le identità geopolitiche e ideologiche tradizionali.
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comuni CRAZIE
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Ogni rete di blogger, tribù urbana, comunità virtuale, flash mob o smart mob genera una comunicrazia, la quale si manifesta come la forma di potere liquida della postmodernità plasmata in ogni situazione in cui una comunità vibra all’unisono in uno stato di comunione attorno a una comunicazione.
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Tale configurazione vale e funziona nell’istante e nel luogo in cui si realizza una tale frizione, per esempio quando gli iniziati di una chat line dedicata ad Harry Potter si ritrovano, oppure allorché un gruppo di ultras supporta la propria squadra nel solito versante della Curva Sud allo Stadio Olimpico di Roma. In questi casi
LA LEGGE CEDE IL PASSO ALLA
LEGGE DEL GRUPPO.
Essa è tanto più stringente quanto più non scritta e incorporata come un nondetto nella comunità. È così che in maniera spontanea e tendenzialmente inconsapevole le tribù postmoderne, trasportate dall’estasi del proprio incontro, incantate dalla mitologia che le stringe in un abbraccio intimo, violano la norma giuridica statale sovrapponendole la propria. La proliferazione di comunicrazie non ha più a che vedere con minoranze disobbedienti o rivoluzionarie, ma diviene sempre più un fenomeno che si capillarizza in tutto il corpo sociale, in tutti noi; basti pensare al file sharing di musica o video, al momento in cui si dà vita in rete a transazioni economiche illegali, oppure a quando si trasgrediscono i confini della privacy o delle varie morali religiose o politiche.
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Quanti possono dirsi esenti da tali pratiche illegali? Ognuno di noi – lo voglia o meno, lo sappia o no – appartiene e oscilla tra molteplici tribù comunicratiche, di cui può essere di volta in volta più o meno responsabile, più o meno ai vertici della gerarchia. Ciascuno di questi aggregati è infatti contraddistinto dalla presenza di figure carismatiche, di “maestri” che custodiscono meglio degli altri partecipanti il segreto del gruppo. La differenza nei confronti delle abituali forme di potere e di clan è che i vertici di queste bolle sono considerati come legittimi nella misura in cui garantiscono il coordinamento trasparente e orizzontale dei “fratelli”, lasciando circolare liberamente le informazioni e rispettando lo spirito o la religione che cementa il gruppo. Questo tipo di figura connettiva è quindi costantemente revocabile, così come costretta a confrontarsi con tutte le altre dimensioni comunicratiche presenti sullo scenario. Il guru della rete di blogger consacrata al rap può così al tempo stesso essere un semplice discepolo della community dedicata allo sviluppo sostenibile, un membro come tanti di MySpace e l’ultimo arrivato in Second Life.
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Siamo di fronte alla conďŹ gurazione di un paesaggio sospeso
TRA IL VISIBILE TRA IL MATERIALE
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E L’INVISIBILE, E L’IMMATERIALE.
Une dimensione in cui le nostre forme di esperienza si moltiplicano e al tempo stesso complessificano, disarticolando l’ordine e il paradigma monolitico, astratto e universale delle istituzioni, nate per servire e per corrispondere a un individuo, a un territorio e a una politica ormai consegnati alla storia.
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Il modello della rete si pone come il paradigma delle comunicrazie proliferanti. Tale termine non rinvia più, come “videocrazia” o “mediacrazia”, al mero potere strategico, dall’alto, degli apparati dell’industria culturale, bensì è in grado di focalizzare l’attenzione sulle dinamiche sprigionate, dal basso, dalle soggettività che abitano l’altra parte dello schermo. Esso non si lega più all’astrazione del demos, ma alla concretezza della communitas. Si tratta di un sistema che non ha più un centro e un confine spaziale predeterminato, ma che si genera transitoriamente sulla base delle connessioni e delle erranze esperite nei territori virtuali e reali. Qui l’accento è spostato dal momento della decisione – dal silenzio del voto – a quello della discussione e della contrattazione. Nel seno delle nuove comunicrazie matura lo slittamento fatidico dalla figura emblematica del Re a quella del suddito. Tutto il conservatorismo del mondo non può opporre neppure una resistenza simbolica all’assalto ecologico dei nuovi media elettrici. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare
La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte ha consentito al pubblico di avviare il progressivo processo di invasione e ricreazione, secondo il proprio intimo sentire, dello spazio che la modernità ha dapprima inventato e quindi usato come luogo sacro ove dispiegare la propria legge, i propri codici e l’ombra delle proprie istituzioni: la barriera-mondo che in ogni museo separa lo spettatore dall’opera d’arte, ovvero la frontiera dal forte contenuto metaforico che divide il soggetto dall’oggetto attraverso la mediazione dello stato. Si tratta del punto in cui il potere si esercita e si automanifesta come forza. Tale fase ha funto da prodromo, tra l’altro, alla liberazione degli immaginari personali e microcomunitari dai linguaggi generalisti e dalle narrazioni collettive, manifestatasi sensibilmente in tutta la seconda metà del Novecento soprattutto in relazione alla diffusione sociale dei personal media.
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In modo analogo, la riproducibilità digitale del politico tende a infrangere e a trasgredire la soglia che isola la piazza dal palazzo, così come a superare il fragile dualismo evocato dallo schermo televisivo, che pone da una parte il cittadino-elettore e dall’altra il teleleader: la natura della rete non solo favorisce una forma di esperienza immersiva, ma ancor di più invita palesemente l’utente a produrre mondi, liberando la creatività e l’istinto transpolitico di ogni persona. Ecco quindi che la distinzione tra il politico e la persona tende ad apparire come una convenzione datata, obsoleta sia dal punto di vista culturale che tecnico. La politica nell’epoca della sua riproducibilità digitale, così, si risolve e dissolve nella negazione dissacratoria dell’universo del politico, nonché nello slittamento dell’aura verso il divino sociale in tutta la sua dimensione sensibile e surreale.
Il potere dei flussi afferma la sua priorità sui flussi del potere. Manuel Castells, La nascita della società in rete
Le comunicrazie nascenti si saldano nell’incrocio fecondo tra le comunità, le comunioni da esse celebrate attorno agli amuleti e ai simboli della vita quotidiana e la comunicazione nel senso più profondo del termine: mettere in comune. Se è vero che il termine rinvia alla dimensione del potere, è altrettanto pertinente sottolineare che si tratta di un potere indebolito, relativizzato e sciolto nelle interazioni che permeano la vita quotidiana; un potere scevro dei suoi connotati moderni, la trascendenza e l’astrazione, riconfigurato piuttosto sui parametri orizzontali delle reti. Le comunicrazie sono le forme di potere liquide della postmodernità come la democrazia è stata il corrispettivo solido della modernità.
La favola è diventata il mondo vero. La favola è diventata il mondo vero. La favola è diventata il mondo vero.
Il mondo vero è diventato favola. Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli
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La potenza di ogni comunicrazia nascente deriva dalla forte solidarietà che fonde il gruppo, il quale si manifesta come un’intelligenza sensibile caratterizzata dalla condivisione di simboli, informazioni e affetti che insieme delineano l’aura della tribù, una sorta di placenta in cui ogni partecipante è immerso. È istruttivo, a tal proposito, rinvenire la caratteristica precipua della storia dell’aura come un percorso verso la sua progressiva evaporazione. Nell’ambito delle rappresentazioni figurative, essa dapprima circonda l’intero corpo del santo, poi solo la testa, infine si sposta sopra il cranio, per poi sfumare. L’aura costituiva il sigillo del santo e godeva di un valore terapeutico. Il contatto con il suo corpo, il privilegio di sfiorare il santo, conferiva al fedele salute. L’aura è quindi la membrana tattile, seppure eterea, che si frappone fra la persona e la sua alterità, l’elemento liminare che contemporaneamente cinge e separa, stabilendo una relazione tra il mondano e il divino. Sotto forma di connessioni elettroniche, essa si presenta nella nostra epoca in una veste e con degli effetti inediti: siamo immersi in un ambiente di dati dove la nostra azione, in un processo di reversibilità costante, contemporaneamente fa e subisce il mondo. Le antiche teorie dei maghi sull’aura evocano fili che possono essere rintracciati e tirati, esattamente come avviene oggi con l’aura elettronica nell’era di Internet.
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L’aura elettronica si pone come
LA TRAMA CHE LEGA,
in modo sempre più tattile, ogni membro di un gruppo all’altro e alle proiezioni del suo immaginario. In tal modo comunicare equivale sempre di più da una parte ad immaginare e astrarre, dall’altra a toccare con mano. In questo scenario siamo perennemente circondati da una sorta di nuvola densa di rapporti, informazioni e simboli che serbano la qualità della nostra identità accresciuta così come il suo eccesso – ciò che non ci appartiene più perché dipende e proviene da ciò che è a noi esterno. Tale nebulosa rappresenta la nostra memoria sensibile espansa e l’anello di congiunzione tra la nostra dimensione di vita fisica e quella immateriale. Qui l’immaginario si incarna sui bordi della nostra pelle e sulla pelle del mondo.
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Siamo ormai consapevoli della possibilità di organizzare l’ambiente umano come se fosse un’opera d’arte. Marshall McLuhan, The medium is the MASSAGE
I rapporti di interazione che hanno luogo in ognuno di questi ambienti sono animati da un sentimento di estasi mistica dove la comunicazione si celebra sotto forma di comunione, in cui l’io si perde in qualcosa di più grande di sé che è al tempo stesso sia il gruppo, sia il feticcio che lo muove. Ciò fa sì che la sovversione maturata negli interstizi della vita quotidiana, all’ombra della politica o nell’undernet, tragga la sua linfa vitale dalla dimensione simbolica e affettiva ancor prima che politica. Da qui viene trasformata in rovine la spessa corazza della modernità. Le manifestazioni apparentemente più banali o frivole come Second Life, le chat line, i giochi di ruolo, gli scherzi e le buffonate dei nuovi Joker liberano nell’etere i tanti fantasmi che compongono l’immaginario collettivo, e premono affinché esso plasmi la realtà fisica a sua immagine e somiglianza. Le reti sostengono quindi una riconfigurazione debole, orizzontale e multicentrata del potere, in cui il cybernauta e le comunità nelle quali si investe divengono le figure protagoniste. Abbiamo raggiunto il paradossale stadio morfologico dell’industria culturale in cui essa, dopo un lungo processo di smaterializzazione, miniaturizzazione e personalizzazione, traspare nel suo pubblico, si incarna nei suoi utenti. Walter Benjamin ha genialmente indicato nel 1936 che la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte innesca il processo del
DIVENIRE ARTE DEL PUBBLICO. DIVENIRE POLITICO DEL PUBBLICO. In modo analogo, oggi la riproducibilità digitale del politico sollecita il
Ciò che McLuhan aveva predetto, i nuovi media lo realizzano appieno: il mezzo è il messaggio, e il messaggio siamo noi.
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IDENTIT
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I sincretismi a cui il corpo a corpo della socialità elettronica conduce, le continue ridefinizioni dell’io indotte dalle incipienti condivisioni di info-emozioni, così come lo scioglimento del sé in svariate nebulose affettive – tribù del pollice, flash mobs, sciami intelligenti – demitizzano l’illusione illuministica di un’autotrasparenza del soggetto, mostrando quest’ultimo come un essere in divenire caratterizzato da molteplici strati di identità.
Il web contribuisce ad avallare una condizione in cui il singolo ha la duplice possibilità di fare parte di un gruppo senza abbandonare completamente la sua identità e di avere un’identità accresciuta senza perdere il senso del gruppo.
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La frantumazione del centro e della verità, nel soggetto così come nel mondo, è un asse cruciale per comprendere le basi immateriali della cultura postmoderna, delle sue estensioni tecnologiche e delle molteplici adesioni che la caratterizzano. Non è un caso che la società in rete si accompagni ad una pluralità di elaborazioni mitologiche, lasciandosi penetrare da fantasmi, sogni, eccitazioni che scombussolano ogni razionalità e qualsivoglia morale istituita e universale. Più il mondo vede smaterializzarsi le sue strutture di potere e sapere moderne e più si allargano lo spazio e il tempo del caos.
Vivi la tua vita. Non essere da essa vissuto. Nella verità e nell’errore, nel piacere e nella noia, sii il tuo vero te stesso. Vi riuscirai solamente sognando, giacché la tua vita reale, la tua vita umana, è quella che, lungi dall’appartenerti, appartiene agli altri. Fernando Pessoa, De l’art de bien rêver
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La nostra identità elettronica ci precede e ci eccede.
ACQUISTA UN’AUTONOMIA.
Qual
è la m
ia
ità e ident
lettro
nica?
Sono in molti a porsi ormai questa domanda, per verificare cosa ne sia e cosa se ne faccia della propria persona in rete. Paradossale: per sapere precisamente chi siamo e in che aree del mondo l’eco della nostra presenza risuona dobbiamo digitare il nostro nome su “Cerca” di Google o constatare la sovrapposizione di post che si adagiano sulle nostre pagine personali in MySpace, FaceBook o Asmallword. Scopriamo quindi che una nostra boutade è stata presa sul serio in una community di postfemministe sino a divenire elemento di dibattito, che il partner ci ha lasciato annunciandolo nella propria descrizione sulla chat di Messenger o che un momento dimenticato della nostra biografia è stato fotografato e rimesso in vita da uno sconosciuto che lo utilizza come prova delle proprie doti artistiche.
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L’identità ci sfugge e si dissemina in tanti “altrove” esattamente nel momento in cui le nuove tecnologie potenziano la nostra memoria insieme alle doti cognitive e comunicative che ci contraddistinguono. In un tale quadro è raro poter mentire, difficile mantenere segreto un dettaglio della nostra vita e arduo mettere in scena solo ciò che ci fa comodo. Il giorno dopo il vostro primo incontro la vostra compagna saprà, senza che glielo abbiate detto, dove lavorate e cosa ne pensate di Berlusconi; le tracce da voi lasciate in rete sono infatti tanto microscopiche quanto di facile accesso e perenne durata. La nostra identità elettronica, quindi, ci precede e ci eccede, acquista un’autonomia sino a tradirci e a dirigerci nell’altro da sé. Così, mentre nei nuovi ambienti tecnosociali, in apparenza, l’io sembra sempre più narciso e potente, sotto traccia esso si diluisce e moltiplica in tante briciole e in altrettanti “noi”. Fine dell’individuo?
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CONGIUNZIONI 82 L’esperienza che gradualmente si macina ed elabora nell’alveo della cultura digitale rivela l’avvento di una sensibilità che inaugura un’inedita sinergia tra la mente e i sensi, tra l’agire razionale e il pensiero magico. L’adorazione dei vari feticci tecnologici e simbolici che adornano lo scenario culturale contemporaneo implica un alto grado di estasi e di incantesimo della persona, ma contemporaneamente porta con sé una coscienza dotata di una memoria e di un sapere altamente raffinati. I discepoli dei videogiochi in rete o i ghiotti utenti di YouTube contemplano il loro totem abbandonandosi con il corpo e con la mente alla sua narrativa ad alta densità emotiva, ma allo stesso tempo sedimentano un poderoso strato di informazioni che li rende degli esperti, competenti come dei professionisti.
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Ognuno di questi feticci stimola una partecipazione tecnomagica pregna di tensioni distinte da un’effervescenza mistica, dai contorni non-razionali, ove tuttavia gli utenti-fedeli riconoscono con una certa lucidità e competenza la mitologia da cui si lasciano abbagliare. Vediamo così che le nuove soggettività disseminate in rete conoscono dettagliatamente le musiche techno al cospetto delle quali vibrano allucinate, distinguono con puntiglio i particolari degli oggetti tecnologici presenti sul mercato, selezionano con cura le sceneggiature dei video che fanno scorrere da un blog a un altro. La rete favorisce così lo slittamento dall’opinione pubblica, di stampo razionale e astratto, all’emozione pubblica, laddove l’intelligenza si fa sensibile e integra nella cornice mentale il carico immaginario, sacrale e affettivo trascurato, se non bandito, da tanta parte della cultura moderna. Il cyberspazio è così attraversato da ondate di nuove idolatrie e di adesioni mistiche dotate di un sapere incorporato maturo e continuamente ridefinito in modo connettivo e tramite la conversazione. Qui la religione e la tecnica, dopo una lunga separazione, si ricongiungono, mentre i sensi si mettono a pensare.
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SLITTAMENTO DALL’OPINIONE PUBBLICA
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ALL’EMOZIONE PUBBLICA
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BARBARI 86
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Secondo Walter Benjamin ogni fondazione storica scaturisce da un atto di barbarie. Non vi è cultura e società senza l’intervento, distruttivo prima e creativo poi, di una soggettività considerata come incivile. L’etimologia del termine barbaro rinvia a colui il quale ha difficoltà di linguaggio, così come allo straniero (ciò fa sì che nell’immaginario tale figura venga dipinta come selvaggia, anche quando così non fosse). Sappiamo bene che, in effetti, il territorio e il linguaggio si pongono come il semenzaio di ogni identità collettiva. È così che l’invenzione dello stato-nazione si intreccia a quella della stampa, sigillando la nascita e la lingua come basi della cittadinanza. Chi sono i nuovi barbari che disarticolano l’ordine dei sistemi politici e culturali contemporanei? A seguire i commenti dell’intellighenzia, sembra che le cyberculture siano considerate come i nuovi pericolosi agenti di distruzione dell’ordine istituito. Al fine di descriverle si ricorre spesso agli aggettivi “pirata”, “hacker” o “pedofilo”. Il vero problema tuttavia è che tali soggettività da una parte parlano un altro linguaggio rispetto a quello istituito (basti visitare qualsiasi blog di adolescenti per rendersene conto), dall’altra, come sottolineato da tempo da Alberto Abruzzese, non abitano più lo stesso mondo in cui l’Identità moderna si è elaborata. L’invasione barbarica equivale non più a un’onda che dall’esterno aggredisce l’interno della civiltà, ma a una serie di bolle che straripano dal loro contenitore sino a propagarsi ed estendersi in modo virale. È il contatto tattile con il barbaro, l’essere sfiorati dagli abbagli eccessivi e fantastici del suo immaginario, ad incalzare l’implosione del mondo moderno, a fargli cambiare pelle. Lo straniero è ovunque e da nessuna parte. Dopo un lungo pellegrinaggio, lo ritroviamo nel fondo stesso della nostra anima, nel suo anelito verso l’altrove.
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Si potrebbe affermare che l’incubo del barbaro è rimanere invischiato dai punti in cui transita. Per questo tende a cercare stazioni di passaggio che invece di trattenerlo, lo espellono. Cerca la cresta dell’onda, per poter surfare da dio. Dove la trova? Dove c’è quello che noi chiamiamo spettacolarità. La spettacolarità è un misto di fluidità, di velocità, di sintesi, di tecnica che genera un’accelerazione. Ci rimbalzi sopra, alla spettacolarità. Schizzi via. Ti consegna energia, non la consuma. Genera movimento, non lo assorbe. Il barbaro va dove trova la spettacolarità perché sa che lì diminuisce il rischio di fermarsi. Pensa meno, il barbaro, ma pensa reti sicuramente più estese. Copre in orizzontale il cammino che siamo abituati a immaginare in verticale; ciò che la civiltà è abituata a considerare come ornamento inessenziale, per il barbaro, che scala facciate e non abita palazzi, è divenuto sostanza. Non riuscirete mai a sfiorare il suo modo di pensare se non riuscite a immaginare che la spettacolarità, per lui, non è una qualità possibile di ciò che fa, ma è ciò che fa. È una precondizione dell’esperienza.
L’invisibilità reciproca dell’impero e delle sue controparti rende il gioco più complesso, lo sradica dalla dialettica in cui è stato incardinato per anni, creando zone di autonomia temporanea in cui i piani del discorso non si limitano a non coincidere, ma vivono separatamente e elaborano mondi sempre più non-comunicanti, inconciliabili. Il barbaro che abita in tutti noi, ancor prima che aggredire il suo nemico, pensa a se stesso, alle proprie passioni, alle vocazioni che lo sollecitano e alle reti nelle quali si estende e fa comunità; non vi è un fortino da assaltare o un palazzo da conquistare, ma una sete di esperienza e di immersione da appagare continuamente tramite il transito, la connessione e l’epifania della congiunzione con l’altro. Ogni qualvolta una di tali pulsioni viene ostacolata dagli agenti dell’ordine istituito, tutta la potenza sedimentata nei network e nei loro giochi linguistici si traduce in aggressioni, violenze, sovversioni atte a ricreare autonomia e libertà di circolazione. Il barbaro smette di essere semplicemente l’aggressore esterno al sistema, il soggetto balbuziente o incapace di esprimersi, vestendo piuttosto i panni di un abile manipolatore di linguaggi, un bricoleur in grado di corrodere le barriere della langue sociale.
Alessandro Baricco, I barbari
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Il barbaro è l’indigeno dei nuovi universi tecnosociali. Gli schermi della cultura elettronica, i territori del consumo, del divertimento e dello spettacolo, le reti di comunicazione digitali illustrano che gli hacker, i surfer, qualsiasi membro di una tribù urbana sono gli abitanti e al tempo stesso gli architetti del mondo in gestazione più di quanto ne svolgano il ruolo di ospiti.
A differenza di quelli che invasero Roma, i nuovi barbari provengono al tempo stesso dall’interno e dall’esterno del territorio fisico: vivono nelle nostre dimore scavalcandone i confini, vibrano all’unisono nelle effervescenze festive, scaricano musica illegalmente, chattano senza sosta, inviano fiumi di SMS. Il barbaro, senza accorgercene, è anche in noi.
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La caratteristica precipua della cultura postmoderna è la sua esorbitante rivalutazione dell’immaginario, dimensione precedentemente relegata ai margini e all’ombra della storia. Essa non si presenta più come la sovrastruttura confermativa e legittimante la struttura e l’ordine produttivo, ponendosi invece come il semenzaio del loro travolgimento. Non abbiamo più a vedere con una sostanza eterea, esiliata nell’inconscio e destinata a vivacchiare nei sogni oppure a giustificare lo status quo.
Le pratiche culturali contemporanee sprigionano un immaginario oggettivo tramite cui i contenuti dell’elaborazione simbolica si inscrivono prima su uno schermo audiovisivo e poi sul territorio fisico passando per le superfici della nostra pelle.
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BOLLE 100
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La maturazione di ognuna delle nuove sfere pubbliche nascenti si compie in misura direttamente proporzionale al modo in cui esse consentono la migliore espressione, la più intensa implicazione emotiva e la più completa connessione ai membri che le costituiscono. La ragione del successo delle nuove tecnologie reticolari risiede nella possibilità che queste offrono ai propri utenti di mettersi in gioco, condividere info-emozioni e mettere in luce come contenuto della comunicazione la propria soggettività, il proprio
CORPO
ESPANSO.
I leader d’opinione o i differenti coordinatori di ciascuna delle comunità che si diffrangono sulla scena non servono ad altro che ad assecondare tale fermento culturale e ad accoglierlo nel modo più completo possibile.
Le regole che un gruppo si attribuisce sono solitamente non scritte perché la sua fluttuazione, come quella dell’elettricità, è talmente elastica da non potersi sigillare in nessuna forma di scrittura e di vita che non sia instabile e che non faccia del mutamento la propria base immateriale. Il controllo e l’obbligazione reciproca permangono e sono più stringenti di ciò che avveniva in seno alle forme di vita regolate dai differenti contratti sociali della modernità, ma non si basano sull’adesione a morali o a principi astratti, bensì sulla condivisione di un immaginario e sui legami di carne – tattili, affettivi, simbolici – che fondano il gruppo. Ciò che invece sfuma sempre di più è la dipendenza da modelli di sorveglianza trascendenti e verticali incarnati in figure lontane rispetto alle spaziature dell’abitare.
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Tramite multiple pratiche di travestimento, furbizia o sparizione, le forme di socialità contemporanee scansano lo sguardo del potere e si costituiscono oltre il suo ordine del discorso, rinunciando ad intrattenere con esso un rapporto dialettico e quindi acquisendo una propria unicità transpolitica. La tana mi protegge forse più di quanto non abbia mai pensato o mi arrischi a pensare quando sono nell’interno. Arrivavo al punto che talvolta mi veniva il puerile desiderio di non rientrare affatto, ma di sistemarmi nelle vicinanze dell’entrata, di passare la vita a sorvegliarla e di considerare sempre, con mia grande gioia, quanta sicurezza potesse darmi la tana se fossi dentro. Franz Kafka, La tana
Ogni sfera pubblica così generata rappresenta una sorta di tana autosufficiente e mobile, una tribù che, come una bolla, fluttua attraversando i confini dell’ordine politico istituito. È qui in azione un principio di identificazione della persona che implica la consapevolezza e al tempo stesso la sensazione di fatalità insita nell’idea di appartenere a qualcosa di più grande di sé, tanto prossimo quanto inintelligibile e avvolgente.
Accarezzati, scossi da un piacere conturbante: la calda oscillazione tra l’interno e l’esterno delle nostre tane.
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La cultura postmoderna elabora dal basso e orizzontalmente nuove dimensioni di vita, stili, politiche, senza opporsi frontalmente alla tecnostruttura, anzi occupandone i territori e sovvertendone i segni e gli oggetti. È così che si è sviluppata la storia di Internet, strettamente legata a una genealogia della resistenza – distruzione creatrice – che vede le tattiche del consumo e della comunicazione come pivot della soggettività nascente. In questo modo l’immaginario collettivo metabolizza gradualmente sostanze straniere rendendole complici del proprio gioco, funzionali alla definizione di una forma di abitare che privilegia e esibisce i profili sensibili, ludici e persino onirici della vita quotidiana oltre qualsiasi sua dipendenza da principi morali, religiosi e politici esterni al proprio ordine prossemico. L’ibridazione del corpo sociale con quello tecnologico, l’incipiente proiezione delle persone nei paesaggi mediali, la contemplazione delle immagini e l’esaltazione dei miti della comunicazione, rappresentano dispositivi inconsci tramite cui
Mutazione dei valori – è mutazione dei creatori. Chi deve essere un creatore non fa che distruggere. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
l’ordine della socialità penetra e si lascia penetrare, possiede e si lascia possedere, sino ad entrare in sintonia con il mondo che lo circonda. 105
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Una volta interiorizzati nel ventre della vita quotidiana, adagiati su una pelle che non è più quella dei loro produttori, i nuovi idoli simbolici e tecnologici divengono strumenti che supportano la volontà di potenza e il ritmo del sentire collettivo. È necessario quindi scorgere all’interno di queste pratiche microfisiche, di questi giochi tra corpi, minuscoli ma non indifferenti strappi, sabotaggi e disarticolazioni dell’ordine politico e culturale stabilito. Più si smorza l’affetto del corpo sociale nei confronti del politico e delle sue narrazioni, e più si elegge ad altare della cultura ciò che appartiene allo spazio intimo dell’abitare: oggetti, immagini, luoghi, corpi, merci, spettacoli.
Io e te, avviluppati in un’unione viscosa, coinvolti in una partecipazione magica a ognuna di queste icone, confluiamo in un altro corpo, un altro spazio, un altro tempo.
Come prima essi esercitavano una reciproca indescrivibile e quasi magica attrazione. Vivevano sotto un unico tetto; ma anche senza pensarsi, occupati in altre cose, trascinati in qua e in là dalla società, si avvicinavano l’uno all’altra. Solo la massima vicinanza poteva tranquillizzarli e acquietarli completamente, e quella vicinanza era sufficiente; non erano necessari sguardi, parole, gesti, non un contatto, solo il puro e semplice essere insieme. Allora non erano due persone, erano un unico essere umano in inconsapevole, compiuto benessere, soddisfatto di se stesso e del mondo. La vita era per loro un enigma la cui soluzione trovavano solo insieme. Johann W. Goethe, Le affinità elettive Il qui e ora dell’altrove. Alberto Abruzzese, Analfabeti di tutto il mondo uniamoci
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ÀTILIBISREVER
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Se si vogliono cogliere le derive dell’immaginario postmoderno bisogna assumere la sfida di fuoriuscire dalla corte angusta del politico e di indagare a fondo le fonti di calore dove la vita quotidiana si rifugia e ricrea; ci accorgeremmo così che nella profondità della comunicazione-comunione, nel ventre del corpo erotizzato della società dello spettacolo, si alleva uno spirito del tempo che porta in nuce una morfologia sociale transpolitica. Si deve quindi prendere il rischio di sondare quella zona grigia, fitta di trame silenziose e segrete, sfuggenti e persino invisibili, laddove si ricava l’essenza del politico*, sostanza inscritta nel cuore della vita sociale e che durante una lunga fase storica si è cristallizzata nelle forme di sapere e di potere che abbiamo conosciuto sinora.
La proliferazione di linguaggi, mode e stili indica l’emergenza di un raziovitalismo popolare teso ad architettare le proprie forme dell’abitare – la propria casa – senza lasciarle forgiare da ciò che gli è esterno e lontano. Non a caso la caratteristica peculiare delle nuove piattaforme tecnologiche è il venir meno del paradigma
della mediazione, quindi di un sistema basato sulla presenza di un vertice e di una base, di un centro e di una periferia, di uno scrittore e di un lettore. Le nuove piattaforme tecnosociali liberano l’energia creatrice di ogni gruppo sollecitandolo a
fare del proprio mondo immaginario il mondo. All’evanescenza dei grandi mediatori corrisponde oggi la moltiplicazione di tecnologie sociali connettive che attualizzano ciò che prima era solo potenziale e solidificano legami precedentemente mortificati perché privi di spazi autonomi, di visibilità e di possibilità di cooperazione.
I nuovi media assumono un prestigio sociale – si innestano nei territori del corpo – nel momento in cui favoriscono l’ascesa, la connessione e l’esperienza di uno o più gruppi ponendosi come lacci: puri contenenti senza contenuto alcuno che non sia l’utente stesso e le sue reti. Non a caso, come l’osservazione delle smart mobs o dell’uso dei media portatili e always-on suggerisce, si comincia a parlare di media di coordinamento piuttosto che di mezzi di comunicazione.
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La sensazione di immediatezza che essi emanano è favorita dall’ipermediazione tecnologica*, quindi dall’uso di dispositivi comunicativi, giacché questi ultimi non fanno altro che accogliere e accelerare un legame sociale e la sua sintonia con il ritmo del mondo.
L’aura invisibile dell’essere-insieme si fa visibile, si oggettiva sugli schermi-pelle della soggettività contemporanea e ne consolida la volontà di potenza.
Il reale a cui i nuovi media rimandano non è più incarnato in nessuna metafisica o in alcun recipiente politico e culturale esterno al gruppo, allineandosi e fortificando invece l’esperienza dell’attore immerso nei processi comunicativi.
Le forme tecnosociali assecondate dall’ascesa della cultura digitale presentano un triplo ordine di fattori che scalfisce la dimensione strategica e la possibilità di successo della sorveglianza nei confronti del vissuto quotidiano. La sensibilità implicita alle nuove piattaforme mediali consente da una parte
L’INVISIBILITÀ, dall’altra la possibilità di MASCHERARSI e in ultimo quella di DETERRITORIALIZZARSI e quindi di eludere il controllo dello stato e delle sue leggi. Basti pensare al modo in cui il cosiddetto popolo del peer to peer ha reagito all’offensiva dei governi e delle corporation rispetto alla formula di Napster tramite l’elaborazione della “swarming technology” e delle sue numerose variazioni.
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È curioso notare quanto un comportamento così astuto sia associato nella terminologia comune non tanto a termini che evocano il surplus di intelligenza insito nelle nuove tecnologie sociali, quanto all’accentuazione del ruolo che al loro interno vi giocano gli istinti, le passioni e le pulsioni primordiali dell’uomo. Non è un caso che il verbo “to swarm”, radice dalla quale si origina
la descrizione dell’attività delle smart mobs e dei suoi componenti in quanto swarmer, così come delle swarming technology, rimandi letteralmente a “sciamare, brulicare, entrare e uscire a frotte”, costituendo una parola di solito usata per indicare il movimento
tipico delle colonie di insetti come le api e le formiche.
Una declinazione ancora più fine dell’inversione del processo di sorveglianza è data dai differenti modi in cui, tramite le nuove tecnologie,
il sorvegliante diviene il sorvegliato. Tale fenomeno si esprime nelle forme più svariate, che vanno dal disvelamento di più o meno rilevanti vicende pubbliche e private sottaciute dai leader politici, sino al monitoraggio, alla rettifica e
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quindi al discredito delle verità raccontate dalle fonti ufficiali della politica e dell’informazione. Se i nuovi media elettronici, a partire dalla televisione, hanno reso il corpo del leader più visibile al pubblico, costantemente presente nei contesti della propria vita ordinaria, così facilitando le strategie della seduzione mosse dagli apparati di comunicazione politica,
l’intrusione pervasiva dello sguardo del pubblico ciò ha innescato parallelamente
all’interno di domini prima interdetti e evietati, generando
un progressivo consumo e una vibrante desacralizzazione del retroscena privato in cui sempre si sono custoditi i segreti della sovranità. Una volta scoperti i misteri, le défaillance e gli scheletri nell’armadio che ogni politico porta con sé, esso viene avvertito come inadeguato a garantire una rappresentanza, come un corpo estraneo, una maschera tramite la quale consentire, con un gioco di finzioni, la perpetuazione dell’ordine del potere costituito così com’è.
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La trasparenza diviene il principio di dissolvenza della sorveglianza e delle sue strategie di manipolazione.
Grazie agli strumenti tecnologici disponibili e alla loro apertura sui molteplici mondi di vita presenti, ogni ideologia viene prima scoperta e poi mostrata nella sua parzialità. Il potere costituito è quindi gradualmente corroso e scosso dal fuoco sacro che ogni tribù lascia divampare.
Esso equivale a un potente vagito di autonomia nei confronti di tutto ciò che dimora all’esterno della sua chioccia. Non siamo più meramente al cospetto di quelle piccole furbizie che consentono alle tattiche della vita quotidiana di opporsi più o meno discretamente alle strategie del potere e della produzione.
All’agire strategico, razionalizzato e finalizzato delle istituzioni o dei partiti politici si sovrappone un agire comunicativo che, a partire dalla manipolazione del
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linguaggio, dalla connessione e dalla rivalutazione del ludico e del simbolico, propone forme di abitare condivise e radicate nel quotidiano. Vediamo quindi, per esempio, che la soggettività contemporanea non si limita più a svincolarsi dallo sguardo pervasivo delle sempre più invasive Cctv (Close-
circuit Tv, televisioni a circuito chiuso: lo strumento di sorveglianza, usato nelle aziende e negli spazi pubblici per scopi di sicurezza e controllo, più diffuso al mondo), ma oppone ad esse sempre più di frequente meccanismi di “vigilanza dal basso”.
Non si tratta più di fuggire ma di reagire, sfidando gli apparati di controllo e smascherandoli. Tali forme spontanee e autorganizzate si esercitano riprendendo, fotografando o comunque mettendo a nudo gli occhi elettronici – estensione del foucaultiano panopticon –
disposti sul territorio per spiare o, più sottilmente, per rafforzare tramite la finezza dello sguardo le dinamiche della vita ordinaria.
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esTETICHE
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Le trasfigurazioni su cui le pratiche della vita quotidiana convogliano l’attenzione sono impregnate da un’aura esultante e giocosa. La loro prima tappa verso la destrutturazione del sistema è metterne in discussione il linguaggio originario, con tutto il carico di impegno e serietà che lo distingue. Eventi come la Critical Mass, il Sousveillance Day, il Gay Pride, la Love Parade, così come le varie declinazioni impertinenti del mediattivismo, si evidenziano come momenti di effervescenza collettiva dove il divertimento, la manipolazione creativa del linguaggio e la condivisione di un immaginario costituiscono i grimaldelli che incalzano il superamento del potere e del sapere moderni.
Il ludico, il festivo e l’onirico costituiscono la pars costruens paradossale dell’immaginario postmoderno, il fondo su cui riposa ogni sua deriva transpolitica. Per questo l’intellighenzia si difende con le unghie e stigmatizza di barbarie le pratiche sociali dell’intrattenimento e i continui momenti di abbandono del corpo sociale alla distrazione, al non-lavoro e a forme di astensione o passività.
Fine delle speranze rivoluzionarie. Poiché queste hanno sempre speculato sulla possibilità per le masse, come per la classe proletaria, di negarsi in quanto tali. Ma la massa non è un luogo di negatività, né d’esplosione, è una dimensione d’assorbimento e d’implosione. Essa è inaccessibile agli schemi di liberazione, di rivoluzione e di storicità. Si tratta del suo stile di difesa, della sua forma di ritorsione. Modello di simulazione e referente immaginario ad uso di una classe politica fantasma che non sa più quale tipo di potere esercita su di essa, quest’ultima è allo stesso tempo la morte e la fine di questo processo politico che ha preteso di disciplinarla. In essa si deteriora la politica come volontà e rappresentazione. Jean Baudrillard, À l’ombre des majorités silencieuses ou la fin du social
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SCACCO MATTO
Ogni eccesso equivale a uno sfondamento delle pareti del politico. Si tratta dello scacco matto generalizzato alle prospettive di emancipazione, rivoluzione e progresso che hanno retto le parabole della modernità occidentale. Più si afferma l’edonismo, più il piacere e la felicità si insinuano nelle pieghe della vita quotidiana, più il corpo sociale è erotizzato e danza attorno alle estetiche, agli oggetti e ai miti che ne rafforzano il vigore e più lo strappo tra piazza e palazzo diviene acuto. Incolmabile.
provocazio
SHOCK
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Lo shock e la provocazione, i dispositivi tramite cui le avanguardie storiche sollecitavano le masse a destarsi, ad osservare da vicino la propria alienazione per superarla, servono oggi a queste ultime per ribadire la propria soggettività, ciò che esse sono, desiderano e consumano, per assetare le loro sfrenate passioni... Il disgusto che risuona nei confronti degli stili di vita contemporanei dalle voci nostalgiche delle belle forme della tradizione, rievoca la sensazione di smarrimento provata dai pubblici che assistevano basiti alle performance dei dadaisti.
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Avviene quindi sotto i nostri occhi che
L’AVANGUARDIA SI FA
massa SI FA e la massa
AVANGUARDIA
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l’avanguardia del
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Un nodo indissolubile congiunge l’operazione di sfondamento estetico e politico inaugurata dalle avanguardie storiche del primo trentennio del Novecento e la sovversione generalizzata immanente alle etiche e alle estetiche della cultura postmoderna. L’industria culturale, come ha mostrato Alberto Abruzzese, è stata il laboratorio dove i linguaggi e le provocazioni antiartistiche e anti-politiche dei dadaisti, dei surrealisti e dei futuristi si sono socializzati e tradotti in dispositivi di spettacolo, di estetizzazione del vissuto collettivo. Tali movimenti puntavano a scuotere l’ordine delle certezze e delle forme del bello contemporanei al fine di suscitare nel cuore delle masse una turbolenza tale da spingerle a negare lo scenario politico e culturale costituito a partire dall’autoemancipazione. Quest’ultima si rende possibile solo a partire dall’autonegazione dei soggetti sociali in quanto figure alienate. L’industria dello spettacolo, invece, pur facendo proprie le scoperte linguistiche, i piaceri e l’inconscio suscitati dalle punte dell’arte moderna, li allinea alla dimensione della vita quotidiana e delle sue merci promuovendone lo stile di vita edonistico e fantasmatico piuttosto che puntare a una sua rivolta o alla sua educazione. Tale massaggio ha quindi dei tratti ancora più transpolitici rispetto alle utopie ben radicate nelle prospettive degli ultimi geni del Novecento. Il bacino semantico della cultura di massa diviene un ventre in cui ad essere allevato è un corpo sociale estetizzato, erotizzato e sensibile, in continua contemplazione e creazione di immagini – da YouTube a Flickr passando per i graffiti urbani – che non servono ad altro se non a reincantarne le forme di vita banali e a inscriverle sul territorio. La merce spettacolare, per quanto prodotta dal circuito produttivo economico, è assorbita all’interno di una fucina che la detourna rispetto ai suoi fini originari, la consuma della sua etichetta materiale-economica, per tradurla in un ordine fantasmatico di segni continuamente funzionale alla preponderante etica del loisir*. Ciò che il dadaismo proponeva di sviluppare tramite una negazione assoluta, i linguaggi dello spettacolo lo realizzano attraverso una forma più dolce di manipolazione creativa e bricolage degli oggetti, dei segni e dei simboli prodotti dalla tecnostruttura. Quando Richard Huelsenbeck fonda, insieme a Raoul Hausmann e a Georg Grosz, il Club Dada di Berlino, pubblica il manifesto “Nous disons oui à une vie qui s’élève par la négation”, che attacca direttamente l’espressionismo, accusato di praticare una “astrazione anemica”. La società dello spettacolo annuncia invece un “sì alla vita” scevro del ricorso a un pensiero dialettico e alla contrapposizione frontale all’egemonia politica e culturale.
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La cultura di massa pulsa e si ricrea sulla scia delle proprie agitazioni emotive, perdendo di vista progressivamente il sistema di potere e sapere istituito e il suo ordine del discorso. È così che le piattaforme dell’industria culturale divengono delle mine vaganti all’interno del sistema occidentale. Al loro interno avvengono estasi e legami di carne talmente sottili (nella forma) e solidi (nei contenuti) da dissipare l’astrazione del contratto sociale, le sue leggi e i pivot su cui si è fondato il paradigma storico dell’ideologia e dell’identità.
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L’industria culturale è divenuta lo spazio paradossale in cui si è avverata la “raison ardente” cara a Breton e ai surrealisti, divenendo però non un dispositivo al “servizio della rivoluzione”, quindi di un progetto di emancipazione volto alla conquista del potere e teso verso il domani, quanto un paesaggio dove sperimentare inconsciamente pratiche di sovversione coerenti con un desiderio di vita incarnato nell’hic et nunc. Il sistema dei media, nel suo intimo rapporto con l’emozione pubblica, non fa altro che continuare, estendere e socializzare, con differenti fini e declinazioni, il processo di liberazione dei sogni e della passione inaugurato dalle estetiche dei vari R. Magritte, J. Mirò o C. Trouille. L’attenzione all’estetica, alle superfici e alle emozioni fugaci viene qui radicalizzata lasciando sfumare il processo di autoriflessione rivendicato dai surrealisti, mettendo viceversa in gioco la dinamica che Michel Maffesoli battezza come “contemplazione del mondo”. Si tratta dell’attualizzazione di una tendenza già insita nell’avanguardia.
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Il desiderio del meraviglioso e la brama di perdersi nella fantasmagoria sono consustanziali allo sviluppo dell’industria culturale e all’organizzazione dei suoi spettacoli. L’immaginario collettivo che essa accoglie e amplifica è innanzitutto, come mostra bene il fallimento del progetto dei fratelli Lumière di un cinema realista, nutrito di smania per ciò che appartiene al fantastico: è in sé e per sé una sostanza fantastica. Il divo è il segno tangibile di quanto l’immaginario collettivo non possa fare a meno di dare un corpo ai propri sogni e di insinuarli nelle spaziature dell’abitare. Tale vocazione sensuale e immaginifica rappresenta un’altra cruciale continuità tra l’avanguardia e la cultura di massa, indicando che una possente tensione onirica e erotizzante attraversa tutta la parabola da cui sgorga la cultura postmoderna. Sappiamo bene quanto per André Breton la brama di esistere in un al di là immanente faccia leva sul ricorso non solo alla sinergia tra notte e giorno, ma anche sull’abbandonarsi alle trepidazioni amorose, e quindi ai richiami del corpo.
Prima di ogni sviluppo critico, prima di qualsiasi riflessione su se stesso, il surrealismo ci propone la speranza di esistere, e proietta l’esistenza in una sorta di al di là della vita naturale, un al di là comunque immanente ad essa, non posteriore, dando l’impressione di scoprirsi a chi vuole cogliere il mondo sotto l’aspetto del meraviglioso. Ferdinand Alquié, Philosophie du surréalisme
L’immaginario collettivo è in sé e per sé una sostanza fantastica.
Il corpo diviene il dispositivo in cui può materializzarsi virtuosamente l’incrocio tra sensi e ragione, la riconciliazione tra sogno e realtà, luce ed ombra. Questa riconciliazione è il leitmotiv dell’immaginario postmoderno, la valvola attorno alla quale le forme estetiche della società contemporanea fanno ruotare i propri dispositivi tecnologici e culturali: dalle avanguardie storiche alla cultura digitale, da André Breton a Second Life, dove si compie pienamente il processo di inversione tra il visibile e l’invisibile. Qui si coagula il mondo dei residenti. Su questo fil rouge sono orientate tutte le derive transpolitiche immanenti alla società dello spettacolo. Quando il sogno che infiamma l’emozione pubblica non è più contenuto nei progetti utopici della politica, del progresso e della produzione, ma dimora nel bacino della vita quotidiana, le strutture che reggono la vita sociale vengono private dell’autorità morale di cui necessitano per sopravvivere.
Ridurremo l’arte alla sua espressione più semplice che è l’amore. André Breton, Poisson soluble
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L’effervescenza che agita il corpo incantato della soggettività contemporanea lancia ai sistemi di potere e di sapere istituiti piccole-grandi sfide che ne riducono i corpi in rovine di mondi del sogno. I cybernauti usano, allo stesso modo in cui si effettuavano i collage dadaisti, i segni e le immagini delle merci, dei brand o dei leader politici contemporanei – altrettante incarnazioni di paradigmi sempre più posti in discussione – come oggetti tramite i quali divertirsi distruggendo. Ogni creazione e ricreazione contenuta in queste forme dissacranti di scrittura digitale esprime l’abilità linguistica della socialità emergente, la sua capacità di captare e rispedire al mittente gli elementi ideologici di ogni discorso politico. Voilà la potenza transpolitica custodita dall’immaginario postmoderno. La derisione e il superamento del corpo politico avvengono non tramite le pratiche abituali della militanza politica o della rivolta di piazza, ma per mezzo di strumenti ricreativi appartenenti alle sfere del ludico e del simbolico. Sono i dispositivi festivi del gioco e del sorriso a estinguere la solennità e le pretese di rappresentanza del discorso politico.
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delle nuove creature in gestazione.
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Il potenziale sovversivo del dispositivo basato sulla trilogia divertimentodivergenza-diversione è stato prefigurato dalle performance eccessive del dadaismo, dove l’alterazione delle forme tradizionali del bello – valga su tutte come esempio l’opera di Marcel Duchamp – con lo shock e assieme il sorriso che induce, implica una messa a nudo del Re e delle sue narrazioni. Il divertimento infinito suscitato dalle feste in cui si mettono a morte il re e le bellezze di corte, l’onda di sorrisi estatica attorno alla quale il corpo sociale ribolle, divengono così le forme elementari che scandiscono il passaggio di civiltà a cui assistiamo in questo inizio di millennio. È dal terreno dell’onirico, del ludico e del divertimento che si fa largo lo spirito del tempo nuovo. In questo gioioso abisso si sedimentano le radici transpolitiche dell’immaginario postmoderno. La distrazione si fa quindi distruzione così come la resistenza si traduce in ricreazione. È il dadaismo ad aver aperto la strada oggi percorsa dalle cyberculture e dalle culture metropolitane. In controluce l’avvento delle forme estetiche dell’ultimo secolo appare animato dalla presenza tanto sotterranea quanto incandescente di un irreversibile e comune impulso, teso a dislocare l’aura da ciò che è esterno e trascendente al corpo sociale a ciò che, invece, appartiene al suo vissuto quotidiano. Non è un caso che il dadaismo fondi le proprie creazioni sull’uso inedito e sulla scoperta anti-artistica, e tuttavia estetizzante, di oggetti e segni appartenenti alle pratiche della vita ordinaria, persino di quegli scarti che diverranno anche materia prima dell’opera di Andy Warhol. Il principio di deauratizzazione dell’opera d’arte, secondo Benjamin implicito ai meccanismi della riproducibilità tecnica, è avallato quindi anche dalle dissacrazioni creative di Tzara, Picabia, Duchamp, Heartfield, Ernst e di tutti gli altri membri dell’avanguardia nata a Zurigo e arrivata sino a New York, i quali contribuiscono così inconsciamente a spostare i riflettori della storia e a investire di nuova sacralità i recessi più triviali e mondani della vita ordinaria.
RITORNO DELL’OMBRA. I risultati figurativi più interessanti del dadaismo sono attribuiti all’opera dei gruppi tedeschi, in particolare quelli di Berlino e di Colonia, dove svolgono la loro attività tra gli altri Grosz, Heartfield, Baader, Hoech e Hausmann.
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Il primo manifesto stampato a Berlino e firmato da Huelsenbeck nel 1918 ci suggerisce a che punto l’attenzione del movimento sia dall’inizio concentrata sulla rivalutazione dei corpi, delle cose e delle pulsioni intime al vissuto quotidiano, sulla base dell’anima profonda che risiede nella loro superficie e nella loro superficialità.
I migliori artisti, i più inauditi, saranno quelli che, a ogni ora, riprenderanno i lembi dei loro corpi nel frastuono del carattere della vita e, accanendosi all’intelligenza del tempo, sanguineranno nelle mani e dal cuore.
Uno stesso anelito anima tutte le forme estetiche e sociali che si sono succedute nel corso del Novecento: inversione dell’arte, dispersione della bellezza nella vita,
Richard Huelsenbeck, Nous disons oui à une vie qui s’élève par la négation
Possiamo oggi rinvenire nelle figure della socialità postmoderna il compimento dell’auratizzazione del quotidiano e dunque della sacralizzazione di ciò che in origine apparteneva alla dimensione del profano. L’industria culturale e il sistema degli oggetti metabolizzano e mettono al lavoro nelle proprie piattaforme espressive le estetiche e i dispositivi psicologici attivati dalle avanguardie storiche, al servizio non più di una pedagogia o dell’emancipazione delle masse, ma per coniugare le sensibilità nascenti nel corpo sociale alle esigenze del sistema produttivo basato sulla merce spettacolare. La fascinazione nei suoi confronti è originata dall’opera del dadaismo, nonostante essa fosse in realtà diretta a scioccare e provocare la finta pacificazione di cui il cittadino gode, e di cui soffoca, nell’alveo della tecnostruttura. Il gesto dell’avanguardia, al di là del proprio contenuto politico e culturale, suscita attrazione e genera adesione – come mostrerà lo sviluppo delle forme estetiche ad esso successive e ad esso filiate – per l’eccitazione spettacolare e i sussulti dell’immaginazione che scatena nel corpo del pubblico. La stessa mise en abime del contenuto fungerà da sfondo anche all’evoluzione del sistema dei media e all’elaborazione della società dello spettacolo, laddove le masse, nel proprio quotidiano lavorio silenzioso, spoglieranno gli strumenti tecnologici e comunicativi della loro veste politica e culturale per renderli funzionali alle vocazioni del proprio immaginario, alle pulsioni del proprio corpo espanso. Su questa scia le mode e i media contemporanei si caratterizzano progressivamente come territori dove il corpo è il messaggio.
Ci sono più verità nelle ventiquattro ore della vita di un uomo che in tutte le filosofie.
CONFUSIONE
Raoul Vaneigem, Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations
La vita ordinaria è stata investita nel corso dell’ultimo secolo da un’onda sotterranea che l’ha spinta ad emergere al punto tale da far coincidere la figura del pubblico con quella dello spettacolo.
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DIVENIRE ARTE DEL PUBBLICO. L’homo ludens si pone come una soggettività edonistica che fa dell’immaginario, del sensibile e dell’emozionale i principi di un’etica transpolitica, anti-dualistica e non-dialettica. Il suo agire in continua oscillazione tra la distruzione e la ricreazione non è mosso da un anelito politico, ma da una passione giocosa che fa sua l’idea di gioco cara all’Internazionale Situazionista.
Il concetto situazionista di gioco si pone come qualitativamente diverso da quello che si è affermato negli ultimi due secoli in concomitanza all’esaltazione capitalistica del lavoro produttivo: i caratteri fondamentali del nuovo concetto sono la scomparsa di ogni elemento di rivalità direttamente derivato dall’appropriazione economica, la creazione di ambienti ludici e l’abolizione di ogni separazione tra gioco e vita corrente, tra scherzo e impegno. Il gioco superiore sarà così non-competitivo, sociale e totale. Mario Perniola, I situazionisti
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SABOTAGGI 134
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Un’attenta analisi delle immagini prodotte dai cybernauti – jammer, bricoleur, polbuster – al fine di denudare prima, schernire poi e superare infine i volti e i messaggi dei grandi brand politici, istituzionali e commerciali contemporanei suggerisce quanto la sensibilità da cui tali creazioni si originano sia innanzitutto mossa da un desiderio di divertimento, dalla volontà di manipolare e rielaborare simboli noti con l’obiettivo di azzerarne il contenuto originario e di tradurli in materiale spettacolare da sacrificare sull’altare della cultura elettronica.
Il bricoleur postmoderno agisce sull’ideologia e sul corpo del mostro politico-economico come se esso fosse un oggetto da poter consumare e bruciare nel vortice passionale dell’erotica societale. Ognuno di questi scherzi costituisce un tassello di un grande mosaico tramite cui, per mezzo della manipolazione dal basso dell’immagine, le forme di socialità postmoderne debordano dal quadro politico istituito e rendono le proprie connessioni, i propri giochi linguistici e le proprie passioni ludiche le nuove grammatiche su cui rifondare il mondo. Il sabotaggio dei brand, dei loghi e delle pubblicità delle imprese multinazionali è ormai divenuta una pratica corrente di reazione simbolica al loro strapotere e alla loro invadenza, tanto da porsi come l’arma creativa del cosiddetto “culture jamming”. Tramite questo processo si smascherano prima, e ridicolizzano poi, le retoriche su cui i giganti commerciali fanno leva per promuovere i propri prodotti e tesserne le lodi. L’adbusting e il polbusting sono gesti molecolari di détournement in cui la distruzione di un logo o di un messaggio pubblicitario coincidono con la creazione di un evento o di un’immagine che sollecita il riconoscimento di un gruppo tramite una catena di scherzi, di giochi di sguardi o attraverso la semplice condivisione di una sensibilità contemporaneamente baldanzosa e sovversiva.
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Svelare la menzogna presente in uno spot richiede innanzitutto la sua distorsione, attività tramite la quale si sbugiarda la mitologia agitata attorno a un bene commerciale dal bombardamento mediatico. Al di là di quanto tali pratiche siano accompagnate, nella loro elaborazione ideologica, da aneliti politici controculturali, nell’ambito della loro espressione più massiva le ricreazioni dell’adbusting e del polbusting non implicano l’impegno dialettico e austero contro il mondo delle merci, esprimendo invece la vocazione delle culture emergenti a digerire e contestualizzare il sistema degli oggetti rendendolo funzionale alle trame del proprio abitare e depurandolo dei suoi originari codici economici e culturali. Per questo non bisognerebbe scandalizzarsi o, come alcuni osservatori tendono a fare, interpretare come contraddittorio il momento in cui gli stessi jammer calzano le Nike o mangiano al McDonald’s. Un atteggiamento del genere indica invece una forma di saggezza incorporata, che segnala, lungi da qualsiasi utopia della liberazione, quanto si possano raggiungere stati di libertà interstiziale all’interno dell’ordine delle cose in qualche modo imposte. No, non volevo la libertà. Soltanto una via d’uscita: a destra, a sinistra, purché fosse; non avevo altre esigenze; anche se la via d’uscita fosse risultata un’illusione; l’esigenza era così modesta, che l’illusione non poteva esser molto grande. Andar avanti, andar avanti! Franz Kafka, Una relazione per un’accademia
IL SABOTAGGIO SPIRITOSO a cui l’adbuster tende non è interpretabile come uno strumento politico utile a mobilitare una presa di potere, a erigere una classe rivoluzionaria e a rivolgere il mondo, ponendosi invece come un atteggiamento atto ad avallare una ricreazione del mondo, un modo di abitare passionale e giocoso dove la manipolazione collettiva del linguaggio e l’elaborazione connettiva di dati simbolici incalzano la fioritura di un immaginario transpolitico.
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C A R N E VA L E
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L’inedita sinergia tra gioco, festa e resistenza creativa nei confronti del politico che fermenta nel seno della socialità contemporanea gemma galassie culturali che sgretolano le fondamenta dei poteri e dei saperi istituiti. Come notiamo nelle esibizioni più correnti della nostra cultura – dagli affollamenti musicali e sportivi alle esultanze ludiche, dai riti del consumo al culto dello spettacolo – le tribù postmoderne si disgiungono nettamente dal politico, schivano il dialogo con esso nei codici razionali, programmatici o ideologici che gli appartengono, sovrapponendo al suo ordine del discorso i guizzi della vita quotidiana nella loro vocazione più spiccatamente transpolitica. Non siamo più in uno scenario dove alberghi una possibile reversibilità tra politica e vissuto collettivo, ma in un paesaggio dove la prima viene semplicemente distorta e dissipata dal gaio fracasso del bricoleur postmoderno e dei differenti “noi” in cui esso si perde. Il gioco e la festa sono le fasi topiche nelle quali si tesse un legame tanto segreto e sottile quanto escandescente tra l’etica del loisir che permea il vissuto collettivo e le sue sotterranee pulsioni sovversive. Attraverso l’elaborazione in comune di immagini e la complicità di sorrisi innescata dall’incrocio tra giochi, creazioni e détournement del sistema dei segni si generano degli addensamenti comunitari da cui traggono origine le nuove comunicrazie. Su questa scia si adagiano le derive transpolitiche dell’immaginario postmoderno, bagnate come sono in un’aura dove il mistico e l’edonistico si corrispondono costantemente. È giunto il momento di prendere sul serio i piccoli svaghi, gli aspetti più banali e apparentemente effimeri che scandiscono il carnevale perpetuo della cultura contemporanea.
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Il carnevale è dappertutto e da nessuna parte. Ubiquo e invisibile. Ostentato e trasparente. Dentro e fuori le mura. Vita che si mette in gioco. Tempo anarchico. Tracce selvagge.
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Alle spalle di tanto nulla si secretano l’anima e le forme del vissuto collettivo in gestazione. Il bacino dell’immaginario è quello in cui le trame dell’esperienza vengono prefigurate, l’anticamera in cui i fantasmi, i simboli e gli affetti condivisi preparano la loro invasione del reale. Nel momento in cui esso ventila tensioni anomiche, uno scarto tra potere istituito e potenza istituente, tra vita e forme, viene palesato; un fossato tanto più vasto quanto più attraversato da una molteplicità di identità e di mitologie. Il mondo delle reti è l’ambiente dove il corpo sociale e le sue forme di socialità definiscono, nella loro intima congiunzione, un nuovo modo di abitare, quindi di governare e di governarsi. Questi ultimi ancora non possono essere definiti, così come non apparve con chiarezza il legame esistente tra l’invenzione dell’alfabeto e la nascita della democrazia, tra la diffusione della stampa e l’elaborazione degli stati-nazione, o tra l’evoluzione del medium televisivo e la cristallizzazione della democrazia rappresentativa di massa. Possiamo tuttavia segnalare, registrando i fatti anomici che accompagnano le trame della cultura postmoderna, uno slittamento in cui la continuità della tradizione e dei suoi saperi e poteri viene scompigliata.
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Così come per il barocco, il segreto della socialità postmoderna va sondato nei giochi di superficie, nell’eccesso degli ornamenti e nelle iperboli estetiche. Come Roger Caillois ha saggiamente suggerito, il gioco è la più alta manifestazione di una cultura*, giacché al suo interno si dispiegano ed equilibrano i limiti, le invenzioni e l’idea di libertà che identificano una determinata epoca. Le dinamiche ad esso proprie configurano tramite formule minuscole e generalmente banali il rapporto tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, tra regola e infrazione, giocatore e avversario; qui si articolano le disposizioni psicoculturali che costituiscono gli assi immateriali della civilizzazione. Il cybernauta che manipola a scopo ludico le immagini e i corpi delle merci e dei politici contemporanei, detournandone il senso e accostandoli con irriverenza al sistema degli oggetti o alle icone più trash e volgari dell’iconografia contemporanea, si rende protagonista di una fantasia sacrilega che inaugura una diaspora dal politico e inediti sentimenti di appartenenza comunitaria.
Con chiasso di parole e di dadi inganno coloro che, solenni, attendono: a tutti questi rigidi sorveglianti devono sgusciare di mano la mia volontà e il mio scopo. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Il Joker postmoderno battezza il nuovo scenario – il suo mondo del gioco – contravvenendo alla più basilare regola del contratto sociale che ha contraddistinto la modernità: la deferenza nei confronti dell’ordine del potere. In maniera astuta e scioccante, le sfide lanciate dalle ricreazioni della tecnocultura eludono il discorso del politico scegliendo sentieri linguistici non-logici e antidialettici ai quali il potere non può rispondere e con i quali non è in grado di instaurare un rapporto dialogico. Esse non fanno leva su argomentazioni razionali, su narrazioni ideologiche o su discorsi programmatici, ma si fanno largo in maniera sottile sotto forma di divertimenti, estetiche ed emozioni condivise che generano patti orizzontali trascendenti qualsiasi linearità politica. Nelle pieghe di ognuna di queste comunicazioni-comunioni riposa un segreto, scintilla di una deriva transpolitica dell’immaginario postmoderno. Il gioco è lo strumento anodino e capzioso per mezzo del quale si tesse in modo sotterraneo e impalpabile una nuova sensibilità eretta a partire dalle potenzialità insite nel binomio distrazione-distruzione. Non a caso nel cyberspazio proliferano giochi di maschere, travestimenti, nick name, avatar: tramite queste figure la pluralità identitaria della soggettività contemporanea viene prima nutrita e sperimentata, quindi resa invisibile allo sguardo invasivo del potere e al suo tentativo di “individuare” e controllare il formicolio culturale. Per comprendere appieno questi trucchi è sempre più importante considerare il non-detto rispetto a ciò che viene dichiarato, la forma rispetto al contenuto; in breve, il rapporto di reciprocità che essi tacitamente stabiliscono.
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L’atteggiamento edonistico che orienta l’uso dei nuovi media, per quanto disimpegnato e privo di una progettualità che non sia la mera espressione di una tribù, implica una sottotraccia che assale in modo incipiente la dimensione del potere istituito. Non a caso l’onda d’urto delle smart mobs filippine, che nel 2001 ha costretto alle dimissioni il governo Estrada, è partita dall’innocente e apparentemente naif scambio di barzellette e di pettegolezzi via Sms, il quale ha progressivamente destabilizzato l’immagine del presidente e coeso in un vortice info-emotivo le anime della moltitudine. L’esorbitante carnevale della cultura postmoderna, con tutti i giochi, le comunioni e le ricreazioni che porta con sé, diviene così il rito di passaggio tramite cui le sostanze erotiche e oscure dell’immaginario collettivo irrompono sulla scena sociale frantumandone codici e politiche. Piuttosto che spettacolarizzare gli stereotipi e i miti delle culture egemoni, la festa ne dissipa, contesta e detourna i contenuti per esaltare, nell’orgia del consumo, il brivido voluttuoso del corpo sociale. Nello stato di effervescenza festiva ad essere spettacolarizzata è la celebrazione stessa, i suoi attori e la loro religiosità pagana. Lo spettacolo, in qualsiasi forma esso si esprima – rave party, Second Life, notti bianche... – assume le sembianze di un evento anti-istituzionale perché occupa autonomamente lo spazio pubblico e stabilisce una temporalità ora più lenta e ora più accelerata rispetto al ritmo del potere:
UN ALTRO TEMPO E UN ALTRO SPAZIO. I media e le droghe, strumenti di un generale nomadismo psicosensoriale, contribuiscono ad alterare il senso del luogo e a renderlo più complesso ed articolato di quanto la politica richieda per governare agevolmente. Si tesse così un nodo inestricabile tra il surfing da un’onda a un’altra della rete e l’allucinazione generata dalle sostanze psicotrope assunte nel corso delle serate a base di musica techno. Entrambe le pratiche sfondano lo spazio, il tempo e l’identità stabiliti, sollecitano il corpo a mutare il proprio equilibrio psicofisico e delineano inedite trame esistenziali con quanto esse comportano in termini di etiche, estetiche e politiche.
La rivoluzione è un cambiamento deliberato delle strutture sociali in un altro sistema sociale o politico. La festa mette l’uomo testa a testa con un mondo senza struttura e senza codice, il mondo della natura dove si esercitano soltanto le forze del “qui”, le grandi istanze della sovversione. Si distrugge e rinasce dalle sue ceneri. È una constatazione: le relazioni umane non istituite, la fusione della coscienza e delle affettività sostituiscono ogni codice ed ogni struttura. L’uomo qui realizza l’impossibile – la comunicazione comune fuori da qualsiasi spazio e da qualsiasi durata, l’affronto accettato della distruzione e della sessualità. Jean Duvignaud, Fêtes et Civilisations
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La rivolta è il piacere stesso, ed è anche – ciò che si prende gioco di ogni pensiero. Georges Bataille, Conferenze sul non-sapere
L’esuberanza che scandisce la manipolazione creativa del linguaggio, la vivacità dei consumi e la costante estetizzazione del quotidiano, favoriscono l’articolazione di un immaginario in cui l’incanto dell’hic et nunc e la passione condivisa divengono i collanti dell’essere-insieme. Ogni elemento esterno all’aura che attrae e compenetra le diverse sfere pubbliche nascenti viene ridotto a rumore di fondo o dissipato nel ventre della tribù.
Politici, oggetti, merci, segni: tutto si equivale e tutto concorre a nutrire il vorace desiderio di consumo e consumazione del corpo sociale. In questo grande potlach il gruppo digerisce i segni e gli oggetti che puntellano il paesaggio, plasmando così una nuova corporeità tanto più potente quanto più in grado di ibridarsi con l’altro. La jouissance, l’effervescenza ludica e l’edonismo diffuso che accompagnano le trame della comunicazione si situano come altrettante matrici di una soggettività transpolitica in cui l’immaginario, l’onirico e l’affettivo relativizzano l’importanza dell’ideologia, della razionalità astratta e del progressismo che hanno segnato l’onda lunga della modernità. Così come Walter Benjamin ha messo in luce lo stretto rapporto tra le avanguardie storiche e la rivoluzione, dobbiamo oggi annotare l’intimo legame esistente tra la cultura postmoderna e la sovversione, dove all’impegno politico si sovrappone il gioco e alla tensione verso il futuro si sostituisce la fastosa festa del presente. Qui l’opera d’arte si dissolve a favore della qualità transpolitica dell’esperienza.
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La gioia che accompagna il formicolio della cultura contemporanea ha inscritta in sé una profonda coscienza della tragedia, facendo sue, nel godimento, la morte e l’ombra. L’unico gesto sovversivo possibile diviene qui quello agito spontaneamente nella vacanza della comunicazione nel senso etimologico del termine: mettere in comune, mettersi in comune.
CONDIVIDERE UN DESTINO. Si dirada così l’orizzonte cui sembra volgere lo sciamare carnevalesco della cultura contemporanea e dei suoi paesaggi tecnosociali:
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la ricreazione del mondo.
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RINGRAZIAMO Alberto Abruzzese, Derrick de Kerckhove, Michel Maffesoli
Francesco Bevivino i nostri amici, le nostre famiglie
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Michael V. Dandrieux, Stéphane Hugon, Fabio La Rocca, Antonio Rafele, Federico Tarquini, Tito Vagni, Olivier Waissmann
la comunità del CeaQ, Sorbonne Marshall McLuhan e Quentin Fiore
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virgola,
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FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI OTTOBRE 2008 SU CARTA ECOLOGICA FEDRIGONI (SYMBOL E ARCOPRINT EDIZIONI) PRESSO IGB GROUP - BRESCIA
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COMUNICRAZIE
CLAIRE BARDAINNE
CLAIRE BARDAINNE
“ Tra le rovine dell’arte e della politica, dalle viscere del paesaggio tecnosociale: la massa si fa avanguardia. L’avanguardia del piacere ”.
VINCENZO SUSCA
Un libro per dare spazio alla profondità dell’effimero.
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Grafica, designer e scenografa formatasi all’École Estienne e all’École Nationale Supérieure des Arts Décoratifs di Parigi. Codirettrice artistica e cofondatrice dello Studio de création BW, in cui elabora le identità visuali e cura la scenografia di eventi per marche e istituzioni culturali. McLuhan fellow all’Università di Toronto. Collabora con le riviste Polis, Sociétés e Les Cahiers européens de l’imaginaire. claire@studiobw.com
VINCENZO SUSCA
RICREAZIONI
EURO 18
GALASSIE DELL’IMMAGINARIO POSTMODERNO
Docente di sociologia alla Sorbonne e ricercatore al CeaQ (Parigi). Collabora con l’Università IULM di Milano. McLuhan fellow dell’Università di Toronto. Codirettore editoriale dei Cahiers européens de l’imaginaire. Scrive per L’espresso. Tra le sue pubblicazioni: Transpolitica, 2008, con D. de Kerckhove; Ai confini dell’immaginario, 2006 (tradotto in Brasile); Tutto è Berlusconi, 2004, con A. Abruzzese (tradotto in Francia). vincenzo.susca@ceaq-sorbonne.org
AURA ELETTRONICA
TECNOMAGIA
BARBARI
FANTASMAGORIE
CLAIRE BARDAINNE + VINCENZO SUSCA
RICREAZIONI GALASSIE DELL’IMMAGINARIO POSTMODERNO PREFAZIONE DI MICHEL MAFFESOLI
ESTETICHE
IDENTITÀ CARNEVALE