LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, sono una giovane chef ed ho la fortuna di vivere uno dei momenti forse più esaltanti di questa professione nella storia italiana, e non solo. Da noi, la cultura del “food” si è imposta come attenzione non solo alla riuscita finale del preparato ma a tutta la filiera alimentare: dai luoghi e dai modi di produzione di ciò che finirà in tavola alla conservazione dei cibi ecc.
Il fatto di essere una donna, in un mondo dove preponderante è il segno maschile, mi porta anche a un tentativo di coniugare un approccio femminile 1
non solo al piatto ma anche ai rapporti con lo staff che collabora con me in cucina. Insomma, mi pare di “nutrire” una certa particolare sensibilità per l’aspetto di relazione umana del lavoro.
La mia idea, un po’ magica, lo ammetto, è che quanto viene servito in tavola risente non solo dell’amore riversato nella preparazione ma anche di quella armonia creativa che si genera tra le persone che partecipano all’atto del cucinare.
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Lei cosa ne pensa? Lettera firmata
CIBO DELLA MENTE
di Francesco Frigione
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Gentile lettrice, trovo estremamente poetica la sua intuizione: che il cibo non sia solo un prodotto materiale ma un simbolo del lavoro umano, l’espressione dell’armonizzarsi di componenti distinte e distanti, un risultato che reca con sé la storia del percorso di coltivazione, di allevamento, di pesca, di raccolta, di selezione, di estrazione, di macerazione degli elementi, e che, passando per la combinazione e la cottura non solo concreta che avviene in cucina, bensì per l’elevazione affettiva e spirituale che il lavoro imprime alla materia, giunge infine alla degustazione e alla nuova alchimia della digestione.
Si tratta, è evidente, di un’esperienza legata alla potente carica erotica che il cibo trasmette a ogni suo passaggio e che lega a sé, oltre ai commensali, anche coloro che hanno partecipato al processo creativo.
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Voglio ricordare a tale proposito che nell’isola d’Ischia, presso l’incantevole museo archeologico di Lacco Ameno, si conserva un reperto importante non soltanto per la sua datazione (VIII secolo a. C.) – rappresenta, infatti, la prima testimonianza storica della Magna Grecia – ma perché evocativo simbolicamente di un mondo che metteva al suo centro il piacevole abbandono al sodalizio tra commensali: “la coppa di Nestore”.
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Il motivo per cui viene chiamata così risiede nel fatto che i versi su essa dipinti rielaborano un celebre motivo dell’Iliade (XI libro), quello in cui l’eroe Nestore conduce nella propria tenda altri capi achei, affranti per gli esiti della guerra contro Troia, e li invita a ristorarsi con una bevanda accuratamente preparata dall’ancella Hecamede in un enorme nappo. Lì ribolle un composto - il ciceone che, unito al consumo della cipolla ricoperta di miele, veniva somministrato anche agli iniziati ai famosi Misteri Eleusini (dedicati alla dea Demetra e ai riti agrari).
Nel caso del piccolo kotyle pithecusano, che non era di bronzo trapunto di chiodi d’oro, come quello descritto da Omero, ma di terracotta, l’ironico gioco dell’artista sembra consistere nell’accostarlo, invece, ai piaceri di Afrodite 6
e Dioniso. Recita infatti, in lingua euboica, il piccolo vaso ritrovato da Giorgio Buchner e Carlo Ferdinando Russo:
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«Io sono (?) la bella coppa di Nestore, chi berrà da questa coppa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona».
C’è un’opera assai più moderna, però, che la sua lettera prontamente mi richiama: lo splendido film danese – premio Oscar 1987 - “Il pranzo di Babette”, tratto da un racconto della grande scrittrice Karen Blixen e realizzato dal regista Gabriel Axel.
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Babette Hersant, è sfuggita per miracolo alla repressione della “Comune di Parigi”, durante la quale il generale Gallifet le ha sottratto tutto quel che aveva di più caro: la vita del marito e del figlio, e il lavoro di cuoca, presso il Café Anglais.
In realtà, come scopriremo negli sviluppi del film, la donna era più che una semplice chef di talento, poiché possedeva il dono divino – afrodisiaco, appunto – di trasformare un banchetto «in un’avventura amorosa», come rammenterà estasiato, a una svolta della narrazione, il generale Lorens 9
Lowenhielm, rievocando i beati trascorsi giovanili e non sapendo che è proprio la stessa cuoca ad aver imbandito il regale pranzo nella modesta dimora in cui è stato invitato.
La casa appartiene, infatti, a due austere direttrici della comunità protestante locale, Martina e Philippa, ed il generale è stato, in un remoto passato, lo spasimante di una delle due. Sono esse devote e anziane signore che hanno ereditato dal padre la guida spirituale del proprio villaggio.
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Qui hanno accolto benevolmente, anni prima, la stremata transfuga Babette - malgrado ne ignorassero storia e professione - quando bussò alla loro porta con null’altro che una lettera di raccomandazione vergata da Achille Papin, un altro vecchio corteggiatore di una delle sorelle.
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In effetti, queste hanno da sempre condotto una vita più che morigerata, negandosi a ogni pretendente, per condurre in porto un’esistenza di privazioni e di piccole elargizioni ai poveri, nel segno di una religiosità cupa, opprimente, priva del liberatorio piacere di Eros. Infatti, nessun tratto in loro appare sciolto e spontaneo: la loro compitezza è proverbiale e persino i loro corpi incorsettati (siamo nell’Ottocento) appaiono rigidi e non comunicativi. D’un tratto, però, inaspettatamente, l’eros rientra prepotentemente in gioco, grazie a una cospicua vincita al lotto conseguita da Babette.
Con essa, e senza risparmiare neppure un soldo per sé, la cuoca compra alimenti rari e preziosissimi, nonché stoviglie e arredi sopraffini: annuncia a Martina e Philippa di voler, così, degnamente celebrare il centenario della nascita del loro padre, ormai scomparso. In verità il suo gesto è una meravigliosa manifestazione di gratitudine, di prodigalità e di dissipazione amorosa, tradotta in sublime arte gastronomica.
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Al pranzo vengono invitati, oltre al generale Lowenhielm, altre nove persone (formando in complesso il numero di dodici commensali, come ad evocare il numero degli apostoli di Cristo e dei mesi dell’anno). A dispetto della censoria ingiunzione, espressa dalle pudicissime sorelle, di non commentare il piacere procurato dal cibo, il potere del lavoro amoroso che Babette ha impresso in esso mina ogni convenzionalismo e sgretola progressivamente le barriere poste al flusso emotivo.
Un senso di armonia scorre e s’impossessa degli ospiti e li conduce, attraverso l’irrompere di ricordi e della freschezza dei giorni migliori, a una lieve danza finale, condotta mano nella mano sotto la volta stellata. Ăˆ l’apoteosi del gioco di Afrodite.
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Vorrei, concludendo, ricordare che il valore simbolico e alchemico del cibo ho avuto modo di segnalarlo anche di recente, ai ragazzi che frequentano i miei seminari, dove leggo in chiave psicologica alcune opere cinematografiche. Di recente, ho avuto modo di parlare del capolavoro di Stanley Kubrick “2001: Odissea nello spazio” (1968).
Tra gli infiniti riferimenti sui quali si poteva imbastire la riflessione, ve ne erano alcuni – ai quali ho di sfuggita accennato – sul significato del cibo nei vari momenti dell’evoluzione umana, così come la tratteggia la pellicola. 14
L’impareggiabile viaggio fantascientifico e iniziatico concepito del genio kubrickiano, parte dallo stadio di primate per giungere a quello superomistico, inverandosi nel concepimento del “feto cosmico”, frutto della comunione dell’uomo con la “Grande Intelligenza Creatrice”.
Il cibo appare all’inizio come il ricavato di una esistenza miserrima, soggetta a una Natura arida, brutale e spaventosa; quindi lo vediamo sanguinolento e ferino all’alba del dominio umano; esso poi diventa via via sempre più disincarnato e dimentico delle sue origini istintuali, fino alla rappresentazione raffinata ed elitaria dell’enigmatica scena in cui l’Ulisse postmoderno, alias l’astronauta Dave Bowman, si autopercepisce in tutti i tempi del proprio maturo destino, fino alla morte e alla rinascita trascendente. In questo contesto, il pasto finale è apparecchiato elegantemente nello stile del Settecento, forse per Kubrick simbolo di un’epoca dei Lumi ammirevole ma da superare.
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Non nascondo, infine, che anche nel percorso psicoanalitico il cibo assume una valenza simbolica di primaria importanza e, sovente, il suo apparire nei sogni e nel discorso segnala un passaggio alla “commestibilità” di nuovi e più complessi contenuti psicologici da parte del (o della) paziente.
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. È membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
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