DAL SOGNO ALLA VISIONE: il gioco della sabbia nello psicodramma junghiano
di Francesco Frigione
FROM DREAM TO VISION: Sand-playing game into the Jungian psychodrama
by Francesco Frigione
Sinossi: L’autore, psicologo individuale e psicodrammatista analitico, narra di un sogno avuto in un momento critico della propria vita, divenuto fonte d’ispirazione per l’uso del gioco della sabbia nello psicodramma analitico junghiano. Si tratta di una tecnica 1
particolarmente efficace nel recupero di parti dissociate del SĂŠ che egli adotta nei gruppi terapeutici e di formazione in psicoterapia.
Abstract: The Author, an individual psychologist and analytical psychodramatist, tells a dream made in a critical moment of his life. The dream inspired him to use sand-playing into Jungian Psychodrama. This technique helps to recuperate dissociated contents of Self in group therapy and psychotherapy training.
Parole chiave: Psicodramma analitico junghiano, gioco della sabbia, terapia di gruppo, formazione in psicoterapia, crisi, sogno, visione, mito, rito, recupero di contenuti psichici, dissociazione, rimozione, negazione, forclusione, proiezione, introiezione, Super-io, Io, coscienza, inconscio gruppale, inconscio collettivo, accomunamento proiettivo, accomunamento introiettivo, processo d’individuazione.
Key words: Jungian Psychodrama, Sand-play, Group Therapy, Psychotherapy training, Crisis, Dream, Vision, Myth, Rite, Retrieving psychological contents, Dissociation, Removal, Negation, Foreclotion, Projection, Introjection, Super-Ego, Ego, Consciousness, Gruppal Unconsciousness, Collective Unconsciousness, Projective pooling, Introjective pooling, Individuation process.
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«[…] quique pii vates et Phoebo digna locuti, inventas aut qui vitam excoluere per artis quique sui memores aliquos fecere merendo […].» Virgilio, Eneide – libro VI
Diversi anni fa caddi in una crisi e smarrii il senso di ogni cosa, per cui non sapevo più chi ero e cosa volevo. Divenni insofferente anche verso il lavoro con i pazienti: mi apparve d’un tratto come un cerimoniale artificioso e impersonale nel quale mi trascinavo stancamente. Le idee con cui guardavo alle cose e il cuore avevano divorziato e cominciai a provare spavento. Mi aggiravo nelle situazioni della vita senza riuscire a confessare a 3
nessuno i miei dubbi e disperato per aver perso le conquiste di anni senza vedere una via di uscita.
Spossato, arrivai all’estate. Decisi di trascorrere le vacanze in totale solitudine, in una villetta a due passi dal mare, che una coppia di amici mi aveva messo a disposizione. Lì mi rifugiai in un’esistenza legata ai ritmi naturali, l’unica che sentivo accettabile: nuotavo, prendevo il sole e passeggiavo lungamente nelle campagne che circondavano la casa. Curavo l’orto, leggevo e dipingevo, riempiendo di frammenti caotici le pagine di un diario nel quale annotavo ogni sorta di pensiero e sensazione. Cercavo di tradurre in parole e disegni, per quanto mi riuscisse, lo schiacciante potere che avevano su di me la luce del sole, l’azzurro del cielo e del mare, gli ulivi, le rocce, la terra, la sabbia, la luna e il firmamento nelle notti di agosto.
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Il momento più difficile della giornata, di solito, arrivava dopo il tramonto, quando una tenebra più fonda di quella atmosferica, un’oscurità cosmica, dell’anima, s’impadroniva di me, consegnandomi a una inermità totale.
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Per questo, dopo cena, avevo preso l’abitudine di stancarmi camminando tra i sentieri di campagna e di stendermi a letto solo quando ero stremato.
Ogni mattina, puntualmente, mi svegliavo col ricordo di un sogno, che trascrivevo sul diario.
Col passare dei giorni, le immagini oniriche divennero sempre più vivide e invadenti, tanto che per smaltirle impiegavo ore. Ma avvertivo l’obbligo di completarne la trascrizione, poiché la mia vita si andava sempre più regolando su rituali, ai quali si ancorava la mia salvezza psichica. 6
Al culmine di questo rapporto sempre più diretto con l’inconscio, mi fece visita un sogno tanto preciso e articolato, così ricco di dettagli fantastici e meravigliosi, da farmi temere che si trattasse di un’allucinazione e che, di fatto, stessi impazzendo. Fu una visione illuminante, certo, ma così sconvolgente che non osai narrarla a nessuno. Ne parlo oggi, a distanza di molto tempo, ma non senza titubanza.
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Mi ricordo che, al risveglio, aggiunsi dei dialoghi alle sequenze oniriche, quasi obbedendo ai dettami di una scrittura automatica. A pensarci bene, fu salutare, poiché, altrimenti, il loro impasto sensoriale avrebbe seguitato a corrodere le deboli forze della mia coscienza.
Concluso il lavoro, mi addormentai, per svegliarmi al crepuscolo, invaso da un senso di gioia, di entusiasmo, da una fiamma interiore che non sentivo ardere in me da anni. Per mesi, anche dopo essere rientrato a Roma non feci più sogni. Quell’evento, in effetti, segnò un culmine, che richiese tempo ed energia per tradursi in un nuovo approccio all’esistenza e alla terapia degli individui e dei gruppi. Riporto fedelmente la trascrizione del sogno.
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È il crepuscolo e dormo sotto il fico della casa dei miei amici. L’albero mi appare grande e frondoso, carico di frutti che stillano gocce di miele. Percepisco lo scorrere della linfa nelle radici e il respiro delle foglie scure e carnose nell’aria della sera. Mi desto e mi accorgo che è pieno giorno. Una ragazza dagli occhi verdi brillanti mi scruta da non più di due metri. Non riesco a decifrarne l’espressione e neanche comprendo perché, appena le domando chi sia, si allontani.
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Sto in piedi, sotto il getto di una doccia che sembra sgorgare da sempre nel piccolo patio. Cerco di levarmi una macchia di catrame dal petto: tutti i miei sforzi sembrano inutili, finchĂŠ non ricompare la ragazza, che mi allunga una spugna appena estratta dal mare.
Io protesto che mi serve della trielina, ma lei insiste con la spugna. Scettico, la adopero, e scopro che effettivamente assorbe lo sporco. Sollevo il viso per 10
ringraziarla, ma mi ritrovo davanti un giovane dai capelli corvini che ride forte – somiglia molto a un funambolo che alcune sere fa ho visto esibirsi nella piazza del paese. Il ragazzo si fa serio e mi ordina di seguirlo, perché sono stato «convocato per una questione di massima importanza», afferma.
Penso a uno scherzo. Ciò nonostante lo seguo mentre si addentra nelle campagne e s’inerpica come uno stambecco sulle ripide pendici di una montagna. Attraversiamo dei faggeti e dei castagneti e, man mano che saliamo, sono sempre più stanco. Gli urlo che non riesco a stargli dietro, ma non mi ascolta. 11
A un certo punto capisco di essermi perso nel fitto di un bosco, dove a malapena trapela il sole. Osservo una lama di luce densa di pulviscolo e di infinitesimali insetti attraversare le fronde di un olmo: gli odori sono particolarmente intensi in quel luogo e si odono continui fruscii di animali selvatici. Ho paura e comincio a correre all’impazzata.
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Finalmente la vegetazione si dirada e su uno spuntone di roccia ritrovo il ragazzo che mi fissa ironico: «Ce ne hai messo di tempo!», commenta. Ho voglia di picchiarlo, ma il sollievo di sentirmi di nuovo al sicuro e l’espressione di benevola superiorità che gli aleggia sul viso mi dissuadono. Mi calmo.
Il ragazzo adesso mi guarda amichevolmente e m’indica la scena che si apre aldilà della balza. Mi affaccio e sono abbacinato dallo spettacolo che vedo: al centro di una candida spiaggia, lambita dal mare color cobalto, sopraggiunge da tutte le direzioni una folla placida e festosa. Sono stupefatto, visto che, oltretutto, pensavo di trovarmi sulla cima di una montagna. Ne parlo alla mia guida: «Sì, certo, questo è un luogo speciale», mi risponde. «Perciò, fai attenzione a quello che ti dicono!» «Che mi dicono, chi?», gli chiedo. Ma lui è già svanito.
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Non mi resta che seguire la fiumana di gente che, conversando in piccoli capannelli, incede verso i gradoni di un anfiteatro, forse per assistere a un concerto.
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Il sole lentamente s’inarca sull’orizzonte quando un uomo grassottello, vispo e azzimato, in smoking e papillon, avanza verso di me, accompagnato da un’avvenente donna dal grande sorriso. Resto senza fiato quando mi rendo conto che si tratta di Jacob Levi Moreno e di sua moglie Zerka e che ad accogliermi cordialmente sono i più grandi riferimenti della psicologia del profondo: Freud, Jung, Adler, Rank, Reich, Klein, Winnicott, Fairbairn, Bion… scorgo anche i miei maestri italiani e psicologi, filosofi, scienziati di ogni tempo!
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Sono semplicemente sconvolto da questa visione, i miei Campi Elisi, dove potrò parlare con tutti questi incredibili giganti. L’emozione è tale che tutte le domande che vorrei loro rivolgere mi restano in gola: l’unico mio desiderio è restare per sempre lì, godendo della loro compagnia. A quanto pare, però, questo incredibile consesso ha un messaggio da destinarmi, dopodiché dovrò tornare indietro.
Vedo che Jung mi fissa, mentre esegue un gesto simile al segno della croce: si tocca per tre volte il cuore e la fronte e poi si passa le dita sulle labbra, come a intimare il silenzio. Freud commenta con un sorriso: «Solo un piccolo desiderio, amico mio… o, meglio, il desiderio di un piccolo!». Sono parole sibilline di cui vorrei chiedere subito la ragione, ma Moreno e Winnicott mi trascinano su un palco dove una donna con gli occhiali dalla spessa montatura sta modellando delle figure nell’arena. Mi ordinano: «Parla con loro!» e Melanie Klein, riempitemi le mani di minutissimi giocattoli, mi sussurra: «Ringrazia Dora: gioca con lei!».
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Tutte queste ingiunzioni mi confondono. La donna che plasma i pupazzi di sabbia è Dora Kalff - la riconosco adesso – e mi osserva, mentre io comincio a piangere senza freno, fin quando la vista non mi si offusca. Mi sento perso in un universo senza confini e tremo come una foglia.
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Per fortuna, però, le statue di sabbia e i giocattoli si sono trasformati in una torma di bambini che corre e grida gaiamente intorno a me. M’invita a girare, tenendomi le mani, sempre più vorticosamente. Infine cadiamo sulla battigia, con l’acqua calda e cristallina. Alle mie spalle qualcuno accende un falò; i rami incendiati scoppiettano nella brezza: è notte e tutti attendiamo il sorgere della luna.
La ragazza che avevo incontrato all’inizio del sogno – e che ora appare trasfigurata in una donna alta e regale - esce dall’acqua completamente asciutta, 18
vestita di un abito indaco. Mi colpisce il suo volto sobrio, elegante e luminoso. Mi siede accanto e spiega cosa dovrò fare al risveglio. Le rivolgo quesiti per me vitali e lei soddisfa tutti i miei interrogativi. Mi abbraccia. Sento la forza del suo corpo in me. Il fuoco alle mie spalle arde.
Seguo l’immenso disco lunare nel cielo e i suoi barlumi nell’acqua. Mi assopisco. Quindi mi sveglio. Mi sveglio. 19
Mi sveglio… ».
Così termina il sogno. A questo punto è imprescindibile che io narri alcuni avvenimenti che sono derivati dalla visione.
Il primo è che il mio ritorno a Roma ha comportato una progressiva rinascita personale. Il secondo riguarda la centralità che ha assunto il gioco nel mio lavoro analitico.
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Ho tratto da quell’avventura la centralità del procedimento espressivo ed allegorico. Mi sono andato sempre più convincendo, dunque, che l’allegoria serve a ridare senso e vitalità alle ferite dei miei pazienti. Il gioco psicodrammatico e il gioco della sabbia sono diventati il rituale principe del mio lavoro di gruppo ed individuale. E ciò, tutto sommato, era abbastanza scontato, dato che già avevo cominciato a praticare questi approcci terapeutici. La novità per me è consistita nell’aiutare i pazienti ad attingere alla sorgente archetipica dei loro miti personali, che la sofferenza psichica richiede affiorino alla coscienza per trasformarne l’esistenza, mediante l’utilizzo del gioco della sabbia all’interno del gioco psicodrammatico!
Di questa forma di gioco al quadrato, capace di coniugare la catarsi emotiva all’autoriflessione, ho scoperto l’inequivocabile utilità nella clinica e nel lavoro formativo degli psicoterapeuti. 21
Innanzitutto quando mi trovo a confronto con un paziente1 eccessivamente coartato, poiché costretto a dissociare inconsciamente parti di sé considerate inaccettabili dal Super-io (rammento che lo psicodramma, con il suo gioco di proiezioni incrociate e di concretizzazioni delle immagini psichiche latenti, è un dispositivo omeopatico capace di evocare e incanalare creativamente le componenti più rimosse e dissociate del Sé). Si tratta di una condizione che preclude sommamente la spontaneità dell’interazione psicodrammatica, poiché alimenta nel paziente la paura che i contenuti in ombra eruttino in modo incontrollato e destabilizzante, producendo una versione dionisiaco-diabolica di sé, capace di ribaltarne l’identità. Insomma, il paziente desidera ardentemente trasformarsi in un vaso di Pandora – e proprio per questo lo paventa in massimo grado –, un vaso dal quale fuoriescano le emozioni infantili scisse, rimosse, negate o forcluse dalla personalità superficiale.
1 Adopero
il genere maschile per pura comodità espositiva: va sempre inteso che intendo sia pazienti maschi che femmine. 22
Di solito, in questi casi la sabbiera e i giocattoli consentono al singolo di sperimentare un “a parte”, un “metaspazio transizionale” all’interno del gruppo (che è in partenza già uno “spazio transizionale”). Quest’ultimo assolve allora alla funzione di attento sguardo, sensibile, rispecchiante e non giudicante, sul protagonista.
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Una volta che la scena nella sabbiera è stata composta, sono solito stimolare i membri del gruppo a comunicare le sensazioni e le emozioni (talvolta le intuizioni, ma mai le interpretazioni) suscitate in loro dall’immagine. In tal modo perseguo almeno tre obiettivi: 1°) il gruppo può esplicitamente riappropriarsi del ruolo di testimone attivo e di metabolita del processo espressivo-creativo; gli si ascrive, cioè, il fondato merito di arricchire lo sguardo eccessivamente parziale del protagonista; 2°) restituire al protagonista contenuti di sé precedentemente in ombra; 3°) consentire ai singoli membri di proiettare aspetti di sé nella rappresentazione individuale e, interagendo in maniera più diretta con il “dono” del protagonista, meglio introiettare elementi potenzialmente trasformativi presenti in esso.
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Un’opportunità particolarmente feconda per il processo terapeutico si dà quando il protagonista del lavoro con la sabbia diffida del potenziale trasformativo insito nella propria rappresentazione e tende a leggerla come riproposizione pedissequa delle impasse che angustiano la sua vita cosciente. Trovo proficuo, in tale circostanza, proporre agli altri partecipanti di modificare la configurazione, lasciando però al protagonista sempre l’ultima parola… ovvero l’ultimo gesto, la riorganizzazione finale della sabbiera, forte del contributo ricevuto precedentemente dall’intero gruppo. In tal modo, l’intervento plurale non solo evidenzia e sviluppa alcune virtualità latenti nell’immagine, offrendo a ciascun componente nuovi schemi di esperienza e di risposta a specifici problemi psicologici complessuali, ma “autorizza” anche il protagonista a fronteggiare il Super-io – istanza interiore altrettanto collettiva - e a valorizzare il proprio potenziale individuativo. Il protagonista è implicitamente indotto a formulare pressappoco il seguente pensiero: «Se gli altri scorgono in me tanta qualità e trovano ispirazione dalle mie immagini più personali, perché allora non cominciare a farlo io stesso?».
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Esiste, infine ma non ultimo, un modo eccellente di servirsi del gioco della sabbia in un gruppo (psicodrammatico o meno) e questo consiste nel “riscaldarlo” con tale strumento e a fargli intravedere impressioni del successivo lavoro. Mi è capitato spesso di avviare gruppi, sia clinici che di formazione, esortando i componenti, tutti insieme contemporaneamente, a usare la sabbiera e i giocattoli. In alcuni casi, operando fuori dal mio studio, ho portato i materiali perché i membri del gruppo plasmassero e creassero essi stessi i propri giocattoli, sul momento. È naturale che, inibendo l’uso della parola e concentrando l’attenzione dei partecipanti sul gesto e la vista, diventa loro imprescindibile sincronizzare i movimenti e recuperare l’uso delle funzioni sensoriali e intuitive (magari supportati da musiche ritmi adeguati), facendo leva su un’intelligenza più sintetica che analitica, funzioni che sovente vengono escluse dall’organizzazione logico-razionale della coscienza, che tende a nevrotizzare e isterilire la personalità.
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Allo stesso tempo, in soggetti borderline e psicotici, il ricorso a canali analogici facilita il contatto ritualizzato con le grandi immagini inconsce, che, mediante il contenimento gruppale e il calore del suo agire e sentire unitario, alimentano e strutturano il fragile Io dei pazienti. Senza contare che la condivisione, eseguita da ciascun partecipante al termine del gioco, consente anche di riflettere e pensare le proprie e altrui azioni, e le proprie in rapporto a quelle degli altri, uscendo dalla propria bolla narcisistica. In breve, il gioco con la sand-box, all’inizio e/o a conclusione di una serie di sessioni psicodrammatiche (come avviene, ad esempio, negli stages intensivi di due o più giorni) innesca, preannuncia e dirige simbolicamente il lavoro psicologico a venire. Questa tecnica può essere considerata, altresì, un “mandala” di gruppo, ovvero la rappresentazione di un percorso cerimoniale comune che possiede valenze sia strutturanti difensive che trasformative. Come tutte le rappresentazioni psicodrammatiche, ma spesso meglio di altre, a causa della loro icasticità ed eideticità, le immagini del gioco della sabbia aggregano e mettono in comunicazione parti sconnessi della psiche individuale e gruppale. 27
Adottando il lessico psicoanalitico, possiamo affermare che sono materia preferenziale di accomunamento proiettivo ed introiettivo, dunque fondamenti identitari della personalitĂ e dei gruppi. Cariche di intensa energia psichica e di rara efficacia mitico-narrativa, si prestano a che i singoli componenti e il gruppo nella sua unitĂ ne dispongano liberamente - ingurgitandole, espellendole, frammentandole, disgregandole, distorcendole e ricomponendole nei termini e nei tempi piĂš favorevoli allo sviluppo dei diversi percorsi individuativi.
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Articolo pubblicato in Giornale Storico di Psicologia e Letteratura - fondato da Aldo Carotenuto - “GIOCHI” n. 28 aprile 2019
Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. È membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.it Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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