LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, il grido di rabbia e dolore di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, quel grido distorto dalla sofferenza di anni, per le conseguenze di un terribile incidente stradale, che lo aveva lasciato tetraplegico e cieco, senza remissione, senza speranza di miglioramenti, non riesco a dimenticarlo: quest’uomo, che pure ha lottato in ogni modo per tornare a vivere dignitosamente, ha dovuto accettare di trovare davanti a sÊ la strada sbarrata e desiderava soltanto di uscire in punta di piedi, lievemente, e per una volta senza dolore, da un’esistenza diventata un inferno.
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Non ha potuto, però, farlo in patria, tra i suoi cari, lì dove è venuto al mondo e ha vissuto, lì dove si parlava la sua lingua madre: no, si è dovuto recare in Svizzera per porre fine al suo strazio, accompagnato dal radicale Marco Cappato, quasi alla chetichella, poiché il parlamento, da anni sollecitato a esprimersi in tal senso, non ha ancora legiferato sulla possibilità di garantire a che è costretto in situazioni così limite di decidere per un fine vita addolcito dal sonno.
La sofferenza sembra da noi –ingessati in veti etici e ideologici contrapposti, che spesso mascherano meschine convenienze politiche, sociali ed economiche – una colpa da espiare, una condanna che la collettività infligge per la seconda volta al singolo sventurato. Chi le scrive è soltanto un vecchio professore di filosofia oramai in pensione, che, in una stagione oramai lontana, ha creduto in una politica vogliosa di affrontare le grandi questioni sociali e oggi constata la desolazione di un panorama squallido, dominati dal menefreghismo e dall’ipocrisia. Ma più ancora mi colpisce come sia l’inerzia del popolo a non costringere i farabutti che ci rappresentano a mettere risolutamente mano sia agli urgenti problemi economici che a quelli toccanti della vita civile e della dignità della persona umana. 2
Che cosa accade alla coscienza degli individui? Forse lei che è uno psicologo del profondo può fornirmi qualche risposta più consolante di quelle che io riesco a darmi. Lettera firmata
IL DOLORE INUTILE
di Francesco Frigione
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Gentile lettore, anch’io, come lei, ho provato pena per l’ultimo patimento inflitto a Dj Fabo, questa volta non dalla disgrazia cieca, ma dalla politica assente e fatua che si è dimostrata ancora una volta incapace di far sua una battaglia di dignità e giustizia in favore dei cittadini – in questo caso di coloro che sono condannati a un dolore fisico continuo e insolubile (il che comporta, per taluni, anche un’insopportabile agonia della mente) -, una politica che si ostina a ignorare le istanze di chi non occupa centri nevralgici di potere o di coloro che non rientrano in vaste categorie di votanti, poiché occuparsi della qualità di quei destini la distoglierebbe dai giochi di cinico interesse immediato a cui si è consegnata corpo e anima.
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E anche me, come lei, caro lettore, provo ripugna la fuga dalla partecipazione politica di cui diamo prova come collettività, il che, in una parola, significa massiccia fuga dalla responsabilità, esodo dalla autonomia della coscienza, in favore di un procedere in ordine sparso e monadico. E se Freud, cento anni fa, poteva affermare che l’essere umano è sempre stato propenso a rinunciare alla libertà in cambio di un po’ di sicurezza, oggi ci rendiamo conto che questo cedimento non ci procura più alcun tipo di vantaggio, visto che i grandi potentati della finanza e dell’economia operano direttamente sulla cittadinanza, senza più il filtro tutelante dello stato. Quest’ultimo appare come un guscio vuoto, un contenitore disabitato da una politica ridotta a mera amministrazione dell’ordinario, totalmente svuotata del suo sacro fuoco. Ciò, naturalmente, accresce negli individui il senso di isolamento quando – disillusi e colpiti - s’imbattono in problemi (tanto più insormontabili quanto più percepiti da questa posizione esistenziale).
L’isolamento dei singoli, a sua volta, fomenta sospetto e paura, un terreno sul quale alligna la paranoia, contraddistinta dall’odio indiscriminato nei confronti dell’altro e di ogni esperienza che sfugga a un’imperiosa brama di controllo. Assistiamo, dunque, a un crescendo di emotività pulsionale e selvaggia chiaramente ostile al lavoro dell’intelligenza, riottosa all’analisi meditata e 5
all’arte della comprensione affettiva, della sensibilità empatica e del progetto comune, e, invece, determinata a lasciarsi andare a spinte nichilistiche, non trasformative, utili soltanto a consegnare più potere a persuasori occulti del consumo, manipolatori e demagoghi.
Le idee contrabbandate dal fideismo religioso e dalla bassa politica, come nel caso di coloro che avversano una chiara regolamentazione dell’eutanasia in Italia, caricano il peso di decisioni finali sulle spalle dei medici, costretti a sostenere un’intollerabile onnipotenza, o a nascondere la pratica nel “ripostiglio” a pagamento delle cliniche private.
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Quelle idee, allora, agitate come pavesi che garriscono al vento dell’opportunismo
e
dell’ipocrisia,
si
gonfiano
nell’empireo
violento
di
un’astrazione massima, indifferente ai diritti della persona, dell’essere umano singolo, unico, alle istanze della sua libertà di coscienza, alla etica dei soggetti che valutano il senso e le modalità della propria esistenza. Quelle idee, così, non si incontrano con la dimensione soggettiva e personale per elevarla a “universale”, ma vogliono collettivizzare il corpo – e attraverso di esso la coscienza individuale.
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Ma noi, come Giobbe, dobbiamo ribellarci all’idea che soffrire sia la punizione per una colpa e avere il coraggio di affermare che esiste un dolore benefico, in quanto sensato, e uno distruttivo e mortifero nei confronti del corpo e dell’anima, in quanto insensato. E che il senso non ce lo dà la collettività, né noi da soli, ma l’incontro tra noi ed essa.
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Se, d’altronde, qualcosa che ho appreso dalla mia lunga pratica psicologica con i gruppi e le comunità è che a un clima di maggiore ascolto e considerazione delle soggettività corrisponde non soltanto una migliore capacità di trovare soluzioni adeguate ai bisogni ed alle aspirazioni degli specifici componenti, ma anche e soprattutto una maggiore forza del legame comune e della volontà di costruire insieme una prospettiva più consona alla natura storica di quel particolare insieme umano.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.it Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
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