IL RESTO DI NIENTE L’ANALISTA1 TRA SPAZIO PERSONALE E SPAZIO SOCIALE
di Francesco Frigione
THE REST OF NOTHING THE PSYCHOANALYST BETWEEN PRIVATE SPACE AND SOCIAL SPACE
by Francesco Frigione
Sinossi: Per esprimere interamente la sua funzione critica nel mondo, lo psicologo deve prendere consapevolezza di due forme d’inconsistenza: quella archetipica dello spazio psichico e quella storica del suo ruolo sociale. Una visione dialettica del lavoro psicologico prevede che egli sia meno di zero, o, come suggerisce un’icastica espressione della lingua napoletana, “il resto di niente”.
Abstract: To fully express his critical task in the world, psychologist has to become aware of two voids: the archetypal emptiness of the imaginative space and the poorness of his social rule. 1
Nell’articolo, passo con disinvoltura dalla dizione “psicoanalista”, a quella “psicoterapeuta”, a “psicologo”. Intendo sempre, però, alludere al professionista dedito alla dimensione “profonda” dell’essere umano, così come, per comodità, adopero il concetto di “paziente” e quello di “analizzato” quali apparenti sinonimi.
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A dialectical and revolutionary view of the mission of the psychologist requires himself to be “Less than Zero”, or - translating an icastic expression of Neapolitan language - "the Rest of Nothing".
Parole chiave: Il resto di niente, psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista, spazio sociale, spazio privato, spazio personale, il personaggio dello psicologo nel cinema e nell’immaginario sociale, ideologia dello psicoterapeuta, lo psicoanalista come sostegno alla funzione critica del paziente come “individuo”, aspetti ideologici nella formazione dello psicoterapeuta, dialettica, negazione, storia, trasformazione, Slavoj Žižek, Jacques Lacan, Friedrich Hegel, Carl Gustav Jung, Sigmund Freud, Sàndor Ferenczi, James Hillman, Wilfred Bion, Donald Winnicott, Ernest Jones, Abraham Brill, Marc Augé, Zigmunt Bauman, Theodor Adorno, Salvatore Quasimodo, John Lennon, Paul McCartney, Beatles, Andrej Tarkovskij, Jonathan Demme, Jules Romains.
Key words: The Rest of Nothing, psychologist, psychotherapist, psychoanalyst, social space, private space, personal space, the movie character of psychologist, the psychologist in the collective imagination, ideology of psychotherapist, the psychoanalyst in support of the patient's critical skills, the patient as “individual”, unconscious ideology in clinic training, dialectic, the power of negation, History, transformation, Slavoj Žižek, Jacques Lacan, Friedrich Hegel, Carl Gustav Jung, Sigmund Freud, Sàndor Ferenczi, James Hillman, Wilfred Bion, Donald Winnicott, Ernest Jones, Abraham Brill, Marc Augé, Zigmunt Bauman, Theodor Adorno, Salvatore Quasimodo, John Lennon, Paul McCartney, Beatles, Andrej Tarkovskij, Jonathan Demme, Jules Romains.
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«I sani sono malati che s’ignorano» Jules Romains, Knock, o il trionfo della medicina (1923)
«Blackbird singing in the dead of night Take these broken wings and learn to fly All your life You were only waiting for this moment to arise» (Lennon - McCartney, Blackbird, 1968)
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“OLTRE LA PATOLOGIA”
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“Oltre la patologia” per lo psicologo si apre «la notte in cui tutte le vacche sono nere», a dirla con Hegel2. Poiché la patologia sta al cuore dell’essere umano, ne sostanzia la natura intima e profonda, è il modo con cui la psiche si fa nel mondo, incontrandosi col reale. Il registro simbolico sorge dall’originaria condizione patologica, come ci suggerisce Slavoj Žižek ne Il contraccolpo assoluto3 (2014), in quanto nasce da un processo di negazione4, che stimola un vuoto creativo, in cui il desiderio 2
La celebre frase di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, contenuta nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito (1807), racchiude il senso della polemica nei confronti del concetto di “Assoluto” intuitivo di Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling, su cui questi impernia il suo Idealismo oggettivo ed estetico. 3
Slavoj Žižek, Il contraccolpo assoluto. Per una nuova fondazione del materialismo dialettico, Ponte alle Grazie/Adriano Salani Editore, Milano , 2016. Il titolo è dedicato a un concetto chiave della speculazione hegeliana. 4
Il termine va qui inteso non nell’accezione psicoanalitica, ma in quella filosofica come elemento del processo dialettico.
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si sostituisce alla cieca pulsione. In questa chiave, è “il patologico” a produrre la necessità della Coscienza che si eleva al di sopra di esso: la più astorica coazione a ripetere diventa, quindi, la precondizione di una soggettività votata a una traiettoria storica5. Un tale processo noi lo possiamo concepire soltanto ex-post, ossia con lo sguardo di una Coscienza già matura che s’interroga sul suo divenire. Da questa prospettiva, secondo Žižek, derivano le idee di “origine” e di “ritorno” sottese ad ogni pensiero - religioso o laico - in cerca di una scaturigine e di una verità prima.
Nella teoria del “profondo”, l’origine e il primo motore di ogni evoluzione diventa, ovviamente, l’Inconscio. Dunque, la patologia oltre la patologia. Solo all’apparenza un paradosso, in realtà un ossimoro. Come recitava, infatti, una celebre boutade di Jung: «Mostratemi un uomo sano di mente e lo curerò per voi».
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Va sottolineato che il filosofo sloveno esegue una profonda analisi e revisione del pensiero hegeliano (e non solo di esso), ai fini di una dichiarata “rifondazione del materialismo dialettico”, alla luce delle più recenti acquisizioni della fisica quantistica e della teoria lacaniana.
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Ed è stato sempre il grande zurighese a insegnarci che le potenze archetipiche, che gli antichi chiamavano “dèi”, sono diventate oggi per noi “malattie”6.
Così, Hillman, con la sua Psicologia Archetipica, ci ha indicato come tali “malattie” informino l’intero panorama della vita psichica7.
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Carl Gustav Jung, Studi sull’Alchimia, Opere - Volume 13, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
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James Hillman, La vana fuga dagli dei, Adelphi, Milano, 1988.
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Insomma, lo psicologo deve necessariamente immergersi nel luogo in cui regna la notte più fitta, nell’ombra della Coscienza, affinché essa edifichi il mondo e al contempo se ne distacchi, generando la propria visione. Ma egli non può adeguatamente osservare “fuori” di sé, se non analizza la propria stessa condizione in una prospettiva più ampia.
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Se lo psicologo ambisce a una superiore consapevolezza, deve comprendere di quali processi sociali la sua figura professionale è il prodotto oppure lo “scarto”. Gli tocca pertanto azzerarsi e rivolgere su di sé i propri strumenti di analisi. Un procedimento analogo a quello che Marc Augé ha tracciato per la ricerca etno-antropologica occidentale, dopo che questa si è affinata studiando le altre culture.
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Proprio la posizione di “scarto” sociale, di figura estrema e marginale (come, su un piano spontaneo, sono gli stregoni e gli sciamani delle società tradizionali) rappresenta il punto di forza di uno psicologo del profondo, poiché questa condizione riflette la natura più autentica del lavoro analitico e perché, consapevolmente maturata, lo predispone a una critica dei processi di mistificazione sociale. Questa prassi, però, è poco attuata e quasi mai viene posta al centro della formazione psicoterapeutica.
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In tal senso, assistiamo a una vera e propria rimozione, il cui sintomo rivela il lavoro dell’ideologia dominante all’interno dell’identità professionale dello psicologo. La “nevrosi collettiva” della categoria sembra, pertanto, riguardare l’irrisolta ambivalenza tra la ricerca di legittimazione sociale e la necessaria marginalità imposta dal ruolo: lo psicologo desidera essere accolto in un consesso, malgrado il riconoscimento risulti labile ed effimero, e, allo stesso tempo, avverte l’indefettibile richiamo dei processi “notturni” del mondo che lo inchiodano a un destino di outsider. Il conflitto genera molteplici problemi nella comprensione della realtà dei pazienti, poiché il supposto spazio “extraterritoriale” promosso dal terapeuta – il setting – è già impregnato dai condizionamenti ideologici presenti nella dialettica sociale.
La scarsa consapevolezza della dimensione storico-dialettica può facilmente rendere il terapeuta orbo rispetto a questioni che, pur riverberando nella dimensione clinica, derivano da un contesto generale assai più ampio. Ad esempio, bisogna chiedersi se non siano gli attuali problemi economici, politici e sociali a colorare, nel “qui e ora,” le figure mitiche dei genitori e dei familiari,
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modificando i vissuti del paziente e sollecitando quelle complessualità che il lavoro analitico tende a iscrivere come derivato del passato del paziente. In questo caso, l totem ideologici della teoria, qualunque essa sia, spesso oscurano il discorso di soggettivazione dell’analizzato, poiché, di fronte ad articolati problemi imposti dalla dinamica sociale, lo psicologo finisce per riconoscerne solo l’aspetto immaginario e privato, guardando il dito e non la luna, quando il dito indica la luna.
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Inoltre va considerato come l’attuale società liquida, magistralmente inquadrata da Zygmunt Bauman8, sia giunta alle soglie del collasso di ogni legame e struttura collettiva, di ogni identità e coscienza di “classe” – ragion per cui tende ai fascismi, ai nazionalismi, alle xenofobie e ai terrorismi psicotici. La ricerca di appiglio a tale contesto sociale, da parte dello psicologo, poggia dunque su un terreno franoso, sotto cui si apre un vuoto, frutto di due forme d’inconsistenza: quella archetipica dello spazio psichico - regno dell’immaginario che fatica a tradursi in simbolico - e quella del reale sociale in vertiginosa dissoluzione. Il riconoscerci come “resto” in questo duplice “niente” può offrire allo psicologo, invece, una più complessa visione di sé e renderlo efficace mediatore simbolico tra la società e il paziente.
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Zygmunt Bauman, Retrotropia, Editori Laterza, Roma 2017. 13
D’altronde, come dimenticare la leggendaria frase di Freud sulla psicoanalisi quale “peste”, pronta a devastare il “sano” tessuto degli Stati Uniti d’America? Correva il 1909, l’anno delle Cinque Conferenze alla Clark University di Worcester (Boston) e, oltre allo stesso fondatore della disciplina, gli altri due “untori” sarebbero stati Sàndor Ferenczi e Jung.
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Riflettiamo bene sull’immagine freudiana: i tre, imbarcatisi a Brema sul transatlantico George Washinghton, stavano percorrendo la rotta atlantica, che li avrebbe condotti a New York, dove ad attenderli c’erano Jones e Brill. Durante la navigazione, Freud rivela di confidare nell’inconsceità degli americani per diffondere presso di loro la “peste” della psicoanalisi.
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All’immagine ufficiale e limpida dei tre stimati studiosi, ospiti di un consesso di augusti colleghi, dunque, Freud contrappone quella oscura e “patologica” dei topi traslatori del flagello. Come quei roditori che, sbarcando nottetempo dalle navi degli ignari mercanti genovesi di ritorno da Caffa, diedero avvio allo spopolamento dell’Europa, così il loro minuscolo e agguerrito terzetto - vero plotone di “uomini dei topi” – avrebbe ammorbato il Nuovo Mondo.
Una simile fantasia rivela chiaramente che la psicologia del profondo rappresenta la “malattia” e non la cura, e che questa malattia agisce in maniera acida, abrasiva, svuotante, come la peste sui tessuti, prima di provocare trasformazioni nella volatile materia della psiche. “Analizzare”, d’altronde, deriva dal greco e significa “sciogliere”, uno sciogliere speculare a quello che la morte impone al corpo. Analizzare è il prometeico tentativo di far nascere la scintilla di Eros da Thanatos, con il medesimo strumentario entropico adoperato dalla morte.
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Bisogna, dunque, che sia chiara la posizione di “scarto”, di “resto”, di “Caronte” e di tessitore, che, in quanto pontiere del profondo, costringe lo psicologo a fare la spola tra la cosiddetta “realtà” e le impalpabili immagini psichiche, su quella soglia dove si materializza il simbolo. Questa funzione rende lo psicologo “meno di niente”, nell’accezione più sottile del termine: uno zero che scava nel “tutto pieno” (il “troppo” del reale concreto da un lato e delle fantasmatiche inconsce dall’altro) e che aiuta la mente a vacillare, a frantumarsi e a ricomporsi in nuove configurazioni. L’analista, infatti, malleva il paziente che cerca di disfarsi di quanto gli ottunde la mente con traumatica concretezza9; lo sostiene nel conflitto contro la pretesa di letteralizzare ogni cosa, assunto che gli negherebbe il bene del vuoto e dell’assenza, indispensabili a sbrigliare i suoi “giochi”, a modellare le sue immagini più vive10.
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La stessa da cui vorrebbero svincolarsi le/gli anoressiche/ci, ma che, purtroppo, rinnovano traducendo la propria istanza di liberazione in una feroce e concretissima sorveglianza del corpo. 10
È evidente che questa tematica richiama la misteriosa origine di quella che Wilfred Ruprecht Bion definisce la “funzione α”, ovvero quel processo, ben riconoscibile nel sogno, che stimola la differenziazione costitutiva del Sé tra conscio e inconscio. Senza citare, naturalmente, il fondamentale concetto di “area transizionale” di Donald Woods Winnicott [cfr. Gioco e Realtà, Armando, Roma1971].
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Ricordate la celeberrima affermazione di Freud ne L‘Io e l’Es (1922): «Wo Es war, soll Ich werden» (“Là dove era l’Es sorgerà l’Io”)? Invece, di inseguire l’originaria metafora dell’Autore sui costruttori di dighe olandesi, che sottraggono terra al mare, scegliamo una variazione per cui è il mare stesso a ritrarsi, magari per effetto di una forte marea, o per una corrente contraria partorita nei suoi stessi abissi. Sospinto da sé stesso più a largo, il mare si raccoglie, si argina, si stipa e svela finalmente un passaggio imprevisto (come con Mosè e il suo popolo). Quel sentiero umido e caduco è lo spazio di gioco in cui nasce il potere parziale e insaturo del simbolo.
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Ecco spiegato perché, per dirla con la lingua napoletana, lo psicologo, assurdamente, deve riconoscersi come il “resto di niente”. Questa geniale espressione crea, mediante una semplice sottrazione, l'illusoria e ironica immagine di qualcosa (“il resto”) appostato nel cuore del nulla. E di conseguenza rende il vuoto molto più di una mancanza: ne fa il ricordo di un sé stesso perduto e l'alveo del desiderio.
Lo psicoterapeuta e il soggetto-individuo. In definitiva, da una parte non possiamo considerare la terapia psicologica, e segnatamente quella di orientamento analitico, una procedura di 19
pacifico adattamento al contesto sociale; allo stesso tempo, il lavoro clinico non può avallare un dogmatico rifiuto della società da parte dell’analizzato, poiché tende per statuto ad affinare le sue capacità critiche tout court. In breve, dobbiamo immaginare l’analisi come un terreno al confine tra l'accettazione e il rifiuto della società, un’area di creatività, nella quale si profila un’elaborazione continua dell’identità e del ruolo dell’analizzato nel mondo. In tal senso, la terapia, checché se ne dica, mira sempre a qualcosa: a che il paziente si scopra effettivamente individuo, cioè "non diviso", sia in quanto consapevole dei processi collettivi che ne spodestano la soggettività, sia perché intenzionato a parteciparvi con originalità e autonomia. I processi collettivi rappresentano, però, il precipitato di rapporti non solo psicologici, ma economici, antropologici, sociali, culturali, tutti carichi di ideazioni e affettività. E le tessiture ideologiche stanno a fondamento dell’amalgama che lo psicologo tratta in terapia.
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È prioritario rammentare Adorno quando segnala che la tipica ottusità psicologica dei singoli, nella società capitalistica avanzata, si esprime con la particolare arroganza che deriva dall’essere la conseguenza della compartimentazione mentale delle strutture di potere: «La liquidazione formalistica e amministrativa, la separazione in compartimenti stagno di tutto ciò che è inseparabile nel significato, la proterva insistenza sull’opinione accidentale in assenza di ogni fondamento, insomma la pratica di reificare ogni tratto della fallita formazione dell’io, di sottrarlo al processo dell’esperienza e di affermarlo come l’ultimo “sono fatto così”, basta a conquistare posizioni inespugnabili. Si può essere certi della complicità degli altri, ugualmente deformati, come del proprio vantaggio. Nella cinica fierezza
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del proprio difetto vive l’intuizione che, nella fase attuale, lo spirito oggettivo liquida il soggettivo.»11 La perniciosa disarticolazione della realtà alla quale si riferisce il filosofo di Francoforte, quando tocca gli psicologi (e interessa, per ciò stesso i loro pazienti) si fa scudo spesso di una visione intimistica e privatistica della realtà, ignorando come essa s’inserisca in processi assai più complessi e trascendenti. Esistono, però, i mezzi per rimediare a tale errore.
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Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1954/1994 - § 118. In basso e sempre più in basso – p. 218. 22
Sin dagli esordi della psicoanalisi si è compreso che il terapeuta non deve colludere con il desiderio del paziente di essere "guarito", ovvero magicamente sottratto al doloroso confronto con i propri conflitti. Di fatti, in tale maniera, si rinuncerebbe alla tutelare funzione di “compagni di strada” del’analizzato, capaci di stargli a fianco lungo un percorso ignoto e privo di risposte precostituite e rassicuranti. Altrettanto si deve capire che questa cautela da sola non basta: lo psicologo ha anche l’obbligo di chiedersi come egli stesso sia percepito dal mondo, ovvero in quale categoria ideale e ideologica viene collocato in quanto terapeuta e quanto eventualmente egli stesso tenda a piegarsi alle implicite pressioni sociali, sia per ottenerne vantaggi materiali, sia per sentirsi incluso nel contesto sociale. Il gusto un po' sadico con cui i blockbuster hollywoodiani dipingono la figura dello "shrink", lo"strizzacervelli", ci torna utile per decifrare la vulgata impressa nell'immaginario collettivo occidentale dall'industria culturale americana12, ma anche qualche verità più profonda. I film di consumo denunciano, infatti, sin da subito i loro intenti ideologici consapevoli, ma offrono al contempo una splendida occasione di lettura degli aspetti involontari e delle contraddizioni del sistema in cui vengono prodotti.
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Che abissale distanza tra questa figura e quella epica, poetica, dello psicologo-cosmonauta Kris Kelvin nel Solaris di Tarkovskij!
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In questo scenario, lo psicologo è oramai assurto ad archetipo dell’individuo la cui integrazione conformistica alla società viene repentinamente spazzata da una potente crisi identitaria, che manda miseramente in pezzi la sua maschera e ne rivela la natura di anello debole dell'ordine vigente. Quasi tutti gli psicoterapeuti dei recenti film hollywoodiani, una volta disfatto il sottile manto della disinvoltura professionale, sprofondano in una voragine, catturati da un mondo violentemente dionisiaco, angoscioso e pulsionale. Qui le spinte psichiche sono totalmente antitetiche e scollate dalla condizione sociale alla quale i protagonisti vorrebbero strenuamente restare aggrappati. Gli psicologi vengono a rappresentare a tutto tondo, allora, la dimensione cieca e vuota dell'essere umano fintamente adattato, drammaticamente costretto a confrontarsi con la propria vacuità, prima di risorgere come “iniziati” ai misteri della complessità psichica, oppure di scomparire come "capri espiatorio" dell’inconsapevolezza sociale.
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Un importante filone delle trame di celluloide - di cui il capostipite è Il silenzio degli innocenti13 - vede nel terapeuta il campione della più efferata psicopatia, il perfido fantasma assassino, sleale nemico della società che amichevolmente lo ospita, capace di aggirarne a suo piacimento le convenzioni e piegarne le norme. Questo essere perverso riesce, in tal modo, a manifestare un’irrefrenabile violenza (precipitato individuale della cieca violenza collettiva) e ad affascinare le vittime, sia sullo schermo che nella realtà (gli spettatori). In tal modo il cinema declina una versione aggiornata delle eterne figure della lamia e del vampiro, dei “non morti” insomma, aleggianti sui vivi e pronti a richiedergli l'indispensabile tributo di sangue da versare al (forcluso) mondo degli inferi.
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È il riuscito thriller del 1991, affidato alla regia di Jonathan Demme.
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In qualunque caso - e forse ancor meglio in questa espressione ferale -, il cinema inchioda lo psicologo al ruolo di custode della soglia oscura e di guardiano del "nulla" assoluto, cavaliere - malgrĂŠ lui- del temuto universo invisibile.
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Parafrasando Quasimodo, potremmo dire, allora, che "ogni psi sta solo sul cuor della terra, trafitto da un conflitto letale. Ed è subito notte". La notte dello psicologo è parente di quella tramandata da San Juan de la Cruz, una realtà che trova il suo culmine nell’assenza di riferimenti e su questa assenza costruisce una piattaforma simbolica, un resto: il resto di niente, appunto. Solo dalla considerazione della basilare vacuità, non solo ontologica ma anche sociale, della sua condizione sorge per lo psicologo l’autoconsapevolezza dell’“in sé”: abitante del doppio "niente" che diventa “meno di niente”, in qualità di suo “resto illusorio”, questo"resto di niente" è provvido di potenzialità; la consapevolezza traduce, infatti, lo psicologo allo stato di “in sé e per sé”, una figura sociale attiva e significativa, un “qualcuno” che non sta 27
più alla finestra, chiuso nel suo angusto bunker privato - lo studio - ma sa di essere un outsider che abita i processi trasformativi del mondo.
Fluttuando in questo vuoto generativo, agendo in nome e per conto di esso, lo psicologo procede verso una mancanza feconda, in cui scaturiscono affetti, effetti, idee, proposte - princîpi potenzialmente rivoluzionari della realtà sociale.
Articolo pubblicato in Giornale Storico di Psicologia e Letteratura – fondato da Aldo Carotenuto – “OLTRE LA PATOLOGIA” n. 25 - dicembre 2017
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