LETTERE ALLO PSICOANALISTA
Gentile Professore, gli attentati di Parigi sono l’orrore puro. Non riesco a evitare di tornare alle immagini trasmesse dalle televisioni e da internet e ogni volta mi provocano più paura e più sconcerto. Penso che la nostra vita non sarà più la stessa, così come è successo agli americani dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Che fare?
IL TERRORE MENTE
di Francesco Frigione 1
Gentile amico, tutti ci sentiamo dilaniati e ottusi, come se frammenti infinitesimali del piombo scagliato sulle innocenti vittime di Parigi fossero sgusciati dalla loro carne per penetrare nelle nostre anime.
In questi giorni vari miei pazienti hanno portato in terapia la sua stessa angoscia. Molti mi hanno riferito di aver deciso di evitare posti affollati e mezzi pubblici, qualcuno ha persino ipotizzato che il mio studio di Roma, tanto vicino ai Musei Vaticani, potesse considerarsi un potenziale bersaglio, in vista dell’imminente Giubileo cattolico ‌
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Sulle prime, lo ammetto, ho faticato a immedesimarmi in questi vissuti così estremi, ma presto ho compreso come l’ultima strage dell’ISIS sia veramente riuscita a far saltare il tappo del terrore che sempre cova in ciascuno di noi, aprendo in molti le porte al panico.
Il termine “panico” già racconta, attraverso la sua etimologia, una storia pregna di significato. Si tratta infatti di un sostantivo greco, πανικόν, derivato dall’aggettivo πανικός, ovvero “del dio Pan”. Ciò costringe a domandarsi quale nesso corra tra la «confusione ideomotoria, caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali», a cui accenna il vocabolario Treccani, e il misterioso dio silvano dell’antichità. Pan, in effetti, rappresenta l’essenza profonda e ineffabile della natura, che improvvisamente ghermisce la coscienza dell’uomo, non di notte, bensì quando il sole batte più potente senza quasi proiettare ombre, nell’arsura dell’immobile pomeriggio estivo.
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La sua comparsa nei sensi può provocare estasi ma anche un selvaggio spavento; questo “tutto” (in greco, non a caso, anch’esso si dice πάν), che all’improvviso ci pervade, scompiglia le nostre certezze e pare non lasciarci scampo. Anche noi diveniamo in un istante pura estensione priva di limiti e di difese, incapaci di differenze e distinguo, impossibilitati a stabilire cosa è soggetto e cosa oggetto. D’un tratto, la nostra coscienza dilegua nell’immane matrice inconscia dell’universo.
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L’Io vacillante inizia allora la sua folle fuga. Scappa, tenta di fare qualcosa, qualsiasi cosa, non perché gli serva a raggiungere un obiettivo preciso, ma per dimostrare a se stesso di stare ancora in piedi, di esistere, di poter riconquistare la centratura nel corpo, del quale gli è sfuggito il controllo con un tremore esplosivo.
Ogni terrorismo mira a generare questo medesimo risultato, né più né meno come gli indiscriminati bombardamenti eseguiti dagli eserciti sulle popolazioni civili si propongono, prima ancora che di incutergli danni economici e militari, di abbatterne la capacità di resistenza psicologica, procurandogli un senso di assoluta impotenza rispetto a un fato ineluttabile.
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A questo proposito, uno dei più terribili racconti che lo psicoanalista ebreo tedesco Bruno Bettelheim ci ha fatto della vita dei campi di sterminio nazisti è quello di poveri prigionieri sopraffatti dal male, i quali si gettavano, quasi ipnotizzati, contro il filo spinato elettrico e le pallottole dei carcerieri. Gli altri compagni, nel gergo delle baracche, li avevano soprannominati “i musulmani”, alludendo con ciò al loro consegnarsi senza opporre resistenza a un potere trascendente, che li sollevasse dal peso di sopravvivere nello strazio.
Nelle sue celebri Lettere dal carcere, Antonio Gramsci racconta del terrore che l’isolamento e le prevaricazioni gli cancellino l’identità, per sfociare in una trasformazione incontrollabile che segue alla scissione dell’Io: «Il più grave è che in questi casi la personalità si sdoppia: una parte osserva il 6
processo, l'altra lo subisce, ma la parte osservatrice (finché questa parte esiste significa che c’è un autocontrollo e la possibilità di riprendersi) sente la precarietà della propria posizione, cioè prevede che giungerà un punto in cui la sua funzione sparirà, cioè non ci sarà più autocontrollo, ma l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo “individuo” con impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti» ( a cura di Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, Einaudi, Torino, 1965 – pp. 757-758). Questo “individuo diverso” sarà praticamente un soggetto adattato all’orrore, capace, pertanto, di pervertire la propria personalità pur di sfuggire al senso di desolante impotenza e vulnerabilità in cui versa. Che s’intende per “pervertire la personalità”, nello specifico? Significa diventare un essere che ha assimilato mimeticamente i tratti e la mentalità di chi gli causa sofferenza. In questo modo, la crudeltà si propaga e si diffonde all’interno della comunità delle vittime.
Si tratta di un passo – frutto di una strategia intenzionale volta a sconvolgere le vittime - che va ben oltre la nota “Sindrome di Stoccolma”, per cui i quattro ostaggi di un rapinatore e un suo complice, rinchiusi nel caveau di una banca (per 131 ore, dal 23 agosto 1973), solidarizzarono con i propri sequestratori, odiando i poliziotti che cercavano di liberarli. Di fatti, il processo paventato da Gramsci, e che Bettelheim ha tanto lucidamente indagato, comporta un’identificazione piena con l’ideologia del persecutore e la replica di 7
comportamenti feroci e distruttivi verso soggetti ancora più deboli, nei confronti dei quali si riesce a esercitare il proprio potere. Compiute queste considerazioni, torniamo a noi. La risposta psicologica all’intimidazione terroristica coincide anche con la preservazione e lo sviluppo di una dimensione civile e culturale, che ci impegna verso noi stessi e la collettività: il nostro compito basilare consiste adesso nel non farci offuscare dallo shock e dalla permanenza del trauma.
Questo, infatti, se non adeguatamente elaborato (e vedremo che cosa vuol dire ciò), potrebbe incrudelire sottotraccia, spingendoci ad una frantumazione delle emozioni e delle idee, a un’impulsività delle azioni e delle reazioni, mano a mano che trascorrerà tempo dagli ultimi eccidi: infatti, sappiamo che le minacce di diffondere il terrore nel Medio Oriente, in Africa e nell’Europa, nell’Unione Russa e negli U.S.A., avanzate da Daesh (la traslitterazione dell’acronimo di Al dawla al islamiya fi al Iraq wal Sham, “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”) saranno seguite da reali tentativi e forse, in qualche caso, anche da tragici successi. Sappiamo anche, però, che gli stati europei, gli Stati Uniti e la Russia, spesso dimostratisi apprendisti stregoni, malgrado le loro contrapposte ambizioni e paure, sembrano aver preso 8
coscienza che i giochi militari avviati, sorretti o semplicemente consentiti, ritenendo di poterli indirizzare a loro piacimento, sono diventati come un incendio indomabile che rischia di bruciargli le case. Un’iniziativa meditata e congiunta sul piano diplomatico, politico, economico e, solo in ultima analisi militare, può spazzare via Daesh; ma solo se questi paesi, lavorando insieme, riusciranno a immaginare un nuovo quadro di accordi internazionali, che includa potenze regionali quali la Turchia, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iran. Col tempo, ciò potrebbe implicare anche la risoluzione del problema curdo, di quelli palestinese e libico e, perché no, una nuova epoca di riconoscimenti tra sciiti e sunniti. Infatti, il conflitto tra le due grandi tradizioni dell’islamismo è sempre tornato utile per intenti geopolitici e per lo sfruttamento delle risorse economiche da parte di interessi stranieri. Non dobbiamo dimenticare che, a oggi, tante nazioni (compresa la nostra) vendono armi e comprano petrolio, i quali servono, direttamente o indirettamente, a sostenere lo Stato Islamico. Se ci sarà la volontà e l’intelligenza politica dei governi democratici – nei confronti dei quali dobbiamo impegnarci a esprimere appoggio o critica, a seconda dei loro orientamenti in politica estera – di scendere a compromessi per stabilire un nuovo ordine regionale, allora la soluzione al terrore che ci minaccia si profilerà non nel remoto futuro, ma in quello immediato. Frattanto, sappiamo che le misure preventive istituite dai servizi segreti, il cui fulcro consiste nell’attività di infiltrazione negli ambienti dei facinorosi e dei potenziali terroristi, procedono. Da questo punto di vista, l’Italia sembra che stia lavorando alacremente e in rete con gli altri paesi. Ciò non ci garantisce in assoluto, ma può consentirci una relativa serenità. Mi attardo in questo discorso di ordine pratico, caro amico, poiché il modo in cui il terrore conquista terreno è cancellando la capacità di eseguire un “esame di realtà”. Prevalgono allora solo fiotti di emozioni, che ci conducono a brancolare nel buio, poiché non sono accompagnate dal pensiero.
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“Elaborare” le nostre emozioni implica dunque dar loro accesso alla coscienza, raccoglierle, ascoltarle una ad una e, nello stesso tempo, trattarle come forme psichiche da non prendere alla lettera, come figlie di “fantasie”, immagini da smontare e rimontare osservandole in tralice, con lo sguardo sghembo di chi, mentre con un occhio le fissa, contemporaneamente le inquadra in un contesto di idee più ampio e complesso. Insomma, sono questi i momenti in cui meglio dobbiamo esercitare le nostre qualità conoscitive ed amare la realtà, abitandola eroticamente, con trasporto, con la voluttà di chi non accetta di farsi intimidire, rinchiudendosi dentro casa, sia in senso concreto che allegorico, cioè pensando in piccolo, in modo meschino, pavido.
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Tale questione ci riconduce anche allo stile con il quale i mass-media ci propongono l’informazione e a quello con cui noi, a nostra volta, ci nutriamo dei mezzi d’informazione. Questi ultimi posseggono un loro funzionamento, per un verso gestito da chi li amministra, li finanzia e li dirige, ma per un altro dovuto alla loro propria natura. Mezzi immediati e “freddi” (secondo la definizione di Marshall McLuhan) come la televisione, captando
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contemporaneamente la vista e l’udito dello spettatore, possono facilmente aggirarne l’apparato critico, scaraventandone l’Io in quella tipica situazione, vista in precedenza, di scissione tra un sé osservante e un sé che subisce il processo (attraverso l’immedesimazione empatica con gli attori del dramma reale). Ma anche la stampa che soffia sul sensazionalismo, che stravolge il lessico, che si bea di esagerazioni, rinunciando al compito di analizzare con acume le questioni all’ordine del giorno, oppure alcune notizie e dei video che circolano indiscriminatamente su internet, assolvono egregiamente al compito ipnotico e mistificatorio, soprattutto se si coagulano in un processo autorinforzante.
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L’individuo viene spinto, allora, a provare istinti primordiali di fronte al pericolo, i quali, tipicamente, obbediscono allo schema “attacco/fuga” e alla manichea divisione dell’altro in “amico/nemico”. Tutto ciò può rivelarsi pericolosissimo, poiché l’accrescersi artificioso delle paure spontanee può insinuare in noi il desiderio di rinunciare alle libertà personali, cedendo alle lusinghe offerte da qualcuno o da qualcosa che prometta di proteggerci dalle onnipresenti minacce.
L’infantilizzazione, la regressione al bambino indifeso e tremante che cova in ciascuno di noi, rappresenterebbe il più grande successo di coloro che più di tutto ci invidiano la libertà di sentire, di pensare e di decidere con la nostra testa. Sono questi i più straordinari valori che la nostra cultura, pur mettendoli continuamente a repentaglio, ha saputo salvare e sviluppare nella sua storia millenaria.
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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma nella scuola di specializzazione per psicoterapeuti PsicoUmanitas; formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma. Ăˆ membro del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, fondato da Aldo Carotenuto, e del Direttivo del Giornale Storico di Psicologia e Letteratura. Ha fondato e dirige il webzine e la rivista internazionale Animamediatica.
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