LUCI NELL’OMBRA UN LABORATORIO SUI SOGNI NELL’ISTITUTO PENALE MINORILE DI CASAL DEL MARMO
di Francesco Frigione
Da più di vent’anni lavoro come psicologo e psicoterapeuta. Con la collega Margherita Rosa e l’aiuto della dirigenza e del personale dell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo di Roma, nel 2009-2010 ho condotto un laboratorio sui sogni. Con i pennelli le ragazze e i ragazzi reclusi hanno narrato scene oniriche e fantasie con una decisa impressione di realtà (definite in campo clinico illusioni) e che culture tradizionali, come quella Rom, 1
considerano visioni. In carcere i detenuti sono impossibilitati a tradurre in azioni i conflitti interiori e sentono incombere le proprie storie difficili. Questi giovani non sono solo, però, soggetti carenti e colpevoli ma anche portatori di competenze emotive e cognitive. Esplorano un mondo male illuminato, lambito dalla disinvolta indifferenza di una società pigra e svogliata, che delega i problemi più controversi a quello stato a cui, giorno dopo giorno, sottrae risorse economiche e progettuali.
Giacinta
Giacinta[i] ha diciassette anni e un fisico minuto. Di origine slava, viene da un campo nomadi romano: è una rom con un matrimonio senza figli alle spalle. Si è battuta per lasciare il marito e per tornare alla propria famiglia di origine, un risultato difficile da conseguire. Infatti i matrimoni sono contratti stipulati tra famiglie e la rescissione dell’accordo comporta un serio danno economico per i parenti della sposa: i genitori, a quel punto, devono restituire il denaro con cui la figlia è stata scambiata. Prima dell’unione Giacinta è passata per il vaglio dei suoceri che ne hanno valutato la capacità di rubare e l’accondiscendenza nei confronti del marito e loro. Mentre partecipa al laboratorio appare insofferente, preoccupata per un’uscita dal carcere che tarda ad arrivare. La sua compagna di stanza, Fatima, invece, uscirà a breve. Anche se Giacinta lo nega, l’avvenimento le rende ancora più intollerabile la sua condizione. Con grande sforzo, dipinge una macchia rossa su un foglio che poi abbandona: rappresenta un vestito. Ha sognato, infatti, di trovarsi in strada mentre stringe tra le mani una busta con dei begli abiti colorati. L’atteggiamento di ripulsa verso il disegno rivela che la ragazza desidera “vestire” altri aspetti di sé, più audaci e vitali, ma è anche terrorizzata dal farlo poiché ciò la rende vulnerabile e sola. La sua esistenza è irta di pericoli,
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trabocchetti, vincoli stritolanti. Nel tempo raccolgo altri brandelli della sua vita: c’è un uomo che la ama, anche lui uno zingaro, ma la famiglia del giovane la denigra. Giacinta occulta il dispiacere dietro uno sdegnato rifiuto; è delusa dal cedimento del partner: vorrebbe vedere rispecchiata in lui quella rabbiosa volontà d’indipendenza che la agita. Durante la detenzione si arrovella disperatamente: con chi stabilirà un legame all’uscita; di quale famiglia entrerà a far parte? E’ vincolata al gruppo a cui appartiene e non poter scegliere il proprio destino la angoscia. Dovrà tornare a rubare, magari avendo dei figli, e immagina come un incubo Rebibbia, dove le condizioni sono assai più dure che a Casal del Marmo. Sa quello che vuole evitare, ma non sa come farlo e soffre. Si sente oscuramente prigioniera di un sistema che la cattura, la assoggetta, senza che per lei si schiudano effettive alternative.
Fatima e il suo visitatore
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Fatima è una bella ragazza snella, vivace, dagli occhi ridenti. Rom di famiglia slava è nata e vissuta a Roma, in una dimora stabile. Mi stupisce che sia entrata a Casal del Marmo imbottita di droghe. Il suo carattere è combattivo: contro le indicazioni dei familiari, ha smesso di andare a scuola. La ragazza ammette di aver preso una strada pericolosa e che vorrebbe cambiarla, eppure la voglia di sfida nei confronti degli adulti fino ad ora ha prevalso. Adesso che è prossima all’uscita dal carcere le preme più di tutto tornare a divertirsi con le amiche e i ragazzi, e, forse (non lo dice, ma lo lascia intendere), tornare a rubare e a drogarsi. Sotto la superficie briosa le sue visioni mettono in scena le violente passioni che la dilaniano. Fatima racconta che hanno avuto inizio poco dopo che lo zio, un uomo buono e saggio, era morto di cancro. Lo zio le è apparso prima di essere arrestata per esortarla a non drogarsi e a realizzare qualcosa di meglio nella vita, considerando quanto fosse intelligente e capace. Un’altra visione Fatima l’ha avuta in cella, in un momento di tormento e sconforto. Le è apparso un ragazzo sconosciuto che le ha raccontato la propria storia, conclusasi con un suicidio in carcere, e l’ha rassicurata di non volerle fare del male. Le si rivolgeva con dolcezza e prima di scomparire le ha accarezzato teneramente la testa. Fatima dipinge con tratto infantile l’incontro: adopera colori intensi e brillanti come per esorcizzare il dramma sostanziale. La visione è affiorata dall’inconscio per scongiurare un crollo animico che avrebbe potuto anche concludersi con un gesto suicidario. Ma la crisi ha segnato anche un passaggio maturativo, un’iniziazione di Fatima al dolore psichico.
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Ciro
Ciro è un ragazzo mite: alto, magro, dagli occhi tersi. E’ un po’ logorroico e non si accorge di irrompere nel discorso degli altri. Quando gli viene fatto notare si arresta immediatamente. Quel che dice è, però, sempre significativo, talvolta toccante. Viene dall’hinterland napoletano. Condannato per un reato grave, afferma che a breve uscirà con un permesso e che poi seguirà una “messa in prova” lavorando nell’elegante negozio di un parente. Narra un sogno che dipinge con tanta cura da non riuscire a completarlo nel tempo a disposizione. Si trova in una stradina a ridosso di una piazza centrale di Napoli. D’un tratto scorge un motorino con in sella una conducente dai tratti indefiniti, la sua ragazza e la cugina della sua ragazza. Lo scooter prosegue la marcia; lo sguardo di Ciro e della fidanzatina s’incontrano allora per un lunghissimo istante: negli occhi di lei il sognatore scorge riprovazione e mentre la vede allontanarsi prova un dolore e rimpianto. Gli salgono le lacrime 5
agli occhi. E’ evidente che le tre figure oniriche esprimono i sentimenti di colpa del ragazzo verso un mondo affettivo tradito e violato. Contemporaneamente, testimoniano le paure e i desideri verso il futuro che l’attende.
La ragazza di Ciro
Ciro viene da una famiglia legata alla malavita e suo padre ha trascorso più di metà degli anni in prigione. Quando i carabinieri vennero ad arrestare il figlio l’uomo si trovava a casa e scoppiò a piangere. Il vero fulcro della vita di Ciro, però, il suo riferimento assoluto, come quasi sempre accade nella realtà meridionale e partenopea, è la madre. Di fatti, per Ciro future dipendono da tre fattori: il primo è la sua volontà di apprendere un mestiere; il secondo consiste nel denaro (d’implicita origine malavitosa) che la madre può investire per aprirgli un’attività commerciale; il terzo è l’auspicata volontà del “Boss”, suo parente stretto, di non costringerlo ad altre attività criminose. Parlandone il ragazzo esplode in un’implorazione: «Loro nunn’o vogliono ch’io finisco 6
carcerato!». Pare che la vita di Ciro dipenda esclusivamente dalle intenzioni della grande famiglia camorristica e dallo spazio di mediazione materna. Lo stato e la società civile in questo quadro appaiono come un’entità remota che, scontata la condanna, si dileguerà ancor più: resterà soltanto come latente minaccia di reclusione. A proposito del clan camorrista Ciro racconta il frammento di un altro sogno: la moglie del “Boss” lo accoglie nella sua casa invasa dal sangue. L’impatto cruento del frammento è tale da turbare il ragazzo e portarlo a distogliersene. La moglie del Boss è l’immagine attuale di una forza interiore terribile, potente e arcaica; domina i più reconditi moti psichici, è lei a far scaturire il sangue di vita e di morte, quel sangue che, spandendosi, scioglie e lega ogni rapporto nel mondo della veglia.
Vladimir inseguito dal poliziotto
Vladimir - Un poliziotto gli spara accidentalmente alle spalle; Vladimir cade in terra e vede tutto bianco, è abbacinato. Al risveglio si tocca: ha la 7
sensazione di essere stato realmente colpito dai proiettili. L’ambiente urbano del sogno sul foglio diventa aperta campagna. Il dipinto è diviso in tre bande orizzontali di colore vibrante. Due figure marrone, una più adulta e l’altra più giovane rappresentano, rispettivamente, il poliziotto che ha sparato e il sognatore. Nelle mani dell’uomo non compare, però, alcuna pistola: Vladimir non la dipinge, con la labile giustificazione che non sa farlo. A un’estremità del prato su cui i due personaggi si muovono spicca un albero carico di enigmatici frutti scuri. Vladimir ha commesso un reato molto grave e potrà tornare in libertà solo tra diversi anni. Potrebbe sembrargli che il tempo non scorra mai sul suo corpo rigido, bloccato dalla paura. La sua vita psichica è incrudita, infatti, da temi persecutori che egli percepisce come minacce del mondo circostante e non come realtà interiore. Probabilmente ciò ha contribuito a che, tartassato dal suo aguzzino interno, non si difendesse in sede di giudizio, ottenendo il massimo della pena.
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L'amore di Gabriel per i bambini
Gabriel è un ragazzo romeno di bei lineamenti, dai capelli neri. Serio, attento osservatore, a tratti schiude un sorriso accattivante e comunicativo. Dosa le parole in un italiano corretto e disinvolto, non interviene mai a sproposito e dà l’impressione di tenere per sé molta parte di quel che pensa. Si mostra saggio, forse persino eccessivamente saggio, come per celare a sé e agli altri le ferite di un mondo infantile in costante pericolo. Gabriel racconta il suo sogno: restituisce un bambino alla madre, che lo rifiuta perché, afferma lei, è brutto. Il giovane insiste fino a che la donna non ammette di scherzare e accetta il bimbo. Sul foglio telato dipinge un grande cuore nero listato a metà. Nella diagonale che lo attraversa scrive: “qui ho rappresento il mio amore per i bambini”. In un lobo raffigura, anch’esso in nero, un bimbo molto piccolo. Gabriel racconta di essersi fidanzato in Romania con una ragazza sposata, madre di due bambini, ma il cui marito stava in carcere. Confessa di aver stretto quel legame proprio in funzione della presenza dei piccoli: lui ama i bambini. Il primogenito era abbastanza in salute, ma il secondo, appena nato, aveva seri problemi polmonari, poiché viveva con la mamma in condizioni abitative disastrate. Gabriel stesso aveva portato il bebè in ospedale, in più di un’occasione. Quando fu incarcerato in Italia il ragazzo telefonò alla donna. Lei gli rivelò, allora, che il secondogenito era appena morto: il piccino aveva soltanto un mese e la notizia suscitò un profondo dolore in Gabriel. La storia di Gabriel è simile a quella di molti ragazzi romeni che vivono una doppia esperienza di sé, una dissociazione tra due fronti: l’Italia e la Romania. Come se la realtà geografica implicasse anche una disarticolazione dell’identità personale. Dietro questo esibito sentimento di amore per il legame madrefiglio, dietro il bisogno di riconnettere affettivamente le due figure, di favorire un rapporto di presa in carico, di cura, di responsabilità, Gabriel sembra parlare a se stesso del desiderio viscerale di ricomporre, superato il periodo di
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detenzione, le sue crepe interne, figlie di un grande dolore infantile, di un rifiuto abbandonico e del distacco dalle sue origini.
[1] NB L'esperienza descritta è autentica: i nomi dei minori e altri riferimenti personali sono stati, invece, modificati al fine di preservarne l'anonimità.
Contatti E-mail: dott.francescofrigione@gmail.it Facebook: <Francesco Frigione> Sito Internet: www.francescofrigione.com Rivista: www.animamediatica.it
METADESCRIZIONE: Lo psicologo e psicodrammatista, Francesco Frigione, narra alcune storie esemplari di ragazze ragazzi reclusi nell’Istituto penale minorile di Casal del Marmo, a Roma. Gli incontri, spesso toccanti, sono avvenuti durante un’esperienza pilota di laboratorio sui sogni e le “visioni” dei giovani detenuti, condotto dall’A. con la collega Margherita Rosa, nell’anno 2009-2010. Nell’articolo, le dure e traumatiche esperienze di Giacinta, Fatima, Ciro, Vladimir e Gabriel (nomi di fantasia) affiorano attraverso i disegni, qui riprodotti, delle loro immaginazioni profonde. Emerge potentemente tra le 10
righe anche la loro sensibilità e l’intelligenza, la precoce maturità, caratteristiche che, in una società votata autenticamente al reinserimento sociale e culturale, potrebbero condurre a conquiste morali e a successi esistenziali, ma che, neglette, potrebbero condurre queste ragazze e questi ragazzi all’emarginazione, all’occasionale recidiva o, purtroppo, allo stabilizzarsi di una attitudine al crimine.
PAROLE CHIAVE: Luci nell’ombra, un laboratorio sui sogni nell’Istituto penale minorile di “Casal del Marmo”, a Roma; articolo di Francesco Frigione, psicologia-psicoterapia, gruppo, sogno e visione, scene oniriche, immaginazione, disegno, pittura, pennelli, espressione, Margherita Rosa, carcere, Rebibbia, minori detenute, minori detenuti, violenza, storie, narrazioni, morte, suicidio, Romania, romeno, Italia, Napoli, napoletano, camorra, camorrista, slava, campo nomadi, Rom, famiglia, figli, matrimonio, denaro, rubare, delinquere, arresto, malavita, boss, violenza, sangue, pistola, messa in prova, polizia, poliziotto, bebè, bambino, dolore infantile, sofferenza.
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