Felipe. il mio Perù

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FRANCESCO SULPIZIO

Fil mEiLoIPPeEr첫. Taccuino di un viaggio nella terra degli Incas



Francesco Sulpizio

FELIPE. Il mio Per첫


FELIPE. Il mio Perù Taccuino di un viaggio nella terra degli Incas

© Francesco Sulpizio edizione a cura di MobyDick. Ortona stampa e allestimento Bibliografica. Castel Frentano dicembre 2009


dagli Appennini alle Ande Conosco Francesco da diversi anni – sono quasi venti – da quando con altri amici avviò con determinazione la nascita della sezione CAI di Ortona. Tante stagioni e tante salite in montagna si sono susseguite alla continua ricerca di nuovi paesaggi, nuove emozioni e nuovi incontri umani. Paesaggi, emozioni e umanità che sono alla radice di una persona che ha fatto della montagna molto più di una personale passione, quasi una ragione di vita e di proselitismo. «Nessuno mi ha mai imposto di salire su una vetta, è una mia scelta che mi ha sempre gratificato» così scrive in una delle giornate di acclimatamento a 3000 metri che precede il lungo cammino sulla cordigliera Huayhuash nelle Ande peruviane. Il suo racconto dettagliato – ricco di tutti quegli appunti sui territori attraversati che ci aprono continue finestre su un mondo lontano da noi, eppure distante solo un giorno di aereo – ci conferma che è sempre forte nell’indole umana la spinta al viaggio e alla scoperta. Il suo continuo entusiasmo per il viaggiare a piedi o con semplici mezzi di trasporto, con lo zaino sulle spalle e le scarpe da trekking ai piedi, diventa così un modello da imitare: camminando con gli altri, con un obiettivo comune, si riesce a trovare il passo giusto della propria esistenza. Questo ci racconta Francesco nelle pagine che seguono invitandoci tutti a lasciare le comodità cittadine per un periodo di cammino e di ripensamenti, anche senza andare fino alle lontane Ande peruviane. Per molti possono bastare anche il vicino Appennino e la vicinissima Majella, magari alla ricerca di un altro Felipe, vicino a noi ma ignoto alla nostra vista. Pierluca Moro



Sui monti tutto è diverso. Quanto più lungo è il cammino, tanto meno m’importa del tempo. Ad ogni passo lo spazio si dilata e nello spazio infinito dimentico il tempo. Reinhold Messner


Non esistono sogni che non valgano la pena di essere sognati‌ e molti li ho realizzati con il CAI

Sezione di Ortona


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Il 2006 appena trascorso, il capodanno e l’epifania che si sono portati via feste e libagioni, abbuffate e sbicchierate d’augurio per un nuovo anno migliore del precedente e… Forse ho dimenticato la mia montagna? Ma no, domani è domenica 7 gennaio, si va verso il Gran Sasso; c’è il presepe vivente organizzato dalla sezione di Guardiagrele alla Grotta della Valianara, ed è l’occasione buona per smaltire un po’ di tossine e incontrarsi con vecchi amici delle altre sezioni CAI d’Abruzzo. Appuntamento alle 7.00 davanti alla sezione. Qualche chilometro di macchina, sosta a Castel del Monte, il solito caffé in piazza e saliamo al valico di Capo la Serra lasciandoci dietro i tetti del paese che fanno capolino nella nebbia. La strada è libera dalla neve e presto valichiamo sullo stupendo scenario dell’altopiano di Campo Imperatore. La catena che le fa da contorno si staglia contro il cielo azzurro e le vette innevate fanno ricami con rocce e canalini che degradano verso la piana.


8 Laggiù in fondo, verso ovest, la sagoma del Corno Grande domina su

tutto, su questa terra alta battuta dal vento gelido, immensa a perdita d’occhio, monotona e affascinate. Dolcemente, per non distogliere lo sguardo sul bellissimo panorama di questo nostro piccolo Tibet, scendiamo lungo i dolci tornanti e siamo al ritrovo dell’escursione. Ci sono anche Paola e Bruno e questa è una bella occasione per incontrarci, camminare insieme, parlare di cose passate e progetti da sviluppare. Sono passati ormai tre anni buoni dalla nostra spedizione sull’Himalaya e i ricordi sono ancora vivi, frizzanti. Dobbiamo trovare un’altra meta, un altro angolo di mondo da visitare, altre montagne da accarezzare, altre genti da conoscere. «Sto pensando al Perù – mi dice Bruno di getto – verso la fine dell’anno». Il Perù? Ma come c’è andato a finire fin laggiù? In America del Sud? Le Ande? Dagli Appennini alle Ande. Il collegamento è


immediato. In dicembre? Fa freddo. Ma no, là inizia l’estate: siamo 9 nell’emisfero sud. La cordigliera delle Ande, l’Aconcagua, l’Alpamayo! Il Perù! Il lago Titicaca, gli Incas, l’Huascaran, i lama. Bella meta per una spedizione alpinistica. «Ma come mai hai pensato al Perù – gli chiedo mentre camminiamo, – non dovevamo ritornare in Nepal e fare il trekking dell’Annapurna?» «Per quello c’è sempre tempo, ma il Perù è sempre stato nella mia mente» mi ribatte Bruno. Non ci accorgiamo nemmeno del cammino che facciamo perché continuiamo a parlare fino al rientro e ci lasciamo con un «Ciao, ci sentiamo». E ci sentiamo presto, ai primi di marzo, fissando un incontro con tutti i probabili partecipanti. Ci incontriamo a Ortona, nella sezione CAI: siamo una decina, e Bruno ha già stilato un bel programma, con date e costi. Molto interessante. Ma io come faccio, il viaggio è di 22 giorni nel mese di dicembre, mese critico per il lavoro. Credo che non potrò partecipare. Peccato, sarebbe stato un bel viaggio da fare insieme a mia moglie Wanda. Però il programma voglio conoscerlo. Devo organizzarmi, devo crederci, devo sognare, devo innamorarmi di questo nuovo progetto. Tutti i partecipanti danno subito la loro adesione, tranne me. Ho appena compiuto 57 anni, forse ci sono le condizioni per andare in pensione. In pensione? Ma certo devo informarmi, fare calcoli, valutare se posso andarci. Sono mesi febbrili fatti di conteggi, contatti, certezze e meno male che Angela, mia figlia, ha la pazienza di seguire le mie richieste. Fortunatamente ci sono le condizioni per uscire per sempre dal mondo del lavoro e poi non è che cambia molto andarci ad agosto o a dicembre. Sono anche stanco e tutte le mattine è un sacrificio alzarsi. È proprio arrivata l’ora di mollare il lavoro e pensare un po’ di più a me stesso. Ho deciso: alla fine di ottobre lascio il lavoro, vado anch’io in Perù con Bruno. Sviscero il programma, leggo relazioni di altre spedizioni, calcolo dislivelli e distanze, prendo in esame il dormire di tante notti in tenda, la fatica dell’alta quota, l’acclimatamento. Vorrei che venisse anche Wanda, ma penso che sia un po’ troppo faticoso per lei e forse potrebbe esserlo anche per me. A proposito, il trekking è sulla Cordigliera Huayhuash, sulle Ande peruviane e, da come relazionano altri trekker, è abbastanza faticoso, ma affascinante.


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IL TREKKING DELL’HUAYHUASH è considerato uno dei più belli al mondo.

Il circuito prevede il periplo della Cordigliera in 12/13 giorni di cammino in autonomia, con salita di numerosi passi, due dei quali oltre i 5000 metri. Huayhuash è senza dubbio tra le più spettacolari e impressionanti cordigliere di tutte le Ande ed è localizzata a circa 100 km a sud della più conosciuta e frequentata Cordigliera Blanca. Vanta la maggior densità di cime che superano i 6000 metri, alcune delle quali ancora inviolate, e sono ancora pochissimi gli escursionisti che si avventurano sui suoi isolati e ripidi sentieri e ancor meno gli alpinisti che tentano di scalarne le difficili vette.


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Siamo in dieci e partiremo il 30 novembre, per fare ritorno il 22 dicembre. Un paio di incontri per conoscerci meglio e per mettere a punto tutti i dettagli. Il borsone con il logo della spedizione, lo zaino nuovo sponsorizzato dalla Wurth di Bolzano cui Bruno si è rivolto, la maglietta con il logo di BluFoto di Ortona e quello della spedizione e tanta voglia di partire che mi unisce ai compagni di avventura. Ma, non li ho ancora presentati: provvedo subito. Rappresentiamo quattro città e rispettive Sezioni del Club Alpino Italiano: Lucio di Sulmona, Giancarlo e Marco di Jesi, Marisa, Rita e Peppino di Pescara, Paola, Bruno, Peppino e il sottoscritto di Ortona. Insomma una bella squadra! Gli allenamenti degli ultimi giorni si fanno più intensi. Non voglio trovarmi impreparato nelle fasi più faticose e impegnative del trekking. Non lascio niente all’improvvisazione dato che starò per molto tempo a quote elevate e con temperature molto basse; il mio fisico non è abituato. So certamente che sarà dura, ma imbarcarmi in una nuova impresa mi affascina moltissimo. Conoscere nuove terre, nuova gente, altri costumi, altre culture lontano dall’Italia è forse la motivazione più forte che mi spinge al di là dell’Oceano Atlantico. Mi sento un po’ Cristoforo Colombo quando nel 1492 scoprì il nuovo mondo chiamandolo “Paradiso”.


Il Perù si trova nella parte centro occidentale dell’America del Sud, e fu la culla di una grande civiltà che estendeva i suoi confini dalla Colombia all’Argentina, e da sempre ha affascinato il viaggiatore, sin dai tempi della colonizzazione spagnola, con il suo Camino Real, con la meraviglia di Machu Picchu, con gli incastri dei suoi edifici e la profusione di gemme e pietre dure che ornavano templi e monumenti, con le statue d’oro massiccio e le tombe colme di oggetti e monili d’oro. Fu qui che per 5000 anni la civiltà andina sviluppò un equilibrio socio-culturale, centrato sul concetto di comunità e sul rispetto della natura e della società, trasmettendo la saggezza “scritta” nel simbolismo dei suoi oggetti culturali. Il popolo Inca fu il più grande del continente americano, ebbe qui la culla della propria cultura e del proprio sviluppo. Alla fine del XIV secolo l’impero iniziò la sua espansione del territorio nella regione di Cuzco, nel sud della catena Andina. Gli Inca chiamarono il loro territorio “Tawantinsuyu” che nella loro lingua Quechua significa “le quattro parti”, e svilupparono uno stile di architettura pubblica molto pratica e funzionale, con un livello di conoscenza ingegneristica molto avanzato: basti pensare alla tecnica di costruzione in pietra dei loro palazzi. Nelle regioni montuose la spettacolare città di Machu Picchu riflette l’ingegnosa adattabilità ai rilievi naturali dell’architettura Inca.

venerdì 30 novembre. Finalmente partiamo. Sono le 2.30, i bagagli sono pronti, ho salutato i miei ragazzi Angela e Diego, Chiara e Leonardo, un ultimo bacio e abbraccio a Wanda e c’è Corrado che mi aspetta giù in strada per accompagnarci con il pullman fino a Roma. Alle 8.00 partenza dall’aeroporto di Fiumicino, inizia l’avventura, una nuova avventura.


La religione Inca era basata sul culto del Sole e gli imperatori erano considerati i discendenti del dio, venerati come le divinità medesime. La religione dominava tutta la struttura politica dell’Impero Inca. A causa di questo e di altri aspetti, la cultura Inca assomiglia molto alle principali culture della Meso-America, quali quella Maya e quella Azteca. La loro espansione fu bruscamente interrotta con l’invasione spagnola ad opera di Francisco Pizarro nel 1532, che terminò nel 1821 quando il Paese fu liberato dal venezuelano Simòn Bolìvar e dall’argentino Josè de San Martìn. Seguiranno anni di alternata stabilità politica, con guerriglie interne e ai confini con il Cile (1883) e l’Ecuador (1942).

Il volo è tranquillo e a bordo ci sono tanti bambini. Siamo un po’ sparpagliati per aver fatto il check-in ognuno per i fatti propri. Primo scalo Madrid, uno dei più grandi aeroporti d’Europa e dobbiamo camminare parecchio per raggiungere la porta d’imbarco per il volo delle 12 e 45 che ci porterà in Perù. In pista c’è già il nostro aereo dell’Iberian Airline: un quadrimotore airbus immenso. Il tempo è bello e fa anche caldo. Nuovi controlli alla porta d’imbarco e prendiamo posto sul nostro nuovo mezzo di trasporto, ma questa volta siamo più raggruppati. I tempi di attesa per il decollo si allungano per un’avaria termica e partiamo con circa un’ora di ritardo. Ciao Spagna, arrivederci Europa, ci tuffiamo nell’Oceano verso l’America del Sud, seguendo sui monitor le indicazioni del volo, i tempi e i chilometri percorsi e da percorrere. Il pranzo a bordo non è male: tagliatelle verdi, insalata, panino con formaggino, dolce, coca-cola e caffé. Mancano 8 ore e mezza prima di atterrare a Lima e qualche ora di sonno me la posso anche concedere. Si mangia di nuovo, adesso c’è la cena e stiamo per arrivare a destinazione. Atterriamo alle 19 e 15. Tutto OK. In Italia sono la 1 e


14 15 del 1° dicembre ma, per noi è ancora il 30 novembre a causa del

fuso orario indietro di 6 ore. Ad accoglierci, dopo il ritiro dei bagagli, c’è la signora Maribel dell’agenzia che ha organizzato il nostro soggiorno in Perù. Riusciamo a sistemare i bagagli su un pulmino e noi su alcuni taxi e ci trasferiamo ad una stazione di pullman da dove, alle 23, partiremo per Huaraz. Lasciati i bagagli in custodia, raggiungiamo un ristorante per mangiare qualcosa. Le strade di Lima sono caotiche e polverose, male illuminate e l’aria è pesante per i gas di scarico dei tanti veicoli che circolano, alimentati tutti a gasolio. Mi ricorda un po’ la città di Dakka in Bangladesh, quando nel 2003 facemmo scalo di ritorno dal Nepal. Pollo alla brace, birra e tante patate fritte: mi sento un po’ pesante. Forse dopo tante ore di volo e poco movimento era preferibile un bel brodino.

sabato 1 dicembre. Partiamo per Huaraz mentre in Italia sono le 5.00 e tu Wanda stai dormendo. La sistemazione sul pullman a due piani, nuovissimo e comodo, è perfetta. Reclinati i sedili, fin quasi a farli diventare dei letti, e al caldo di confortevoli coperte, riusciamo a dormire qualche ora durante il viaggio che ci porta nel cuore del Perù. Valicato il passo Conococha a 4050 metri di quota, la strada, carretera, si snoda sul vasto altipiano che costeggia le montagne esterne della cordigliera, superando continui e tortuosi saliscendi. Porta dritto verso l’Huascaràn, la vetta più alta del Perù e la quinta delle Ande. Alle 6.30 arriviamo alla stazione dei pullman di Huaraz, dopo 470 km di viaggio. Siamo passati dal livello del mare di Lima ai 3090 metri di questa città che è il centro più importante del Parco Nazionale dell’Huascaràn, nella regione dell’Ancash.


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L’HUASCARÀN, con i suoi 6768 metri di altezza, si erge austero con le sue due vette innevate. I suoi ghiacciai pensili dominano la valle rigogliosa, disseminata delle rovine di vecchi villaggi spazzati via dalla forza devastante di due calamità. Praticamente distrutta in due occasioni nel corso del XX secolo, prima da un’alluvione nel 1941, causata da una valanga staccatasi dalla montagna, che fece straripare la Laguna Palcacocha e poi nel 1970 dal terribile terremoto, che provocò 52.000 vittime in tutto il Perù, oggi Huaraz è una città quasi completamente nuova, con oltre 80.000 abitanti, sede di una importante università che forma giovani ingegneri minerari: tutta la zona infatti è ricca di miniere di ferro e oro.

Scesi dal pullman, l’aria frizzante del mattino ci ricorda che siamo oltre i 3000 metri. Il respiro è affannato e le tante ore di viaggio accumulate ci fanno sentire come su di una nuvola sospesa nel cielo. Seguiamo le indicazioni dell’organizzazione e ci ritroviamo su due pulmini che prendono la direzione della grande montagna lungo la scorrevole Carretera Huaraz-Monterrey. Ai lati della carretera case di fango e paglia, distrutte o cadenti, si alternano a nuove costruite con blocchetti di cemento; campesinos con i loro tradizionali vestiti coloratissimi e donne con le gonne rigonfie delle tante sottane e la classica coperta annodata su una spalla usata per trasportare un po’ di tutto, dai bimbi in tenera età ai prodotti dell’agricoltura. Uomini con il classico cappello a falda larga, ragazzi, alcuni con una specie di divisa scolastica, che vanno verso la scuola, piccoli ristorantini che si confondono con le officine meccaniche piene di vecchie auto e poi grandi camion da trasporto che si incro-


16 ciano e rallentano ai tanti rallentatori della velocità posti vicino ai posti

di controllo della polizia locale. Come a Katmandu, anche qui nonostante l’alta quota, l’inquinamento da mezzi di trasporto si fa sentire ancora di più nell’aria. Siamo costretti a tenere chiusi i finestrini del pulmino per non respirare i gas di scarico delle macchine che iniziano a circolare già dalle prime ore del mattino: figuriamoci a mezzogiorno cosa sarà. A proposito qui non esistono grandi pullman per gli spostamenti lungo le strade, bensì taxi che si fermano ad ogni richiesta fino al riempimento dei posti a sedere, di solito quattro più il conducente e per una cifra, così irrisoria per noi, equivalente a 25/30 centesimi di euro a passeggero. Insomma per spostarsi lungo la carretera o da un villaggio verso Huaraz e viceversa, il costo è di 1 Nuevo Sol a persona (1euro = 3Sol; 1$ = 4Sol) e la maggior parte delle auto circolanti sono di marca Toyota, e il 90% sono taxi. Una brusca svolta ad un incrocio per cambio di direzione, una strada in salita e ci fermiamo. Siamo arrivati finalmente al nostro albergo: El Patio Hotel a Monterrey di Huaraz. Bellissimo posto in mezzo alla natura, con giardino lussureggiante. La struttura, circondata da alte mura, è in stile tardo coloniale, composta da più unità abitative con al centro un chiostro principale circondato da porticato. Intorno ci sono delle viuzze lastricate che portano a giardini con prati e a chiostri secondari che danno l’accesso alle camere ricavate in edifici a due piani con scale e logge in legno. Quasi sfugge all’attenzione della prima perlustrazione del luogo che ci ospi-


terà per qualche giorno ma, un’antica e piccola chiesa, con caratteristi- 17 co campanile a sostenere l’unica campana, ci porta indietro nel tempo di qualche secolo, quando agli inizi del XVI secolo cominciò la conquista spagnola. Adesso è chiaro, era un convento o la residenza di una importante e ricca famiglia spagnola. «Tutto bene? – dice Bruno – Certo!» Siamo soddisfatti della scelta, perlomeno io lo sono perché so e capisco quante difficoltà e quale impegno comportano organizzare, prendersi responsabilità, e sperare che tutto l’impegno profuso dia solo risultati positivi; poi spetta ai partecipanti e fruitori dell’iniziativa riconoscere un po’ di merito a chi ha lavorato con passione al progetto. Certo che siamo soddisfatti e lo siamo ancora di più dopo aver fatto colazione con pane caldo, latte e caffè, the, marmellata, burro e succo di papaia perché sono appena le 8.30 del mattino. Sono stanco del lunghissimo viaggio, del fuso orario che mi ha divorato ben 6 ore. Devo recuperare, ma la curiosità di scoprire cosa c’è intorno mi spinge fuori dall’hotel e su per la strada che si allontana dalla carretera e si inerpica verso la collina. Case vecchie e povere ai lati con piccoli negozi che vendono soprattutto bibite, cortili con polli e piccoli maiali, alcune granjas (fattorie) con alte mura, una chiesa, un cartello: “TERMAS”. Le terme? È vero qui ci sono le terme? Un’occasione da non perdere per rilassarci e ritemprarci. Aprono alle 11.00 e abbiamo tutto il tempo per sistemarci nelle stanze che ci hanno assegnato. Peppe ed io occupiamo una confortevole stanza con bagno al piano terra. Svuoto quasi totalmente il borsone per avere una visione ampia di ciò che mi potrà servire nei prossimi giorni; d’altronde ho sempre avuto il pallino dell’ordine: ogni cosa al suo posto, ad ogni posto la sua cosa. A proposito dei borsoni! Come per la spedizione del 2003 in Nepal al Campo Base dell’Everest, anche per questa ci siamo equipaggiati di borsoni molto capienti su cui abbiamo fatto stampare il logo della spedizione in modo da poter facilmente riconoscere il nostro bagaglio nei vari scali aerei ed anche per distinguerci come gruppo ben organizzato appartenente alla grande famiglia del Club Alpino Italiano.


18 C’è ancora tempo per le terme e il caldo sole ci richiama nel piccolo

chiostro e davanti alla chiesetta. L’occasione è buona per misurarci la pressione arteriosa; viaggio, volo, altitudine, stanchezza tutti fattori che potrebbero alterare i nostri valori fisiologici. 72/120 - più che buona, non pensavo di avere la pressione così perfetta. Anche se sono in buone condizioni prendo subito il Diamox, un diuretico che serve a prevenire o attenuare i problemi dell’alta quota. Peppe ed io è sicuro che lo abbiamo preso e lo prenderemo durante il trekking, gli altri non lo so: speriamo di non avere problemi. Usciamo e ci dirigiamo verso le terme. Che delusione: non prendono dollari e quindi non entriamo. Peccato sarebbe stato piacevole rilassarsi ma, visto che sono due giorni che non dormo torno in hotel a riposare e a fare un po’ di bucato. L’ora del pranzo si avvicina e siccome in hotel non c’è questo servizio, decidiamo di andare in un locale non tanto lontano, quasi vicino alle terme. Questa ennesima camminata mi ha messo una fame che mangerei di tutto. Di tutto? Speravo sinceramente in qualcosa di più: solo riso con frittata di verdure, in abbondanza. Pazienza mi rifarò questa sera a cena, mi auguro. Incomincio a sentire un leggero cerchio alla testa, una pesantezza latente che inizia a darmi un certo fastidio; i 3000 metri ed oltre iniziano a farsi sentire. Devo assolutamente riposare. E così mentre gli altri vanno a Huaraz, io vado a dormire. Senza dubbio mi farà bene. Mi sveglia Peppe al suo rientro, ma il mal di testa non è passato, anzi è aumentato. Ho deciso, prendo una pillola di Tachipirina e spero mi faccia effetto. Anche Peppe si mette a letto e nel frattempo mi dice di aver cambiato un po’ di dollari in moneta peruviana. Certo che il cambio non è stato tanto favorevole: 1 $ contro 3 Sol. Però se penso al rapporto dollaro contro euro, devo dire che siamo a cavallo: 1 euro contro 1,30 $. Ma basta mi sto facendo prendere la mano dai calcoli e dalla professione che ho esercitato per tanti anni in banca. Rimaniamo ancora un po’ in camera a chiacchierare del più e del meno, a riposare per cercare di recuperare le forze e l’equilibrio fisiologico per via del fuso e dell’altitudine. Niente da fare, arrivo all’ora della cena disfatto, distrutto, quasi come dopo aver fatto una salita ad una vetta. Però se ci rifletto bene sono 40 ore che non dormo, non sono più tanto giovane e non sono superman, quindi è naturale che io sia stanco. Il sole ormai è tramontato dietro la montagna e sulla valle è sceso il crepuscolo.


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20 L’aria si è rinfrescata, anzi fa freddo, e fa piacere percepire il calore del

camino accesso nella sala pranzo in cui, tutti insieme, ci ritroviamo aspettando la cena. Noto che non sono il solo ad avere un aspetto assonnato e stanco, gli altri mica scherzano e questo mi rincuora. La sala, finemente arredata con antichi mobili spagnoli, non è molto grande e la fievole luce dei lampadari quasi si confonde con quella delle fiamme del camino. In questo ambiente accogliente e caldo, quasi familiare, ci sediamo tutti intorno al grande tavolo elegantemente apparecchiato su una bianchissima tovaglia di lino. Finalmente mangiamo: pesce, carne, riso e patate, sempre, e del buon vino cileno; per finire, come si usa in questa terra, una bella tisana con foglie di tè o foglie di coca, ottima per l’altitudine. Questa prima cena non è stata male, anzi a me è piaciuta: ottima e abbondante. Mi ricorda il primo approccio con il cibo nepalese, molto diverso dal nostro: speziato e forte, delicato e gustoso nello stesso tempo. Anche allora mi ero ripromesso di non fare tanto lo schizzinoso con il mangiare e alla fine questa predisposizione favorevole ha dato i suoi frutti facendomi conoscere la cucina orientale e con la stessa motivazione voglio ora apprezzare quella peruviana. Bruno ci spiega il programma di domani: faremo un’escursione di acclimatamento nei dintorni di Monterrey. Una salita di 600-700 metri su per i fianchi delle colline che dominano la valle. «Oh! Il mal di testa è quasi scomparso». Sono le 22, Peppe già dorme (come farà, boh), in Italia sono le 4 del mattino di domenica 2 dicembre, spero di dormire e domani chiamerò casa. domenica 2 dicembre. Sveglia alle 6, barba, sistemazione dello zaino, perché oggi si cammina, e ci ritroviamo tutti insieme a fare colazione; abbondante e sostanziosa dato che faremo un buon dislivello per acclimatarci all’altitudine. Conosciamo Jacinto, la nostra guida peruviana che ci accompagnerà per tutto il trekking, cordialissimo e disponibilissimo: sembra, e senz’altro lo è, una brava persona. Comunque vedremo durante questi giorni. Finalmente si parte, una bella escursione per riattivare le gambe e risvegliare la voglia di esplorazione e di conoscenza. Appena usciti dall’albergo iniziamo a salire lungo la strada che porta alle terme e per un buon tratto passiamo tra case con orti e giardini, mentre altissimi e slanciati alberi di eucalipto fanno ombra lungo la carrareccia e nei villaggi sparsi sulla collina di Monterrey.


Ogni villaggio è circondato da campi coltivati che in alcuni punti pren- 21 dono pendenze proibitive: ma qui siamo in una zona del Perù molto povera e i campesinos cercano di sfruttare la terra anche in punti che per noi sarebbero inaccessibili. Man mano che saliamo l’altitudine e la fatica iniziano a farsi sentire e procedere lentamente si rivela molto proficuo per le mie fotografie. Anche se oggi è domenica nei campi si lavora lo stesso per raccogliere principalmente le patate, essenziale prodotto di questa terra arida. Non piove da più di un mese e le statistiche collocano il Perù ai primi posti tra le nazioni con minore percentuale di precipitazioni piovose, 100 mm in media l’anno nella zona ad oriente delle Ande, mentre facilmente si raggiungono i 700/800 mm annui sul versante amazzonico. Jacinto si ferma a parlare con alcuni contadini che ci salutano con una levata di cappello. Gli uomini stanno tenendo una riunione sindacale, mentre donne e bambini si affacciano alle piccole porte e finestre delle case fatte di argilla e paglia.


22 Alcune donne si lasciano fotografare solo dietro pagamento di 1 Sol

mentre fanno la maglia con i ferri o accudiscono ai più piccoli; altre, invece, alla vista della macchina fotografica inveiscono e poi si ritraggono in casa. Saliamo ancora fino a scoprire in lontananza le vette aguzze e innevate della Cordillera Blanca e qui, a 3600 metri di altezza, ci sono ancora prati e campi, mentre la vegetazione fatta di eucalipto si è diradata. Gli alberi ondeggiano sotto il leggero vento e il silenzio del luogo mi fa percepire l’armonioso suono delle foglie. Prima di iniziare la discesa è d’obbligo una foto di gruppo con lo splendido panorama sulle Ande. In lontananza un campo di calcio in cui si sta disputando una partita e le voci d’incitamento dei pochi tifosi, arriva fino a noi sospinte dal vento; certo che deve essere faticoso correre dietro ad un pallone a quest’altezza, servono dei polmoni allenati e solo chi nasce a queste quote, con caratteristiche fisiche molto diverse dalle nostre (coagulazione e circolazione sanguigna, ematocrito e apparato respiratorio), è predisposto alla pratica di attività sportive che richiedono un notevole dispendio di energie.

Attraversiamo un fiumiciattolo su cui stanno costruendo un ponte mentre due bambini provvedono a raffreddare la gettata di cemento armato utilizzando dei barattoli di latta riempiti con l’acqua del rio; il costo dell’opera 28.321,00 nuevos soles, circa 9400 euro. In Italia con questa cifra, forse, si riesce a pagare il progettista: no comment! Il sole picchia e a questa quota è ancora più caldo ma, siamo in discesa e dopo una mezz’ora ecco il sito archeologico di Willkawain nel dipartimento di Ancash, di cultura Chavìn.


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WILLKAWAIN È identificata come la prima civiltà andina, caratterizzata da grandi complessi cerimoniali, costituiti da costruzioni, labirinti sotterranei, canali e sistemi d’aerazione che servivano pure a diffondere all’esterno la voce del sacerdote oracolo. La cultura Chavìn si sviluppò tra il 1500 e il 500 a.C. in un’area molto ampia nel cuore delle Ande, tanto che si parlava di Cultura-Orizzonte proprio per indicare la sua estensione territoriale, corrispondente agli attuali dipartimenti di: Ica, Ancash, Lima, Piura, Cajamarca, Huànaco e Ayacucho. L’economia Chavìn si basava essenzialmente sull’agricoltura che si era notevolmente sviluppata grazie alla coltivazione di nuovi tipi di piante e alla messa a punto di nuove tecniche agricole. Accanto ai contadini si formò ben presto una classe di specialisti, che riuscivano a prevedere le buone e le cattive annate ed erano considerati una specie di intermediari divini, tanto che vivevano nei centri cerimoniali e i contadini provvedevano al loro sostentamento. La gran quantità di beni alimentari prodotti e la possibilità di conservarli in appositi magazzini favorì lo scambio commerciale con altri territori che naturalmente divennero anche scambio e mescolanza tra culture. La società era divisa in tre classi: i sacerdoti, i pellegrini e la gente comune. Pur meno importanti degli uomini, le donne ricoprirono a volte incarichi di prestigio ed era loro concesso anche il sacerdozio. Quasi tutti i personaggi sacri della cultura Chavìn, sono rappresentati sia in versione maschile sia femminile. Nel periodo che va dal X al IV secolo a.C. e che corrisponde all’epoca di maggiore sviluppo della cultura Chavìn, non vi sono indizi di una vera e propria organizzazione politica di tipo statale; tuttavia la zona d’influenza di questa cultura ricopriva un vastissimo territorio tanto che per molto tempo si è creduto che la cultura Chavìn costituisse un vero e proprio impero in quanto venivano ritrovati dagli archeologi reperti di chiara provenienza Chavìn in luoghi molto distanti tra loro. In effetti, non si trattava di un’espansione territoriale di Chavìn quanto dell’influenza diretta che questa cultura ebbe su molte altre popolazioni dell’antico Perù che riprendevano nella loro arte le caratteristiche dello stile Chavìn presente soprattutto nelle sculture, mantenendo tuttavia la loro autonomia regionale.


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Questa influenza era sicuramente facilitata dai continui contatti commerciali che la civiltà Chavìn manteneva con le altre popolazioni e l’unificazione culturale del vasto territorio era dovuta essenzialmente alla diffusione di pratiche religiose. Fu in questo periodo, infatti, che i centri cerimoniali assunsero anche la funzione secondaria di centri di sviluppo economico. La fitta rete di comunicazioni, che metteva in contatto i diversi punti del territorio con i centri cerimoniali, favoriva da un lato la circolazione di beni destinati agli abitanti dei centri stessi e dall’altro la circolazione di informazioni importanti come minacce di guerre, pericoli imminenti di calamità, previsioni meteorologiche elaborate all’interno dei centri cerimoniali. Il centro più importante e più fastoso, in cui si sono trovati la maggior parte dei reperti, era Chavìn de Huàntar, nell’attuale dipartimento d’Ancash, nodo di congiunzione delle strade che provenivano dalla Costa, dalla Sierra e dalla Selva e luogo di pellegrinaggio per folle che giungevano da ogni parte. La cultura Chavìn rappresenta, pertanto, l’inizio di un sistema d’interscambio tra beni materiali e informazioni, garantito dai pellegrini che periodicamente si recavano a portare offerte ai templi ricevendone in cambio consigli, aiuti, risposte. La religione Chavìn era popolata di esseri sovrannaturali che presentavano le forme degli animali più diffusi nella regione della Sierra: felini, uccelli rapaci, caimani, serpenti. In realtà non vi fu l’imposizione delle proprie divinità religiose su altre popolazioni, quanto un’influenza stilistica sulla rappresentazione dei temi sacri che ben presto interessò anche gli altri ambiti artistici, come la produzione di ceramica, di oreficeria e di tessuti, oltre che l’architettura che raggiunse la più alta espressione nella costruzione dei templi. Caratteristiche della cultura Chavìn erano inoltre le sculture in pietra che sono state rinvenute nei templi e nei palazzi. Parlare di un unico “stile Chavìn” non è corretto perché questa cultura si espresse con vari stili, che sono stati scoperti dagli archeologi in periodi differenti e molte volte le creazioni attribuite allo stile Chavìn sono soltanto dovute alle influenze che questa civiltà ha esercitato su altre culture. Verso il 450 a.C. ebbe inizio la decadenza della civiltà Chavìn, probabilmente come conseguenza dell’affermarsi di altre culture. Al termine del periodo Chavìn, che può essere definito senza dubbio panperuviano, iniziò una nuova tappa nella storia peruviana, denominata del “regionalismo culturale”, con culture che avevano un’area d’influenza più ristretta, a livello regionale.


Interessante la struttura principale fatta di grandi pietre. Per entrarci 25 dentro dobbiamo abbassarci molto dato che gli architravi delle porte, sia di accesso sia quelle all’interno, sono posti ad un metro circa di altezza. All’interno stanze senza finestre e mura molto spesse per resistere ad eventi sismici. La nostra guida, un ragazzo che deve aver imparato a memoria tutta la storia del sito, ci accompagna nella visita di stanze anguste e buie. All’uscita, gli slanciati alberi di eucalipto ondeggiano sotto il leggero vento che mitiga l’aria calda dando voce, con il fruscio delle fronde, a questo luogo permeato di mistero e silenzio. Il caldo si fa sentire anche a questa quota e meno male che all’ingresso del sito c’è un piccolo ristoro, la choza, e l’occasione è buona per dissetarsi con una bella bevanda fresca. La ragazza, molto gentile e cordiale, mi invita a sedere sotto un capanno di paglia per evitare il sole che picchia in testa e mi offre anche un frutto. La ringrazio nel mio spagnolo approssimativo per poi riprendere a scendere verso Huaraz lungo una carrareccia polverosa. “Helados de pura crema” c’è scritto sulla motoretta impolverata del gelataio che staziona vicino ad un piccolo cimitero di tombe sparse a terra disordinatamente e adornate da pochi fiori; semplicità di un luogo di preghiera e di ricordi, che da noi è divenuto simbolo di spreco, vanità e ostentamento di ricchezza esteriore. Prendiamo per una scorciatoia che scende ripida in mezzo a povere case lambite da un ruscelletto utilizzato dai locali per il bucato, per lavarsi, per far abbeverare polli, pecore e maiali che, legati per una gamba, pascolano indisturbati alla ricerca di qualcosa da mangiare. Alcuni bambini liberano una condotta dal fango che la ostruisce con il solo uso delle mani, altri giocano nel


26 campo di calcio, alcune ragazze portano al pascolo il bestiame, men-

tre i più piccoli, dentro grandi foulard colorati stanno sul dorso delle loro mamme che lavorano nei campi. Tra una foto e l’altra continuiamo a scendere fin sulla carretera e ci ritroviamo a metà strada tra Huaraz e Monterrey: siamo tornati in mezzo al traffico e alla puzza delle macchine. Subito si fermano due taxi e tutti e undici vi prendiamo posto per far rientro in albergo. Ci costa un po’ salato: 3 Sol = 1 $ = 75 centesimi di euro a macchina. Da noi chissà quanto avremmo pagato per fare una decina di chilometri e con gli zaini al seguito.

Dopo la ristoratrice doccia, la telefonata in Italia mi mette tranquillo sulle notizie da casa e, visto che non abbiamo pranzato, Peppe ed io diamo fondo ai fichi maritati con le mandorle che Mino ha preparato per noi: energia allo stato puro. Questa escursione d’acclimatamento non è stata molto faticosa, ma siamo pur sempre a 3000 metri e noi, che non siamo abituati a queste altitudini, risentiamo della fatica più dei peruviani; quindi un riposino ristoratore prima della cena certamente non può che farci bene. Ci svegliamo quasi al tramonto e ne approfittiamo per fare una passeggiata lungo la carretera, mentre l’Huascaran si tinge di rosa con gli ultimi raggi del sole e i suoi ripidi pendii innevati sembrano ancora più vicini nel crepuscolo serale. Inebriati da questo spettacolare panorama serale ma, intossicati dagli scarichi delle macchine che sono aumentate da e per Huaraz per il rientro di donne e bambini alle proprie case, preferiamo rientrare in al-


bergo e attendere, nel silenzio del giardino, l’ora della cena con brodi- 27 no, bistecca e patate fritte, tisana di the e foglie di coca. Tutto buono, non abbondante ma gustoso, e poi è meglio non approfittare molto nel mangiare prima del trekking. Quattro chiacchiere intorno al caminetto acceso e Bruno che ci illustra il programma di domani che prevede, prima d’ogni altra cosa, il controllo e le prove per il montaggio delle tende, in modo da essere preparati durante il trekking. Sì, perché dormiremo nelle tende, per terra, sotto il cielo e non su comodi letti in stanze riscaldate. Sai che freddo e che mal di schiena. Speriamo bene! La notte è calda, l’aria è pulita e la mancanza d’umidità acutizza la secchezza delle mie mucose nasali; mi alzo parecchie volte per inumidire le narici con acqua fresca, mentre Peppe dorme beatamente, però non russa.

lunedì 3 dicembre. «Peppe, buongiorno, dormito bene? – è la prima domanda che faccio al mio amico – Benissimo – è la risposta soddisfatta di Peppe – e tu?» «Beato te, purtroppo per me non è stata una gran nottata, ma ho riposato e poi sai del mio problema di respirazione però, quando mi sveglio, la luce del sole mi ricarica le batterie e sono pronto; sono uscito fuori alle 6.30 e ho fatto un giro. L’aria frizzante mi ha completamente rigenerato. Bella giornata». Dopo la colazione ci ritroviamo tutti sul prato a montare e smontare le tende che Jacinto ci ha portato. Scegliamo una tenda biposto non troppo grande e alta; staremo un po’ stretti ma in compenso più caldi perché l’ambiente, essendo ridotto, impiega meno tempo a riscaldarsi con i nostri corpi. La scelta si rivelerà giusta. Facciamo parecchie prove e sembra facile, vedremo poi, quando sa-


28 remo in quota e dovremo montarle in ogni condizione di tem-

po e stanchi della tappa giornaliera. Ci divertiamo un casino, come dei bambini cui è stato donato un nuovo giocattolo, d’altronde il nostro, quello di andare per monti, è come un gioco accettato incondizionatamente e come tale deve rimanere per non far sì che esso diventi insopportabile sacrificio fisico e mentale. Nessuno mi ha mai imposto di dover salire su una Vetta, è una mia scelta che mi ha gratificato e mi gratifica ogni volta che lo faccio. Nel momento in cui mi accorgerò di non divertirmi, di non gioire, di non sentirmi appagato, di non farcela più allora accetterò la fine del gioco e, come tutte le azioni che hanno un inizio e un termine, accetterò la mia nuova condizione. Com’è passata velocemente la mattinata. È già l’ora di pranzo e, siccome qui si cena solamente, andiamo in un ristorantino qui vicino, lungo la carretera: spiedino di carne, patate fritte, carote e fagiolini, il tutto con una buona birra scura. Breve riposino pomeridiano e verso le 16 saliamo a Huaraz a fare un giro per la città. Il traffico è continuo, intenso e ordinato lungo la via principale, l’Avenida Luzuriaga che spacca in due la città; l’inquinamento da traffico è grande, l’aria è quasi irrespirabile e siamo oltre i 3000 metri: e viene quasi d’istinto mettersi un fazzoletto davanti alle vie respiratorie. L’Avenida Luzuriaga è piena di negozi e ristoranti, e le prime vie parallele sono ricche di mercati ortofrutticoli, dove si svolge la maggiore parte della giornata commerciale degli abitanti. Qui, intorno alla piazza degli affari, ci sono tante banche e il grande ufficio postale; le file dei clienti sono lunghissime, quasi arrivano in strada, e i turisti preferiscono fare il cambio della moneta per strada a persone che non sono certamente autorizzate ma, che per velocità dell’operazione, non fanno perdere tanto tempo e senza richiesta di un documento che in una banca è obbligatorio esibire. L’unico pericolo è quello di farsi rifilare qualche biglietto falso e per questo motivo mi affido a Jacinto che ci accompagna da un suo cugino. 300 $ per 1200 Nuevo Sol e in tagli da 10 e 20: una vagonata di soldi. Un giro dei numerosi negozi lungo l’avenida, in cui si vendono bellissimi oggetti dell’artigianato locale tra cui spiccano i capi di abbigliamento in lana d’alpaca. L’acquisto di


qualche cartolina in un nego- 29 zietto, servito da un ragazzino che forse si ricorda ancora oggi il numero: 60 a 1 Sol l’una e 2 in omaggio. Una capatina al mercato della verdura e della frutta, coloratissima, affollatissima, anche se sono le 17, ricca di prodotti della terra, patate, cipolle, frutti esotici, verdure d’ogni specie: è proprio vero che dove c’è tanta offerta i prezzi sono giusti, ma qui il reddito pro capite è veramente basso, poco più di 1200 euro annui. Poco prima in un negozio d’artigianato la commessa, con la quale prendo appuntamento per gli acquisti al rientro dal trekking, mi ha affermato che il suo stipendio è di 400 Sol al mese; quindi non mi meraviglia l’acquisto di una busta di banane e papaia con 2 Sol, 50 centesimi d’euro. Le farmacie sono numerose e in una riesco a trovare un medicinale in pillole per decongestionare le mucose nasali che in alta quota mi si seccano; speriamo che non si ripeta il disagio che ho dovuto subire in Nepal: naso chiuso, cattiva respirazione e niente dormire. Prendiamo un taxi al volo (basta alzare la mano) e torniamo in hotel per la cena. Anche questa volta un salasso, 5 Sol per 4 persone e vale a dire 1,25 euro. Dopo cena mi butto nell’impresa di scrivere le cartoline, mentre gli altri chiacchierano intorno al caminetto. Il mio sistema attrae l’attenzione dei compagni: ho scritto tutti gli indirizzi e i saluti, con vignetta della spedizione, su etichette adesive. Basta solo staccare la pellicola, incollare, firmare e il gioco è fatto. Mi ricordo che in Nepal, a Namche Bazar, ho passato un intero pomeriggio a scrivere. Peccato che per spedirle, e ne devo scrivere delle altre perché ritengo di aver dimenticato qualcuno, mi costa un patrimonio: 6 volte il costo d’acquisto. Non importa, ho piacere a mandare i saluti agli amici in Italia, anche se farò prima io a rientrare.


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32 martedì 4 dicembre.

Sveglia e colazione presto, sistemazione su due pulmini sgangherati e impolverati, e finalmente si parte per il nostro trekking sulle Ande. Su uno siamo tutti noi italiani con l’autista peruviano; sull’altro, con tutti i bagagli e le attrezzature, viaggiano Jacinto con il figlio Edwin e con il fratello Juan.

EVVIVA! Inizia l’avventura.

Lasciamo Huaraz non senza problemi. All’uscita della città veniamo fermati ad un posto di blocco della polizia e, mentre l’altro mezzo riesce a passare, noi rimaniamo fermi circa mezz’ora. Ripercorriamo tutto l’altipiano fino a scollinare ai 4050 metri del passo Conococha e in fondo, direzione oriente, l’inconfondibile catena innevata della Cordigliera delle Ande. Il viaggio è confortevole sulla strada asfaltata, anche se siamo costretti a fare una lunga deviazione per lavori, fino a Chiquan dove facciamo sosta per una veloce colazione. La cittadina è adagiata su un pianoro ai piedi della montagna, ai bordi di un profon-


do canyon ed è l’ultimo agglomerato di case che incontriamo prima di 33 entrare nel parco dell’Huayhuash. Poca gente per strada, una festa nella piazza, un giardino ben curato che guarda verso la cordigliera, un asilo, bambini che, affacciati alle finestre, ci salutano festosi. Ăˆ troppo forte il richiamo benevolo di quelle voci che non posso fare a meno di avvicinarmi per donare loro la mia razione giornaliera di ci-


34 bo e anche qualche scorta che ho sempre nello zaino. Non sono il so-

lo a farlo, tutti diamo loro qualcosa. Questo è il primo contatto con i bimbi dell’Huayhuash. Vorrei soffermarmi un po’ di più, poter parlare con le maestre, chiedere informazioni sulle condizioni di vita di questo paese, ma dobbiamo ripartire. A malincuore mi allontano dalla scuola, salutato da quei piccoli appena vestiti con maglioni sudici, con il viso sporco e il naso gocciolante, con i loro grandi occhi scuri pieni di domande, la pelle bruciacchiata dal sole e dal freddo, le braccia tese quasi a pregarmi di non andare via. Ci sono ricaduto di nuovo. Perché, i bambini del mondo non sono tutti uguali? Perché, c’è tanta ingiustizia, diversità e solo perché molti di loro hanno forse sbagliato a nascere qui e non altrove? Perché non facciamo ciascuno la nostra parte per abbattere queste differenze, dando un aiuto minimo a chi è stato meno fortunato di noi, sottraendo una piccolissima percentuale alle nostre superflue ricchezze?

Il viaggio è ancora lungo e dobbiamo ripartire. Lasciata la strada asfaltata, proseguiamo su carrarecce polverose, strette e piene di buche e tornanti; meno male che l’incontro con altri mezzi di trasporto è abbastanza raro perchè, in alcuni punti, l’autista deve fare delle manovre quasi impossibili sul ciglio di precipizi e valloni. Giungiamo a Llamac dove dovremmo fermarci come da programma, ma per guadagnare qualche metro di dislivello ricominciamo a salire


fino a raggiungere il villaggio di Pocpa situato a 3500 metri di quota. 35 Finalmente, dopo quasi sei ore di massacrante viaggio tra un saliscendi d’innumerevoli valli e attraversamenti di piccoli villaggi, siamo arrivati e facciamo appena in tempo a scendere dal pulmino che ci ritroviamo circondati dai bambini. Il villaggio è posto ai piedi della montagna, sul greto del Rio Pocpa e anche qui le case sono state costruite con mattoni d’argilla mista a paglia. Poche case con una piazzetta senza pavimentazione e con la chiesa spoglia di qualsiasi ornamento religioso: niente banchi, niente raffigurazioni di santi, solo un altare. I bambini giocano tra le viuzze strette, hanno i visi arrossati e sporchi, il muco che scende dalle narici alla bocca, sudici miseri vestiti e ciabatte ai piedi. Quasi mi vergogno a fotografarli, ma è necessario che io documenti le condizioni in cui vivono per poterle mostrare e sperare di smuovere un po’ le coscienze della nostra progredita società e cercare di dare una risposta a tanta disuguaglianza sulla faccia della terra. Una bimba accenna un pianto di timore alla vista della macchina fotografica e allora la ripongo e torno sui miei passi nella speranza di non aver turbato l’equilibrio di queste piccole semplici vite. Non sono venuto fin qui per spaventare bambini, bensì per fare qualcosa. Sono le 17, quando Jacinto ci invita a prendere un the e con Bruno ci illustra la via di salita che domani faremo. Una ricognizione nei dintorni, tra campi coltivati e case diroccate dai vari terremoti, si offre ad una valutazione del posto. In giro ci sono quasi esclusivamente donne e bambini perché gli uomini il mattino sono ingaggiati per salire alla miniera di ferro. Una volta il Perù era un paese ricco di miniere e l’estrazione di ferro, stagno, oro consentiva a tutti di lavorare. Oggi le poche miniere rimaste ancora in attività non possono far lavorare tutti e quindi ogni giorno è una lotteria per farsi ingaggiare; chi ha la fortuna di conoscere qualche “capo mina” il mattino spera di essere chiamato e fatto salire sul camion che va su alla miniera per una giornata di lavoro. Da noi si chiama “caporalato” ed è vietato dalla legge. Qui, invece, ai margini dell’immaginabile, tutto ciò assume un aspetto di normalità perché non può esserci differenza tra poveri in un’economia di per sé già povera. Se oggi non hanno preso Pedro, ma Simon, domani salirà Pedro a lavorare in miniera e Simon si dedicherà ai campi o alla custodia degli asini che da queste parti hanno il valore di gran patrimonio per sé e per la comunità.


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Disteso nella tenda che molto facilmente abbiamo montato, scrivo questo diario e penso alla mia famiglia, alle ragazze e a te Wanda che starai già dormendo visto che in Italia è l’una del mattino del 5 dicembre. La notte è trascorsa abbastanza bene, anche se arrivare all’aurora è stata lunga, finalmente fa giorno e siamo fuori dalle tende; però il tempo non è dei migliori. Una fitta nebbia circonda il villaggio e il campo; fa anche un po’ freddo per la forte umidità che si appiccica addosso. Con calma riordiniamo borsoni e zaini, smontiamo le tende ancora bagnate e andiamo a riscaldarci nella tenda-mensa per la colazione: abbondante ed energetica. Intorno al campo si aggirano gli asini che serviranno per trasportare le masserizie, i nostri bagagli e tutto ciò che servirà per attrezzare i vari campi del trekking. Gli asini appartengono a Britagno, uno del posto, che, aiutato da Louis ed Elias, ci accompagnerà per tutto il trekking che inizia oggi, 5 dicembre, con la risalita lungo i fianchi della montagna che sovrasta la valle di Pocpa. Entriamo nel cuore della cordillera lasciandoci dietro l’ultimo villaggio abitato. Con passo lento procediamo dietro Jacinto e man mano che guadagniamo quota grandi spazi si aprono alla nostra vista, il villaggio diventa sempre più piccolo visto dall’alto. Veniamo superati dalla carovana che sale spedita e ci precederà al campo. Qualche problema al superamento dei 4000, con Marisa affaticata per la quota e la fatica, ci costringe a procedere più lentamente, ma alle 14.15, dopo l’ultimo tratto molto ripido, svalichiamo sul passo del Mirador, a 4600 metri. Lo spettacolo è immensamente meraviglioso.


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Su tutta la Cordillera Huayhuash svetta maestoso lo Yerupajà con i suoi 6634 metri d’altezza, i ghiacciai che scendono lungo le pareti granitiche. Vorrei soffermarmi ancora a fotografare ma il vento freddo e l’incitamento di Jacinto e Bruno a riprendere il cammino, mi esortano a riprendere la marcia e a scendere sull’altro versante. Costeggiamo per un buon tratto alte pareti di roccia nera, perdendo lentamente quota, prima di iniziare una verticale discesa per un sentiero che scende a zig-zag, fin giù alla valle. La risaliamo ad est raggiungendo alle 16.30 la laguna Jarucocha a 4100 metri. Il campo è già stato attrezzato dagli amici peruviani, che hanno montato anche le nostre tende, ai bordi dell’emissario della laguna sopra una prateria formatasi all’interno della prima morena del ghiacciaio che scende dallo Yerupajà. Una merenda calda, un riposino in tenda, la cena alle 19.30 mentre fuori scende la notte e la temperatura si abbassa rapidamente, quattro chiacchiere all’interno della tenda-mensa appena rischiarata da una rudimentale lampada a gas. Comodamente, si fa per dire, seduti su piccoli sgabelli d’alluminio, che per mantenere l’equilibrio ci si spinge l’uno contro l’altro, si sta intorno al tavolo, imbacuccati con giacca a vento, berretto e guanti. Facciamo un riepilogo di questa prima giornata e, non possiamo tirarla per le lunghe visto che tutti i bar qui intorno hanno già chiuso, preferiamo andare in tenda a riscaldarci nei sacchi a pelo, e sono le 21. Notte movimentata: qualche crampo alla pancia, il sacco a pelo che mi si avvolge attorno facendomi sentire un salame, il bisogno di urinare


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(due volte durante la notte e dentro una bottiglia) senza uscire dalla tenda per la temperatura esterna abbondantemente sotto lo zero. Peppe che dorme profondamente, lo sento russare, i piedi gelati che non riescono a riscaldarsi, le goccioline della condensa che cadono dalle pareti della tenda e si depositano sul berretto indossato a protezione del freddo, la rigida morbidezza dello stuoino che ti ricorda che anche la schiena e i reni hanno una voce, quella dell’indolenzimento. Tutta questa comodità è esaltata dalle brevi frazioni di sonno che riesco a mettere insieme tra una rigirata e l’altra. Veramente una bella nottata che non passa mai. giovedì 6 dicembre. ore 6.30 Mi sveglio al rumore di una slavina staccatasi dalle vertiginose pareti dello Yerupaja rimbombando nella valle. Pazienza: avevo appena preso sonno e visto che ieri seri ho dimenticato di ordinare la colazione a letto, mi vesto ed esco dalla tenda ad ammirare l’alba. Veramente bella quest’alba. Tutta la valle è ancora avvolta da una leggera foschia e le nostre tende sono imbiancate dalla gelata notturna. Il


sole sta sorgendo dietro lo Yerupajà e questo 39 controluce mette in risalto la sua frastagliata e luccicante cresta che si specchia nella laguna. Aspetto che anche Peppe esca dalla tenda e decidiamo di fare un giretto nei dintorni, tanto abbiamo tempo sufficiente per la colazione fissata per le 8.30. Ci sono parecchie capanne di pastori sparse nella vallata, mucche al pascolo e in lontananza si sente il belare delle pecore. Le capanne sono fatte di pietre squadrate e fino al tetto ricoperto di giunchi, di cui la laguna è ricca; sono di forma quadrata e all’interno degli stazzi ma, non si vede nessuno. I pastori sono già sui pascoli o lungo la laguna a pescare. Intanto tutto il campo si è svegliato e la tenda-mensa è un andirivieni per la preparazione della colazione, abbondante e sostanziosa da spingerci a fare un’escursione fino alla morena superiore del ghiacciaio. Con Peppe, Lucio, Marco e Giancarlo costeggiamo la laguna lungo un sentiero che attraversa prati verdissimi e ricchi di fiori e, man mano che si procede, la valle si allarga in un ampio anfiteatro glaciale; villaggi con grandi stazzi sono collocati lungo l’emissario del ghiacciaio in un ambiente unicamente maestoso sotto la guardia delle alte pareti dello Yerupajà. Slavine che continuano a scivolare e precipitare con ovattata rumorosità nel laghetto sottostante ci fanno alzare lo sguardo verso l’alto e rimanere in ascolto di una prossima che non tarda ad arrivare. Siamo saliti di un centinaio di metri e la vegetazione continua sopra di noi, fin quasi ai 4300/4400 metri con alberi di medio fusto e lungo le pendici si vivacizzano dei piccoli incendi appiccati e controllati dai pastori per creare nuovi pascoli. Vorremmo penetrare ancora un po’ in quest’angolo selvaggio, continuare a fotografare, ma è quasi mezzogiorno e dobbiamo rientrare al campo. Incontriamo i nostri amici peruviani che oggi si sono dati alla pesca con la canna, non per passare il tempo, bensì per cucinarci le numerose trote che hanno già preso. Veramente stiamo mangiando un po’ troppo e bene in questi primi


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giorni di trekking grazie a Jacinto che, oltre a fare il muratore, è anche aiuto cuoco in un ristorante. Allora: dopo pollo con fetta di patata e carota con riso, passato di verdure, papaia e banane del primo campo di Pocpa, siamo passati a minestrina di zucca e patate, spezzatino di manzo con pomodoro, cipolla, peperoni e patate fritte di ieri sera qui a Jarucocha. Ho dimenticato il budino di cioccolato con granelli di zucchero che chiude la cena. Non male, vero? Chissà oggi cosa ci hanno preparato per placare la nostra fame? Giungiamo al campo che il pranzo è già in tavola. Ci voleva dopo questa passeggiata: farfalle in bianco con cavolo bianco e scuro, fagiolini, carote e mais, salame e formaggio. Per non perdere l’abitudine masticatoria, ci servono: nel pomeriggio the con biscotti e per cena trota. Forse è un po’ troppo. Non mi sento troppo bene ed ho qualche linea di febbre. Prendo una Tachipirina dopo pranzo e passo tutto il pomeriggio a riposare in tenda per la tappa di domani. La notte trascorre abbastanza tranquilla e siamo stati anche più caldi dopo aver messo i teli di sopravvivenza sotto i materassini ma, il sonno? Sempre a sprazzi, tra una rigirata e l’altra dentro il sacco a pelo.


venerdì 7 dicembre. Finalmente è giorno. 41 Alle 6.30 esco dalla tenda rimanendo affascinato dalla luccicante brina che si è cristallizzata durante la notte su tutto, terreno, tende e asini, segno che la temperatura, stanotte, è scesa di parecchio sotto lo zero. Bruno è già fuori della tenda. Come mai? Di solito è uno degli ultimi ad alzarsi al mattino. Si avvicina e mi dice che ha un forte mal di schiena, di non aver dormito per niente nelle ultime due notti e che anche Paola non si sente troppo bene. Hanno deciso di tornare giù. L’abbandono del nostro capo spedizione è come un fulmine a cielo sereno. «E adesso, noi, che facciamo?» dico a Bruno nella speranza che rivaluti la sua decisione, anche se, conoscendolo, è molto improbabile che accada. «Non c’è nessun problema, ci siete tu e Lucio» è la sua risposta. Un senso di rabbia e impotenza di fronte a questa decisione irremovibile s’impossessa di me. Non so nemmeno io se piangere, se imprecare, se prendere a calci qualcosa. Tanti mesi di preparazione non meritavano la rinuncia di chi ha proposto, ideato e organizzato questa spedizione. «Potremmo cambiare il programma» – gli propongo. Ma Bruno c’invita a proseguire e a portare a termine il trekking anche per lui. Il silenzio scende sul campo e nessuno di noi parla più, mentre riordiniamo zaini e bagaglio per la partenza. In silenzio facciamo colazione, come in silenzio facciamo una foto insieme a Paola e Bruno cercando di sorridere davanti all’obiettivo della macchina fotografica e in silenzio Lucio ed io accettiamo l’affidamento della spedizione da ora in avanti. Una bella responsabilità. Sono le 8.30 e dobbiamo muoverci. I primi passi sono strazianti e faccio fatica a non voltarmi a salutarli. Un pianto liberatorio per gli amici che non proseguono mi accompagna per qualche minuto. Lascio Jarucocha cercando di guardare con fiducia davanti a me, verso la montagna che dobbiamo scalare e penso che da ora in avanti sarà un po’ triste senza Bruno e Paola. Dopo un buon tratto in piano, scavalcando più volte l’emissario della laguna, s’inizia a salire a destra di una cascata, zigzagando lungo i fianchi della montagna. Guadagnato un centinaio di metri in altitudine, ci fermiamo ad osservare il posto dove prima avevamo il campo e che ora è abbandonato anche dalla carovana dei nostri asini.


42 Prende la nostra direzione mentre sul lato opposto della valle, anche i

nostri amici sono in viaggio, accompagnati da Britagno con il suo cavallo.

A gran voce, insieme, rivolgiamo loro un «CIAOOO» lunghissimo che è ripetuto dall’eco che si perde nell’immensa vallata. Arrivederci a Huaraz, fra nove giorni. Sotto di noi la laguna si apre in tutta la sua vastità e i riflessi delle montagne nelle sue acque sono quasi accecanti. Le leggere brume del mattino lasciano il posto alla sfavillante luce del sole che pian piano illumina le alte pareti dello Yerupajà offrendo alla nostra vista uno scenario di rara bellezza e grande maestosità. Ho visto tanti posti belli in giro per il mondo, ma come questo…! No, credo che non ce ne sia un altro. Procediamo molto lentamente per l’aria rarefatta ma anche perché l’aprirsi di nuovi orizzonti ci dà la possibilità di scattare tante foto e quindi la fatica della salita è quasi annullata. Aquile e condor volteggiano su di noi compiendo ampi giri nel cielo azzurro. Scompaiono dietro una cresta rocciosa per poi riapparire dietro di noi all’imbocco


dell’ampio canalone che stiamo risalendo. Jacinto afferma che nelle vi- 43 cinanze potrebbe esserci qualche carcassa di mucca. Abbiamo visto tante mucche risalire i pendii sempre meno erbosi: a causa della siccità che si protrae ormai da più di un mese, si spingono oltre i 4500 metri di quota alla ricerca di erba più fresca e siamo solo all’inizio dell’estate. Alle 14 raggiungiamo il passo Yaucha a 4929 metri di quota sotto una leggera pioggia che abbassa ancora di più la temperatura. Marisa è stremata, senza fiato. Al riparo dal vento mangiamo qualcosa e recuperiamo le forze che ci servono per continuare e meno male che non dobbiamo salire ancora. Scattiamo una foto di gruppo con le spalle alla valle che ci siamo lasciati dietro ma con il Diablo Mudo come sfondo e iniziamo la discesa che, tra antiche morene e corsi d’acqua, porta fino al nuovo campo. Lo raggiungiamo alle 15.30 e c’è una bella merenda calda a ristorarci, dopo il freddo preso su al passo, anche se qui ad Angocancha, a quota 4500, la temperatura non è proprio caraibica: solo 4 gradi e nevica. Non ci resta che andare a scaldarci dentro le tende, infilati nei sacchi a pelo. Approfitto per scrivere di oggi in questo taccuino di viaggio pensando a casa, alla famiglia, a questa prima volta lontano durante i preparativi per il Natale, mentre un po’ di nostalgia mi stringe il cuore. Mamma mia che freddo all’uscita dalla tenda sotto il nevischio. Mi giro intorno e non c’è molto da vedere con queste nuvole basse, grigio scuro e cariche di neve. Non c’è molto da allontanarsi per un giro di ricognizione nei dintorni perché bastano pochi passi per non vedere più il campo. Tutto intorno è ovattato. Si sentono solo il ragliare degli asini in lontananza e l’abbaiare dei cani; al minimo rumore corrono all’impazzata verso la sua origine. Non rimane che radunarci


44 nella tenda-mensa e attendere, tra una chiacchiera e l’altra, l’ora della

cena che non tarda ad arrivare, proprio come tutti i contadini del mondo che all’imbrunire si siedono per cenare dopo una dura giornata di lavoro. Stasera mangiamo minestra di verdure e spezzatino di pollo con riso, patate e ananas. I polli, quattro alla partenza, ora sono due e gironzolano intorno e dentro le tende, mensa e cucina, beccando per terra. Qualche bicchiere caldo d’infuso di coca, che a queste quote non fa proprio male assumerne, e nell’attesa che i peruviani ci riempiano le borracce di agua caliente, si arriva alle 21. Alla televisione questa sera non ci sono programmi interessanti, la birreria oggi osserva il turno di riposo, il night apre più tardi, non ci resta che andare a letto anche se qui nella tenda-mensa ci sono 6 o 7 gradi, mentre nelle tende a mala pena ci sono 2-3 gradi. Ci converrebbe rimanere qui al caldo, ma è meglio andare perché prima che ci riscaldiamo nel sacco a pelo, abbiamo fatto mezzanotte. A proposito di acqua calda nelle borracce: dopo le prime due notti in cui non riuscivo a riscaldarmi i piedi per il troppo freddo, ora va molto meglio perché mi sistemo nel sacco a pelo ponendo la borraccia calda al suo interno e facendola scivolare dai piedi alla schiena, la temperatura si mantiene confortevole per tutta la notte, anche perché a differenza di altri che s’infilano vestiti nei sacchi, io, per poter aver più libertà di movimento, indosso solo una calza maglia di seta e una maglietta di cotone. Lascio immaginare quanto è lunga una notte in queste condizioni. Notte tranquilla tra un’acrobazia e l’altra e finalmente arriva un nuovo giorno. sabato 8 dicembre. Sono le 6.30 ed esco fuori della tenda. Tutto intorno è bianco della neve caduta, però non fa tanto freddo. Smontate le tende e chiusi i borsoni, che saranno sistemati sugli asini, ci ritroviamo tutti nella tenda-mensa per la colazione che stamattina è ricca di tortilla con le uova, yogurt, corn flakes, pane e marmellata (sempre presenti e abbondati), the, camomilla e infuso di coca. Forse invece di dimagrire stiamo ingrassando… Alle 8 la carovana comincia a sfilare con passo tranquillo dato che oggi la tappa è abbastanza facile, solo 300 metri di dislivello per salire al passo Tupushi a 4800 metri. Bryan, un trekker del Canada, ci raggiunge, mentre saliamo. Lo abbiamo incontrato ieri e procede velocemente rispetto a noi che dobbiamo


fermarci continuamente per i problemi di altitudine di Marisa. Tra un 45 misto di inglese, spagnolo e italiano riesce a farsi capire: ha perso tutti i soldi che portava infilati nei calzettoni e non può pagarsi il viaggio per rientrare a Huaraz. Ci uniamo tutti in una colletta per dargli una mano e raccogliamo 80 sol. Vuole il nostro indirizzo per poterceli restituire, ma noi gli diciamo di proseguire nel suo cammino, di non preoccuparsi per i soldi e gli auguriamo buona fortuna. Fa sempre bene aiutare chi è in difficoltà, donare senza pretendere di riavere. Dopo la sosta al passo che raggiungiamo alle 11.15, davanti a noi si apre una nuova valle sotto l’imponente mole del gruppo montuoso sormontato dai 5427 metri del Diablo Mudo, meta della nostra ascensione alpinistica. Il cielo è coperto e la temperatura si mantiene intorno allo zero. Dopo aver recuperato le energie, proseguiamo nella discesa verso Huatiac dove, a 4300 metri, facciamo il nuovo campo.

Marisa ha tirato un po’ il fiato, ma il suo problema diventa giorno per giorno sempre più preoccupante. Da quando è iniziato il trekking, ogni salita diventa per lei una lotteria e non ci sono segnali di recupero neanche dopo il riposo di due giorni alla laguna. Con il mal di montagna non si scherza e, per questo motivo, all’arrivo a Huatiac decidiamo per il suo bene e per la nostra tranquillità: domani mattina scenderà con il cavallo a Huayllapa, il villaggio più vicino, accompagnata da


46 Jacinto, per poi raggiungere con un’auto un altro villaggio che si trova

più a valle. Con un taxi partito da Huaraz, vi farà rientro e si ricongiungerà a Paola e Bruno. Stiamo per rimanere in sette. È una gara ad eliminazione diretta: speriamo bene per il prosieguo. Intanto domani staremo fermi e, se sarà bel tempo, Lucio e Giancarlo proveranno a salire sul Diablo Mudo, mentre io e il resto del gruppo ci organizziamo per una passeggiata nei dintorni. Non me la sento di rischiare una salita con tante incognite, roccia e ghiaccio, un dislivello di oltre 1000 metri che a queste quote non è poco; senza guida, dato che Jacinto dovrà accompagnare Marisa. Ha anche detto che in questo periodo non è consigliabile salire lassù senza ricetrasmittente per tenerci in contatto, con i cellulari inservibili per mancanza di campo e l’incognita della via. Insomma, tutti elementi

che fanno riflettere. Naturalmente, non posso nemmeno dire a Lucio e Giancarlo di non andare perchè siamo venuti anche per scalare il Diablo Mudo e per un alpinista la rinuncia è sempre difficile da accettare. Certamente, se ci fosse stato Bruno a rimanere con il gruppo, avrei affrontato questa scalata. Mi sento bene, ho fatto un buon acclimatamento, anche se la notte non riesco a dormire e questo l’avevo messo in conto già prima di partire, però c’è ancora tanta strada da percorrere, troppo dislivello da superare e siamo solo ad un terzo del trekking. Con Peppe mi rimetto in tenda, al caldo. Finalmente sono riuscito a fare un paio d’ore di sonno fino a quando mi svegliano per la cena. Non facciamo altro che mangiare ed io, invece di perdere qualche chilo, tornerò in Italia ingrassato. I due pennuti, galletto e pollo, gironzolano ancora per il campo beccando qua e là: quindi stasera niente carne bianca. Con questa tem-


peratura ci voleva proprio una bella minestra calda di verdure per ri- 47 scaldarci e per continuare: spezzatino di carne con funghi, patate fritte, macedonia di frutta e le immancabili tisane calde a base di camomilla, coca e the che dovrebbero farci dormire un po’ di più. Marisa non sta affatto bene, ha l’occhio assente, non partecipa e una bella aspirata di ossigeno le farebbe senz’altro bene. Meno male che prima di partire ho integrato lo zaino farmacia con due bombolette di ossigeno. Ne prendo una. Marco, che di mestiere fa l’infermiere, la prepara e la regola per la somministrazione, mentre Lucio e Giancarlo controllano le attrezzature e si documentano sulla via da seguire. Tra una chiacchiera e l’altra, Marisa si carica del poco ma buon ossigeno, e riacquista un po’ di colorito. È ora di andare a nanna perché domani mattina presto qualcuno salirà in vetta e qualcun altro scenderà verso la salvezza. Notte agitata, ormai ci sono abituato. Non riesco a trovare una posizione buona anche per questo c…avolo di sacco a pelo che mi rimane appiccicato addosso impedendomi qualsiasi movimento. Una vera tortura e non solo per me. L’altra notte, Peppe non riusciva a “sbirrutarsi”, a sciogliersi, e stava quasi per inca…volarsi, e non è da lui data la sua proverbiale flemma inglese. Sento partire Lucio e Giancarlo alle 4,40 e saluto Marisa alle 6,45. La brina è caduta anche stanotte e la nostra tenda è più fredda e umida del solito. Conviene stare ancora un po’ nel sacco a pelo, aspettare che il sole inizi a scaldare, tanto non abbiamo fretta di partire e possiamo fare tutto con calma. Sarà una giornata di tutto relax. Infatti dopo la colazione, che in modo molto tranquillo abbiamo finito verso le 9, ci dedichiamo all’igiene personale (adesso sto meglio) lavandoci nelle acque del ruscello che scendono gelide dal Diablo Mudo. Una riordinata al borsone, il sacco a pelo steso al sole ad asciugarsi, gli asini che pascolano sui prati, cerco un posticino dove sedermi a scrivere questo mio diario di viaggio e stare ad osservare questo angolo di mondo a 4300 metri di quota, in una vallata della cordigliera delle Ande. Non è una cosa fantastica? A proposito oggi è domenica 9 dicembre. Approfitto per fare un giretto nei dintorni insieme a Peppe. Saliamo su una collina per allargare la visualità e dall’alto vediamo che ci sono alcune capanne di pastori proprio al di là della stretta valle dove siamo accampati ma, ce ne sono altre e altre ancora che riesco a scorgere con l’aiuto del binocolo.


48

Colpiscono la nostra curiosità opere di canalizzazione e deviazione del ruscello verso stazzi lontani, posti a quote leggermente inferiori al punto di captazione e una riflessione sul grande lavoro fatto da questi campesinos mi viene giusta e spontanea farla. Siamo oltre i 4000 metri in un territorio impervio con canaloni e costoni che si susseguono; il freddo della gran parte delle stagioni è intenso; gli eventi atmosferici, la pioggia, la neve, il vento, la siccità. Quanta fatica profusa e quanto tempo impiegato per riuscire a portare, il più vicino possibile ad una capanna, l’acqua necessaria per un minimo di sopravvivenza. Acqua di fusione, non potabile naturalmente, sarebbe stato troppo facile. Infine, per poterla bere, bisogna farla bollire. Mentre noi, nelle nostre società evolute, non riusciamo a bere la nostra buona acqua del rubinetto, che è analizzata e controllata giornalmente bensì, acquistiamo quantità industriali di “buona acqua” minerale che viaggia da nord a sud, e viceversa, per l’Italia. E se non ci piace una marca andiamo alla ricerca di quella poco ricca di questo o quel minerale. Invece in alcune parti di questo strano mondo, come qui dove mi trovo adesso, i bambini non sanno che cos’è lo spazzolino da denti o la sensazione di freschezza e di pulito che i nostri bambini provano fin dalla nascita. I grandi della terra dovrebbero, almeno una volta nella loro vita, andare a turno in quei posti dove i bambini muoiono di dissenteria per quel liquido chiamato acqua ma che acqua non è. In silenzio rientriamo al campo. Riordiniamo le cose che avevamo steso al sole ad asciugare, mentre i cani, abbaiando, corrono dietro ad asini e cavalli che qui pascolano liberamente. Guai se un altro animale si permette di entrare nel perimetro del campo che essi hanno segnato: ogni volta che succede, è un orchestra di nitriti, ragliate e abbaiate. Un bimbo si avvicina alle nostre tende e tutti noi gli doniamo qualco-


sa. Lui, però, è in cerca di penne e quaderni. È un vero peccato non 49 averne portati con noi dall’Italia. Rovistando nelle tasche dello zaino, riesco a trovare un pacchetto di biscotti, del miele e anche una penna. Si chiama Dabit, ha 9 anni, va a scuola a Huayllapa, frequenta la quarta elementare, ogni giorno scende e risale quasi 700 metri con il cavallo. Parte alle 6 del mattino dalla sua capanna e ritorna a “casa” alle sei di sera. Cerca un quaderno e una penna. Penso ai bambini che vanno a scuola nei nostri paesi e mi viene un profondo senso di amarezza, tristezza e rabbia. Sarebbe ora che tutte le nazioni piene di benessere facessero qualsiasi cosa, anche l’impossibile, per aiutare quelle popolazioni che non hanno niente. Non possiamo solo perdere tempo a parlare, dobbiamo agire. Dopo il frugale pasto di mezzogiorno, decidiamo di inoltrarci nella valle che risale, con lieve pendenza, fino ai primi sfasciumi della morena del ghiacciaio che scende dal versante ovest del Diablo Mudo. Andremo incontro a Lucio e Giancarlo, che prima o poi vedremo sbucare dalla sella ed immettersi sul sentiero che porta al campo e a Huayllapa. Lentamente, con tranquillità, camminando senza problemi di tempo, attraversiamo più volte i vari rami del rio che si perde nelle vaste praterie della valle e, arrivati alla pietraia morenica, ci soffermiamo a scrutare verso l’alto, verso la sella che si stacca dalla montagna verso l’azzurro cielo, qualche centinaio di metri sopra di noi. Col binocolo seguo il sentiero lungo il quale risalgono alcuni campesinos che trasportano, a due a due, delle travi di legno. Niente, non si vedono. Faccio fatica a mettere a fuoco, a mantenere la giusta concentrazione per andare a scovare il più piccolo movimento. Il tempo passa e ormai il sole è tramontato dietro la cresta montuosa e la valle è in ombra. La temperatura si abbassa rapidamente, anche se non c’è vento, e sono appena le 15.30. Scendiamo giù verso il campo dando ogni tanto un’occhiata con il binocolo e in meno di due ore siamo di nuovo con i nostri amici peruviani anche loro in apprensione. Passano due donne: risalgono il sentiero con sulle spalle le coloratissime coperte a


50 modo di bisaccia. Tornano a casa dopo gli acquisti o gli scambi effettua-

ti al villaggio dove stamani è sceso anche Jacinto per accompagnare Marisa. Anche Edwin e Louis sono preoccupati per Jacinto e vanno avanti e indietro ad affacciarsi sulla valle nella speranza di avvistarlo.

Finalmente, mentre l’orizzonte si tinge dei colori caldi e vividi del tramonto andino, Jacinto rientra al campo. Adesso mancano solo i nostri compagni e l’attesa si fa sempre più pesante. Sono molto preoccupato anche se cerco di far passare il tempo facendo fotografie a questo quadro stupendo della natura che nostro Signore ha creato. Eccoli. Alle 18.20 li vediamo spuntare su una curva del sentiero. Scendono con passo lento, ma scendono. Saranno molto stanchi, ormai sono più di 14 ore che mancano dal campo. Hanno conquistato la vetta del Diablo Mudo. Siamo felici per questa bella impresa ed io lo sono ancora di più perché tutto è andato bene. A cena ci raccontano un po’ la salita che è stata molto impegnativa. Hanno incotrato di tutto: seracchi, canaline, neve marcia. L’attacco della via, poi, è abbastanza distante dal passo, quasi 500 metri più in alto del nostro campo. Da lì ancora 650 metri che, per effetto dei continui saliscendi, diventano quasi 1000. Dislivelli così pesanti, a queste quote, sono difficili da affrontare e sopportare. Complimenti a Lucio e Giancarlo. Per quanto mi riguarda e alla luce del loro racconto, io non ce l’avrei fatta: sarei stato solo d’impaccio. A dormire alla solita ora, le 21 e mi aspetta un’altra notte di battaglia con il sacco a pelo.


lunedì 10 dicembre. Siamo tutti svegli e a fare colazione. 51 Tra poco partiamo per Huanachpatay lasciando questo splendido angolo della cordillera. Scendiamo verso il villaggio di Huayllapa lungo un sentiero ripido e impervio che si butta a capofitto dentro la stretta valle. Seguiamo il corso del rio che scende povero di acqua per la prolungata siccità. Lo attraversiamo numerose volte prima di impianare su un ponte posto all’altezza di un piccolo cimitero all’ombra di alti eucalipti. Incontriamo una famigliola che risale la valle con i muli e una donna che accudisce al suo esiguo gregge di capre. Mi regala un sorriso al sentire che siamo italiani. Abbiamo perso più di 600 metri di quota quando giungiamo a Huayllapa che si trova a 3675 metri di altitudine, su un pianoro, sotto alte pareti di questa stretta valle scavata dallo spumeggiante e impetuoso rio Huayllapa. Sul sentiero che percorriamo, delimitato da muretti di pietra a secco eretti a protezione e delimitazione di piccole aie contadine, c’è un arco in pietra con cancello, una specie di dogana, controllata da addetti del villaggio. Bisogna pagare il pedaggio o tassa, per poter entrare nel versante est della cordillera, altrimenti non si passa. È quello che accade a un gruppo di ragazzi israeliani che si ostina a non volere pagare. La nostra carovana transita senza problemi anche perché le nostre guide sono conosciute dalla gente di qui. Un bimbo ci chiede qualcosa da mangiare e noi lo accontentiamo con le nostre razioni ma, non rimane fermo sul muretto e ci precede, come se volesse accompagnarci per qualche metro lungo il viottolo. Si ferma davanti ad una capanna e c’è tutta una famiglia, la sua penso. Il quadro è veramente povero: un uomo seminascosto dietro la porta di casa che si affaccia sul cortile in terra battuta, alcuni polli in cerca di qualcosa da beccare in mezzo a sudice cose, una donna giovanissima e incinta, due bimbi piccoli. Diamo anche a loro qualcosa da mangiare e proseguiamo.


52 Sono rimasto proprio senza niente da mangiare perchè ho dato tutta la

mia razione giornaliera. Non fa niente. Non me ne importa niente. Io posso anche non mangiare fino a stasera perché so che mangerò, ma questi bambini? Mi giro ancora una volta a guardarli e poi non ho più il coraggio di farlo. Mi chiudo nei pensieri, mi isolo, non vedo nemmeno dove metto i piedi e, per un buon tratto, cammino con la mente rivolta a quei volti bruciati dal sole, a quei profondi grandi luccicanti occhi neri che mi fanno pensare guardino senza speranza a un futuro che non esiste. Il sentiero si inoltra nella valle scavata dall’impetuoso rio Huayllapa e con leggera pendenza sale verso est. Costeggiamo campi coltivati a patate e qua e là, sparse, pascolano mandrie di mucche. Incrociamo anche un grosso gregge di pecore condotto e accudito da ragazzi e cani. Qui, per sfruttare il più possibile zone di territorio fertile, coltivano appezzamenti lungo i fianchi molto scoscesi delle montagne e in alcuni casi le pendenze sono veramente proibitive. Molto lentamente, abbiamo di nuovo superato i 4000 metri, saliamo per il sentiero che si inerpica sinuoso sulla destra orografica della valle e soffermandomi per riprendere fiato su qualche tornante, mi rendo conto del dislivello superato e del percorso fatto. Finalmente una sosta sotto assordanti e bianchissime cascate generate dal rio Huanachpatay che più sotto andrà a confluire nello Huayllapa. Ci voleva proprio un riposo anche per scambiare qualche parola con gli amici peruviani e soprattutto per ricevere informazioni sul territorio circostante da Jacinto e Edwin. Intorno la vegetazione d’alto fusto è molto rada, ma in compenso i cespugli sono pieni di fiori coloratissimi e i prati sono verdi e lussureggianti per la vicinanza alla cascata, luogo ideale per il bestiame stanziale e di passaggio. Riprendiamo a salire ancora più lentamente e al valico ci inoltriamo in un’altra valle. Abbiamo recuperato così il dislivello perso nella discesa e al raggiungimento del campo di Huanachpatay, nella omonima valle, siamo a 4350 metri di altitudine. Questa pianeggiante e verde valle è dominata dalla granitica Montagna del Cuioc che, imbiancata delle sue nevi perenni, condiziona la temperatura dei venti che la battono con violenza. Come sempre, i peruviani hanno montato il campo vicino ad un corso d’ac-


qua e ne approfitto, dopo aver fatto merenda, a darmi una bella lava- 53 ta prima che cominci a puzzare come una capra, anche se fa abbastanza freddo. Un riposino in tenda, prima della cena e nel caldo del sacco a pelo, ristabilisce la giusta temperatura corporea conciliandomi una breve dormita. Al risveglio è quasi notte e sono appena le 18.30. Alla luce della lampada frontale faccio un giro intorno al campo, cercando di non inciampare nei tiranti delle tende e badando a non sbattere contro qualche asino della carovana che pascola liberamente sorvegliato dai cani. Il forte vento abbassa ancora di più la temperatura spazzando il cielo dalle nuvole. Verso l’ultimo chiarore del crepuscolo e prima che il buio diventi padrone di tutto, il cielo si colora di un blu sempre più intenso; un blu luccicante della miriade di stelle che accendono le tenebre rendendo il passaggio dal giorno alla notte, dalla luce al buio, meravigliosamente unico. Mattina dell’11 dicembre. Avrei voluto rimanere ancora un po’ in tenda al caldo, ma le operazioni prima della partenza sono tante e a questa altezza vanno fatte lentamente. Quassù tutti i movimenti sono rallentati perché la percentuale di ossigeno nell’aria è ridotta del 40% e più si sale più la difficoltà di respirazione aumenta. Devo dire che siamo diventati ormai più bravi dei meccanici di formula uno al cambio gomme. Tra


54 poco si parte e ci aspettano più di 700 metri di dislivello da superare,

prima di arrivare al passo del Cuioc, a 5050 metri, sotto la sua vetta che spicca più in alto di soli 300 metri. Percorriamo tutta la valle per un paio d’ore guadagnando appena 150 metri in salita, quando Jacinto, dopo aver superato una sella, decide per una sosta sui bordi di una laguna che si è formata con il lento ritiro di un ghiacciaio. Lo sguardo penetra gli ampi spazi di questo immenso circo glaciale fino a risalire le canaline innevate che s’innalzano sotto le grigie pareti del Cuioc che dominano tutta la valle. Di nuovo in cammino, uno dietro l’altro, sullo stretto sentiero che sale

ripido costringendoci a frequenti soste per riprendere fiato. Il battito del cuore aumenta la sua frequenza, il bisogno di respirare si trasforma in affanno, le labbra si seccano per l’aria rarefatta, le gambe diventano di legno per l’altitudine ma la volontà di proseguire annulla queste difficoltà. A livello del mare correrei come una lepre senza nessuna fatica, ma quassù manca il 50% di ossigeno e se tutti i movimenti non sono fatti correttamente è molto facile essere colpiti da mal di montagna, con conseguenze respiratorie e motorie molto gravi. Edwin ci segue sempre con l’ambulanza, pronto ad intervenire in caso di difficoltà di qualcuno di noi. L’ambulanza è il cavallo che purtroppo, ma meno male che c’è, viene utilizzata da Marco a soli 300 metri dal valico. In debito di ossigeno, ma da qualche giorno afflitto da una fastidiosa bronchite che sta curando con il cortisone, Marco ha proseguito fin dove le


gambe gli hanno tenuto. Un’altra sosta un po’ più lunga, sotto di so- 55 li 150 metri dal passo, e …stringo i denti. Con determinazione, lentamente, senza fermarmi, senza guardare verso l’alto a valutare quanto manca, contando i passi che si succedono a ritmo cadenzato sul sentiero argilloso e duro, cercando di costruire nella mente lo scenario che tra poco la macchina fotografica imprimerà, insomma, scacciando da tutto me stesso la fatica e il pensiero dell’abbandono fisico, finalmente sono sui 5050 metri del passo Cuioc. Sono le 13,40, siamo tutti su questo bellissimo balcone che si affaccia su altri meravigliosi orizzonti ed io rimango affascinato da tanta grandiosità e bellezza.

Dopo esserci complimentati l’uno con l’altro ed aver messo qualcosa di energetico nello stomaco, facciamo delle foto insieme a Jacinto e Edwin che tiene sempre per le redini Lobito, il suo cavallo, la nostra ambulanza. Dal passo la vista sulle montagne si perde fino all’orizzonte e le catene montuose si susseguono, quasi a sovrapporsi, innalzandosi ai picchi più alti. L’occhio risale vertiginose pareti dalle quali precipitano seracchi pensili e ghiacciai bianchissimi, tanti dei circa 600 censiti sulla cordillera peruviana, fino a soffermarsi stupito sulla massiccia montagna del Cuioc. Intorno vallate verdi con lagune su cui emergono giganteschi pulvini, mucche e pecore che liberamente pascolano fin quasi alla sommità del valico, spinte dalla inesorabile desertificazione dei pascoli di valle. Ancora un’occhiata al panorama che ci lasciamo alle spalle, al Siula Grande, al Carnicero, al Saraco (tut-


56 ti sopra i 6000 metri), alla via di salita, alla valle coperta di nuvo-

le cupamente grigie che scaricano pioggia e poi giù fino a Mataraqui, dove a 4500 metri c’è il nuovo campo che raggiungiamo alle 16.00. Facciamo appena in tempo a non infradiciarci completamente che un violento acquazzone misto a neve si abbatte su tutta la valle. La temperatura scende di molto e tutto si imbianca di quella neve pesante e bagnata che ti penetra nelle ossa. Le tende quasi galleggiano in mezzo all’acqua che ha riempito le piccole vallette prative su cui sono state montate, mentre il ruscello che scorre vicinissimo aumenta sempre più la sua portata. Meno male che una bella merenda con the caldo ci riscalda un po’ e vorremmo rimanere a parlare ancora nella tenda-mensa, ma tutti preferiamo andare ad infilarci nelle proprie e dentro il calduccio dei nostri “comodi” sacchi a pelo. Nevica ancora quando arriva l’ora della cena che questa sera ci riserva, tra l’altro, anche un bel piatto di spaghetti aglio e olio molto piccante, e qualche sorso di vino rosso proveniente dal Cile che i peruviani ci offrono dalla loro cantina mobile. Notte agitata per il freddo e il naso tappato per l’altitudine, e finalmente il chiarore dell’alba mette fine all’ennesima conta di pecore che saltano la staccionata. Mi vesto con calma nel risicato spazio a cavallo tra tenda e antitenda, mezzo corpo al “caldo” e l’altra metà al freddo, busto superiore dentro e gambe fuori, movimenti ripetuti tante volte, quasi a memoria, ma che ogni volta devo ricordare, coordinare e eseguire perché l’altitudine influisce molto sui riflessi. Vorrei vedere voi che vi sfilate la calzamaglia e la maglietta in capilene, infilate i pantaloni, i calzini, i calzettoni e gli scarponi, che dovete anche allacciare, indossate maglietta, micropile, pile e giacca a vento, stando sempre seduti per terra e prima dell’ultimo sforzo: uscire dalla tenda gattonando come un neonato. E sono stato molto soft nel paragone. Cielo coperto e freddo sopportabile. Temperatura intorno allo zero. Speriamo di non prendere tanta acqua nella tappa di oggi, mercoledì 12 dicembre, che ci porterà al villaggio di Huayhuash. Partenza alla solita ora e, senza perdere quota per un buon tratto, saliamo al Lago Viconga, un vasto invaso artificiale, in questo periodo sotto di parecchi metri dalla massima capacità. Questa non è la stagione delle piogge e lo si capisce dalle varie tonalità di marrone che hanno assunto le pareti rocciose lambite dalle sue acque.


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Lo costeggiamo per un buon tratto salendo di quota molto gradualmente, senza forti strappi, e facciamo sosta all’altezza di un villaggio pastorale dal quale vediamo venirci incontro cani che abbaiano e bambini che strillano, corrono, saltano e gridano festosi. Quando ci raggiungono continuano a girarci intorno sorridenti. L’incontro con i bambini suscita in me un’emozione grandissima, gioia e tristezza mi stringono in una morsa soffocante. Il mio disagio di fronte a questi bimbi che hanno dai 4 ai 12 anni d’età, tutti con una busta di plastica tra le mani, pronti a ricevere qualcosa da mangiare, aumenta ancora di più, quando mi accorgo che, dopo aver dato a loro tutta la mia razione giornaliera di viveri, non riesco a trovare più niente di commestibile da lasciargli. Tra loro Felipe, il più piccolo, con indosso poveri e logori vestiti, forse sempre gli stessi da chissà quanto tempo, il copricapo di pesante lana d’alpaca a protezione di un viso paffuto e bellissimo, bruciacchiato dal freddo e dal sole. Felipe rappresenta tutti quei bambini che devono sopravvivere in zone della terra in condizioni estreme, quasi primitive. Mangia tutti i giorni, non è denutrito, ma è certo che non sa qual è il sapore di un gelato o di un pasticcino alla crema. Felipe è il bimbo che mi è corso incontro gridando, richiamando la mia attenzione e, con innocente determinazione, ha atteso che gli dessi qualcosa, quasi a pretenderlo in nome di quella disuguaglianza che lo rende differente da un altro bambino nato in una società certamente più ricca ma impoverita dal benessere.


58 Felipe è quel bambino che forse non sa che esiste la televisione, chis-

sà se sa leggere e scrivere però conosce la musica del vento e della pioggia. Certamente sa accudire le pecore del suo gregge, non ha giocattoli ma, gioca anche lui come tutti i bambini del mondo. Felipe che mi ha regalato solo un sorriso per un gesto d’amore. Felipe è quella creatura che molto probabilmente rimarrà per tutta la vita in mezzo a queste montagne a continuare il lavoro duro e dignitoso dei suoi genitori. Felipe è il mio Perù. Lasciamo i bambini dopo aver fatto una foto e riprendiamo a salire mentre il cielo si fa sempre più scuro. Le nuvole cariche di pioggia si confondono con la nebbia che ormai avvolge tutto in un freddo, umido, ovattato silenzio rotto solo dal nostro respiro affannato che scandisce il procedere lento e cadenzato. Piove. Siamo costretti a coprirci con mantelle e giacche impermeabili. La pioggia in breve diventa nevischio e le macchine fotografiche finiscono al riparo, dentro lo zaino al caldo così le batterie non si scaricano. E poi con questo tempo cosa dovrei fotografare? Faccio compagnia per un bel tratto di salita a Marco e, prendendo il suo ritmo lento, recupero anch’io le forze. La carovana di muli, guidati da Britagno a cavallo dell’ambulanza, ci raggiunge e, per la seconda volta, Marco prende la coincidenza. Buon per lui e per noi che riprendiamo il ritmo perché siamo solo all’inizio di questa dura salita che porta all’ennesimo valico, la “Porta di Huayhuash”. A quota 4750 incontriamo di nuovo Felipe che, sotto la pioggia, è a guardia del gregge di pecore con un fratello e la sua mamma. Finiamo di svuotare gli zaini di quel poco da mangiare che c’è rimasto e la signora ci ringrazia con un gran sorriso. Quando le diciamo che siamo italiani, ci dice che siamo buoni e non come i ragazzi israeliani, da noi incontrati a Huayllapa. Sono passati qualche giorno fa e non hanno dato niente ai bambini. Ah, ora li ricordo. Non volevano pagare il pedaggio per il transito. Un ultimo saluto a Felipe che non incontrerò più e, fatti ancora un centinaio di metri di dislivello, siamo su al passo dove fa molto freddo. Non avendo molto da fotografare per il maltempo, proseguiamo per la lunga discesa verso il “villaggio” di Huayhuash, tre case sparse qua e là. Sinceramente non capisco come possa questo luogo dare il nome alla cordillera. Lungo la discesa ammiriamo una serie di piccoli laghi che si susseguono lungo la valle, ciascuno alimentato dall’emis-


sario di quello superiore. La vegetazione che li circonda è costituita da 59 prati verdissimi e pulvini giganteschi molto compatti. Incuriosito da queste formazioni, simili a quelle molto più piccole della nostra Majella, non resisto alla tentazione di fare qualche passo sopra di essi. Subito sento sotto gli scarponi una compattezza e un’elasticità straordinaria, unica: sembra di camminare a piedi nudi sull’arenile di una spiaggia. Laggiù all’orizzonte, verso est, si delineano altre catene montuose, mentre la situazione meteorologica peggiora. Imbacuccato nella giacca a vento, continuo a scendere nel freddo umido che aumenta ancora di più per la leggera nebbiolina che si appiccica addosso. Alle 14 siamo al campo, appena in tempo per mettere al riparo i borsoni e preparare la tenda per la notte, che una valanga d’acqua viene giù dal cielo, ma ci trova tutti al coperto nella tendamensa, cercando di scaldarci con qualche bevanda calda. Manca Marco che appena arrivato si è ficcato nel sacco a pelo a riposare. Deve recuperare un po’ di forze per la tappa di domani e per assorbire le dosi di cortisone che lo tengono ancora in piedi. Certo che non siamo fortunati con il tempo e Jacinto dice che è una cosa normale in questo periodo dell’anno, quasi a ridosso dell’inverno. Forse abbiamo sbagliato periodo? Ma ora siamo qui e anche se c’è cattivo tempo non importa. La conclusione della giornata è come le altre: riposo in tenda al caldo e, alle 19, cena con minestra di verdure, spezzatino di pollo con patate e riso, macedonia di frutta e le immancabili tisane calde. Due chiacchiere tra di noi nella tenda-mensa nella quale, dopo un po’ che ci stiamo dentro, non capiamo bene se la temperatura è aumentata per la nostra presenza oppure perché ci siamo abituati alla temperatura di 3-4 gradi sopra lo zero. Una vera cella frigorifera e quindi, prima di sentire le ossa scricchiolare o i denti sbattere per il freddo, andiamo in tenda prima del solito, alle 20.45. Ho sentito i cani abbaiare e la pioggia scrosciare per tutta la notte; mi sono girato e rigirato non so quante volte però sono riuscito a prendere sonno, ma al mattino dobbiamo alzarci e uscire dalla tenda rapidamente perché abbiamo avuto un’infiltrazione d’acqua e il catino è quasi allagato. Meno male che sta uscendo un po’ di sole. Ci permetterà di asciugarci durante la tappa di oggi giovedì 13 dicembre, la settima, che ci porterà alla laguna Carhuacocha, duecento metri più in basso rispetto alla quota dove siamo ora.


60

Partiamo alle 7.45 e subito inizia la salita, dolce, ma quassù ogni minimo dislivello è una nuova fatica da sopportare. Ci lasciamo alle spalle una valle quasi priva di presenze umane e quelle poche capanne sparse lungo il corso del fiume la rendono ancora più vasta e immensa. Lo sguardo inizia a spaziare su nuovi panorami, le valli si susseguono alle lagune e catene dolci di monti a guglie che si perdono in mezzo a nuvole bianchissime. Ogni tanto su colline fertili si intravedono povere capanne di pastori con pochi capi di bestiame pascolare nei dintorni. La salita continua piacevole, senza tanti problemi per la mancanza di forti pendenze e dopo quattro ore siamo al passo Carnicero, a 4650 metri. Scatto un’ultima foto e, dato che non siamo tanto stanchi, proseguiamo. Inizia così la lunga discesa verso Carhuacocha. Siamo fortunati, non piove, anche se il cielo è coperto e non fa tanto freddo, un paio di gradi sopra lo zero. Perdiamo quota molto lentamente fino a trovarci su una dorsale che penetra nella valle prendendo il nome dallo Yerupaja che la sovrasta. Descriverla? Non è facile, non basterebbero le parole. Forse le immagini impressionate dalla macchina fotografica potrebbero dare solo l’idea della selvaggia bellezza di questo luogo custodito da montagne dolcemente austere. La grande vastità del territorio che mi circonda merita qualche attimo di silenzio e, mentre gli altri iniziano la discesa verso il fondo della valle, rimango seduto ad osservare questa opera grandiosa del creato, modellata come le dolci arie di una sinfonia. Mi sembra quasi di sentirla. È la musica del vento.


Ora devo andare, sono rimasto un po’ indietro e i miei compagni 61 procedono velocemente lungo il tortuoso sentiero che scende con forte pendenza. Ricomposto il gruppo, puntiamo decisamente a nord passando vicino a capanne apparentemente abbandonate mentre sui muretti di pietra a secco saltellano grossi conigli selvatici. Risaliamo verso la morena formatasi con i detriti trasportati dai ghiacciai dello Yerupaja e dando vita alla laguna. Sulla sponda e nelle vicinanze dell’emissario, è già montato il nostro nuovo campo, dove staremo fermi per due giorni. La solita sistemazione delle tende, la preparazione della “camera da letto”, abbastanza laboriosa per renderla più confortevole e calda, prima di andare a fare una bella e ristoratrice lavata di piedi nelle gelide acque del lago. Peppe e io, ormai siamo diventati degli esperti. Dopo le prime notti in cui il freddo di madre terra ci entrava nelle ossa, abbiamo fatto ricorso a vari espedienti e ora è tutto collaudato e meccanico nell’esecuzione: porre tra terra e tenda le mantelline per la pioggia, stendere nel catino della tenda i nostri teli di sopravvivenza, svolgere i materassini autogonfiabili, srotolare i sacchi a pelo, collocare gli zaini al fondo della tenda dalla parte dei piedi e infine infilare nel sacco a pelo gli indumenti un po’ umidi nella speranza che si asciughino. Ah, ho dimenticato l’ultima cosa non meno importante delle altre: accendere la piccola lanterna a batterie che oltre ad indicarci nella notte buia e nera dove si trova la tenda, nel caso di una spedizione esterna per mal di pancia, serve soprattutto a me che non sopporto di dormire nel buio più profondo. Dopo aver fatto tutte queste consuete operazioni, abbastanza velocemente per il freddo e l’umidità, andiamo a riscaldarci nella tenda-mensa con qualche tisana ben calda, giusto premio dopo una tappa che non è stata niente male. Abbiamo percorso circa 20 km in sette ore e mezza di cammino, quindi ci voleva proprio un riposo di due giorni e, mentre stiamo “tranquillamente” ri-


62 focillandoci con una gustosa merenda, il tempo peggiora. Una violen-

ta grandinata si abbatte sulla zona. “CHE CULO”, chiedo scusa, che fortuna abbiamo avuto, ci siamo salvati appena in tempo. I chicchi di grandine sono grossi come noci e appesantiscono il tetto della tenda che in alcuni punti si carica fin quasi a strapparsi. Facciamo tutti quanti il possibile per spingere i ristagni verso l’alto, facendoli defluire sui laterali e fino a terra, mentre sul pavimento iniziano a formarsi delle pozzanghere. Meno male che gli scarponi non me li sono tolti. Sono le 16.30 e sembra che la bufera si sia attenuata anche se continua a piovere, però la temperatura si è abbassata di parecchio e non ci si vede quasi più quando Jacinto ci porta le lampade a gas che di solito accendiamo per la cena. Peppe fa una ricognizione alla tenda per vedere se ci sono infiltrazioni; siamo fortunati, sembra che non ci sia acqua nel catino e speriamo che la situazione meteorologica non peggiori in questi ultimi tre giorni di trekking. Passiamo tutto il resto del pomeriggio nella tenda-mensa a scaricare acqua dal suo tetto e così tra una considerazione, una storiella, uno sbattere di piedi e di denti per il freddo, arriviamo alle 19. È l’ora della cena e per cominciare ci riscaldiamo subito con due bei piatti di minestra calda che il buon Edwin ci porta uno alla volta dalla tenda cucina coprendoli con un coperchio per non farli raffreddare e riempire della pioggia che continua a cadere copiosamente. Stasera anche tagliatelle con la panna e wurstel in padella, che però io preferisco non mangiare anche perché non mi piacciono, tanto c’è chi se li mangia: Lucio, che Dio lo benedica, sembra avere due stomaci. È veramente una situazione inimmaginabile e quando la racconterò chissà se mi crederanno: a 4100 metri di quota, sotto una pioggia che cade ormai da quattro ore, freddo bagnato e umido, qualche grado sotto lo zero, noi attrezzati con abbigliamento tecnologico che si potrebbe anche salire su un 6000 innevato, gli amici peruviani con scarpe da tennis e sempre la stessa felpa, non uno straccio di giacca impermeabile, non dico di goretex, come le nostre, e noi che veniamo serviti a tavola come in un hotel a 5 stelle. Loro stanno lavorando, questo è vero, e da questa spedizione trarranno il loro “giusto guadagno”, ma noi dobbiamo essere loro grati perché non ci fanno sentire la mancanza di quelle cose a cui non sappiamo rinunciare: cortesia, disponibilità e grande professionalità. In cucina, per esempio, sono insuperabili sotto la guida di Jacinto che, oltre a fare il muratore a Huaraz, è anche cuoco in un ristorante.


Durante la notte ha continuato a piovere ma qualche ora di sonno so- 63 no riuscito a farmela. Al mattino usciamo dalle tende con calma, tan-

to oggi non si cammina, stiamo fermi qui a riposare a goderci lo Yerupaja che si riflette nella laguna. Colazione con cappuccino, plumcake fatto al momento e con miele spalmato sopra, pane con marmellata di mirtilli e succo di arancia. Comincia bene la giornata e visto che Marco ha poltrito un po’ in tenda per recuperare le forze, gli prepariamo il tavolino della colazione sul prato, al cospetto di tanta grandiosità, con sopra tutto il ben di Dio che hanno preparato stamattina anche a noi. Quando Marco esce dalla tenda è lusingato per la bella sorpresa che gli abbiamo preparato e si ritrova protagonista di una scena, con noi tutti intorno, sul palcoscenico più straordinario del mondo. Edwin, con il mio asciugamani bianco appeso al braccio a modo di cameriere di ristorante, gli serve il plumcake ancora caldo e Marco, apprezzando tutto ciò con un gran sorriso sul suo bel faccione con barba lunga, ci rassicura sulla sua salute. Sta decisamente meglio e domani starà in forma per un’altra tappa.


64 Oggi è il 14 dicembre, venerdì, e da quello che abbiamo saputo, gli

amici peruviani ci stanno preparando una festa: vedremo. La mattinata passa piacevolmente risistemando le cose nel borsone, facendo pulizia personale, chiacchierando e osservando i peruviani che preparano l’agnello da cuocere sulle pietre roventi. La necessità di sgranchirmi le gambe mi spinge ad attraversare l’emissario in un punto guadabile e a risalire la collina opposta dalla cui sommità godo di una panoramica vista sulla laguna e il riflettersi delle montagne nelle sue acque, rende tutto ancora più suggestivo. Dalla parte opposta della laguna si intravedono nuclei sparsi di capanne abitati continuativamente durante tutto l’anno. Ad uno di essi è salito ieri, appena siamo arrivati al campo, Britagno a chiedere se avessero della birra di cui solitamente sono provvisti; ma, purtroppo per noi che volevamo dissetarci con un bel bicchiere di birra, non essendo questa la stagione adatta per fare trekking, siamo rimasti con la gola a secco e la voglia è aumentata ancora di più. Ma giù al campo c’è un gran fermento; mi conviene scendere per non perdermi niente. Al rientro mi mettono al corrente che è arrivata la birra: una bottiglia a testa. Ma, da dove arriva? È un miracolo? Certo che è un miracolo. La signora della capanna a cui Britagno si era rivolto ieri pomeriggio, è scesa al più vicino villaggio, che si trova a più di 5 ore di cammino, ad acquistarla per noi. È ripartita all’alba dal villaggio con il suo carico ed è arrivata da poco con i suoi due ragazzi. Quanto costa una bottiglia di birra da noi? Il giusto prezzo al supermercato, non in birreria. Ebbene a noi è costata tanto quanto viene venduto al supermercato: 8 Sol a bottiglia, che equivalgono a 2 euro e mezzo. Certo è che in un rifugio sulle dolomiti una lattina di birra non costa meno di 3 o 4 euro e viene portata in quota con teleferica o elicottero. Invece qui, dopo 10 ore di cammino e a questa altitudine? Basta, ogni riflessione è superflua. Ma torniamo ai nostri amici che, dopo aver scavato una buca, hanno fatto una specie di fornetto chiudendo tre lati con delle lastre di granito messe di taglio e ricoprendolo con un’altra che funziona da base di appoggio per grossi e levigati ciottoli che sono stati raccolti sulle rive della laguna. I ciottoli sono stati accatastati a modo di omino di pietra e all’interno del fornetto viene acceso il fuoco alimentato con sterpi e fascine di giunco reperiti nei dintorni da Louis e Elias e mentre Juan e Britagno alimentano il fuoco che deve riscaldare i ciottoli, Jacin-


to e Edwin, dopo aver ucciso una pecora acquistata ad un pastore nel- 65 le vicinanze, stanno preparando il pranzo nella tenda cucina. Per un paio d’ore il fuoco viene alimentato continuamente. È quasi mezzogiorno quando, dopo aver constatato che i ciottoli sono abbastanza caldi, Jacinto e Juan demoliscono la base su cui essi stanno accumulati, facendoli cadere al posto dove prima veniva alimentato il fuoco. Una parte di ciottoli roventi funzionerà da base di cottura mentre altri sono stati spostati con grossi bastoni e parcheggiati intorno a questa cucina all’aperto. Jacinto mette le porzioni di pecora, avvolte una ad una con la carta stagnola, in mezzo ai ciottoli caldi e li ricopre con altri.

È la volta delle patate che vengono messe in mezzo ai ciottoli e di nuovo altri ciottoli a cui segue una copertura di paglia in mezzo alla quale viene messa una bella quantità di fave con la buccia. Fatta questa montagnola, molto velocemente per non far perdere calore ai ciottoli, il tutto viene ricoperto da teli impermeabili a cui segue un’ennesima copertura con zolle di terra e erba. Meraviglia, curiosità ed emozione hanno accompagnato la mia partecipazione ad un rito che mi ha riportato indietro nel tempo, a quel tempo in cui Gesù predicava in Palestina, quando l’agnello veniva cucinato in questo stesso modo. È stata la conferma della grande religiosità e dell’attaccamento alle antiche tradizioni del popolo quechua. Ricordiamo questa giornata speciale con una foto a cui si uniscono i tre bimbi giunti al campo con la signora della birra, la loro mamma, che continua a sferruzzare una maglia di lana. Mangeranno qui al campo con noi, ma prima del pranzo


66 doniamo loro le nostre razioni di viveri ed io,

rovistando nello zaino, anche le ultime due confezioni di miele che mi sono portato dall’Italia. Approfitto di questo momento di aggregazione per donare ai tre bambini, a Jacinto e company, lo stemma di stoffa della mia sezione CAI, così un simbolo di ciò che rappresento rimarrà su queste montagne. Nel frattempo una leggera nebbia si addensa sulla laguna nascondendo alla vista la catena dei monti che ci circondano e inizio a sentire anche un certo appetito. Con calma prendiamo posto nella tenda intorno al tavolo già apparecchiato e su cui si riconoscono alcune bottiglie di quella birra tanto desiderata da ieri. Ci viene servito un piatto ricolmo di carne di agnello e pollo, fave e patate, e un altro di insalata con lattuga, rape rosse e cetrioli, impreziosito da un pomodoro finemente intagliato. Un pranzo degno del miglior ristorante di città, ma con una sola fondaI primi ceppi di vite furomentale differenza: siamo in mezzo alla natuno portati dalle Isole Cara, tra le montagne, a 4000 metri di quota, e narie a Ica nel 1551 e non è poco. crebbero rapidamente Trascorriamo il primo pomeriggio chiacchietra le calde valli della corando tra di noi e, per digerire e scaldarci persta e del deserto. Lì s’inché la temperatura sta scendendo. Ha ricocominciò a distillare minciato a piovere e sorseggiamo un bicchieun’acquavite di grande sapore, aroma e corpo rino di pisco. che prese il nome di PiÈ inutile uscire fuori a bagnarci per andare a sco, dal nome del porto stenderci in tenda, rimaniamo qui fino alla ceda dove partiva verso le na trascorrendo il tempo tra una partita a caraltre colonie ispaniche. Il te e un caffé caldo. Stare fermi, però, mi fa Pisco è la bevanda nasentire ancora di più freddo e non so quante zionale del Perù. volte ho fatto il giro del tavolo o messo la testa fuori nella speranza che spiovesse. Due piatti di zuppa calda e a letto alle 21; questa sera non ho voglia di uscire. Avrò mangiato un po’ troppo? Sta di fatto che durante la notte sono costretto ad usci-


re fuori dalla tenda, dopo essermi rivestito completamente, per un for- 67 te mal di pancia, ma in compenso, come mi successe in Nepal alle falde dell’Everest, mi ritrovo nel mezzo di un miracolo. Migliaia di stelle riflettono la loro fievole luce nella laguna. Tante piccole fiammelle ballano sopra la leggera increspatura delle acque come i lumi accesi su minuscole zattere, fatte di foglie di fico, e donate alla corrente del sacro fiume Gange durante la ricorrenza della purificazione. Mi basta alzare lo sguardo verso il cielo per rimanere inebriato per tanta magnifica delicata bellezza. Rimango seduto su una roccia per qualche tempo, non so quanto, e solo il freddo intenso che mi scende lungo la schiena mi riporta alla realtà facendomi tornare verso il campo con attenzione a non inciampare nelle corde di tensione delle tende. L’alba mi trova addormentato e ci vuole un po’ di coraggio ad uscire fuori dal tepore del sacco a pelo. Forza! in piedi, anzi seduto per la vestizione. Svuotata e smontata la tenda, sistemati i borsoni che vengono caricati sugli asini e dopo l’abbondante colazione simile a quella che faccio sempre a casa, frittata con formaggio e wurstel, marmellata di mirtilli sul pane e camomilla calda, siamo pronti per questa tappa che ci porterà a Mitacocha. È sabato 15 dicembre, 11 giorni che non ho notizie da casa. Alle 7.40 partiamo aggirando la laguna sulla parte destra e gradualmente saliamo per canaloni erbosi a fianco di fattorie – granja – in cui allevano bestiame: mucche, asini, maiali e animali da cortile. Immancabilmente, al nostro passaggio, mamme e bambini si affacciano ai muretti di pietra a secco eretti a protezione di piccole proprietà espropriate ai latifondisti e consegnate ai contadini con l’avvento al potere del generale Velasco, divenuto presidente con il colpo di stato del 1968.


68

Velasco nazionalizzò le banche e i giornali, confiscò gli impianti petroliferi e le miniere, sollecitò la partecipazione operaia e appoggiò i paesi del Terzo Mondo contro l’avanzata del gigante americano. Ma una dittatura resta sempre tale: la restrizione delle libertà, il controllo delle università, i metodi repressivi e soprattutto la corruzione, portarono ad un nuovo golpe militare nel 1975 ad opera del generale Bermùdez. In quegli anni una nuova inquietante fase si stava delineando: nelle Ande centrali prendeva corpo Sendero Luminoso, movimento maoista dai tratti terroristici, incentrato sul culto del leader e privo di riguardo per i civili. Parallelamente, un gruppo ribelle di ispirazione guevarista raccoglieva adesioni e piazzava avamposti a Lima e nella foresta: il Movimento Revolucionario Tupac Amaru (Mrta). Tupac Amaru fu l’ultimo sovrano inca che regnò fino al 1572, quando venne fatto prigioniero dalle truppe spagnole e decapitato nella piazza di Cuzco. Fu il protagonista della fase finale di una resistenza degli incas all’autorità coloniale, iniziata nel 1537 con la fuga del padre, Manco Capac II, nella città di Vilcabamba. Il nome dell’eroico ultimo imperatore inca fu riadottato nel 1780 (con l’appellativo aggiuntivo di II) da parte del peruviano Josè Gabriel Codorcanqui, capo degli indios quechua, durante l’assedio di Cusco contro la dominazione spagnola, assedio fallito e conclusosi con la cattura e il supplizio del rivoluzionario (1781). I presidenti degli anni 80 risposero alla sovversione con una repressione cieca e inefficace, che spesso portò al massacro di civili inermi. Il Perù sprofondò nella depressione economica, nel terrore e nell’instabilità sociale. L’esodo della popolazione dalle zone calde del terrorismo portò sempre più i disperati, in massima parte contadini delle montagne, ad ammassarsi nella periferia delle grandi città, andando così ad accrescere i già popolosi pueblos jovenes, i distretti dei poveri. Con l’elezione di Alberto Fujimori (presidente di origine giapponese ma nato in Perù – 1990/2000) si registrarono arresti eccellenti che decapitarono

Torniamo al nostro cammino e alla salita che non ci impegna molto. Ci lasciamo alle spalle i picchi e i ghiacciai dello Yerupaja e scopriamo l’altro versante molto più dolce quando, alle 10.10, arriviamo al passo Carhuàc a 4650 metri. Siamo andati come fulmini e io non mi sono nemmeno accorto della strada percorsa. Non ci fermiamo, proseguiamo fino a ricongiungerci a Marco che ci ha preceduto, a cavallo di Lobito, con Edwin. Una breve sosta per poi riprendere verso la nuova vallata.


i vertici di Sendero Luminoso e di Mrta. Il paese tirò un sospiro di sollievo. 69 Ma non sapeva che dietro gli arresti c’era quella che venne definita la “guerra di bassa intensità al terrorismo”, una lotta sporca, macchiata da stragi, metodi repressivi e illegali, regimi carcerari disumani; mentre la corruzione nelle alte sfere della politica e dell’esercito si estendeva a macchia d’olio. Fujimori per dieci anni ha tenuto le redini del potere con la complicità del suo braccio destro Vladimiro Montesinos, che corrompeva funzionari e militari, credendo di tutelarsi con i filmati della consegna delle tangenti. Ma quegli stessi video che tanto lo rassicuravano, hanno segnato il suo declino. Proprio la diffusione di uno di quei video lo ha incastrato e ha fatto aprire gli occhi al paese. Montesinos è finito in carcere e il presidente è scappato in Giappone e continua a trincerarsi dietro quella cittadinanza che un tempo negava. Il Giappone lo protegge e ne rifiuta l’estradizione. La sua prolungata dittatura si è retta sulla base di violenza, illegalità e corruzione tanto che non si è ancora potuto calcolare l’ammontare dei capitali trafugati. Alla fuga di Fujimori è seguito un governo di transizione, che ha parzialmente depurato esercito e Stato e ha istituito una Commissione della Verità per indagare sulla violenza politica tra il 1980 e il 2000. Risultato: 69.280 morti. Il 54% delle vittime imputabile a Sendero Luminoso, il 33% a esercito, marina e polizia, l’11,5% ai paramilitari e l’1,5% al Movimento Revolucionario Tupac Amaru che qui, sulla Cordillera delle Ande, dove stiamo transitando noi, seminò morte e distruzione. Le poche famiglie di etnia quechua che sono riuscite a scampare alle scorribande dei terroristi, rimanendo su queste montagne, oggi devono lo stesso combattere una guerra ancora più difficile contro l’isolamento e la povertà.

Incrociamo 4 ragazzi di nazionalità belga con guida peruviana che fanno lo stesso percorso che stiamo concludendo noi ma, in senso contrario. Veramente siamo noi che lo abbiamo fatto in senso contrario, ci spiega Jacinto, perché la maggior parte delle guide consigliano di effettuare il trekking dell’Huayhuash con partenza da Quartelhuain e non da Pocpa o Llamac come abbiamo fatto noi, cioè in senso orario. Però c’è una ragione ben precisa se abbiamo scelto di farlo all’incontrario. Anche se i dislivelli sono sempre gli stessi, le salite ai passi han-


70 no percentuali differenti di pendenza a seconda del senso di marcia,

e noi, cioè il nostro capo spedizione, Bruno, ha preferito affrontare i passi dai versanti con più pendenza ma più brevi per il cammino da fare così da avere lunghe ma defaticanti discese per arrivare ai vari campi. Lungo la discesa abbiamo la fortuna di poter osservare una famiglia di grossi scoiattoli, viscacha nella lingua quechua, e il volteggiare di tre condor che, sfruttando le correnti ascensionali, riescono a rimanere in quota solamente dispiegando le grandi ali. Il CONDOR DELLE ANDE, Vultus gryphus, è considerato uno degli avvoltoi del Nuovo Mondo, è uno dei più grandi uccelli volatori e il più grande uccello da preda (con un’apertura alare di oltre 3 m. e il peso di 11-15 kg). Il condor delle Ande è per lo più stanziale, anche se alcuni individui compiono degli spostamenti considerevoli. Il suo volo è lento, imponente e maestoso con le ali rettangolari ed il collo steso in avanti per la ricerca di cibo. Le grandi e lunghe ali fanno del condor un maestro del volo planato o veleggiato. Chiaramente per questa tipologia di volo necessitano aree aperte, prive di alberi e molto calde, così da creare delle correnti ascensionali, “termiche”, che favoriscono il volo con un minimo dispendio di energie. Questo uccello utilizza rocce elevate per nidificare e per posarsi e aree aperte per nutrirsi. Il suo habitat è quindi rappresentato da alte montagne rocciose con canyon che possono andare dai 1800 ai 5200 metri. Solitamente il condor è silenzioso, ad eccezione del periodo riproduttivo durante il quale emette dei richiami sessuali. La deposizione delle uova avviene tra febbraio-giugno in Perù, tra settembre-ottobre in Cile e tra aprile-dicembre in Colombia. Si nutre principalmente di carogne di guanaco e di bestiame che spesso trovano la morte nell’impervio ambiente andino oppure di nuovi nati.

Ci godiamo lo spettacolo mentre continuiamo a scendere passando sotto alte cascate che compiono un salto impressionante e strapiombante da pareti di roccia scura, dando vita a un arcobaleno e a nebulose che si disperdono trasportate dal vento. Vengono giù dalla laguna che si forma sull’altopiano superiore ma in questa stagione sono povere di acque e provo a immaginare come saranno a primavera quando inizia il disgelo. Prima di iniziare la ripida discesa che porta giù nella valle, tutto ciò che mi circonda merita una tranquilla osservazione e de-


scrizione. Dal cromatico susseguirsi di prati lungo la piana del rio Mi- 71 tucocha incisa da profondi e sinuosi corsi d’acqua, ai pendii erbosi che risalgono fino alle pareti rocciose che, come cattedrali, si elevano a protezione di nevai perenni. Dai picchi vertiginosi di Jrichanca, Rondoj, Chico e l’onnipresente Yerupaja, che duemila metri più in alto domina tutto, al vento che spazza via le nuvole che ci hanno accompagnato per parecchi giorni. Dal cielo improvvisamente divenuto azzurro, al caldo tepore del sole che irradia di luce viva tutta la valle. Che spettacolo! E come posso trovare il coraggio di alzarmi dalla poltrona erbosa in cui sono letteralmente sprofondato rimanendo estasiato di fronte alla semplice e meravigliosa rappresentazione del creato? Come posso non immaginare di vivere in questo angolo di naturale e selvaggia bellezza per tutto il resto dei miei giorni? Come posso non pensare ai bambini di queste montagne padroni e gestori della propria povertà ma custodi di un ambiente ancora incontaminato? Ma non posso rimanere qui a pensare: devo andare. Scendiamo al campo lentamente gustando fino all’ultimo lo scenario che ci circonda. I peruviani hanno già montato il campo e ci accolgono con la ormai consueta merenda: infuso di foglie di coca con biscotti, pane con salame e formaggio. Ci viziano e sono fantastici per la loro disponibilità. Dopo tanti giorni di cammino anche se sono un po’ stanco, anche se abbiamo superato ben otto passi, tutti intorno ai 5000 metri, anche se ho dormito pochissimo, confesso che la gratificazione è grande. L’impegno e lo sforzo fisico sono stati grandi e meno male che la preparazione fatta prima della spedizione e l’assunzione programmata del Diamox, farmaco utile e indispensabile per poter vivere a queste quote, hanno dato i loro positivi risultati. Più importante di impegno e forza, però, è la volontà che spinge l’uomo a mettersi continuamente in gioco, in discussione e, per quanto mi riguarda, se non avessi avuto l’appoggio della mia famiglia che ha


72 sempre condiviso questa mia passione, che non mi ha mai posto dei

veti, forse non starei qui a raccontare. Forse, questo è l’ultimo trekking che faccio senza Wanda, la mia compagna di vita. Forse, sceglierò altri percorsi con meno difficoltà e dislivelli e potrà venire anche lei. Chissà! Il pomeriggio trascorre piacevolmente facendo prima una passeggiata lungo il rio Mitucocha e per praterie, poi intrattenendoci con i peruviani al riparo dal vento dietro la tenda-mensa. Al di là del rio transita una piccola mandria di cavalli governati da due cavalieri nella direzione del fondo valle; uno di loro si stacca, guada il rio e si avvicina al campo. I cani abbaiano e il nostro cavallo, che non si chiama Lobito, ma Gatito, s’imbizzarrisce per la presenza della cavalla femmina e comincia a fare il matto. Sfugge al controllo di Britagno che è costretto a rincorrerlo quasi perdendosi alla nostra vista dietro una collinetta erbosa. Edmundo, così si chiama il simpatico personaggio, parla molto velocemente con Jacinto e gli altri peruviani e capiamo che si conoscono per essersi incontrati già altre volte. Ha il viso abbronzantissimo, bruciato dal sole, indossa una giacchetta stretta a due spacchi di color marrone, pantaloni sudici e rattoppati, cappello a falde larghe guarnito da un vistoso nastro di raso rosso e ha un gran mal di denti, un molare da estrarre. «Bueno italiani – ci dice chiedendo ad ognuno il nome e aggiungendo l’interrogativo – Tu dentista?» – Purtroppo nessuno di noi è medico e solo Marco è infermiere professionale. Possiamo alleviargli il dolore dandogli della Tachipirina. Meglio che niente. Si trattiene ancora una mezz’oretta e poi, montato di nuovo a cavallo, si allontana in direzione della sua mandria. Nel frattempo, Britagno è riuscito a recuperare e quietare Gatito e rientra al campo, mentre la temperatura si è abbassata di molto per il vento che aumenta sempre più di intensità e il sole sta ormai tramontando. Dobbiamo rafforzare i tiranti delle tende e appesantire i laterali con grosse pietre per contrastare la forza del vento e dormire più tranquilli. Prima di cena, mi infilo nel sacco a pelo a riscaldarmi così ne approfitto per scrivere ancora questo mio taccuino di viaggio. Domani, se Dio vorrà, appena saremo rientrati nella caotica Huaraz, telefonerò a casa. Ho bisogno di risentire la voce dei miei cari. Questa sera è l’ultima volta che ceniamo nella tenda-mensa e visto che il forte vento


gelido si intrufola da tutte le parti, penetrando anche nelle ossa, una 73 bella minestra calda è quello che ci vuole per scaldarci. Ma, anche un bel piatto di spaghetti al ragù di carne e per concludere un dessert, serve ad aumentare le calorie e favorire una buona nottata. Facciamo una raccolta tra di noi e mettiamo insieme circa 500 Sol che doniamo a Jacinto e ci ripromettiamo di lasciare ciascuno di noi qualcosa ai nostri amici. Ho notato che sono male equipaggiati e mi si è stretto il cuore quando, durante una tappa piovosa, Edwin non aveva una copertura idonea e impermeabile. Quindi posso lasciare, senza tanti ripensamenti, ciò che per me è superfluo o che posso permettermi di riacquistare: sacco a pelo, telo di sopravvivenza, pantaloni antipioggia di goretex, sottopile, scodella con piatto e posate e la mia giacca di goretex che mi ha accompagnato sul Bianco, sul Rosa e al Campo Base dell’Everest. Ci ero affezionato ma a Edwin, a cui l’ho promessa, sarà più utile; io ne ho un’altra. Ah, dimenticavo: Edwin studia all’università di Huaraz e presto prenderà la laurea in ingegneria mineraria. Peccato che questa bellissima esperienza sta per finire. Peccato, perché mi mancherà un po’ tutto di ciò che ho visto, assaporato, gustato. Mi mancherà questo freddo intenso, la voce del silenzio e la musica del vento, il rumore del ruscello che scorre e il battito del cuore che si è emozionato ad ogni nuovo orizzonte. Mi mancheranno le verdi valli, le dolci colline e le superbe vette innevate. Mi mancheranno, forse, anche lo scomodo dormire per terra e i lunghi dialoghi con Peppe dentro la tenda. Mi mancheranno, la pioggia e la neve, le albe e i tramonti. Mi mancheranno gli amici peruviani, i bambini delle Ande. Mi mancherà Felipe e avrò nostalgia di tornare. Domenica 16 dicembre. Ho anche dormito e il chiarore dell’alba, seguito dalla calda luce del sole, illumina la tenda; il vento è scemato ed io devo uscire, devo preparare il bagaglio. Al campo sono saliti, da una capanna più a valle, due bambini con il loro papà in cerca di qualcosa da mangiare e noi non potevamo cominciare meglio la giornata se non donando parte delle nostre razioni di viveri, tanto abbiamo fatto già colazione e la tappa di oggi dovrebbe essere breve. Sono le 7,10, partiamo e subito affrontiamo la salita che porta al passo Cacanan risalendo il sentiero che domina dall’alto una vallata ricca di lagune, due superiori nel mezzo di circhi glaciali, ed altre poste più


in basso che sono alimentate da sorgenti termali alcune delle quali a base ferrosa. La valle assume varie colorazioni che vanno dal verde intenso dei pascoli al marrone rossastro della terra vicino ai corsi d’acqua emissari delle lagune. Questa è una zona più frequentata per la vicinanza dei villaggi. È ricca di pascoli e le mandrie di cavalli e mucche pascolano liberamente. Durante la salita incontriamo dei contadini a cavallo che scendono dal passo e ritornano ai loro villaggi con le provviste. Il sentiero sale ripido e sinuoso sotto alte pareti di roccia che appaiono invalicabili. Ma dove sarà il passaggio? Cerco di inquadrarlo con meticolosa osservazione: non ci riesco. La nostra carovana di asini ci supera; la vediamo allontanarsi su per i tornanti e perdersi su qualche cengia. Riappaiono, lassù, per un breve tratto e poi si perdono definitivamente alla vista. Transita anche Britagno a cavallo rimanendo a contatto in caso di necessità ma, oggi Marco sta molto meglio e credo che ce la metterà tutta per superare a piedi l’ultimo valico. Lentamente, senza strappi, ma con passo regolare e continuo guadagnamo metri in altitudine e alle 9.45 siamo ai 4750 metri del passo Cacanan. Ancora una volta, con la mia macchina fotografica, sono padrone assoluto di ciò che mi circonda. Non voglio perdermi niente di tutto ciò che riesco ad inquadrare anche se il valico è spazzato da un forte vento gelido che contribuisce ad abbassare ancora di più la temperatura.


Facciamo gruppo velocemente per un’ultima fotogra- 75 fia tutti insieme e iniziamo la ripida discesa in questa nuova vallata, verso la polverosa carretera che risale il versante opposto. Giungiamo a Quartelhuain, quattro case sparse qua e là a 4150 metri di quota, proprio mentre arrivano, in una nuvola di polvere, i due pulmini che ci riporteranno a Huaraz. Sono le 11.30 e si conclude il trekking, il mio trekking perché mai come adesso che è finito lo sento tutto e interamente mio. Sarà stato per la gran fatica che ho provato durante il cammino e che mi ha fatto agognare questo ritorno alle comodità, ma nessuno potrà dirmi “chi te l’ha fatto fare” perché ad ogni fatica, anche la più dura, segue la gratificazione. Nessuno potrà mai capire la sensazione di solitudine e di libertà che ho assaporato. Nessuno potrà carpirmi le immagini di maestosità dei paesaggi, la bellezza delle alte vette innevate, dei ghiacciai e le mani tese di Felipe, perché rimarranno indelebilmente impresse nella mia memoria e nel mio cuore. Ancora un’occhiata a questa valle sperduta nel cuore delle Ande prima di ringraziare e abbracciare Louis, Elias e Britagno con il suo cavallo Gatito e i 16 asini che ormai sono a casa perché riscendono a Pocpa, a solo quattro ore di cammino e, saliti in macchina, partiamo.


76 Gli autisti hanno deciso di fare un’altra strada per rientrare a Huaraz e

non quella fatta il 4 dicembre. Infatti andiamo nella parte opposta. Risaliamo la sterrata, percorsa soprattutto da grossi camion delle tante miniere della zona, fino a superare, dopo strettoie e tornanti su precipizi mozzafiato, il passo Cuncush a quota 4700 mentre una bufera di neve rende ancora più avventuroso il viaggio. Dopo alcuni saliscendi in mezzo a desolate praterie ne superiamo un altro e sempre a 4700 metri. Queste altitudini non vogliono lasciarci andare o siamo noi che vogliamo restare quassù? Provo a riaccendere il cellulare, chissà se la fortuna mi assiste. EUREKA! C’è linea, finalmente. Faccio subito il numero prima che la batteria, tenuta in caldo per tanti giorni, si scarichi. Risento la voce dei miei cari e tutta la stanchezza svanisce. Fortunatamente stanno tutti bene e sono contento che mamma rimarrà qualche giorno a casa mia aspettando il mio rientro per Natale. Apprendo con meraviglia che ad Ortona è nevicato. Che strano, proprio quando non ci sono io, nevica al mare. Il viaggio è lunghissimo e poi questa sterrata spaccaossa e polverosa non finisce mai. Nessuno dorme perché dobbiamo tenerci fra di noi per i troppi sobbalzi e poi l’autista è uno spericolato. Finalmente rimettiamo a posto i glutei sull’asfalto della carretera e posso cominciare a pensare alla lunga doccia che farò non appena rientro in albergo. Al posto di controllo della polizia, all’ingresso di Huaraz, ci fermiamo per la mancanza del permesso necessario al trasporto di civili in città. Scendiamo un centinaio di metri prima del posto di blocco e l’autista ferma un pullman, parla con l’autista, penso che gli spieghi la situazione, saliamo a bordo di quest’ultimo e ne scendiamo poco oltre e lontano dalla vista della polizia. Risaliamo sul nostro pulmino che finalmente ci scarica, alle 17.30, davanti al EL PATIO, il nostro albergo a Monterrey di Huaraz, dove è già arrivato il pulmino dei nostri bagagli con Jacinto, Edwin e Juan. Cinque ore e mezza per fare meno di 200 km, però che avventura, è stata divertente. Riabbracciamo Marisa, Paola e Bruno che godono di ottima salute e, dopo qualche racconto reciproco, finalmente la doccia caldissima e lunghissima. Dopo tanti giorni rannicchiati su instabili sgabelli finalmente, a cena, mi siedo su una sedia, intorno


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ad un tavolo vero. Ci servono spaghetti aglio e olio, non come quelli che cucini tu Wanda, trota panata e fritta, una vera bontà da queste parti, con contorno di puré di patate e un buon bicchiere di vino per brindare al nostro rientro. Il caldo del caminetto acceso ci invita al racconto ma, per non perdere le buone abitudini dell’alta quota, alle 21.30 andiamo tutti a dormire e questa volta in una stanza, in un letto vero. A causa del naso tappato non è che faccio una bella dormita ristoratrice, però alla sveglia di stamattina, lunedì 17, mi sento abbastanza in forma da affrontare la mattinata dedicata alla pulizia e sistemazione delle tende messeci a disposizione da una guida alpina dell’Alto Adige, amico di Bruno. Nel pomeriggio Jacinto si offre di accompagnarci a Huaraz per le ultime spese, prima del viaggio di stanotte per ridiscendere a Lima. Si respira l’aria del Natale nella Plaza de Armas, dove hanno già allestito un semplice grande presepe, e lungo l’Avenida Luzuriaga dove, oltre ai negozi addobbati, ci sono anche delle donne che vendono zolle di muschio e piccole capanne per la natività. Devo acquistare anche due borse tipicamente peruviane per riuscire a metterci dentro tutto quello che voglio riportare in Italia: dal classico poncho alla giacca di lana d’alpaca, dai tappeti coloratissimi al flauto di pan. I miei compagni rimangono sorpresi per tutta la roba che ho acquistato


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ma, a me piace ricordare ogni viaggio con un souvenir da regalare a parenti e amici. Naturalmente le più beneficiate sono Angela e Chiara, le mie due figlie. A proposito domani è il compleanno di Chiara che compie 31 anni; troverò il modo di chiamarla all’arrivo a Lima per farle gli auguri. Ceniamo presto a Monterrey in un ristorante lungo la carretera, gustando ottimi spiedini di maiale e pollo cucinati alla brace e abbondanti porzioni di patate fritte, il tutto accompagnato da bicchieroni di birra locale. Rientriamo in albergo a piedi percorrendo viuzze male illuminate e infangate per la pioggia che cade; in compenso digeriamo la non leggerissima cena e smaltiamo il principio di sbronza. Alle 21 siamo tutti pronti per la partenza e Jacinto ci accompagna alla stazione dei pullman per il viaggio di rientro a Lima. Abbiamo trascorso due settimane sulle Ande vivendo un’esperienza unica resa ancora più speciale dal rapporto d’amichevole collaborazione instauratosi con i peruviani e, in particolar modo, con Jacinto che ci ha dato una grande lezione di professionalità e umiltà. Mi dispiace partire, lasciare questo nuovo amico, ma porterò con me il ricordo del suo sorriso e la promessa che tornerò qui nella sua terra. Viaggiamo tutta la notte e alle 5.30 arriviamo a destinazione, all’aeroporto di Lima.

LIMA è una grande città, con sette milioni di abitanti, a cui ne vanno aggiunti altri sette tra sobborghi e favelas, e oltre settanta chilometri quadrati di estensione. Deve il suo nome alla parola aymara lima-limac o limac-huayta che designa un fiore giallo oppure alla parola quechua “rimac”, che significa colui che parla. Sorge sulle rive del Pacifico e fu fondata il 18 gennaio 1535 dal conquistatore Francisco Pizarro. La cosiddetta “Ciudad de los Reyes”, che sorse sulle terre del governatore indio Taulischusco, è adesso una città che unisce lo splendore del passato con l’avanzamento tecnologico dei tempi moderni, che conserva con orgoglio i suoi conventi e le dimore coloniali, simboli della sua tradizione antica e generosa. È una metropoli multietnica composta da latini e indigeni, ispanoamericani e andini, un crogiuolo di razze e di volti, l’antico e il moderno miscelati nell’assetto urbano, prima tappa e base assoluta per una visita approfondita del Perù di cui è la sintesi, poiché in sé ne racchiude tutti gli aspetti, positivi e negativi. Il suo centro storico, dichiarato Patrimonio Culturale dell’Umanità dall’Unesco, testimonianza di un’epoca ormai passata, pieno di monumenti artistici. Del periodo preispanico la città conserva il Pachacamac, il santuario più importante, votato al culto del Dio dallo stesso nome. Abbiamo troppo poco tempo per poter effettuare una visita nel centro storico e quindi preferiamo attendere in aeroporto il delle ore 13 che ci porterà a Cusco, l’ombelico del mondo, la capitale dell’antico impero Inca.


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INCA, nella lingua ufficiale dell’impero, il quechua, significa “figlio del Sole”. Originariamente era il titolo onorifico di cui si fregiavano gli antichi sovrani quando questo popolo era ancora una piccola tribù che viveva nella provincia di Cusco; poi, quando si estese il dominio dell’impero, il termine passò a indicare il popolo stesso. In Sud America o America Latina, tanto vasto, aspro e desertico, ci sono popoli che hanno caratterizzato per secoli la vita delle zone in cui hanno sviluppato le loro civiltà. Sono infatti più di 35.000 anni che giunsero su questo continente antiche popolazioni, approfittando delle interconnessioni istmiche che si erano formate nello stretto di Bering tra Asia e America in seguito all’ultima glaciazione. La presenza di insediamenti millenari basati sull’agricoltura e sulle industrie ceramiche è testimoniata da numerosi siti archeologici. Già nel primo millennio a.C. si hanno indizi di società fornite di strutture politiche e religiose, come quelle degli Olmechi in Messico e quella Chavìn, cultura madre della civiltà andina. All’epoca dell’Encuentro, nei secoli XV e XVI, nell’ambito delle società indigene profonde differenze etnico-culturali furono avvertite da parte dei conquistatori europei i quali avevano già preso contatto con popolazioni nomadi o seminomadi e con un livello culturale molto semplice, basato sulla raccolta e la caccia, sia nel bacino amazzonico sia nella Pampa e nella Patagonia. Esse coesistevano, in altre latitudini, con società agricole seminomadi e sedentarie caratterizzate da diversi livelli di complessità, come nelle isole e nei litorali caraibici, nell’America centrale e sulle Ande settentrionali, e allo stesso tempo contrastavano con altre culture evolute come quelle degli Aztechi nel Messico, dei Maya nello Yucatàn e nell’America centrale, dei Muiscas sull’altopiano di Bogotà e degli Incas sugli altipiani delle Ande centrali. La grandiosità dei nuclei urbani di Tenochtitlàn (Aztechi - Messico) e di Cusco (Incas - Perù), con i loro magnifici complessi architettonici, le piazze, i santuari, gli armoniosi monumenti, si ritrovano, in scala minore, in più di un centinaio di città di origine preispanica ed alcune di esse sono giunte fino a noi ben conservate (Palenque, Mitla, Tikal, Copàn, Chichén Itzà, Tiahuanaco e Machu Picchu).


80 GLI INCAS - Le origini della civiltà inca si perdono nella nebbia di misteriose leggende. Le informazioni storicamente fondate risalgono all’inizio del XV secolo, ma la storia degli incas inizia circa due secoli prima con la figura del sovrano leggendario Manco Càpac. Secondo la tradizione inca questi, figlio del dio Sole Inti, sarebbe stato mandato sulla Terra per fondare uno stato civilizzatore: gli studiosi, invece, lo identificano con un semplice capo clan, oppure con il capitano di una tribù forse proveniente dal lago Titicaca. Quello che è certo è che gli incas non erano originari della valle di Cusco, ma vi giunsero intorno al 1250. Le notizie sui successivi regnanti non sono certo più chiare, almeno fino al nono, Pachacùtec, il quale può considerarsi una figura storicamente identificabile, che regnò dal 1438 al 1471. Con la vittoria di Pachacùtec sul potente popolo settentrionale dei chanca, nel 1438, gli incas giunsero a ottenere il controllo sulla vallata di Cuzco, e così mentre i chimù avevano fondato lo stato più potente della zona costiera settentrionale, gli incas lentamente svilupparono la loro civiltà sull’altopiano. Dapprima regnarono solo su Cusco, poi, attorno alla metà del XV secolo, cominciarono ad assoggettare le popolazioni limitrofe che opponevano loro resistenza e alla fine del XV secolo dominavano già un vasto impero che arrivava fino alla costa e si estendeva dall’Ecuador fino al fiume Maule in Cile.

MANCO CÀPAC, IL PRIMO SOVRANO INCA - La leggenda sulle origini della civiltà inca narra che un giorno uscirono da una caverna della montagna di Tampu-tocco (“luogo delle origini”), nelle vicinanze di Paccari-Tampu, quattro fratelli: Ayar Uchu, Ayar Cachi, Ayar Auca, Ayar Manco. Il dio Sole, Inti, scese sulla Terra e, svelando ai quattro fratelli di essere loro padre, investì Ayar Manco del ruolo di guida perché andassero a sottomettere tutte le stirpi al loro dominio e trovassero una terra rigogliosa di mais dove fondare una città e un tempio da dedicargli. Dopo molte peripezie, Cachi, Huchu e Auca si trasformarono in pietre e gli ultimi due diventarono oggetto di culto (huaca), mentre Manco continuò il suo cammino accompagnato soltanto dalla sorella e sposa Mama Occlo, insieme alla quale raggiunse la valle di Huaynapata. Segni inequivocabili rivelarono che era lì che dovevano fermarsi: quindi edificarono la prima capanna di quel luogo che sarebbe diventato poi la capitale Cusco. Nella parte alta della città venne eretto anche un tempio (Coricancha) in onore del dio Inti. Ayar Manco fu dunque il primo sovrano di Cusco e, con il nome di Manco Càpac, governò il territorio, creò coltivazioni, costruì dighe e sottomise le tribù selvagge delle montagne, educando i popoli secondo i dettami del dio Inti. Alla sua morte Manco si trasformò anch’egli in pietra, oggetto di culto per i sudditi che onorarono anche Mama Occlo, come personificazione della dea Luna. Dall’unione fra Manco Càpac e Mama Occlo nacque Sinchi Rocha, che fu il secondo sovrano della dinastia degli incas, sovrano del quale i cronisti dell’epoca ricordarono il mitico governo.


PACHACÙTEC YUPANQUI, IL IX SOVRANO INCA - Pachacùtec fu uno dei so- 81 vrani inca più importanti e durante il suo regno ebbe inizio una colossale campagna di conquista. Al momento dell’incoronazione, il suo popolo non era altro che una comunità di villaggio; alla sua morte egli regnava sull’impero più potente del Sudamerica. Per primi vennero soggiogati gli stati più piccoli, situati intorno alla valle di Cusco, poi Pachacùtec riuscì a conquistare, oltre il territorio peruviano, anche zone dell’Ecuador, della Colombia, della Bolivia, del Cile e dell’Argentina. Per riuscire a controllare tutto il territorio e le popolazioni assoggettate il sovrano mise in atto diverse strategie. Innanzitutto creò un esercito formato da esponenti delle popolazioni sottomesse, comandati dagli incas, così da offrire ai popoli soggiogati la possibilità di partecipare subito ad altre conquiste. Inoltre fece trasferire intere tribù dove la popolazione era scarsa e ricorse alla deportazione per controllare le tribù ribelli. Pachacùtec costruì un’importante rete stradale, aumentando l’unità del territorio imperiale, e promosse l’adozione di una sola lingua ufficiale, il quechua. Costruì templi, osservatori astronomici, depositi per le derrate alimentari e, grazie al ricavato dei tributi versati dai popoli assoggettati, rese Cusco la meravigliosa e ricchissima città che desterà lo stupore dei conquistadores. Al tempo di Pachacùtec si fa risalire la fondazione di Machu Picchu. Si dice che sia stata fondata dal sovrano che volle usarla come insediamento prediletto della nuova nobiltà imperiale. Secondo questa interpretazione Machu Picchu avrebbe costituito una llacta, ovvero uno dei tanti insediamenti costruiti lungo il cammino reale con la finalità di controllare e amministrare l’economia delle differenti regioni conquistate, una delle città burocratiche dove risiedevano gli amministratori inca, i funzionari, i servitori e gli artigiani. Machu Picchu, in realtà era una llacta speciale, costruita in un luogo inespugnabile, in un’area di dominio personale del sovrano Pachacùtec e, quindi, dimora prediletta della casta nobiliare più scelta all’interno dell’aristocrazia inca e luogo di rifugio della élite in caso di eventuali attacchi. LA LINGUA QUECHUA, LA SCRITTURA E IL CALCOLO (I QUIPU) - La lingua ufficiale dell’impero degli incas era il quechua, termine con il quale veniva chiamata una popolazione preincaica che, dopo aver raggiunto un alto livello di civiltà, aveva subìto l’assalto decisivo proprio da parte degli incas. Questi ne avevano adottato il linguaggio che, nel 1438, per volontà del re inca Pachacùtec era divenuto la lingua ufficiale dell’impero. Questo idioma viene parlato ancora oggi da milioni di abitanti delle Ande. I simboli che gli incas usavano per comunicare graficamente, e che rendono questo popolo ancora una volta unico, erano costituiti dalle varie combinazioni di un dispositivo di cordicelle di cotone chiamato quipu. Non si trattava di una scrittura vera e propria, ma piuttosto di un sistema mnemonico.


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Il QUIPU era formato da una corda lunga una sessantina di centimetri composta da stringhe di vari colori, legate strette fra di loro. Dalla corda pendevano, come frange, cordicelle più piccole e in ognuna di queste vi erano nodi semplici o composti ad altezze determinate e di colore diverso. Il quipu era lo strumento per registrare i tributi, le leggi, i regolamenti e narrare le imprese eroiche. Veniva utilizzato anche come puro strumento di calcolo e i suoi nodi corrispondevano a numeri. Da buoni demografi, gli incas censivano in maniera meticolosa la popolazione dell’impero e, ogni anno, le stringhe colorate venivano spedite a Cusco per essere archiviate. Tutti i depositi di quipu situati nella capitale e in ogni provincia dell’impero vennero però distrutti dagli spagnoli, per smantellare definitivamente l’organizzazione e la potenza delle istituzioni inca.

I CONQUISTADORES E LA FINE DELL’IMPERO INCA - Era l’anno 1524 quando il capitano Francisco Pizarro decise di partire dalla città di Panama alla conquista di un potentissimo e ricchissimo regno di cui si era sparsa notizia dell’esistenza: il regno di Birù (o Pirù). S’imbarcò alla ricerca del leggendario oro del Sudamerica sul versante del Pacifico; avanzò lungo la costa peruviana, dove le tribù lo accolsero con varie reazioni, alcune decisamente ostili. Con il beneplacito del governatore di Panama, Pizarro continuò a fare rotta verso sud fino a Tùmbez, città inca vicino al confine con l’Ecuador. Qui trovò finalmente le ricchezze di cui aveva sentito parlare e fu ben accolto dalla popolazione, prodiga di doni per gli ospiti. Aveva trovato il leggendario “Eldorado” e, ottenuta l’autorizzazione ufficiale della corona spagnola, dopo il suo rientro a Panama, salpò di nuovo con tre navi per una nuova spedizione. Le condizioni metereologiche avverse non consentirono di raggiungere subito Tùmbez, così il capitano e la cavalleria continuarono via terra. Dopo varie sofferenze e peripezie, nel gennaio del 1532, i conquistadores arrivarono a Tùmbez. Ma la splendida città era in rovina e completamente abbandonata, la gente fuggita e gli oggetti preziosi scomparsi. Pizarro, naturalmente, era ignaro che fosse in corso una guerra civile tra i due successori al trono, Huàscar e Atahualpa, e che la città fosse teatro di cruenti scontri. Pizarro proseguì l’avanzata nelle valli a sud di Tùmbez e fondò San Miguel, la prima città spagnola in Perù, deciso a dare inizio a una vera conquista. Atahualpa provvisoriamente stabilitosi nella città di Cajamarca, a 3000 metri di altitudine, venuto al corrente della minacciosa avanzata spagnola, inviò alla spedizione messaggi distensivi e doni. Il 15 novembre del 1532 Pizarro, dopo aver valicato un difficile passo, intravide in basso la piana di Cajamarca che era già stata fatta evacuare da Atahualpa e con le sue truppe continuò l’avanzata. Atahualpa comunicò ai “visitatori” che il giorno dopo li avrebbe incontrati nella città abbandonata e gli spagnoli accettarono, intimoriti dal suo grande esercito. Pizarro preparò immediatamente il piano per la mattina seguente: sarebbe andato incontro al “sapa inca” nella piazza principale di Cajamarca, accompagnato soltanto da un monaco, padre Valverde, e da un esiguo gruppetto di uomini. Tutto il resto dei soldati sarebbe rimasto nascosto negli edifici circostanti, pronto a usci-


Il SAPA INCA - Il sovrano Inca, appellato “sapa inca”, era il capo politico, religioso e militare del regno. Era venerato come figlio del dio Sole, Inti, presiedeva alle cerimonie religiose, guidava personalmente l’esercito e viaggiava per il paese, controllando l’amministrazione con la massima severità. Il suo potere era assoluto: senza il suo assenso non si poteva costruire un solo edificio. Aveva diritto alla poligamia, ma soltanto il primogenito nato dall’unione con la sorella, solitamente la maggiore, poteva diventare il futuro “sapa inca”, successore al trono. Quando moriva, il suo cadavere veniva imbalsamato e conservato nel palazzo reale, nel centro di Cusco, dove i servi continuavano ad occuparsi di lui, portandolo per altro, una volta all’anno, in esposizione in giro per la capitale. re e ad aprire il fuoco sugli incas, non appena fosse stata pronunciata la parola d’ordine «Santiago!». Atahualpa ancora esitava sul da farsi, tormentato dal dubbio se credere alla profezia di suo padre sugli spagnoli invasori e distruttori della civiltà inca, o se pensare che si fosse avverata la leggendaria promessa del ritorno di “Viracocha”, la divinità dalla pelle bianca, creatrice dell’universo. Il 16 novembre del 1532 l’esercito di Atahualpa, XIII sovrano inca, composto da 6000 uomini, si mosse verso la città di Cajamarca. Pizarro, arrivato nella piazza principale, mandò avanti padre Valverde che pronunciò un sermone di benvenuto ad Atahualpa, mettendolo in guardia circa la falsità del suo credo e chiedendogli di abbracciare la fede cristiana. L’inca, indignato, scagliò a terra la Bibbia che il sacerdote gli aveva consegnato provocando l’intervento di Pizarro che, afferrato per un braccio Atahualpa, gridò: «Santiago!» I soldati spagnoli uscirono da ogni dove e cominciarono a sparare all’impazzata. Rimasero trucidati circa 2000 incas e Atahualpa venne catturato. Pizarro lo imprigionò, chiedendo in seguito un riscatto altissimo, impossibile da pagare; gli incas cominciarono a spogliare gli edifici del regno di tutto l’oro e l’argento per raggiungere l’ammontare pattuito di ben 6000 chili d’oro e quasi il doppio d’argento. Quando Atahualpa cominciò a sperare di essere liberato, venne condannato al rogo come eretico, il 29 agosto del 1533; convertitosi alla fede cattolica, fu comunque ucciso, strangolato a un palo in un luogo aperto. Era l’anno 1533 e moriva l’ultimo legittimo “sapa inca”.

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VIRACOCHA fu il primo dio degli incas, il creatore di tutte le cose, compresi il sole, la luna, le stelle, gli uomini e tutti gli altri dei. Il suo nome indica, non a caso, un elemento primordiale, ovvero la “schiuma del mare”. Questa divinità, secondo la leggenda, dopo aver creato l’universo, raggiunse l’oceano Pacifico e si allontanò oltre la linea dell’orizzonte con un’imbarcazione, avendo però predetto agli uomini un suo ritorno. Nel rapporto tra Viracocha e Inti, il dio Sole, la suprema divinità, è riflesso uno degli aspetti principali della religione inca, ovvero l’importanza attribuita al concetto di hanan (alto, superiore) e hurin (basso, inferiore): infatti a Inti erano legati il fuoco, l’alto, la montagna, il cielo; a Viracocha erano invece collegati l’acqua, il basso, la costa, la terra.

I SACRIFICI UMANI Gli incas adoravano il Sole (Inti) al quale offrivano talvolta, anche se raramente, sacrifici umani, solitamente un fanciullo di bell’aspetto. A differenza della simile usanza azteca, il rito inca non prevedeva che il cuore fosse strappato dal petto della vittima. Coloro che venivano sacrificati, infatti, venivano adornati riccamente, poi veniva loro somministrata una bevanda alcolica oppure allucinogeni, in grado di scatenare stati di nausea e intontimento, venivano poi strangolati o sepolti vivi.

IL TEMPO E IL CALENDARIO Nella civiltà inca il tempo veniva misurato in base alle fasi lunari; l’anno composto di 360 giorni, era suddiviso in 12 lune di 30 giorni ciascuna. I quattro giorni dei solstizi e degli equinozi rappresentavano le feste più importanti del calendario ed erano dedicate al dio Inti. Le 12 lune del calendario coincidevano con festività minori, corrispondenti agli inizi delle varie fasi della vita agricola.


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L’AGRICOLTURA E LA VITA QUOTIDIANA - La roccaforte di Machu Picchu e i ritrovamenti archeologici dei principali centri inca offrono preziose informazioni sulla vita quotidiana di questo popolo. La gran parte degli abitanti dell’impero risiedeva in modeste case a pianta rettangolare o circolare, di cui si sono conservate scarse tracce, e si dedicava all’agricoltura che era la fonte primaria di sostentamento e ricchezza. Ogni capofamiglia riceveva un appezzamento di terra, ma non ne diveniva il padrone, perché tutto il territorio apparteneva al re inca, figlio del Sole. Gli incas non conoscevano l’aratro e usavano la “tacla”, una specie di aratro manovrabile con i piedi. Gli agricoltori coltivavano soprattutto mais e patate ed erano riusciti a trasformare l’immenso e impervio territorio delle Ande in un giardino pieno di terrazzamenti e perfetti canali di irrigazione. La vita dell’impero era organizzata in base ai ritmi dell’agricoltura e tutti i lavori erano regolati dal sovrano tramite apposite disposizioni: in gennaio si doveva filare la lana; in febbraio si dissodava la terra; in maggio si raccoglieva il mais; in luglio si pulivano i pozzi dell’acqua e in ottobre si riparavano i tetti delle abitazioni. L’ALLEVAMENTO E LA CACCIA - I contadini praticavano anche l’allevamento di animali ritenuti particolarmente utili: il porcellino d’India, per la bontà della sua carne, il guanaco, il lama, utilizzati come bestie da soma, e l’alpaca, per il soffice pelo con cui le donne producevano preziose stoffe. Gli incas erano inoltre degli ottimi cacciatori. Nelle loro battute si avvalevano dell’uso di uno strumento chiamato “bolas”, un’arma da getto formata da due pietre tonde collegate da una corda molto resistente; il bolas veniva lanciato in modo tale che si attorcigliasse intorno alle zampe della preda, impedendole la fuga.


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LA PROGETTAZIONE DELLE CITTÀ INCAICHE - Gli incas ci hanno lasciato testimonianza della loro grande abilità nell’intervenire sul territorio in maniera estesa e massiccia, ma, allo stesso tempo, rispettosa dell’ambiente naturale circostante. Sembra, infatti, che essi non abbiano mai modificato, ma piuttosto esaltato il paesaggio in modo da valorizzare gli aspetti più salienti: è il caso dei terrazzamenti che sembrano scandire i fianchi scoscesi delle montagne e i contorni delle colline. D’altronde questo atteggiamento rientrava nella loro concezione di una natura sacra in ogni suo aspetto (le montagne e le rocce stesse erano considerate delle divinità denominate apu). Gli incas erano, quindi, particolarmente attenti nella scelta dei luoghi dove costruire e nel seguire precisi principi di progettazione delle città. Senza dubbio Machu Picchu è uno degli esempi più rilevanti di integrazione fra l’insediamento e il paesaggio circostante, con i suoi scorci e le sue strutture perfettamente collocate sullo sfondo di precipizi e immense aperture. Prima dell’arrivo dei conquistadores, il villaggio si estendeva da nord a sud con una larghezza di circa 500 metri. Possedeva una rete di percorsi interni scalinati che attraversavano i 12 quartieri che formavano la città alta (hanan) e la città bassa (hurin), per un totale di oltre 200 edifici; il tutto era circondato da terrazzamenti per la produzione agricola (essenzialmente veniva coltivato il mais). Il settore urbano comprendeva una grande piazza, fiancheggiata a est e ovest da gruppi di costruzioni con strade a scalinata (in tutto si contano 3000 gradini). Si calcola che gli edifici di Machu Picchu accogliessero una popolazione di circa 1000 persone. Il villaggio possedeva anche un impianto idraulico molto complesso; il sistema di distribuzione dell’acqua, tramite una fitta rete di canali, sfruttava i dislivelli naturali, passando attraverso vasche di raccolta. Una delle città più rappresentative è senz’altro Cusco, il centro amministrativo, religioso e spirituale dell’impero inca. La capitale deriva il suo nome (Cosqo) dalla lingua ufficiale degli Inca, il quechua, e vuol dire “ombelico,


87 centro”. Ai tempi della sua fondazione, ad opera del leggendario Manco Càpac, si riteneva, infatti, che si trovasse esattamente al centro del mondo. L’impianto urbanistico di Cusco stabilì un modello per gli altri centri urbani. La rete delle strade della capitale aveva uno schema a griglia, con al centro la piazza principale (huayacapata) la quale costituiva anche il centro simbolico dell’impero. Come tutte le altre città inca, Cusco era suddivisa in una parte alta (hanan) e in una parte bassa (hurin), corrispondenti alla suddivisione dei clan, inoltre era ripartita in 12 circoscrizioni e 4 grandi sezioni, rappresentanti i 4 cantoni del dominio inca. Al centro della piazza principale era situato l’usno, l’altare in pietra rivestito d’oro, adibito ai sacrifici; esso era dotato di fessure nelle quali si versava il sangue delle vittime che, attraverso canali sotterranei, arrivava al tempio del Sole (Coricancha) dove veniva consacrato. Dall’alto della muraglia di Cusco domina la fortezza di Sacsahuamàn con enormi blocchi di pietra. Essa sorge su un collinetta alta 200 metri e poiché Cusco non era fortificata, Sacsahuamàn doveva fungere sia da fortezza, sia da rifugio per la popolazione in caso di pericolo. Tre grandi mura e una fila di alte torri costituivano un ostacolo quasi inespugnabile per ogni aggressore. Osservando le rovine di Machu Picchu e di Cusco, sebbene trasformata, e confrontandole con quelle di altre importanti città andine (Ollantaytambo, a nord-ovest di Cusco, Vilcabamba, Puyupatamarca ecc.), si trovano elementi ricorrenti: la piazza principale, una piazza secondaria, le grandi sale che si aprono sulla piazza, l’usnu, il tempio del Sole e i magazzini. Gli edifici erano costruiti con materiali diversi a seconda delle zone; quando era possibile venivano scelti il granito, il basalto o il calcare, mentre nelle regioni lontane dalle montagne venivano fabbricati mattoni di creta seccata al sole. Il perfetto incastro delle pietre senza malta può essere ammirato chiaramente nelle imponenti mura di Machu Picchu e Cusco. Le pietre, di misura e forme differenti, venivano appoggiate le une sulle altre, partendo dalle più grandi per salire con le più piccole, in modo da formare una struttura armata a H o trapezoidale irregolare, avente funzione antisismica. Rimangono un mistero le tecniche di taglio, scalpellatura e pulitura, le quali davano come risultato una pietra perfettamente lavorata, e soprattutto la tecnica di trasporto di enormi blocchi fino a luoghi di difficile raggiungimento, posti spesso a più di 3000 metri sopra il livello del mare. Per il taglio delle pietre si ipotizzano tecniche che prevedevano processi in cui venivano utilizzati legni e acqua i quali, con l’umidità e con il freddo, aumentavano di volume spaccando i macigni. Per il trasporto, invece, si pensa all’uso di grandi leve o di piani inclinati lubrificati da liquidi oleosi, dato che gli incas non conoscevano l’uso della ruota. Un’ultima curiosità che vale la pena sapere su Machu Picchu e Cusco: entrambe le città sono state edificate sulle sembianze di due dei tre animali sacri degli incas, il serpente, il puma e il condor. Machu Picchu ha la forma di un condor con le ali spiegate, mentre Cusco quella di un puma sdraiato.


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90 Continuiamo il nostro viaggio.

Partiamo, siamo in volo e, dopo un’oretta, atterriamo a Cusco, posta a 3326 metri di altitudine. Con i suoi oltre 400.000 abitanti, è considerata la capitale archeologica del continente americano.

CUSCO (in quechua vuol dire ombelico del mondo) fu l’antica capitale dell’impero Inca, ed è la base di partenza per il Machu Picchu. La sua storia risale al secolo IX o XII, ma fu nuovamente fondata nel 1534 da Francisco Pizarro. Molti i resti della civiltà precolombiana: il Tempio del Sole; Il Recinto del Serpente; e ancora del periodo coloniale: la Cattedrale; la chiesa e il Convento della Mercede e il Tempio di San Blas. Splendida realtà tutta da scoprire, offre il Parco Archeologico di Sacsayhuamandi con la fortezza Sacsayhuaman, il complesso di Ollantaytambo e i pittoreschi villaggi di Pisac e Yucay che mantengono ancora le tradizioni dei loro antenati. In giugno si celebra la festa di Inti Raymi o Festa del Sole. Cusco è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità.

All’arrivo ci aspettano per accompagnarci all’albergo, “La Casona Real”, un’antica casa che risale alla colonizzazione spagnola e situata in un vicolo che da direttamente sulla Plaza de Armas. Attraversiamo tutta la città per viuzze molto strette e caratteristiche. Il tempo di sistemare i bagagli nelle rispettive camere e si parte per la visita ai vari siti storici e archeologici accompagnati da Alysia, la nostra guida per qualche giorno. Alysia è una quechua, conosce così bene l’italiano che rimango incantato dal modo in cui ci illustra i vari luoghi e capisco che ama tantissimo la sua terra, la sua storia e soprattutto le sue origini. È molto fiera di discendere direttamente dal popolo inca. È un susseguirsi di emozioni.


IL CORICANCHA, tempio del sole, sulle cui antiche fondamenta sorge oggi la Iglesia de Santo Domingo, che conserva al centro del superbo chiosco quadrato un blocco di andesite scavato a forma ottagonale. Raccoglieva il sangue delle vittime sacrificate a Inti nella Plaza de Armas con un sistema di canali sotterranei. Per il popolo inca, questo è l’ombelico del mondo. Il sito archeologico di Sacsayhuaman, 200 metri sopra Cusco, la cui costruzione richiese circa 67 anni e l’impiego di ventimila operai che utilizzarono enormi blocchi di porfido e di andesite, alcuni dei quali alti fino a 8 metri e del peso di decine di tonnellate, servendosi di piani inclinati e rulli, squadrando le pietre in modo tale da farle aderire perfettamente le une alle altre e senza malta. Una grandissima e straordinaria opera di ingegneria, una delle più notevoli costruzioni inca. Il tempo di fare un po’ di shopping addentrandoci nelle antiche vie di Cusco alla ricerca dei tradizionali presepi in miniatura o di qualche tipico strumento musicale. Resto incantato dalla bellissima Plaza de Armas, considerata una delle più belle del Sudamerica. Vi si affacciano la cattedrale dedicata alla Virgen Immaculada, detta La Linda patrona di Cusco, costruito sul luogo dove sorgeva il palazzo dell’Inca Viracocha, utilizzando le pietre di Sacsayhuaman, in stile gotico rinascimentale, come le importanti cattedrali spagnole del XVI secolo; la chiesa della Compagnia di Gesù edificata dai gesuiti dove un tempo sorgeva l’Amarucancha, palazzo dell’Inca Huayna Capac, padre di Athaualpa, e ricostruita dopo il terremoto del 1650. La Plaza de Armas, la piazza principale di Cusco che al tempo degli inca era ampia il doppio dell’attuale, era denominata Huacayapata o Piazza delle Feste; di qui si diramano le arterie principali, dirette verso i quattro angoli dell’impero, il Tahuantinsuyu. Leggermente inclinata, circondata da edifici coloniali a due piani, percorsa sui lati da lunghi porticati, si apre al centro con un bel giardino fiorito ed è luogo di ritrovo o sosta di abitanti e turisti provenienti da tutte le parti del mondo, soprattutto giovani che considerano Cusco la città perfetta.

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92 Il tramonto del sole ha allungato le ombre sulla piazza che come d’in-

canto si illumina della calda e delicata luce dei suoi lampioni e dalla finestra del ristorante, in cui ci ritroviamo per la cena, osservo incantato questo suggestivo quadro. Questa piazza riesce a trasmettere una grande emozione a chi la vede e la vive per la prima volta.

I giochi cromatici dei giardini si intrecciano con le facciate delle due chiese, la gente cammina lentamente quasi a voler fermare il tempo; la confusione e il chiacchierio delle nostre piazze sono solo un ricordo e quasi non si avverte il passaggio delle auto sul lastricato della carrozzabile che la percorre esternamente. Anche i bambini, con la loro discreta ed educata insistenza, riescono a vendere graziose bamboline di pezza a molti turisti. E poi, come si può non acquistare la bambolina simbolo del Perù, cosa sono 5 dollari se quei 5 dollari servono a sostenere una famiglia? Dopo la cena vorrei continuare a passeggiare, ma l’aria frizzante e la sveglia di domani mattina fissata per le 5.00, mi spingono ad andare a letto, non prima di qualche acquisto: ho visto un negozietto con tanti piccoli presepi. Piacciono tanto ad Angela e Chiara. Domani si va a Machu Picchu, la città perduta, eretta dagli Inca nel più assoluto rispetto della natura, a 2400 metri.


MACHU PICCHU. Secondo alcuni storici era l’ultimo avamposto delle Ande, il punto di partenza per penetrare nella foresta e assoggettare nuove popolazioni. Per altri sarebbe stato un santuario nascosto, un grande Acllahuasi, dimora delle vergini del Sole. A sostegno di questa tesi viene indicato lo studio sui corpi ritrovati nel luogo: la popolazione di Machu Picchu (che nel periodo di massimo splendore si avvicinava ai 1000 abitanti) era composta per l’80% da donne. Con ogni probablilità Machu Picchu era, invece, una llacata, ossia una città amministrativo-religiosa dove risiedevano alti funzionari di Stato, sacerdoti e un gran numero di servitori e artigiani. La sorprendete perfezione e bellezza delle mura di Machu Picchu, costruite senza cemento, e la sua magnificenza ne fanno uno dei monumenti architettonici e archeologici più importanti del pianeta. Fu scoperta il 24 luglio del 1911, dal nordamericano Hiram Bingham. Tutto era ricoperto da una vegetazione foltissima che impediva ogni rilevamento; furono necessari più di cinque anni di lavoro per dare al luogo l’aspetto che ha oggi. È circondata dal mistero poiché a tutt’oggi risultano sconosciute la sua storia e la sua “destinazione d’uso”. Tante le ipotesi, tutte legittime: forse era un luogo di preghiera, una sorta di monastero, oppure una fortezza. Non si saprà mai nulla di preciso, ma la bellezza e il fascino di questo luogo sono indiscutibili ed eterni. Machu Picchu, ha stabilito l’UNESCO, è Patrimonio dell’Umanità.

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94 Mercoledì 19 dicembre, prendiamo il treno alle 7 nell’affollata e piccola

stazione di San Pedro piena di turisti. Abbiamo i posti prenotati e le carrozze, tutte aperte e molto panoramiche, sono confortevoli visto che dobbiamo fare 4 ore di viaggio per percorrere appena 112,5 km. Il treno risale i fianchi della montagna, in alcuni punti si arresta e comincia a retrocedere, quando dopo la fermata vengono azionati gli scambi; cambia direzione di marcia e sale di quota, lasciando vedere da un lato il binario che ha percorso nel primo tratto. È come se fosse un pendolo e gli scambi, che prima della fine della salita risultano quattro, sono a tutti gli effetti dei tornanti. Transita in mezzo alla periferia poverissima fatta di case fatiscenti, edificata senza nessun rispetto urbanistico e deficitaria di strade e fogne. Ora viaggia in leggera discesa dopo aver toccato i 4200 metri del valico, in mezzo a campi coltivati, tra gole profondissime, scende, aggira la Valle Sacra e, poco prima di Ollantaytambo, comincia a seguire il fiume Vilcanota che, con le sue impetuose rapide, accompagna il treno fino ad Aguas Calientes, a 2300 metri. Si ferma in tutte le stazioni dei numerosi villaggi e ad ogni sosta è un saliscendi di passeggeri, la maggior parte turisti europei, un assalto dei venditori di souvenir e prodotti dell’artigianato locale. Il panorama è bello, vario, pieno di verdi montagne e ogni tanto su qualche crinale, o sotto un costone, si notano splendide rovine. Arriviamo ad Aguas Calientes sotto un violento acquazzone che non ci lascia vedere la montagna avvolta da una fitta nebbia e c’è Gladis, la nostra guida che parla spagnolo, ad aspettarci. Ci restano da fare ancora 25 minuti di pulmino per superare i 400 metri di dislivello tra la stazione di arrivo e il sito. Saliamo lungo i fianchi del Machu Picchu per una carrareccia tortuosa ma agevole che compie un’infinità di tornanti e man mano che prendiamo quota il panorama si allarga sulla foresta pluviale, siamo alla stessa latitudine dell’Amazzonia, e pareti verticali di picchi che si proiettano verso il cielo. L’arrivo al sito è un po’ caotico per la presenza di tantissimi turisti provenienti da ogni parte del mondo, ma Gladis ci dà tutte le disposizioni necessarie per iniziare la visita e ci invita a seguirla. Sotto la pioggia entriamo in questo santuario dell’archeologia passando vicino ad una iscrizione che ricorda Hiram Bingham e subito ci appaiono le rovine del luogo più misterioso del mondo, visitato ogni giorno da mille a duemila persone. Questa massiccia presenza ha portato a stabilire, dopo lo studio di alcuni scienziati giapponesi, che la sommità del Machu Picchu è soggetta ad un lento abbassamento e quindi alla


probabile sua estinzione tra qualche centinaio di anni. Il rimedio, dicono 95 gli scienziati, sarebbe quello di limitare il numero delle presenze con un numero chiuso giornaliero, il che vorrebbe dire rinunciare ad una bella fetta di ricchezza da parte dei locali che oggi, solo per l’ingresso, riscuotono 60 $ a persona. Le rovine di Machu Picchu, pressoché intatte, si sviluppano in lunghezza su un picco che domina la gola dell’Urubamba, il fiume sacro, che scorre 700 metri più in basso e quella solcata dal fiume Apurìmac, sul versante orientale della Cordigliera di Vilcabamba. Il villaggio sorge su una sella tra due montagne: a nord il Machu Picchu, la vetta antica, e a sud il Hyuana Picchu, la vetta giovane.

La nostra visita dura circa tre ore ma, forse non basta una giornata per osservare tutto, per godere di tanta grandiosità e perfezione, per perdersi nelle strette vie, per risalire lentamente le migliaia di gradini che mettono in comunicazione i terrazzamenti.


96 Avrei voluto sedermi davanti alla roccia dell’IIntiwatana, luogo dove si

lega il Sole, il punto sacro di contatto tra la terra e il cielo, e riuscire a determinare l’ora; oppure contare i 32 angoli di una delle due rocce del Tempio Maggiore o soffermarmi nel Tempio delle Tre finestre. Mi sono perso nelle mie fotografie come ho perso il contatto con i miei compagni, ma non importa ho ancora del tempo davanti prima dell’ora di ripartenza e voglio stare ancora in questo posto magico. Come tutte le cose belle, anche questa finisce ed esco dal sito di Machu Picchu ricongiungendomi al gruppo per ridiscendere a Aguas Calientes dove, sotto un bel temporale, facciamo un giro fra le bancarelle di souvenir in attesa di salire sul treno che ci riporta a Cusco, dove arriviamo alle 21.30. Facciamo un veloce rientro in hotel a lasciare gli zaini e darci una rinfrescata prima di andare a cena nel ristorante dove siamo stati anche ieri sera per gustare il piatto tipico peruviano, ajì de galina, piccante di gallina composto da: gallina con patate lesse, uova sode, pezzetti di formaggio, olive nere, formina di riso su foglia di lattuga e tutto amalgamato in una salsa gialla piccante. Beviamo anche dell’ottima cerveza locale e dopo un giretto per la piazza inseguiti dai bambini con i loro souvenir, alle 23.00 rientriamo in albergo a sorseggiare un bicchierino di pisco comodamente sprofondati nelle poltrone del caratteristico atrio. Finalmente una discreta notte di sonno e alle 6 sono sveglio e pronto per una doccia ristoratrice prima di questa ultima giornata che prevede ancora la visita ad altri siti inca. La prima visita è, dopo una diecina di chilometri di macchina, a Tambo Machay, notevole costruzione architettonica conosciuta con il nome di Bagno dell’Inca. Possiede un ingegnoso sistema idraulico dove scorre acqua limpida (latte di Pachamama, “Madre Terra” in lingua quechua), un tempo venerata come fonte di vita e, secondo la tradizione, chi beve o si bagna nelle acque della fonte acquista bellezza, gioventù e fertilità. Seguiamo il consiglio della nostra guida e ci facciamo una bella bevuta nella speranza che almeno una di queste qualità ci arrida. Siamo di nuovo in viaggio ed entriamo nella valle dove scorre il fiume Urubamba, la Valle Sagrada, che per gli Inca era la porta d’entrata alla selva, quella parte del Tahuantinsuyu chiamata Antinsuyu. Il fiume che la forma nasce dal massiccio Vilcanota (monte sacro o casa del sole) e la valle stessa era in stretta relazione col culto solare. Prima dell’impero inca, la parte alta della valle era abitata da tribù Colla, provenienti dal lago Titicaca, mentre nella parte più vicina a Cusco vivevano


gli Ayamarcas. Per la bellezza del paesaggio, il clima favorevole e il 97 suolo fertile divenne località eletta dalla nobiltà inca per il riposo dalle fatiche del governo; nei villaggi costruirono palazzi, santuari e fortezze di squisita fattura. Prima di scendere nella valle facciamo sosta in un punto panoramico. Lo sguardo spazia dalle cime tondeggianti ai campi coltivati e attraversati dal sinuoso alveo dell’Urubamba, in un caleidoscopio di tenui colori pastello, tipici della campagna autunnale, che nessun pittore riuscirebbe a dipingere sulla propria tela; e anche i bimbi che vendono souvenir, vestiti con coloratissimi abiti tradizionali, fanno parte di questo bucolico quadro.

Transitiamo per Pisac, un paese ormai ridotto a mercato per i turisti, e proseguiamo per le rovine inca di Pisac Viejo che si innalzano 600 metri più in alto lungo una costola montuosa. Forse fu una fortezza costruita a guardia di tutta la valle, residenza dell’Inca, ricca di andenes, magazzini, edifici, templi, piccoli agglomerati urbani e imponenti opere di terrazzamento utilizzate per la coltivazione di mais, coca, papaya e patata. Attraversata la Puerta de las Serpientes ci troviamo di fronte ad uno dei cimiteri più grandi del Perù preispanico, con tombe scavate nel fianco della montagna e nelle quali gli archeologi scoprirono oltre 2000 mummie. È un continuo saliscendi di gradini lungo un percorso escursionistico che unisce le varie zone abitative dislocate su colline unite da aeree creste. Alysia, la nostra guida, ancora una volta mi inebria con la storia e la cultura inca accompagnandomi in un viaggio a


98 ritroso nel tempo, al culto del sole, allo studio delle costellazioni, alla ve-

nerazione della terra e dell’acqua, che ancora oggi rappresentano un punto di riferimento per i campesinos locali che vivono in un modo che non si discosta molto da quello dei loro antenati inca.

Questa escursione continua ad essere molto interessante soprattutto perchÊ siamo sempre a contatto con la popolazione locale che, oltre alla coltivazione dei campi, anima i tanti mercatini di souvenir che si incontrano lungo i percorsi di visita ai siti archeologici e nei villaggi. Una piccola famiglia, mamma e figlioletto di un anno di nome Abram, ci accoglie all’ingresso del ristorante scelto da Alysia per il pranzo di oggi. Vendono souvenir ed io non posso rimanere indifferente davanti agli occhi, neri come la pece, del piccolo: mi mancavano le croci inca e qualche altra bambolina di pezza.


Durante il pranzo abbiamo il piacere di ascoltare due musicisti che 99 eseguono musiche etniche e, tra un brano e l’altro, gustiamo un buffet ricchissimo di specialità culinarie. Di nuovo in viaggio e, seguendo il corso dell’Urubamba, giungiamo nella placida cittadina di Ollantaytambo, adagiata alla confluenza di tre valli, uno dei complessi architettonici più monumentali dell’impero inca. La leggenda locale parla di una fortezza la cui costruzione fu iniziata e mai terminata da un generale inca, Ollanta, che, con il proprio esercito e per decenni, fu costretto alla difesa degli attacchi del Sapa Inca che lo aveva inviso per essersi innamorato, e contraccambiato, di una principessa inca. La leggenda è enfatizzata da un volto scolpito nella roccia della montagna a fronte che dovrebbe essere quello del generale. Fu in realtà un tambo o città-alloggio, strategicamente collocato in modo tale da dominare la Sacra Valle degli Incas e il suo nome significa il Tambo di Ollanta. L’abitato è formato da isolati di case situate a nord della piazza principale, plaza Manayracay, circondata da muri con nicchie trapezoidali e da cui sale una ripida scalinata di pietra che supera, una dopo l’altra, le grandi terrazze, fino ad entrare nel vero tempio-fortezza. Ammiriamo la Fuente del la Nusta (principessa) nella quale scorre in tre piccoli canali l’acqua proveniente da una sorgente e risaliamo un sentiero che porta alla parte alta dove si trovano il Palacio de Ollantay, un edificio a due piani, e l’adoratorio o tempio, incompiuto, circondato da sei grandi blocchi di granito rosato perfettamente squadrati e del peso di quasi 50 tonnellate. Da qui possiamo vedere, dall’altro lato del fiume, le cave di Cachicata dalle quali, con piani inclinati e rulli, furono trasportati i massi. Facciamo una foto di gruppo vicino al trono dell’inca che, in splendida


100 posizione, domina tutta la città e vi ridiscendiamo per la ripida scalina-

ta e nel bel mezzo del coloratissimo mercatino. Rientriamo a Cusco per altre visite culturali e gli ultimi acquisti prima di una pizza in un caratteristico locale dove fanno della buona musica etnica ed è frequentato soprattutto da studenti dell’Università che fu fondata nel 1662 dai gesuiti. In una viuzza stretta e piena di turisti abbiamo incrociato Bryan, il trekker incontrato sulla cordillera e rimasto senza soldi. Lo abbiamo chiamato e gli abbiamo chiesto se si ricordava di noi: ha alzato le spalle e se n’è andato. Che peccato, non ci ha riconosciuti. Anche oggi abbiamo vissuto momenti particolari della vita peruviana e li viviamo ancora facendo qualche giro della bellissima piazza prima di fare rientro alla Casona Real. Ci soffermiamo nell’atrio a chiacchierare tra un pisco e l’altro prima di chiudere questa ultima serata a Cusco. Non vorremmo andare a dormire, non vorrei ma, a malincuore dobbiamo farlo: domani ci aspetta una lunga giornata. Mi sveglio presto, alle 6, dopo una notte tranquilla. Faccio una doccia calda prima della colazione nell’atrio ed esco per le strade ancora silenziose, nella piazza che risplende nella luce del mattino. Voglio fare le ultime fotografie all’interno della cattedrale ricca di dipinti e altari ricoperti d’oro e argento come l’altare maggiore posto al centro del coro barocco, una delle opere più importanti dell’arte di Cusco. Il tempo di dare un’occhiata al celebre dipinto Il Cristo dell’agonia, conosciuto come il “Cristo di Van Dyck” per la grande somiglianza con uno studio del pittore fiammingo, senza disturbare i numerosi fedeli che seguono la Santa Messa nella cappella del Senor de los Temblores (Signore dei Terremoti) e sono fuori sull’ampia scalinata che domina tutta la Plaza de Armas, già viva e attiva. Oggi è il 21 di dicembre, venerdì, e inizia il lungo viaggio di rientro in Italia con il volo verso Lima. Il tempo è buono, non ci sono turbolenze e ho


anche la fortuna, prima dell’atterraggio, di vedere l’oceano Pacifico. La 101 costa a volte frastagliata è costituita da lunghe spiagge e insenature sabbiose, paradiso dei surfisti alla perenne ricerca dell’onda perfetta, e l’attivo porto di Lima. Ci sarebbe il tempo di fare una visita nel centro storico perchè dobbiamo attendere il volo per l’Europa fino alle 21 di questa sera, però preferiamo rimanere in aeroporto a riposare. Trascorriamo la mattinata accampati nell’angolo di un bar e, tra un caffé e un tramezzino, giriamo per negozi spendendo gli ultimi dollari. Finalmente arriva l’ora della partenza. Ore 19.15, porta d’imbarco 17, numero poco gradevole, e siamo di nuovo in attesa. Saliamo sull’aereo per Madrid, il penultimo volo e, se Dio vuole, domani saremo in Italia.

Il pensiero va ai giorni trascorsi con le guide peruviane, a Jacinto e la sua squadra, ai miei compagni di spedizione, ritorna ai dolci pendii montani e alle valli, vola dalle lagune alle vette imbiancate, alle albe, ai cieli azzurri, ai tramonti delle Ande, infine si ferma in un angolo nascosto della Cordillera Huayhuash, lassù, dove ho incontrato Felipe. Torno a casa, ma ho già nostalgia del mio Perù.



Su questi campi veglia sempre La Pachamama dea della terra, dell’agricoltura e della fertilitĂ


A tutti i bambini che soffrono per fame, guerre, violenze.




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