La fotografia intima, tra pubblico e privato

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La fotografia intima, tra pubblico e privato di Francesca Coluzzi

ÂŤSe guardi attraverso un binocolo, stai spiando la vita degli altri. Se guardi attraverso una macchina fotografica, stai spiando anche te stessoÂť Boris Mikhailov, Unfinished Dissertation


In questo saggio si parla di: riproduzione - reale identità - presenza - assenza - istante - memoria immagini mentali - inconscio - carattere istantaneo - implicazione privata - vissuto personale - album di famiglia - fotoricordo - temi sociali - atto del fotografare - postmoderno - simulazione - artificio - costruzione privato - pubblico - sociale - livelli di lettura - natura documentaria - soggetto fotografato - racconto personale - diario fotografico - reportage sociale - corpo - snapshot - rituale - forma accidentale - frammento - spontaneità - social netwok - approcci amatoriali profilo dell’utente - stati d’animo - emozioni - istantanee - fotografia spontanea - narrazione - autobiografia politica - rapporto con l’altro - vita quotidiana - amore - registrare - straniero - distanza - intimità - solitudine - alienazione - avvicinarsi - gesto sociale - generazione - connessione - conservare - documentare - rapporti interpersonali - tensione - incomprensione - colonna sonora - slideshow - frames cinematografici - verità e simulazione - racconto collettivo e storia individuale dipendenza - malessere sociale - galleria - immaginario visuale - arte ufficiale - aspetti controversi - narrazione visuale - testo scritto - serie fotografica - opere scrittura - testo intrinseco - testo estrinseco - narrazione multimediale - autoproduzioni - autoanalisi - analisi della società - quaderno privato - persone anonime commenti - dissertazione - archivio - ideologia pubblica - voce - pensieri - situazione sociale - documentario personaggi - coinvolgimento - distanza del fotografo - reportage sociale - racconto autobiografico - abuso di droghe - intensità emotiva - vulnerabilità - violenza - problema etico - contratto - recitazione - soggetti borderline - gesto vojeristico - privacy - reality show -


La fotografia intima, tra pubblico e privato di Francesca Coluzzi

1. memoria visiva e immagine fotografica, la dimensione temporale dell’istantanea 2. il problema del privato e del pubblico 3. lo snapshot e il diario fotografico 4. una distanza intima. jacob aue sobol. sabine diary (1999); i, tokio (2006) 5. la memoria delle relazioni. nan goldin, the ballad of sexual dependency (1986) 6. la narrazione, testo scritto e racconti multimediali 7. parole pubbliche e private. boris mikhailov, unfinished dissertation (1984) 8. la voce degli altri. jim goldberg, rich and poor (1979); raised by wolves (1987-1993) 9. la presenza del fotografo. larry clark, tulsa (1971) 10. conclusione 11. bibliografia



1. memoria visiva e immagine fotografica, la dimensione temporale dell’istantanea

Fin dalla sua nascita, la fotografia ha sollevato diverse problematiche proprie della sua natura di riproduzione della realtà. Mentre l’immagine prima era un’artefatto, una riproduzione pittorica data dalla tecnica e dall’artificio dell’artista, ora l’immagine è il reale che tramite la stessa luce che stimola i sensi e rende possibile la visione, si impressiona su un supporto e si manifesta per quello che è. L’immagine fotografica è la diretta rappresentazione della realtà. Apparentemente un concetto banale, questo provoca delle reazioni interne al mondo dell’arte che ne ribalteranno le basi concettuali, ma soprattutto una reazione psicologica, cognitiva e percettiva nell’uomo, nel rapporto tra individuo e conoscenza del mondo e nel rapporto con l’altro e con la propria identità. L’immagine fotografica porta in sé il senso di presenza reale di un soggetto e nello stesso tempo della sua assenza, colti entrambi nel tempo fermo di un istante che non tornerà mai più. Una sua prerogativa è quella di essere percepita come la realtà di un attimo passato, congelato, prelevato dal continuo scorrere del tempo e immagazzinato nella propria memoria e personalità. Fotografare è mantenere vivo un ricordo, nonostante, nel suo essere fermo e passato, sia morto. La memoria come processo cognitivo è composta da meccanismi complessi di percezione, interpretazione e fissazione di immagini mentali che vengono recuperate nella produzione di ricordi. La memoria è dunque soprattutto memoria visiva, legata alla dimensione dell’immagine fotografica che tra tutte le immagini ha come caratteristica quella di essere la più realistica. L’immagine fotografica ha in sé il senso di ricordo, di passato vissuto e attimo conservato nella profondità dell’inconscio. Da una diretta impressione della realtà esterna, a una dimensione di realtà interiorizzata. In passato, quando il pittore posizionava il suo cavalletto in qualche angolo della città per fare un quadro, ne era in un certo modo al di fuori. Questa é la caratteristica di chi guarda qualcosa da fuori invece che esserne coinvolto. Il pittore non interferiva con la vita pubblica e privata intorno a lui. Nessuno si sentiva spiato o anche solo osservato. L’immediatezza dello scatto fotografico fa sì che il fotografo sia colui che in qualche modo si appropria di qualcosa che nella realtà è invece inafferrabile e dunque estremamente privato, l’attimo che scorre. La dimensione temporale dell’attimo, il carattere istantaneo della fotografia sarà una delle strade principali che verranno intraprese da molti fotografi nel corso del Novecento, a partire dal secondo dopoguerra. Dal neorealismo come diretta testimonianza del reale, alla

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prima fotografia documentaria come capacità di cogliere la naturalezza del vissuto, la traccia del presente. La poetica dell’istantanea negli anni ‘60 prosegue nei racconti di un presente vissuto dal dentro, da una dimensione di tempo cronologico al tempo della memoria strettamente legato al modo di vivere dell’artista, che qui entra in gioco, racconta la sua vita attraverso l’immagine. Negli anni ‘70 quando il discorso sulla fotografia e in generale sulle arti si fa autoreferenziale e concettuale, l’implicazione privata e intima, il coinvolgimento massimo con la realtà e con la vita, diventano la controparte. Nell’ambito stesso della ricerca concettuale, il tema del vissuto personale viene preso in considerazione, soprattutto nel formato dell’album di famiglia. In contrapposizione alla pratica artistica autoreferenziale ovvero la “fotografia sulla fotografia”, ci si comincia a chiedere se non sia proprio nel suo uso più comune e ingenuo, ovvero quello della foto-ricordo scattata e messa nel venerato album di famiglia, da ricercare la poetica essenziale della stessa pratica fotografica. Un’altra tematica degli anni ‘70 è quella della documentazione impegnata attraverso il racconto personale di temi sociali soprattutto legati all’ uso di droghe. Il privato si manifesta non in senso strettamente narrativo e autobiografico, ma come individualità marginale e al limite che irrompe nella società, sollevando problematiche sociali. Il fotografo è dunque l’osservatore che si proietta nel paesaggio sociale. É il caso di Larry Clark che nel suo primo lavoro, Tulsa, documenta le situazioni di violenza e abuso di droghe da lui stesso vissute insieme al un gruppo di giovani suoi amici. I momenti in cui si drogano, in solitudine o in gruppo, in due sul letto, i momenti di violenza e i momenti in cui hanno rapporti sessuali vengono fotografati senza intenti moralizzatori né ideologici, nonostante le immagini siano molto forti. I momenti sono vissuti dal dentro da chi si trova lì non per fotografare, ma perché quella è la sua vita. Tuttavia si tratta di un aspetto controverso della fotografia di questo genere: quanto c’è di spontaneo e quanto di costruito dall’atto del fotografare? In che modo il fotografo fa parte della situazione allo stesso livello del soggetto fotografato e quanto invece rimane colui che osserva in un certo senso dal fuori? Questo domande rimangono aperte e si ripresentano anche negli anni successivi in cui l’arte verrà ripensata e rimessa in discussione, così come anche la fotografia, alla luce di un nuovo atteggiamento nei confronti dell’immagine. Con l’avvento del postmoderno, la simulazione, l’artificio e la costruzione diventano i modi di approcciarsi all’immagine di molti artisti e fotografi: i corpi sono frammentati, ripetuti, post umani. In questo clima artistico continua parallelamente l’atteggiamento di


partecipazione alla vita, non solo in toni di denuncia sociale, ma anche come sguardo non critico dall’interno. Siamo a New York nei primi anni ‘80; Nan Goldin fotografa la sua vita personale e la sua tribù metropolitana di amici, come si scrive un diario: i momenti, le relazioni, l’amicizia, i sentimenti e poi la droga, l’AIDS e la morte. Il lavoro di Nan si trova in bilico tra una raccolta di ricordi e di momenti che segnano un passaggio nella vita personale dell’artista e un lavoro di reportage sociale. Uno spaccato su quella particolare atmosfera, le persone, la vita notturna di quei luoghi e di quel periodo e il declino dovuto al dilagare dell’AIDS negli anni successivi. In questo senso il lavoro the ballad of sexual dependency di Nan Goldin rimane il più controverso se si cerca di inquadrarlo come privato o come pubblico e sociale. 2. il problema del privato e del pubblico La fotografia privata solleva problematiche e contraddizioni in diversi livelli di lettura. La natura documentaria e istantanea di questo tipo di fotografia non può essere considerata solo una forma di spontaneo racconto di vita; entrano in gioco prima la natura stessa della tecnica fotografica che prevede un rapporto tra soggetto fotografato e fotografo, poi la questione dell’aspetto pubblico della fotografia quando diventa un libro, una mostra. Può il privato essere considerato intimo, incontaminato, che rapporto si crea con il pubblico e il sociale? La difficoltà di categorizzare questo tipo di lavori ne è il sintomo. Fin dove si rimane nella sfera del racconto personale, della memoria di momenti immortalati per ricordare? e quando si passa oltre? Si possono individuare due tendenze, due categorie estreme che però rimangono modelli astratti, perché i lavori di questo genere si trovano sempre a metà tra le due: il diario fotografico e il reportage sociale. Nella storiografia si è spesso sollevato il problema della fotografia del corpo, contrapposta a quella del paesaggio. Anche queste sono due categorie estreme che spesso non trovano una vera corrispondenza se non ibrida. Un paesaggio può essere un paesaggio sociale, fatto di luoghi, persone, situazioni. L’immagine di un momento privato o una situazione molto intima spesso non può essere slegato dal contesto sociale in cui si trova e in cui viene rappresentato. Attraverso la categoria del diario fotografico, tendente più o meno verso il reportage sociale, si analizzerà la fotografia intima nel rapporto tra privato e pubblico attraverso i lavori di alcuni fotografi dagli anni ‘70 a oggi.

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3. lo snapshot e il diario fotografico

«I believe it is when pictures are unconsidered and irrational that they come to life; that they evolve from showing to being.» Jacob Aue Sobol

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«The diary is my form of control over my life. It allows me to obsessively record every detail. It enables me to remember.» Nan Goldin, the ballad of sexual dependency Per snapshot si intende un tipo di fotografia scattata spontaneamente e in modo immediato, nella maggior parte dei casi senza scopi artistici o giornalistici. Gli snapshot sono comunemente considerati tecnicamente imperfetti o amatoriali, fuori fuoco o non accuratamente inquadrati e composti. I soggetti sono gli eventi della vita quotidiana “da album di famiglia”. Sono l’esempio più chiaro di fotografia immediata e un mezzo per l’espressione collettiva dell’umanità. L’atto di scattare foto è un rito. La ripetizione dell’atto simbolico di fare la foto è centrale poiché trasforma un evento ordinario in una ricostruzione rituale e una riaffermazione della vita del fotografo. La tecnica dello snapshot assume un carattere unico di trattamento del medium fotografico. Quando si cattura un movimento, la forma accidentale presenta lo snapshot come un frammento, un campione estirpato da un’azione la cui integrità si trova oltre l’immagine. La fotografia entra nel mondo come un intruso, e così crea un disturbo. Il fotografo assume la posizione del cacciatore nel catturare la spontaneità della vita senza lasciare traccia della sua presenza. Quella dello snapshot è diventata un’estetica propria di un settore della fotografia definita documentaristica, quello del diario fotografico. Il diario fotografico è un racconto di vita e il modo più intimo di approcciarsi alla fotografia. Non è un caso se in questi ultimi anni con la nascita del social netwok e dei siti di photo sharing come Flickr si trovano sempre più esempi di approcci amatoriali e più o meno artistici di diario fotografico; la stessa struttura del social network è organizzata intorno al profilo dell’utente che racconta di sé spesso attraverso la fotografia. Il lavoro di molti fotografi/utenti che si trova su Flickr è un vero e proprio diario fotografico attraverso il quale l’artista/profilo dell’artista si racconta. Si possono definire le caratteristiche base dello stile diaristico presenti nei lavori che verranno trattati in seguito, sebbene si osserverà che vi sono molte questioni aperte e complesse che non consentono di tracciarne confini ben definiti e caratteristiche comuni. Attraverso le immagini che scandiscono la vita, attraverso le persone, i


luoghi, gli eventi, le emozioni, il diario, così come la memoria visiva, è una raccolta di immagini, di momenti visti, vissuti e archiviati. «Il ricordo del reale, che queste foto stimolano, è un invocare i colori, gli odori, i suoni e la presenza fisica, la densità e il sapore della vita. La memoria permette un infinito flusso di connessioni. Le storie possono essere riscritte, i ricordi no. Se ogni fotografia è una storia, l’insieme si avvicina all’esperienza della memoria.» Nan Goldin Si tratta di una fotografia privata e personale, direttamente legata all’artista, ai suoi stati d’animo e alle sue emozioni. «Non sono capace di prendere nessuna decisione cosciente riguardo i miei scatti. Ogni foto che scatto è l’immagine di come mi sento quel giorno, la mia esperienza di un luogo o un incontro con un’altra persona. Non sto cercando di documentare nulla, ma semplicemente essere me stesso.» Jacob Aue Sobol Il diario fotografico è fatto di fotografie non composte nel senso classico, ma di istantanee spontanee rubate allo scorrere del tempo, quindi dinamiche, a volte fuori fuoco e con luce naturale. É un tipo di fotografia che documenta una situazione intima e privata della vita del fotografo e del suo interagire con i luoghi e le persone senza intervenire né stilisticamente, né nella dinamica dell’evento; ma si può parlare propriamente di una fotografia spontanea e istantanea? Come si pone il soggetto fotografato nei confronti del fotografo? Quanto influisce la fotografia sulla dinamica degli eventi? «Fotografo direttamente dalla mia vita. Queste foto vengono dalle relazioni, non dall’osservazione.» Nan Goldin Il racconto diaristico è fatto non di una, ma di una serie di immagini, tanti istanti messi insieme in una narrazione; questo avvicina il diario fotografico alla narrazione cinematografica, in cui la successione delle immagini è funzionale al racconto della vicenda. Gli slideshow musicali di Nan Goldin ne sono un esempio, ma tutta la fotografia diaristica si basa sulla successione delle foto e sul racconto, a volte anche extra testuale e metalinguistico. Testo integrato o allegato alle fotografie, scritto dal fotografo o, in un secondo momento, dal soggetto fotografato. Ma anche raccolte di oggetti collegati alla situazione, video, fotografie appartenenti al soggetto. «Non mi sento un fotografo ma piuttosto qualcuno che desidera

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scrivere un diario per ricordare alcuni dei momenti e delle emozioni con Sabine.» Jacob Aue Sobol

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Le fotografie ritraggono spesso persone in ambienti chiusi, più che paesaggi; familiari, amici, persone incontrate in quel determinato periodo della vita, fotografate in situazioni anche molto intime, che mostrano la figura del loro corpo in vari modi. Lo sguardo è ravvicinato e presente "all’interno". «Il mio desiderio è preservare il senso della vita delle persone, dotarle della forza e della bellezza che io vedo in loro.» Nan Goldin Il diario fotografico è un’autobiografia, ma è anche il racconto di luoghi e di persone, il racconto di un’esperienza in un determinato contesto storico e sociale. Nell’ambito politico e di rappresentazione del sociale, parlare di diario fotografico è delicato perché apparentemente i due concetti potrebbero essere l’uno il contrario dell’altro; ma, non solo nella fotografia o nell’arte, nessuna vita è totalmente svincolata dal rapporto con gli altri e dal contesto in cui agisce. In questo senso, la politica è prima di ogni cosa il rapporto con l’altro. I due lavori del giovane fotografo danese Jacob Aue Sobol di cui andremo a parlare, sabine diary e i, tokio, possono essere considerati più vicini alla poetica del diario fotografico incontaminato, mentre nel primo lavoro di Nan Goldin the ballad of sexual dependency la tematica del rapporto tra pubblico e privato si impone in maniera problematica su diversi livelli di lettura. 4. una distanza intima. jacob aue sobol. sabine diary (1999); i, tokio (2006)

«And yes, life is expressionistic, isn’t it? People cry, laugh, scream, vomit, and make love. That is the reality I want to approach with my camera.» Jacob Aue Sobol Il lavoro del giovane danese Jacob Aue Sobol, sabine diary, è uno degli esempi più “puri” della forma di diario fotografico. È il racconto di due anni di vita trascorsi come cacciatore in un piccolo villaggio della Groenlandia e della storia d’amore con Sabine, una ragazza del posto. Chi racconta è lui stesso, attraverso le fotografie e dei brevi testi di un diario che descrivono le situazioni di vita quotidiana. Nel 1999 Jacob Aue Sobol partì a soli 23 anni per Tiniteqilaaq, una villaggio nell’est della Groenlandia, per un progetto di reportage sulla vita dei cacciatori e pescatori del villaggio. Dopo cinque mesi tornò


in Danimarca pensando di aver concluso il lavoro. Non sentendosi soddisfatto delle foto, quattro mesi dopo decise di tornare. Gli scatti erano vuoti e non erano che la solita storia della piccola comunità isolata, alienata e autodistruttiva. Nel suo secondo viaggio si accorse infatti che la piccola comunità aveva molto di più da raccontare oltre a ciò che aveva solo intuito nel suo primo viaggio; e fu così che la Groenlandia lo catturò. Smise di fotografare e diventò un cacciatore e pescatore, cominciando così ad integrarsi con la comunità. Ma la vera svolta fu l’amore per Sabine. Questa circostanza non solo modificò radicalmente il suo progetto, ma diede una forte impronta al linguaggio che utilizzò per raccontare la sua storia. Solo dopo alcuni mesi riprese a fotografare. Da reportage, il suo progetto cambiò radicalmente in un diario dei due anni passati a Tiniteqilaaq. Non si trattava più di un progetto, ma della sua vita con Sabine. Gli scatti smisero di essere un "aspettare il momento giusto", un drammatizzare una storia, ma divennero un modo per registrare i momenti passati con Sabine per ricordarli e portarli con sé. Questo è stato anche il modo per non sentirsi più uno straniero o il fotografo che documenta una situazione, ma parte di una comunità. «In the beginning i thought i was documenting a story of life in the settlement. But in the end it had to be Sabine. Sabine is Greenland.»1 La foto in copertina è sul tema dell’amore. Attraverso la forma del cuore che fa con le mani, Sabine manda un segnale al fotografo che risponde inquadrando la scena nella forma rettangolare della foto. Lo stile è ruvido, con una grana spessa e fuori fuoco. Ci si avvicina molto alla pelle di cui è quasi visibile la grana e a tutti i dettagli della casa in cui Sobol ha vissuto con Sabine. Le foto di Sabine e della vita che facevano nella loro piccola casa sono intervallate da fotografie di esterni di nebbia, neve, le piccole case del villaggio, un cane morto nella neve, una foca tagliata a metà, un funerale nel villaggio. Nessuna di queste immagini è gridata, come nessuna frase, ma sussurrate. Nonostante la macchina fotografica catturi anche immagini violente, non c’è esibizionismo. Gradualmente nella storia emergono le difficoltà che porteranno alla fine di questa relazione. Oltre la storia autobiografica, il libro è la storia dell’amore tra un uomo danese e una donna della Groenlandia, la cui relazione è segnata dai taboo e pregiudizi da parte di entrambi i paesi. Nonostante Sobol si sia più o meno integrato nella comunità, neanche 1. Jacob Aue Sobol, intervista su www.auesobol.dk.

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l’amore può colmare la distanza che c’è tra due culture così lontane. Dopo due anni Sobol tornerà in Danimarca. Nel suo lavoro del 2006, i, tokio, Sobol racconta il periodo di 18 mesi trascorso nella metropoli giapponese, dove ha vissuto con la sua compagna. Si tratta di un altro diario, un altro racconto autobiografico in una città completamente diversa dalla piccola Tiniteqilaaq. Il punto di partenza rispetto a Sabine Diary è simile: una sensazione complessa di distanza e intimità nello stesso tempo. Spinto dall’amore per una ragazza e dalla curiosità nei confronti di una cultura diversa, Sobol si trova in un luogo a lui estraneo in cui si sente inizialmente isolato e invisibile. La fotografia arriva nel momento in cui decide di reagire al senso di solitudine, abbandonandosi alla realtà in cui si trova. Mentre in Groenlandia la vita è costantemente scandita dai momenti passati con Sabine, a Tokio Sobol si trova la maggior parte del tempo da solo. Gli scatti di Sabine sono intimi e ravvicinati perché sono parte della sua vita quotidiana. In i, tokio, lo sguardo cerca l’universo privato e intimo delle persone con cui entra in contatto. L’interesse per la fragilità e l’intimità dell’essere umano è evidente e va considerato come il desiderio di rappresentare la vita vissuta, attraverso i corpi percepiti e fotografati. Il cambiare prospettiva, il grado di vicinanza e il fuoco genera un ritmo variegato e drammatico, integrato con i dialoghi tra i soggetti che si incontrano tra le pagine. Nel breve testo che accompagna le fotografie, Sobol descrive il suo sentirsi invisibile nella folla della città e racconta come ha provato a reagire a questo sentimento di alienazione, ricercando un contatto ravvicinato con le persone. Sobol usa la macchina fotografica per altro oltre che per fotografare. L’atto di fotografare è un modo per avvicinarsi alle persone e alle situazioni, per avere un momento da condividere, per creare contatto e intimità. È un modo per sopravvivere. La fotografia diventa un gesto sociale. Come sabine diary, i, tokio è la testimonianza del tentativo di sentirsi parte di una città straniera e delle persone che la vivono. 5. la memoria delle relazioni. nan goldin, the ballad of sexual dependency (1986)

«The people and locales in my pictures are particular, specific, but Ifell the concerns I’m dealing with are universal ... It’s about the nature of relationships.» Nan Goldin the ballad of sexual dependency, è il primo libro di Nan Goldin e raccoglie le sue prime fotografie, scattate nel decennio tra il 1976 e il 1986, anno della pubblicazione. the ballad è un diario fotografico


che narra della lotta per la vicinanza e la comprensione nei rapporti tra amici, familiari e amanti, descritti dalla Godin come la sua tribù. É uno spaccato su una generazione, la sua voglia di vivere e il suo declino. Ma prima di tutto è la raccolta dei momenti che hanno scandito la vita dell’artista. La macchina fotografica è parte stessa della Goldin, così come rappresenta un modo per conoscere gli altri e per farsi conoscere, un modo di approcciarsi allo scorrere della vita, fermando il tempo nella memoria. Il momento dello scatto non crea una distanza, bensì un momento di connessione emotiva nei confronti di un amico, una situazione, un sentimento, in un continuo cercare di afferrare ciò che altrimenti è destinato a perdersi. Nell’introduzione del libro, Nan Goldin racconta della morte della sorella, sucida a diciotto anni e di come anche lei decise di fuggire da quella realtà borghese e repressiva che cominciava a consumarla, scegliendo però di vivere, scappando di casa e cominciando a fotografare. Il motivo per cui si definisce ossessionata dal conservare i sui ricordi tramite la fotografia, è da ricercare qui: lei stessa dichiara di non ricordare la sorella, di avere l’immagine e l’idea di lei ma di non ricordarla; è il desiderio di non perdere più la memoria di nessun altro che la porta a documentare ogni aspetto della sua vita attraverso un accurata descrizione per immagini. the ballad è il diario personale di una donna, così come la rivelazione di una più universale visione sulla complessità dei rapporti interpersonali. Il libro comincia e finisce con questo: immagini di coppie tra cui Nan Goldin e il suo compagno e il duca e la duchessa di Windsor, per finire con l’immagine di due scheletri uniti in un eterno abbraccio. Nel mezzo, si cerca di rappresentare cos’è che rende lo stare insieme così difficile. Il libro è strutturato in diverse parti, ciascuna comincia con una pagina bianca. Dopo una prima parte di coppie, una parte dedicata alle donne: donne forti e nello stesso tempo fragili che si confrontano con loro stesse, donne allo specchio. Successivamente si passa agli uomini e la loro solitudine, per passare a uomini che si trovano insieme in un rapporto di competitività spesso violenta. Dopo, la violenza sulle donne: lividi, cicatrici, lacrime; e quindi le donne che si trovano insieme, amiche, complici. Infine il matrimonio, i figli e la loro educazione. L’epilogo si apre con un clima di festa e spensieratezza, per poi tornare a rappresentare le relazioni tra uomini e donne, due universi che si cercano in una tensione che spesso rimane sospesa nell’incomprensione reciproca; e quindi la distanza: due coppie nel loro letto, i loro sguardi non si incontrano, due letti vicini, sfatti e vuoti, due bicchieri, due tombe in un cimitero e infine il disegno di due scheletri su una porta. Dopo l’introduzione scritta dalla stessa Goldin, c’è un indice dei

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contenuti, che però non indica le parti del libro ma è la suddivisione per colonna sonora, un mix di musica pop, rock e classica, intenzionalmente ironica e sentimentale. the ballad è pensato per essere uno slideshow e le canzoni ci accompagnano lungo tutta la storia, indicando che a quella determinata pagina va cambiata canzone. Gli scatti sono infatti come dei frames cinematografici, appartenenti a una narrazione più complessa. Il lavoro di Nan Goldin va oltre gli schemi tradizionali della fotografia e anche oltre la semplice definizione di diario, andando a toccare le tematiche complesse di relazione tra verità e simulazione, tra racconto collettivo e storia individuale. Fin dai primi scatti è evidente la natura problematica di uno stile impossibile da classificare: le fotografie hanno la tipica brutalità immediata della fotografia documentaria in stile reportage, ma il loro contesto è più intimo e ravvicinato. La Godin è stata paragonata a artisti come Diane Arbus e Larry Clark, ma si possono trovare punti di contatto solo a livello superficiale: nel suo lavoro non c’è nessun intento documentario e ideologico come punto di partenza, nessuno scopo neorealistico, bensì la determinazione di catturare il momento, senza il dominio degli schemi di classificazione artistica. Tuttavia, al di là degli intenti dell’artista, the ballad non rimane solamente una ballata, un racconto. Gli aspetti politici, benché ambigui, sono evidenti. La stessa Nan Goldin dichiara tutta la sua produzione politica per molti aspetti: «Il mio lavoro riguarda i generi politici: cosa significa essere uomo o essere donna, qual’è la natura dei generi sessuali Non è stata una decisione che ho preso precedentemente. Ho fatto questo slideshow sulla mia vita, la mia vita passata. Solo dopo mi sono accorta di quanto fosse politico. Mostra come si può diventare sessualmente dipendenti da qualcuno senza che questo abbia niente a che vedere con l’amore. Parla di violenza tra i generi. È strutturato in modo da far vedere tutti i diversi ruoli che può assumere una donna e poi un uomo; successivamente i bambini, il modo in cui vengono cresciuti. Infine si torna alla scena sociale, sposarsi e risposarsi, coppie felici, coppie che fanno l’amore.»2 Le persone nelle fotografie sono diverse le une dalle altre, così come le situazioni e le implicazioni emotive nella loro vita e in quella dell’artista. Tuttavia, oltre il racconto di vita, le tematiche trattate possono essere considerate universali, riguardano non solo la natura 2. Nan Goldin interviewed by Adam Mazur and Paulina Skirgajllo-Krajewska.


delle relazioni, ma le diverse relazioni di dipendenza: dipendenza sessuale, dipendenza dalla droga o nei confronti di un determinato stile di vita. I critici e gli interpreti del lavoro di Nan Goldin si sono spesso focalizzati sulle tematiche della droga, l’omosessualità, gli eccessi e l’AIDS, contingenti al mondo e alla generazione descritta dalle fotografie. Nella conclusione di una re-edizione della ballad, Nan Goldin fa delle considerazioni a posteriori. Sono passati dieci anni dalla prima pubblicazione del libro e molte cose sono cambiate. Molte delle persone che si trovano nelle foto sono morte. L’AIDS ha cambiato tutto: «I always thought if I photographed anyone or anything enought, I would never lose the person, I would never lose the memory, I would never lose the place. But pictures show me how much I’ve lost.»3 All’inizio la droga e la vita di eccessi era qualcosa che riguardava l’espansione, l’avvicinamento reciproco, successivamente è diventata una prigione. Un capitolo della vita della Goldin si chiude in un epilogo nostalgico, segnato dalla lotta per sopravvivere dall’autodistruzione. Lei stessa riconosce che l’avvento dell’AIDS e una sorta di malessere sociale sono parte della sua poetica, ma le sue parole non sono una critica sociale a una situazione degradata, poiché quelle che ha vissuto e fotografato sono le situazioni che l’hanno segnata e l’hanno fatta soffrire. Il suo discorso da questo punto di vista è personale. La problematica del rapporto tra privato e pubblico investe il lavoro della Goldin anche per altri aspetti, tra cui il rapporto con con l’arte, e con la dimensione della galleria. Il lavoro della Godin, nato come raccolta di ricordi personali, esposti sotto forma di slideshow nei locali underground da lei frequentati, verso la fine degli anni ‘80 è stato riconosciuto dal mondo dell’arte, inserito nel circuito delle esposizioni artistiche ed è diventato anche molto famosi. Molte delle foto, estrapolate dal loro contesto, sono diventate parte dell’immaginario visuale postmoderno e contemporaneo e assimilate all’interno del circuito dell’arte ufficiale. In questo caso è difficile affermare se la visione personale dell’artista abbia influenzato il gusto del pubblico o se l’atmosfera di quegli anni abbia legittimato la sua risposta individuale. Trovandosi di fronte a un lavoro di questo tipo, che non può definirsi documentario nel senso classico del termine, è spontaneo chiedersi quale sia l’atteggiamento del fotografo quando si trova a pubblicare il suo lavoro o a farne una mostra. L’analisi di un lavoro diaristico che viene poi pubblicato e reso visibile da un pubblico, 3 Nan Goldin, note conclusive in The Ballad of Sexual Dependency.

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presenta vari aspetti controversi riguardo al rapporto tra la dimensione intima e privata delle fotografie e il loro essere poi rese pubbliche e considerate “arte alta”. É possibile ancora parlare di spontaneità, immediatezza, intimità? Che rapporto c’è tra un tipo di fotografia per sua natura intima e privata e l’essere riconosciuta come arte e inserita in un museo, stampata in un formato molto grande? E che rapporto c’è poi con chi viene fotografato in situazioni molto intime? Una delle questioni aperte non solo nella produzione di Nan Goldin ma in tutto il genere, è il rapporto con i soggetti fotografati. Le questioni sono etiche: che tipo di rapporto c’è con il fotografo? C’è una sorta di contratto non detto, un patto di fiducia? Si riconosceranno le persone nelle foto o no, anche se sono amici? Come ci si pone nei confronti delle fotografia e come questa influenza il modo di agire? 6. la narrazione, testo scritto e racconti multimediali

Dall’analisi del lavoro di Nan Goldin si è constatato come spesso in una serie di foto, la storia che c’è dietro sia forse più rilevante della foto stessa. Ma come separare l’aspetto narrativo da quello visuale quando la connessione è così forte? Si tratta di una narrazione visuale che nasce dalla successione delle stesse fotografie. Che rapporto c’è tra un tipo di fotografia che trova la sua massima espressione nella narrazione, e il testo scritto? Fin dalla seconda metà del novecento, dalla pubblicazione di the americans di Robert Frank, l’importanza della serie fotografica è diventata sempre più evidente. Il libro di Frank insegna un’importante lezione: le fotografie raccontano storie. Per i primi cento anni della sua vita, eccetto che nei giornali e nelle riviste cone “Life”, la fotografia si è nascosta dietro se stessa. Volendo a tutti i costi essere riconosciuta come arte, ha sempre costruito le sue immagini come se fossero opere. Come un quadro, la fotografia veniva incorniciata, posta su un muro, e valutata nella sua forma estetica. In questo senso, la fotografia può essere paragonata al readymade, come ha affermato Rosalind Krauss: «Il parallelo con il readymade si trova nel processo di produzione fotografica. Riguarda la trasposizione fisica di un oggetto dal continuo della realtà, nella condizione fissa dell’immagine artistica, nel momento dell’isolamento e della selezione».4 La serie fotografica mette in crisi l’isolamento indviduale della fotografia. Qui, l’immagine è riportata nel continuo scorrere della realtà. Diventa parte di una storia, nel tentativo di essere come la scrittura. 4 Rosalind E. Krauss, The Originality of the Avant-Garde.


Se l’intento di fotografi cone Nan Goldin e Jacob Aue Sobol è quello di fermare nella fotografia i momenti privati della loro vita, entrambi decidono di non isolare questi ricordi, ma inserirli nella narrazione di un periodo o di un momento più o meno lungo. Entrambi raccontano una storia, supportata da modi diversi di raccontare, oltre l’immagine. Se Sobol sceglie di “completare” il suo racconto con parti di un diario scritto, la Godin affida alla musica il compito di accompagnare le sue foto. Una serie di immagini può contenere un testo intrinseco nello scorrere visivo delle narrazione. Ma può essere anche abbinata a un testo e un contesto esterni alla fotografia, un testo estrinseco. Oltre al testo scritto, la narrazione può essere dunque portata avanti a diversi livelli, primo di tutti quello visivo della fotografia. Testi, collages, raccolta di oggetti legati al contesto della storia, video, registrazioni, musica, vanno a costituire una narrazione multimediale. Il tutto si combina per raccontare una storia. Tra gli esempi di fotografia diaristica combinata a una narrazione testuale, i lavori del russo Boris Mikhailov e l’americano Jim Goldberg, rappresentano modi molto diversi di approcciarsi al racconto del privato: unfinished dissertation di Mikhailov è un quaderno fotografico di appunti, un discorso con se stesso, mentre i lavori di Goldberg rich and poor e raised by wolves tendono più verso il reportage sociale fotogiornalistico, focalizzandosi sul racconto privato e biografico costruito dagli stessi soggetti fotografati, tramite diversi media narrativi.  7. parole pubbliche e private. boris mikhailov, unfinished dissertation (1984)

«According to his plan of life and individual should write a dissertation at least once in his lifetime.» «Se guardi attraverso un binocolo, stai spiando la vita degli altri. Se guardi attraverso una macchina fotografica stai spiando anche te stesso.»5 Uno dei modi più semplici per interpretare il lavoro di un artista e capire i suoi intenti è quello di esaminare le sue autobiografie e autoproduzioni; diari, lettere, autoritratti e appunti. Il progetto di Boris Mikhailov unfinished dissertation è l’esempio di un quaderno di appunti e di pensieri rivolti a se stesso; un modo di autoanalisi ma anche di analisi della società. Quaderno privato privo inizialmente di alcun intento di pubblicazione, attraverso l’osservazione lucida e 5 Boris Mikhailov, commento su Unfinished Dissertation.

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ironica di altri privati, le persone e le loro abitudini, riflette su una particolare situazione pubblica. Boris Mikhailov, fotografo Ucraino, è stato uno dei più importanti artisti che hanno documentato la realtà dell’URSS dagli anni ‘60 fino al suo scioglimento. Mikhailov ha sempre lavorato in serie, spesso molto differenti l’una dall’altra nella loro forma e contenuto. Nelle serie private, siamo alla fine degli anni ‘60, ha esplorato l’intimità e i momenti privati negli scenari domestici. Nelle serie rosse ha utilizzato lo stile dello snapshot per documentare le situazioni quotidiane, guidando l’attenzione dello spettatore sugli oggetti rossi, slogan e simboli del periodo dell’ Unione Sovietica. Dopo un momento di avvicinamento allo stile e alle tematiche occidentali, negli anni ‘80, perse definitivamente l’interesse per quel tipo di società, per riconciliarsi con la realtà dell’ URSS. Incominciò così a setacciare le questioni locali, oltrepassando la sicurezza dello spazio familiare per portare avanti la sua ricerca nelle aree impregnate del quotidiano modo di vivere sovietico. Nel 1984 Mikhailov ha cominciato il suo progetto più originale, poi pubblicato nel 1998 in un libro chiamato unfinished dissertation. Il libro è composto da diversi snapshots scattati a Kharkov, in Ucraina, la sua città, nell’inverno del 1984. Mikhailov sviluppava gli scatti in bianco e nero durante la notte nel suo bagno e successivamente li selezionava più o meno a caso e li incollava a due a due sul retro di un quaderno di appunti di lezioni dello zio, un “discorso finito di qualcuno”. Nelle fotografie, con atteggiamento ironico, Mikhailov descrive la sorprendente varietà delle vite quotidiane di persone anonime in una città anonima, catalogando i gesti, i luoghi, le persone in quell’atmosfera ferma. Un picnic, due persone che camminano vicino ai blocchi delle case comunali, un uomo davanti alla televisione, persone sedute sul tram, una donna anziana che porta a casa una pagnotta, una donna che giace mezza nuda su un divano, le strade infangate, scarpe legate a una staccionata ecc. Mikhailov passò gli anni successivi scrivendo negli spazi vuoti intorno alle due fotografie per pagina dei commenti autobiografici, frammenti filosofici e annotazioni sulla sua personale visione della vita in generale, della fotografia e della vita nei Soviet. Nel libro pubblicato le pagine a destra sono una copia della pagina originale del quaderno, quindi i frammenti sono scritti in cirillico, mentre la pagina sinistra contiene la traduzione in inglese dei testi nella stessa posizione rispetto agli originali. A cominciare dal frontespizio del libro, si entra nel mondo dei pensieri più disparati del fotografo. Accanto al titolo, unfinished dissertation, e al sottotitolo, “discussion with one selves”, tre frasi di introduzione al lavoro: Mikhailov definisce gli scatti kabakov, il diminutivo russo di “cartoline”, e invita chinque a scrivere


una dissertazione che riguardi il suo piano di vita almeno una volta lungo la sua esistenza. Nella loro essenza di cartoline, le foto non sono fatte per essere viste nel modo tradizionale, ma piuttosto per essere riviste come le carte di un indice di un archivio che ordina ciò che è conosciuto e facilmente riconoscibile. La fotografia di Mikhailov non è considerata infatti come oggetto, la sua funzione si estende oltre il suo uso immediato: ogni foto è privata della sua dimensione estetica dalla carta di bassa qualità e da una stampa non curata. L’attenzione è spostata sul testo: la censura delle parole per anni ha creato un vuoto più sofferto rispetto al vuoto creato dalla censura delle immagini. L’operazione fotografica di Mikhailov in questo senso va vista come una reazione alla paura e al balbettio di chi non poteva parlare. Si intraprende una strada di osservazione e archiviazione che potrebbe essere vista paradossalmente come un’intrusione parallela a quella del governo. Gli appunti sparsi e liberi, vengono accostati alle foto come pensieri filosofici personali che, andando avanti, vanno a costituire il suo ironico e personale commento sulla società in cui vive, che osserva nella sua banale quotidianità attraverso la macchina fotografica. La fotografia di Boris Mikhailov ha affrontato per diversi anni la posizione dell’individuo nei confronti dell’ideologia pubblica. L’interpretazione più diffusa che oggi si dà alla vicenda sovietica è che durante il periodo tra la morte del segretario di stato Brezhnev e l’implementazione della riforma economica di Gorbachev chiamata perestroika, la produzione e il consumo fossero fermi. Era una situazione che l’apparato statale non riusciva a nascondere, nonostante la prolifica documentazione nei settimanali illustrati che avevano da poco cominciato a utilizzare la fotografia in maniera considerevole per propagandare la felice situazione dell’esperienza totalitaria. Di conseguenza, la vita quotidiana nei Soviet, detta byt, può essere vista come “l’esclusione dell’evento (nel suo significato comune).” Nulla accadeva e nulla poteva accadere. Mikhailov sostiene che questa esclusione deve essere considerata un fatto positivo, un vuoto esistenziale che fornisce le basi per un approccio all’essere. L’essenza di unfinished dissertation è l’accettare le inadeguatezze della società sovietica come fatti normali, ripudiando ogni forma di resistenza. Mikhailov non vede nessuna soluzione in una critica diretta alla società sovietica, se non con l’atteggiamento di prenderla in giro e smascherare i suoi vizi. Non c’è alcun potere politico senza il controllo, attraverso l'archiviazione, dei fatti che accadono nella vita quotidiana; senza questo c’è solo memoria.

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8. la voce degli altri. jim goldberg, rich and poor (1979), raised by Wolves (1987-1993)

«Born a wicked child, raised by wolves, a screaming kamakazi, I will never crash.» Tricky Dave in raised by wolves, Jim Goldberg

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Jim Goldberg è un fotografo che ha fatto dell’utilizzo del testo scritto implementato nei suoi racconti fotografici, un’estetica personale. I progetti rich and poor del 1979 e raised by wolves del 1993 sono due esempi del suo modo di raccontare con la fotografia le vite degli altri, attraverso la loro stessa voce. rich and poor è una raccolta di fotografie scattate in 7 anni, di persone e famiglie sia ricche che povere che vivono in alberghi o residenze gestite con fondi fiduciari. Le foto mostrano due diverse classi sociali che spesso sono difficili da distinguere. Goldberg scatta dei ritratti degli individui e poi fa scrivere loro su un quaderno cosa ne pensano della foto. Le frasi non vengono trascritte dal fotografo ma riportate come copia accanto alla fotografia, mantenendo quindi la calligrafia originale. In questo modo è la loro stessa voce a parlare. I testi permettono infatti a colui che guarda di sentirsi più vicino e conoscere queste persone non solo da come appaiono nella foto. Non si tratta di commenti personali e diaristici del fotografo, ma di pensieri dei soggetti fotografati riguardo i loro desideri e le loro paure. Nel suo secondo progetto, raised by wolves, che lo tenne occupato per quasi 10 anni, Goldberg ha seguito e documentato la vita degli adolescenti di strada di Los Angeles e San Francisco. Il progetto descrive la situazione al limite di questi ragazzini scappati di casa, attraverso le loro abitudini quotidiane, di sopravvivenza, di droga, prostituzione, abusi e violenze da parte degli adulti. Le fotografie danno una visione di quella che è la disperata situazione sociale americana della vita di strada dei minori, troppo spesso ignorata. Goldberg dichiara di non voler dare risposte moralistiche dall’alto di colui che osserva e documenta e dire cosa pensa di questa situazione, ma di far sorgere domande. raised by wolves può in un certo senso essere considerato come un diario: è l’insieme dei momenti, racconti, documenti trovati e testi scritti, raccolti dall’artista nell’arco di molti anni. Si tratta di un documentario su persone reali che sono entrate in contatto con chi ha deciso di parlare di loro. Jim Goldberg costruisce una storia basata sulla diretta testimonianza dei protagonisti che mostrano la loro vita quotidiana e ne parlano attraverso le loro note e gli oggetti che fanno parte del loro universo. La storia si presenta sotto forma di un libro, una mostra e un sito che racconto in modo diverso quest’esperienza.


Si tratta di un progetto che è in parte foto-giornalistico, in parte un racconto, in parte come un film. La fotografia è accompagnata da una narrazione che può essere definita multimediale: come in rich and poor, testi scritti dai ragazzi; ma anche annotazioni del fotografo, video, fotografie ritrovate, oggetti e, per quanto riguarda le fotografie, oltre alla serie principale di circa 100 scatti in bianco e nero, anche polaroid e immagini di alcune strisce di negativi che rendono visibile il processo di selezione delle immagini e la dimensione narrativa della storia. La narrazione segue due personaggi principali, Echo, appena scappata di casa, vittima di violenze, e Tricky Dave, un ragazzo che vive in strada da diversi anni, conosciuto da tutti. I due personaggi si incontrano e si innamorano, ma la loro storia procede su strade parallele: Echo rimarrà incinta e tornerà a casa mentre Tricky Dave morirà. Di contorno alla storia principale, scenari di vita e personaggi di strada. Se si considera questo progetto nel suo stile documentario, i testi scritti e gli oggetti sono come delle prove della verità della storia. Lo stesso Goldberg dice che “c’è qualcosa di molto vero e onesto in qualcosa scritto a mano...taglia via l’artificio della fotografia”. Ma ancora, quanto è vera e documentaristica una storia raccontata come una favola, e quanto c’è di costruito, dal fotografo, dalla sua presenza e dal circuito dell’arte? La presenza di Goldberg è deliberatamente incorporata nella storia: nella mostra si sente la sua voce nei video delle interviste e si vede spesso nelle fotografie, un suo braccio, una mano, la sua ombra. Se da una parte questo conferma la verità del suo coinvolgimento nella storia, dall’altra pone la questione della distanza del fotografo e della presunta e dichiarata spontaneità di ciò che viene documentato. Goldberg insiste sul non voler dare nessun giudizio morale, ma è possibile non farlo? Dichiara di non avere un intento ideologico, ma di considerare il suo lavoro come un racconto, come arte. Ma forse lo stesso racconto può essere un punto di vista. Le implicazioni politiche di raised by wolves, sono molte, a cominciare proprio dal rapporto conflittuale dell’uso di una modalità narrativa tradizionale, quella della favola, come reportage sociale. Il progetto infatti si trova al limite dell’inchiesta, mettendone in discussione la sua tradizione documentaristica, quella che vuole dare le risposte. Ma il limite è molto sottile e l’atteggiamento di Goldberg ambiguo: se il lavoro vuole essere una documentazione della vita dei ragazzi di strada, c’è anche l’intento di creare una narrativa poetica. É più importante il reportage o la storia? Si può rinunciare a una parte di verità per il racconto? In che modo il trasporto emotivo creato dalla storia e la sensazione di essere partecipi coincide con un coinvolgimento sociale?

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9. la presenza del fotografo. larry clark, tulsa (1971)

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«I was born in Tulsa Oklahoma in 1943. When I was sixteen I started shooting amphetamine. I shot with my friends everyday for three years and then left town but I’ve gone back through the years. Once the needle goes in it never comes out. L.C.» Larry Clark tulsa di Larry Clark, comincia con la presentazione di colui che racconta la sua storia. É il racconto autobiografico di un ragazzo e del suo gruppo di amici e del loro condividere l’abuso di droghe. Le fotografie di tulsa, scattate tra il 1963 e il 1971 combinano uno stile documentario e la sequenza narrativa con l’intensità emotiva e intima di chi sta vivendo in prima persona la situazione. Nelle prime pagine Larry Clark introduce questo mondo presentando due personaggi, due amici, David Roper e Billy Mann, coloro che ritorneranno lungo tutta la storia. E poi la droga, in solitudine, in gruppo, in momenti di dolore e di noia ma anche in momenti di riunione nelle case tra amici, nei momenti di intimità sessuale. Non ci sono didascalie, solo ogni tanto delle affermazioni dirette e scarne: sotto il ritratto di una ragazza la scritta “morta” o sotto la foto di Billy seduto sul letto con in mano una pistola, che è anche la copertina del libro, c’è scritto “morto nel 1971” e nella pagina vicino “la morte è più perfetta della vita”. Comincia così il 1971, la vita va avanti allo stesso modo, si tratta della stessa famiglia. Il tempo è passato, e continua a passare. Le foto sono in sequenza; prima una ragazza incinta che si buca, poi un neonato morto in una tomba. Dov’è il fotografo? É presente sulla scena costantemente, si sente nell’affetto e nella tenerezza delle fotografie, nonostante le scene siano violente. Si tratta di una presenza che non risulta ingombrante, ma silenziosa; Non c’è né drammatizzazione, né giudizio cinico. Sono immagini che sono nello stesso tempo violente e delicate. Riconosciuto come uno dei più importanti e influenti fotografi della sua generazione, Larry Clark è conosciuto sia per i suoi lavori fotografici che per i suoi controversi film che, come le foto, raccontano la sessualità degli adolescenti, l’abuso di droghe e la violenza. Nei lavori successivi a tulsa, emerge l’interesse di indagare i pericoli e la vulnerabilità degli adolescenti maschi da una personale prospettiva autobiografica. L’indagine è una necessità che, a differenza di Goldberg, nasce dalla violenza delle vicende vissute dall’autore con un particolare coinvolgimento personale. Negli ultimi anni Clark ha lavorato molto come regista facendo emergere nei suoi film le stesse tematiche; ovviamente, c’è molta differenza tra la fiction cinematografica e il racconto personale e documentario, nonostante le problematiche


giovanili siano molto simili. 10. conclusione

Un lavoro documentario nella fotografia così come nel cinema pone costantemente il problema etico del rapporto con l’altro, il soggetto rappresentato. Abbiamo visto come, in tutti i lavori autobiografici e diaristici i soggetti principali siano le persone. Spesso sono amici e persone che appartengono allo stesso ambiente di vita del fotografo, mentre nei lavori come quelli di Jim Goldberg sono individui con i quali il fotografo entra in contatto per documentare la loro vita. Che tipo di rapporto si va ad instaurare con il fotografo? Oltre l’amicizia e la fiducia si tratta di una sorta di contratto non scritto e non detto, con il quale ci si abbandona alla rappresentazione fotografica in modo spontaneo. Ma comincia anche forse una certa recitazione da parte di chi viene fotografato e quindi documentato? Si tratta spesso di soggetti borderline, le cui vite sono problematiche per vari motivi, che possono essere l’abuso di droga, la violenza dell’ambiente in cui vivono, le difficoltà di approccio estremo al sesso. Ognuno però ha la sua storia. Sono gli individui che nessuno vuole mostrare, ma nel momento in cui le fotografie oltrepassano il limite del racconto privato e diventano qualcosa di pubblico, le tematiche sociali non si possono ignorare. Rimane poi il problema di quanto questo sia un gesto vojeristico. Negli ultimi anni le sempre più severe leggi sulla privacy, si accompagnano paradossalmente a una situazione in cui l’apparire e il consumare immagini il più realistiche possibili si diventata quasi un’ossessione. Ne sono l’emblema i reality show in cui attraverso le vite delle persone che vi partecipano, si vendono e svendono le immagini di vite presunte reali. Abbiamo tutti voglia di verità, di vita vissuta, non importa quanto questa sia reale.

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11. bibliografia Luis Alberto Alvarez, INTERVIEW WITH JACOB AUE SOBOL, “El Mundo”, www.auesobol.dk

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Note e Commenti

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colophon Scritto e realizzato per il corso di Storia e Critica della Fotografia del prof. Antonello Frongia, corso di laurea specialistica in Comunicazioni Visive e Multimendiali, IUAV Venezia, Luglio 2009. Saggio e progetto grafico di Francesca Coluzzi. Relizzato con Adobe inDesign con i font: Aldus regular, small caps e italic Frutiger 55 roman e 56 italic


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