Anno a

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Raffaele Ruffo

Riflessioni al Vangelo della domenica Anno A


ANNO A I domenica di Avvento (Mt 24,37-44) “Chiamati a cambiare d'abito!” Inizia un nuovo anno liturgico, inizia il tempo di Avvento. Pensare al tempo di Avvento credo che ci faccia proiettare subito al Natale, al presepio, all’albero, ai regali, alla Messa di mezzanotte… In realtà il tempo di Avvento non è solo una preparazione a vivere con maggiore consapevolezza e intensità la festa che fa memoria della prima venuta al mondo di Gesù, il Salvatore del mondo. Esso va oltre, allargando lo sguardo sull’immagine di “Gesù che viene” in generale; sul fatto che ogni giorno viene spiritualmente nella nostra vita per incontrarci e per farci vivere in comunione con lui e, alla fine dei tempi, verrà un’ultima volta nel pieno della sua gloria di Re dell’universo, per instaurare definitivamente il suo Regno. La liturgia di oggi, infatti, non ci parla della nascita di Gesù, ma della sua venuta finale. S. Paolo, nella sua lettera ai Romani, ci ricorda che ogni giorno che pass della nostra esistenza ci fa inesorabilmente avvicinare, che lo vogliamo o no, a quell’incontro ultimo e definitivo con Gesù: «la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti» (Rm 13,11). Di fronte a questo incontro, che realizza la pienezza della nostra salvezza e risulta essere, perciò, il più importante appuntamento della nostra vita, S. Paolo ci invita ad essere pronti e ben preparati. Gesù, nel Vangelo, fa lo stesso annuncio con una tonalità piuttosto drammatica, facendoci capire come l’evento del suo ritorno glorioso non è una favola per bambini, ma è una cosa vera e piuttosto seria, che ci riguarda personalmente e molto profondamente: «Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata». Faccio notare come, attraverso queste parole, Gesù voglia sottolineare, da una parte, l’imprevedibilità dell’incontro, dato che si parla di persone che stanno svolgendo normalmente il loro lavoro quotidiano (non sono in preghiera o in meditazione) e, dall’altra, il fatto che riguarda tutti, uomini e donne. Il fatto che uno venga preso da Gesù per essere portato nel suo Regno e l’altro lasciato non è da leggere secondo una rigida proporzione matematica: Gesù non vuole dire che il 50% degli esseri umani sarà salvato e l’altro no, ma soltanto sottolineare che ci sarà un giudizio da parte sua. Qui possiamo sentire un po’ di fastidio, perché un Gesù che dice “tu sì” e “tu no” non ci sembra molto “evangelico”. In realtà il giudizio sarà fatto su quanto quella persona avrà cercato di vivere, pur nella sua debolezza e con i suoi limiti, consapevolmente o meno, il messaggio dell’amore estremo di Gesù. Nel vangelo di domenica scorsa (solennità di N.S. Gesù Cristo re dell'universo) il concetto era lo stesso. Due uomini si trovano accanto a Gesù sulla croce, uno di essi lo riconosce Signore, gli chiede perdono e gli manifesta il desiderio di vivere in eterno con Lui, l’altro, invece, non è disposto a riconoscere nessuna delle sue colpe e non manifesta alcun desiderio di entrare in comunione con Gesù. Questi due differenti atteggiamenti nei confronti di Gesù e del suo messaggio di salvezza, l’uno di accoglienza e l’altro di indifferenza e rifiuto, fanno sì che uno entrerà nel Regno di Gesù

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e l’altro no, e questo entrarvi o meno dipende perciò dalle scelte fatte nella propria vita. Il giudizio di Gesù non sarà altro che un portare alla piena luce la verità di tali scelte e a trarne le conseguenze per l’eternità. Di fronte alla sua venuta finale Gesù ci invita ad essere pronti e a vegliare. Cosa vuol dire “vegliare”? Come ci si può preparare all’incontro con lui? La risposta ce la dà S. Paolo, invitandoci a “cambiare vestito”: «Gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce [...] Rivestitevi […] del Signore Gesù Cristo» (Rm 13,1214). Possiamo vedere la conversione come un “cambio di vestito”, un cambio di “abito”, ossia un cambio di “abitudine”. Rivestirsi di Cristo non significa mettersi addosso i panni di Gesù, ma mettersi “nei” panni di Gesù, ovvero lottare con tutte le proprie forze contro tutte quelle abitudini che ci fanno fare del male a noi stessi e agli altri, trasformandoci in esseri “tenebrosi”: invidie, gelosie, litigiosità, falsità, lussuria, vizi ed egoismi vari. Per essere invece operatori di bene: uomini e donne capaci di irradiare luce e amore intorno a noi. Quando tireremo fuori dall’armadio i vestiti più pesanti per l’inverno avremo un occasione per ricordarci di come il periodo di Avvento ci inviti a cambiare il nostro “vestito interiore”, in modo da essere pronti all’incontro definitivo con Gesù e a vivere con maggiore consapevolezza e gioia la solennità del Natale, la festa della nascita di colui che è venuto per farci fare un “cambio di vestito”, prendendo l’abito della nostra “umanità” e regalandoci l’abito della sua “divinità”!

II domenica di Avvento (Mt 3,1-12) “Una conversione di pensieri” Questa seconda domenica di Avvento ci fa incontrare Giovanni il Battista, personaggio austero, deciso e categorico. Giovanni vive nel deserto come un eremita, ma non è un isolato dal mondo. Egli ha infatti un messaggio che vuole comunicare a tutti, un messaggio così importante tanto da essere urlato a voce alta: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Per Giovanni Battista la vicinanza del regno dei cieli significava l’arrivo del Messia giustiziere, l’ora del giudizio universale: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». Non c’é niente da scherzare, c’è da avere paura! Per cui invita tutti a prepararsi a quel giorno “terribile”, confessando i propri peccati, visto che ormai il tempo stringe. Per noi, oggi, la situazione è differente. L’Avvento è un tempo di gioia, non di paura, anche se è richiesta la stessa serietà di preparazione alla quale Giovanni invitava i suoi contemporanei, poiché c’è in gioco un incontro personale, autentico e profondo con il Signore che viene... Vediamo di chiarire e approfondire il messaggio di Giovanni il Battista, partendo dalla sua frase sintesi: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Per prima cosa preferisco invertire i termini dell’annuncio: «Perché il regno dei cieli è vicino, convertitevi», perché questa inversione permette di comprendere meglio quel processo che chiamiamo “conversione”, mettendo nel giusto ordine i due momenti che lo

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caratterizzano. Il primo momento è la buona notizia che “Il regno dei cieli è vicino” a noi. Questo è il punto di partenza del cammino di conversione, prima infatti viene Dio con la sua stupefacente offerta d’amore e poi veniamo noi con la nostra risposta di accoglienza o di rifiuto. Il “regno dei cieli si è fatto vicino” significa che Dio Padre ha preso la decisione di offrirci la sua vita divina per mezzo del suo Figlio eterno, che poco più di duemila anni fa si è fatto uomo in Gesù di Nazareth. Se siamo interessati a ricevere questa offerta divina (scusate il linguaggio da “supermarket”), siamo invitati a muoverci per metterci in contatto diretto con Gesù e ricevere da Lui il dono dell’amore eterno di Dio. E’ qui, allora, che viene il secondo momento, quello che noi chiamiamo della “conversione”, cioè fare “convergere” tutte le energie e risorse della nostra persona verso Gesù, per stringere con Lui una relazione personale d’amore. Sappiamo come questo “convergere” verso Gesù sia opera dello Spirito Santo. E’ Lui infatti che permette la conversione, ovvero il farci credere che il “regno dei cieli” sia davvero vicino, che sia un’offerta meravigliosa, assolutamente da non perdere, così che la conversione comporta necessariamente il lasciarsi guidare dallo Spirito Santo. L’esperienza quotidiana di ciascuno di noi ci insegna come questo processo non sia così spontaneo e naturale, perché spesso siamo noi stessi a porre degli ostacoli davanti all’azione dello Spirito Santo, così che la conversione, nel nostro contesto, comporta il riconoscere tali ostacoli e fare di tutto per eliminarli dal cammino. La predicazione di Giovanni Battista spinge i suoi uditori a rimuovere l’ostacolo più grande al processo di conversione, cioè il non volerlo assolutamente avviare, in quanto non si ha niente da correggere o da cambiare della propria vita. L’invito di Giovanni Battista a “confessare i propri peccati” significa, allora, avere il coraggio di assumersi fino in fondo, con piena responsabilità, i doveri della propria esistenza, in particolare quello di vivere in ogni luogo, in ogni tempo e con ogni persona, il comandamento dell’amore di Gesù, così come ci ricorda S. Paolo nella sua lettera ai Romani: «Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi». Ecco che Giovanni il Battista viene a smascherarci, a liberarci, cioè, da tutte quelle maschere che ci mettiamo addosso per evitare di coinvolgerci con tutto noi stessi nelle relazioni di tutti i giorni con i nostri familiari, amici, colleghi di lavoro ed estranei. Concretamente in questo Avvento siamo invitati a “convertirci” provando a cambiare alcuni dei nostri pensieri che ostacolano la conversione e, quindi, l’accesso all’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori. Quei pensieri veicolati dalle frasi tipo: “E’ tutta colpa sua!” (ovvero, io non devo cambiare niente di me), oppure “Non cambierà mai!” (ovvero, non gli do nessuna chance di cambiamento), oppure “Ormai io non cambio più!” (ovvero, non proverò più a modificare nulla dei miei atteggiamenti). Se cominciamo a non dire più queste frasi e a scacciare dalla nostra mente quei pensieri che le generano, avremo fatto «un frutto degno della conversione» e un bel passo avanti nel nostro cammino di santificazione!

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III domenica di Avvento (Mt 11,2-11) “Le prove della vita” In questa terza domenica di Avvento siamo invitati a condividere il forte dubbio di Giovanni il Battista sull’identità di Gesù di Nazareth: “E’ davvero lui il Messia che stiamo aspettando, la cui venuta io ho annunciato con tutte le mie forze?”. Per capire meglio il contesto in cui nasce questo dubbio dobbiamo metterci nei panni di Giovanni il Battista. Egli si trova in prigione per avere avuto il coraggio di dire al re Erode che la sua scelta di prendere in sposa la moglie di suo fratello è una cosa riprovevole, che va contro la Legge di Dio, il comandamento di “non commettere adulterio”. Impossibilitato, quindi, a continuare la sua missione di preparare il popolo all’incontro con il Messia, Giovanni resta in contatto con l’esterno attraverso le visite dei suoi discepoli, i quali gli comunicano che Gesù di Nazareth, proprio subito dopo la sua cattura, è entrato in scena parlando del Regno di Dio e facendo tanti miracoli, tanto da sembrare proprio lui il Messia atteso. Il dubbio di Giovanni nasce considerando due cose. La prima, il fatto che egli ha annunciato il giorno del Messia come un giorno di giudizio definitivo, di condanna per i malvagi e di premio per i giusti, mentre Gesù sembra non comportarsi proprio così. Lo si trova, spesso, a parlare e a mangiare con i peccatori pubblici aprendo loro le porte della misericordia di Dio. La seconda cosa, più personale, è il fatto che, tra le prerogative del Messia c’era anche quella di liberare i prigionieri, ossia coloro che sono stati imprigionati ingiustamente, perché fedeli alla Legge di Dio (cfr. Is 42,7). Giovanni, si domanda, allora: “Perché Gesù non viene a liberarmi?”. Queste due considerazioni gettano in profonda crisi Giovanni il Battista. Ecco, dunque, il senso della domanda posta a Gesù, tramite i suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù risponde esortando Giovanni il Battista a superare il momento di crisi convertendosi, ovvero cambiando il suo giudizio sull’operato del Messia. Lo invita a non scandalizzarsi, cioè, di quello che egli dice e fa, quando ciò non corrisponde alle sue attese e ai suoi convincimenti personali. Inoltre, lo invita a prestare attenzione ai segni che egli sta facendo: «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano …». Segni che, tra l’altro, Giovanni il Battista non può vedere con i propri occhi, perché si trova in prigione. Egli deve fidarsi di quello che gli raccontano i suoi discepoli. Giovanni è così chiamato a fare un “doppio” affidamento: nei confronti di Gesù e nei confronti dei suoi discepoli. Ora togliamoci i panni di Giovanni il Battista per indossare i nostri. La vicenda di Giovanni il Battista ci invita a sfatare il “mito”, piuttosto infantile, che se io mi comporto bene, ossia metto in pratica i comandamenti del Signore, tutto andrà sempre liscio e non avrò mai nessuna difficoltà. Spesso quello che noi consideriamo il “nostro bene", non corrisponde al bene che Gesù pensa: «i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Infatti per noi il “nostro bene” è spesso non avere preoccupazioni, essere tranquilli, non vivere tensioni, troppe fatiche, etc. Per Gesù, invece, il “nostro bene” è raggiungere la pienezza della santità, ossia vivere con tutto noi stessi il comandamento dell’amore,

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condividendo la stessa vita di Dio: l’Amore. In questo contesto capiamo allora come la morte in croce di Gesù sia la forma più alta dell’amore: darsi tutto a quelli che ti stanno facendo soffrire e morire, perché li ami. Questo è l’apice “drammatico” della realizzazione umana, dove l’uomo ama “da Dio” (“grazie a” Dio e “per” Dio). Possiamo dire allora che per Giovanni il Battista il suo vero bene è testimoniare fino alla morte il suo amore per la verità di Dio. E’ proprio per questo che non è stato liberato da Gesù. Tutti i santi hanno vissuto diversi momenti di difficoltà, di prove e anche di dubbio, ma alla fine del loro “combattimento spirituale” hanno fatto prevalere l’amore e la fiducia in Gesù e questo li ha resi “santi”. Facciamo però attenzione a non “paragonare tra loro” le difficoltà delle diverse prove alle quali uno può essere sottoposto, nel senso che Gesù sapeva che, in quel momento, la prova del martirio era alla portata di Giovanni Battista. Non è che tutti siamo chiamati a vivere tutte le varie prove vissute, ad esempio, da Padre Pio, perché noi non siamo Padre Pio, ma è anche vero che il cammino spirituale proposto da Gesù, ossia la crescita nella capacità di amare, di donarsi a Dio e al prossimo, è uguale per tutti. L’entità della prova dipende dalla tappa di cammino che stiamo percorrendo, tenendo sempre presente che «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13).

IV domenica di Avvento (Mt 1,18-24) “Giuseppe, l'uomo giusto” Questa quarta domenica di Avvento ci permette di guardare l’avvenimento dell’annuncio della nascita di Gesù attraverso gli occhi di Giuseppe, chiamato ad essere il padre putativo del Figlio di Dio. Se l’evangelista Luca ama raccontare nei dettagli l’annunciazione dell’angelo a Maria, l’evangelista Matteo non dà molti dettagli sul suo concepimento verginale, dice solo che ella «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo». A lui interessa di più raccontarci l’annuncio dell’angelo a Giuseppe. Qual è la situazione? I dettagli non li sappiamo, possiamo, però, giocare un po’ con la “santa immaginazione”. Immaginiamoci Maria che racconta a Giuseppe l’annuncio dell’arcangelo Gabriele, l’esperienza mistica vissuta dalla cugina Elisabetta e la notizia di essere effettivamente incinta, ormai da diversi mesi. Maria racconta tutte queste cose in un misto di grande gioia, stupore e preoccupazione. Giuseppe è un uomo giusto. Questa sua “giustizia” corrisponde al desiderio di compiere sempre la volontà di Dio, qualunque essa sia, per cui, seppure con qualche legittima tentazione d’incredulità, dà credito alle parole di Maria. Non dimentichiamo poi che Maria è una donna tutta pura e santa in pensieri, parole e azioni e immagino che sia proprio per questo che Giuseppe se ne fosse innamorato… La situazione rimane comunque drammatica, perché quando i segni dell’essere incinta di Maria saranno visibili, Giuseppe dovrà dare un spiegazione alla gente, per cui egli deve presto prendere una decisione sulla vita della sua promessa sposa. Giuseppe è

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tentato di lasciare Maria al suo destino, non perché non la ami più o perché non creda in lei, ma perché ciò che in lei è avvenuto è un qualcosa di così straordinario, che lui non si sente per nulla degno e capace di prendervi parte. E’ proprio di fronte a questi pensieri che Dio, attraverso un angelo, spiega a Giuseppe che in questo avvenimento anche lui ha una parte importante da compiere, anche lui è chiamato ad entrare nel progetto di Dio: «Giuseppe, Figlio di Davide non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Focalizziamo i contenuti dell’annuncio. Per prima cosa Giuseppe viene chiamato “Figlio di Davide”, a ricordargli di come il Messia, secondo le Scritture, sarebbe nato da uno della discendenza di Davide, per cui Giuseppe, per “generazione”, rientra nella categoria di un potenziale “genitore” del Messia. Poi, quando l’angelo lo invita a non avere timore di prendere con se Maria, si capisce che Giuseppe non voleva affatto ripudiarla come donna adultera ma, anzi, la voleva effettivamente prendere in casa sua, solo che aveva paura. Paura per la grandezza e misteriosità della cosa e per quei pensieri che vi accennavo prima. Poi gli viene comunicato che è Dio in persona, attraverso l’azione dello Spirito Santo, l’autore del concepimento, così come gli aveva già confessato Maria. Infine, gli si ricorda che, al di là di questo, egli avrà una parte attiva in questa nascita, perché come ogni padre dovrà dare lui il nome al proprio figlio, esercitando in tutto e per tutto il suo ruolo di “papà”. Tutto ciò è proprio quello di cui Giuseppe aveva bisogno di sentirsi dire, per poter entrare con tutto se stesso in questo straordinario progetto di Dio. Giuseppe, allora, per questa sua esperienza vissuta, diviene per noi un modello da seguire tutte quelle volte che il Signore entra nella nostra vita con delle novità inaspettate, che spesso ci sembrano più grandi di noi e che scombinano i nostri progetti originari. In quei momenti rivolgiamoci a lui, che può ben capirci e chiediamogli la forza per potere dire il nostro “sì” al nuovo progetto al quale il Signore ci chiama. L’evangelista Matteo, poi, conclude il suo racconto ricorrendo ad una citazione del profeta Isaia che spiega che il Messia sarebbe nato da una donna vergine e che sarebbe stato chiamato «Emmanuele, che significa “Dio con noi”». In questo appellativo c’è una spiegazione del perché del concepimento verginale di Gesù. Per potere essere veramente “Dio con noi”, Dio deve entrare con tutto se stesso nelle pieghe dei nostri cuori e dei nostri corpi, deve cioè farsi uomo, uno di noi. Così che Dio ha bisogno soltanto di qualcuno (Maria) che gli doni un corpo umano dove potere immettere la pienezza della sua divinità. E’ così che ci siamo introdotti alla solennità del Natale, della nascita di Gesù, Figlio di Dio “nello Spirito” e nostro fratello “nella carne”.

Notte di Natale (Lc 2,1-14) “Una nascita in punta di piedi” Certo che Dio-Padre per fare nascere il suo Figlio non poteva scegliere un modo

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meno spettacolare! Gesù infatti nasce in un piccolo paese, Betlemme, che poteva avere a quel tempo qualche centinaia di abitanti o poco più; in un ambiente povero (una mangiatoia); da genitori poveri, di umili condizioni; in viaggio… Una nascita che non fa nessuno scalpore, una nascita nell’anonimato. Il bambino Gesù non ha dei segni particolari che lo possano far distinguere dagli altri neonati del tempo, è proprio “uguale” a tutti gli altri. Eppure quel bambino è il Figlio di Dio e il Salvatore dell’umanità !!! Contemporaneamente alla nascita di Gesù c’è un altro evento che si sta realizzando e che coinvolge tutto il mondo allora conosciuto, il censimento di Cesare Augusto, l’imperatore di Roma, l’uomo più importante e potente del tempo. Egli, considerato una sorta di semi-dio sceso sulla terra, attraverso il censimento vuole rendersi maggiormente conto della grandezza del suo Impero, della sua potenza e della sua effettiva forza. E’ bello notare come questi due avvenimenti, così diversi tra loro, si incontrino, o meglio, si sfiorino a Betlemme, perché lì, proprio lì, nella città del grande re Davide, Dio ha deciso che doveva nascere suo Figlio. Per cui Maria e Giuseppe, obbedendo alla volontà dell’imperatore, inconsapevolmente obbediscono anche alla volontà di Dio. Due avvenimenti diversi anche nel modo in cui vengono presentati al mondo. Se la notizia del censimento imperiale viene pubblicizzata con tutti i mezzi allora a disposizione, in modo da raggiungere tutti gli uomini soggiogati, a vario titolo, dall’Impero Romano, l’evento nascita di Gesù si svolge, al contrario, in maniera semplice, umile, silenziosa, quasi in punta di piedi. In effetti, se tutti sanno del censimento romano, il fatto che sia nato il vero e unico Salvatore del mondo non lo sa quasi nessuno. Ne sono a conoscenza solo Maria, Giuseppe, Elisabetta (la cugina di Maria) e suo marito Zaccaria, quattro persone in tutto! E’ vero che poi lo verranno a sapere anche alcuni pastori, ma quanti saranno stati? Pochi anche loro! Così che milioni di persone sanno di un futile censimento ordinato dall’Imperatore, mentre una decina o poco più sanno che è nato il Salvatore del mondo! Tra l’altro, se guardiamo a come quei pochi sono venuti a conoscenza della “particolare” identità di quel bambino, dobbiamo registrare come nessuno di loro ci sia arrivato da solo, per intuizione personale o grazie alle proprie capacità intellettive o conoscitive: ciascuno di loro ha dovuto ricevere una rivelazione dall’Alto, da parte di Dio, attraverso dei suoi messaggeri, gli angeli. Cosa vuol dire questo? Che dobbiamo vedere la nascita di Gesù come una nascita “misteriosa”, ed è proprio questo mistero che deve illuminare la festa del Natale. Oggi sembra che il Natale abbia perso molto del suo mistero originario, nel senso che il “Natale” è diventato ormai pubblico e pubblicizzato in quasi tutto il mondo. Ci sono tanti segni esteriori che ogni anno lo richiamano: luminarie sempre più belle, addobbi sempre più ricchi, “Babbo Natale” sempre più diffusi, mercatini che si moltiplicano in tante città, offerte di regali sempre più svariate, vecchi e nuovi dolci inventati apposta per “Natale”. Il Natale, attraverso questi suoi segni esteriori, ha ormai varcato i confini del cristianesimo e della fede in Dio, sembra che buona parte dell’umanità (almeno qualche miliardo di persone sicuro) sia entrata in contatto con il Natale. Sembra, allora, che il suo mistero sia stato ormai svelato, che tutto risulti evidente e chiaro. In verità, la festa liturgica del Natale, il “Natale di Dio”, che trova il suo centro nella celebrazione della Messa, è la sola capace di farci entrare in contatto con il fascino indelebile di quella misteriosa nascita, ma, questo accesso all’autentico spirito del

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Natale, che può davvero cambiare la vita di ogni uomo, è ancora purtroppo di poche persone, rispetto alla totalità dell’umanità. Duemila anni fa come oggi c’è bisogno dell’intervento di Dio, solo Lui può svelare all’uomo di ogni tempo il mistero della nascita del suo Figlio: «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo; oggi nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore». Se per quel primo annuncio Dio si è servito degli angeli (non poteva fare altro), egli ha poi chiamato al suo servizio coloro che hanno creduto a quell’annuncio, cominciando dai pastori, che, dopo avere accolto il messaggio degli angeli inviati, vanno a Betlemme per “riannunciarlo” a loro volta a Maria, a Giuseppe e agli altri uomini là presenti. Tocca a noi, allora, fare oggi la parte degli “angeli”, diventando “messaggeri” della nascita del Salvatore dell’umanità!

II domenica di Natale (Gv 1,1-18) “L'Amore si è fatto carne!” Eccoci di fronte al famoso “prologo” di Giovanni, l’inizio del suo Vangelo, brano che la Liturgia ci ha già presentato nella Messa del giorno di Natale. Esso è una riflessione molto profonda sul mistero dell’incarnazione di Dio e sulle sue conseguenze nella vita degli uomini. La frase centrale è: «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Il “Verbo” è una traduzione della parola greca “Logos”, che può assumere diverse sfumature di significato. A me, vi confesso, non piace molto la traduzione “Verbo”, perché mi ricorda troppo l’analisi logica, per cui preferisco tradurre “Logos” con “Parola”, che, a mio avviso, rende meglio l’idea della comunicazione, della relazione che Dio vuole instaurare con gli uomini. Qual è questa Parola che “si è fatta carne”, “è venuta ad abitare in mezzo a noi”, che Dio vuole condividere con l’uomo? Sveliamo subito il mistero: questa Parola è “Amore”, amore con la A maiuscola, perché è l’essenza stessa di Dio («Dio è amore», 1Gv 4,8). Per cui possiamo dire così: l’amore di Dio, o meglio, l’Amore che è Dio, è venuto ad abitare in mezzo a noi nella persona di Gesù di Nazareth, così che guardando a Gesù possiamo contemplare con i nostri occhi tutta la pienezza dell’amore di Dio. Tutta la vita di Gesù, infatti, è una vita di Amore, fatta di accoglienza, disponibilità, attenzione, cura, condivisione, coraggio, perdono, una vita che ci permette di “vedere” e di “sperimentare” l’Amore di Dio per l’uomo, la sua creatura sommamente amata. In fondo gli stessi sacramenti dobbiamo vederli come la possibilità che ci viene offerta per entrare in contatto con l’Amore di Dio in Gesù Cristo. Nel Battesimo, infatti, egli ci immerge nella sua vita divina d’Amore, nell’Eucaristia ci dona il suo Amore come nutrimento quotidiano, nella Riconciliazione ci offre il suo perdono, nel sacramento dell’Unzione degli infermi si prende cura di noi, nel sacramento della Cresima, del Matrimonio e dell’Ordine sacerdotale ci fortifica e ci invita, attraverso doni differenti, ad essere testimoni del suo Amore nel mondo. Il prologo di Giovanni, però, fa anche risaltare un altro fatto, ossia che l’Amore di

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Dio, manifestato in maniera “visibile” in Gesù, non è stato accolto da tutti gli uomini, anzi, la maggioranza lo ha rifiutato: «Era nel mondo […] eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne tra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto». Giovanni ha, giustamente, legato il mistero dell’Incarnazione a quello della passione-morte-risurrezione di Gesù, il “Natale” alla “Pasqua”, mostrando come Gesù-Amore non sia stato compreso, ma rifiutato dalle sue stesse creature, che sono arrivate addirittura a voler appendere l’Amore sulla croce nel tentativo di spegnerlo e farlo morire per sempre. Capiamo, allora, perché Giovanni nel suo Vangelo mostri Gesù in croce non tanto su un patibolo, ma su un trono, perché ha capito che l’Amore doveva salire davvero sulla croce, per mostrare all’umanità intera che Dio-Amore ama anche quelli che lo odiano ed è disposto a dare la vita anche a quelli che gliela vogliono togliere. Sulla base di questo possiamo anche comprendere che cosa sia il “peccato” nella sua essenza più profonda. Peccare significa rifiutare di accogliere “Dio-Amore” nei nostri modi di pensare e di agire, nelle nostre scelte di ogni giorno. Nel concreto significa “non-amare”, vivere egoisticamente chiusi in se stessi, pensare e fare del male agli altri, non esercitare la compassione ed il perdono. Questo peccato nei confronti del prossimo è anche un peccato nei confronti di Dio, perché non gli permettiamo di “vivere” nei nostri cuori, non gli permettiamo di trasformarci in strumenti/messaggeri del suo Amore. «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta». Volevano uccidere l’amore di Dio, eliminare per sempre il Dio-Amore dalla faccia della terra, ma questo non era e non è nelle possibilità degli uomini. La risurrezione di Gesù è infatti il sigillo del trionfo dell’amore su ogni volontà di male e sulla morte stessa. L’ultima parola che Dio pronuncerà sulla nostra vita, sarà la stessa che ci ha permesso un giorno di cominciare a vivere, quella parola è Amore, ovvero “io, Dio, amo te (ognuno metta il suo nome), mia creatura prediletta”. Sarà questa stessa parola che dopo la morte ci purificherà dalle scorie del non-amore che ci porteremo nella tomba, ma che rimarranno nella tomba stessa, perché l’Amore di Dio ci renderà puri e immacolati per poter eternamente condividere uniti a Dio Amore, l’Amore per tutti gli uomini, questa è l’essenza del “paradiso”. E’ alla luce di Dio-Amore, allora, che possiamo comprendere e legare insieme i diversi insegnamenti della fede cristiana: santità-peccato, vita-morte, luce-tenebre, paradiso-purgatorio-inferno, e questo grazie, soprattutto, alle profonde riflessioni dell’evangelista Giovanni.

Festa del Battesimo di Gesù (Mt 3,13-17) “Tu sei un figlio amato!” Questa domenica la Liturgia ci invita a guardare ad un avvenimento della vita di Gesù, il suo battesimo, che, tra le feste di Gesù, forse è quella che ci può sembrare più distante e meno stimolante. Sono d’avviso diverso gli evangelisti sinottici (Matteo, Marco e Luca), che, tutti e tre, ricordano questo avvenimento dandone un grande rilievo. Cerchiamo allora di approfondire un po’ questo episodio e vedere, poi, quale sia

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il suo legame con il nostro Battesimo. Gesù si presenta da Giovanni Battista con l’intenzione di farsi battezzare da lui, come tutti gli altri uomini e donne. Questo fatto è certamente sorprendente, visto che quel battesimo era proposto da Giovanni come segno di purificazione nella confessione dei propri peccati, in attesa del giudizio ormai imminente del Messia. Giovanni stesso rimane meravigliato, tanto da rifiutarsi di battezzare Gesù: «Giovanni voleva impedirglielo». Egli non riesce proprio a comprendere perché Gesù voglia farsi battezzare: “Che senso può avere per Lui, «l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29), scendere in quelle acque “sporche” dove si sono ammassati i peccati di tutti quelli che si sono fatti battezzare prima di Lui?”. Ma Gesù insiste dicendo a Giovanni che Lui “deve” entrare in quelle acque, perché quella è un’azione simbolica importante, che ha un grande valore, soprattutto agli occhi di Dio. In effetti, quando Gesù uscirà dalle acque succederà il “finimondo”: i cieli si aprono, lo Spirito Santo scende su di Lui e si sente persino la voce del Padre celeste! Questi indizi ci fanno capire come l’episodio del Battesimo di Gesù abbia un valore particolare proprio in seno alla Trinità, il Dio Uno e Trino. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo si sono manifestati all’umanità come il Dio-Amore unito nel desiderio di salvare gli uomini dal peccato, dal male e dalla morte. La calata e risalita di Gesù dalle acque del Giordano sono così una sorta di prefigurazione della sua morte e risurrezione, che simboleggia il desiderio di Dio di salvare l’umanità. Credo possa essere proprio questo il senso dell’espressione di Gesù rivolta a Giovanni Battista: «conviene che adempiamo ogni giustizia»; la giustizia, in questo contesto, è la manifestazione dell’amore di Dio verso l’uomo peccatore. Allora, in questo senso, la festa del Battesimo di Gesù diventa un prolungamento della festa del Natale: mentre là abbiamo contemplato Gesù, il Figlio di Dio, che si fa uomo per salvarci, qui contempliamo tutta la Trinità che si presenta ormai pronta ad iniziare l’opera della nostra salvezza. Andiamo ora alla frase pronunciata dal Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento». E’ una frase rivolta a tutti i presenti, rappresenta una sorta di investitura ufficiale “dall’alto” della persona di Gesù di Nazareth. Egli non si è ancora manifestato pubblicamente al popolo, deve ancora iniziare a predicare, a fare i miracoli; il Padre celeste, però, ci tiene, sin dall’inizio, a dire a tutti: “Guardate che quell’uomo che vedete, Gesù di Nazareth, è davvero mio Figlio!”. Arriviamo allora al nostro Battesimo, credo non ci faccia male ricordare come nel giorno in cui ciascuno di noi è stato battezzato siamo entrati “misticamente” a vivere all’interno del mistero d’amore della Trinità. Siamo stati, infatti, battezzati, ovvero “immersi”, «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», dove “nel nome” sta a significare “nella persona”. Ci siamo rivestiti di Gesù, ovvero Gesù ci ha fatti entrare nel suo mistero di morte-risurrezione, ossia ci ha liberati dal peccato e dalla morte spirituale, in modo che il Padre guardando i nostri piccoli corpicini potesse dire: “Anche questo/a è mio figlio/a che amo, in lui/lei io pongo il mio compiacimento!”. Da notare come questa frase pronunciata dal Padre il giorno del nostro Battesimo (certamente in maniera meno “roboante” che nel giorno del battesimo di Gesù) sia “indelebile”, nessuno la potrà mia cancellare. Egli l’ha scritta utilizzando un inchiostro “eterno”, nel senso che Egli continuerà a pronunciarla sia quando ci comporteremo davvero da suoi figli, sia quando non lo faremo… Allora credo che in questa domenica siamo invitati a ringraziare il nostro Dio per

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tutto quell’amore davvero “eccessivo” che dimostra di avere per noi e ringraziare anche tutti quelli che hanno permesso il nostro Battesimo (genitori, sacerdoti) e tutti quelli che ci aiutano a crescere nella grazia del Battesimo, per diventare sempre più figli di Dio, assomigliandogli nei nostri pensieri e nei nostri comportamenti di ogni giorno.

II domenica del Tempo ordinario (Gv 1,29-34) “Ha eliminato il peccato del mondo” Con questa domenica ci lasciamo alle spalle il tempo di Natale e cominciamo a vivere nel tempo ordinario. Non cominciamo però con il Vangelo di Matteo, che è quello proprio di quest’anno (ciclo A), perché la Liturgia ci propone un brano del Vangelo di Giovanni, che si situa “cronologicamente” dopo il Battesimo di Gesù, offrendoci così una sorta di ponte tra tempo di Natale e tempo ordinario. E’ interessante notare come l’evangelista Giovanni, a differenza degli altri tre, non dice che Gesù si è fatto battezzare da Giovanni il Battista. Perché questo occultamento? Credo perché Giovanni evangelista abbia voluto evitare di dare un appiglio a quelli che non credevano nell’identità di Gesù come Messia e Figlio di Dio, che avrebbero potuto dire: “Ma se è Lui il Messia, quindi superiore a Giovanni, perché si è fatto battezzare da un inferiore?” (avete mai visto, ad esempio, un diacono che benedice un vescovo?). Per evitare, allora, una possibile confusione o contestazione e dover spiegare il perché del lasciarsi battezzare di Gesù, cosa che forse non era così chiaro nemmeno a lui, l’evangelista ha ritenuto essere più interessante approfondire il significato di ciò che accade dopo tale gesto. Andiamo allora al brano. Giovanni il Battista si mostra assolutamente convinto di conoscere la vera identità di Gesù. Chi è questo uomo venuto da Nazareth? Risposta: quell’uomo «è il Figlio di Dio». Potremmo dirgli: Ma come fai a saperlo? Da dove ti viene questa sicurezza? Te l’ha detto qualcuno o ci sei arrivato da solo? Giovanni risponde dicendo che ha visto un qualcosa di misterioso che è avvenuto a Gesù: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui». L’evento è questo: lo Spirito Santo ha preso dimora stabile in Gesù, ciò significa che Gesù è ben diverso da tutti gli altri uomini, anche santi, come ad esempio Abramo, Mosè, i profeti, il re Davide. Questi hanno tutti ricevuto una missione dallo Spirito Santo, sono diventati “amici di Dio”, ma non in maniera stabile, nel senso che sia Abramo, sia Mosè, sia i profeti, sia Davide non sono stati sempre dei fedeli amici di Dio. Qualche volta, lo Spirito Santo non lo hanno ascoltato affatto, commettendo dei peccati contro Dio. Con Gesù è diverso, poiché Gesù e lo Spirito Sono uniti intimamente ed eternamente. Quello che Giovanni Battista testimonia è praticamente un approfondimento del cuore del prologo del Vangelo di Giovanni: Il Verbo eterno di Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth; l’evento del Battesimo di Gesù, con la discesa dello Spirito Santo, è una ulteriore rivelazione per noi uomini di quella relazione eterna esistente tra il Figlio e lo Spirito Santo. Il fatto che Gesù e lo Spirito Santo siano uniti indissolubilmente fa si che Gesù, e

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solo lui, abbia il potere di battezzare nello Spirito Santo. Ma cosa vuol dire battezzare nello Spirito Santo? Ritorniamo a Giovanni: «Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!». Qui dobbiamo fermarci un po’ a riflettere. Il battesimo di Giovani era, possiamo dire, un battesimo d’intenzione, nel senso che colui che si faceva immergere nel Giordano gridava a voce alta i propri peccati, chiedendo il perdono di Dio. Però Giovanni il Battista non aveva il potere di perdonare i peccati, perché questo potere appartiene a Dio solo. E’ Gesù, il Figlio di Dio, che ha il potere di perdonare i peccati degli uomini, proprio attraverso l’azione dello Spirito Santo. Quando nel sacramento della riconciliazione veniamo assolti dal sacerdote, il Padre ci perdona per mezzo del “sì” del suo Figlio pronunciato sulla croce. Questo per opera dello Spirito Santo, che “materialmente” cancella i nostri peccati e ci purifica interiormente. Faccio notare che non dobbiamo “storpiare” la corretta traduzione «che toglie il peccato del mondo», ad esempio dicendo che “toglie i peccati dal mondo”, perché è vero che i peccati nel mondo ci sono ancora, ancora dopo Gesù, ancora dopo il nostro Battesimo, ancora dopo l’assoluzione sacramentale. Gesù ha il potere di distruggere il male che l’uomo compie, ma sempre attraverso il suo libero pentimento e desiderio di conversione. Infatti, dopo l’assoluzione, che realmente ci rigenera nello Spirito Santo, noi possiamo continuare a peccare quanto vogliamo… L’eliminazione di tutti i peccati dal mondo sarà un effetto della venuta ultima e definitiva di Gesù nella sua gloria, quando il male sarà totalmente e radicalmente estirpato, ma fino ad allora la vita sarà una ”battaglia” tra bene e male. Battaglia che però non combattiamo da soli, perché Gesù e lo Spirito Santo, intimamente uniti tra loro e con il Padre, sono sempre al nostro fianco per accompagnarci a progredire sulla via dell’amore.

III domenica del Tempo ordinario (Mt 4,12-23) “Seguirlo ora” Il Vangelo di questa domenica ci presenta l’inizio della missione di Gesù, della sua manifestazione pubblica. Avviene un cambio di scena, o meglio, di personaggi, dato che Giovanni il Battista è costretto in maniera drammatica a lasciare il suo posto di preparatore della strada del Messia. L’arresto di Giovanni diventa allora un segnale per Gesù: è giunto per lui il momento di lasciare l’anonimato di Nazaret e trasferirsi in Galilea, a Cafarnao, presso il lago di Tiberiade. Faccio notare come l’inizio dell’attività di Gesù non sia segnata da un fatto “mistico”, ma da un fatto umano altamente drammatico, ossia l’arresto ingiusto di un uomo innocente, vittima del potere della massima autorità civile del tempo, il Re Erode. Di fronte a questo avvenimento Gesù non si comporta da “rivoluzionario”, nel senso che non pensa affatto di organizzare un blitz per andare a liberare suo cugino, ma accetta l’evento. Inoltre, rileviamo come Gesù inizi la sua attività dopo essersi trasferito dalla sua città, lasciando così casa, famiglia, lavoro, abitudini, per cominciare tutto solo, anche se

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questa solitudine durerà poco tempo. Anche in questo non c’è niente di magico o di straordinario. Gesù entra in scena presentandosi come un uomo “normale”, come uno di noi. Egli comincia a predicare nella sinagoga di Cafarnao ed è lì che, molto presumibilmente, Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo lo incontrano e lo ascoltano per la prima volta. Qual é il messaggio comunicato da Gesù? Davvero poche parole: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Sembra un messaggio piuttosto “originale”, ma se andate a vedere qual era il messaggio proposto da Giovanni il Battista scoprirete che era esattamente lo stesso: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino» (Mt 3,1). E’ chiaro però che questa frase detta da Gesù ha una rilevanza ben diversa rispetto a quando la pronunciava Giovanni. Infatti, detta da Giovanni significa: “Sta per arrivare il Messia”, mentre detta da Gesù significa: “Eccomi, il Messia è arrivato, sono io che vi parlo!”. La frase “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino” è una frase che ha un valore continuativo, nel senso che ogni giorno dovremmo ripetercela, o meglio, immaginare Gesù di fronte a noi che ci guarda negli occhi e la pronuncia. In effetti, la possiamo vedere come una sintesi del Vangelo stesso, dove la seconda parte della frase: “Il Regno dei cieli è vicino”, significa che Dio “è sceso dai cieli” per farsi nostro prossimo. E’ la constatazione che Gesù, il Figlio di Dio, è al nostro fianco per proporci e insegnarci a vivere come vive Dio, facendoci immergere nel “comandamento” dell’amore, quello stesso amore che unisce eternamente il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Se la seconda parte della frase ci parla, allora, dell’offerta che Dio fa a noi della sua amicizia e del suo amore, la prima parte della frase (“Convertitevi”) fa riferimento alla nostra risposta a quell’offerta: Ci stiamo o non ci stiamo? Ci interessa o no? Vogliamo prendere sul serio l’offerta di diventare come Dio, di potere crescere progressivamente nell’amore, oppure ci accontentiamo di “volare” un po’ più bassi, non lasciandoci immergere nell’amore di Dio, per essere purificati, guariti, rinnovati, riempiti, ma tenendoci degli spazi, più o meno grandi, dove Lui non ci deve assolutamente entrare? Capite allora come la frase di Gesù, così sintetica, in realtà apre uno scenario davvero grande, capace di coinvolgere tutta la nostra esistenza. Evitiamo di passare subito al moralismo: “conversione = diventare un po’ più buoni/bravi e meno cattivi”; perché in realtà il discorso è molto più profondo: “conversione = accettare la proposta/offerta di Gesù di diventare come lui, di amare come ama lui…”. Torniamo a Gesù, che dopo essersi presentato alla sinagoga di Cafarnao, si fa un bel giretto sulla riva del lago e incontra dei pescatori al lavoro; getta l’occhio su due coppie di fratelli e fa loro una proposta, usando un tono particolarmente costringente: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Essi «subito» lasciano il lavoro e la loro famiglia e si mettono a seguirlo. Non voglio togliere dello “charme” a Gesù, ma non pensiamo che i nostri quattro amici (Simone, Andrea, Giovanni e Giacomo) siano stati così ammaliati da Gesù, al punto da non avere avuto la libertà di rispondere o meno all’invito, accecati da un Gesù che “magicamente” li ha attirati a sé. L’accento sul “subito” dobbiamo leggerlo come un richiamo che testimonia il fatto che di fronte alla chiamata/proposta di Gesù non c’è molto da tergiversare, ma è una chiamata/proposta da prendere sul serio e anche con una

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certa celerità. Questo perché chi parla è Dio stesso, per cui come si può dire a Dio: “Aspetta!”, se in quel momento, e quel momento è “ora”, ti dice di seguirlo?

IV domenica del Tempo ordinario (Mt 5,1-12) “Una vita beata” Eccoci di fronte ad una delle pagine più conosciute del Vangelo di Matteo: il discorso delle “beatitudini”. Esso, come sapete, è l’inizio del lungo discorso “della montagna”, che occupa i capitoli 5-7 dello stesso Vangelo, e che può essere considerato come il miglior commento alle beatitudini stesse, essendo una sorta di approfondimento “morale” di ciò che viene da esse annunciato. Mi viene da porre subito due domande: Ci sono delle persone che conosciamo che potremmo definire «beate», perché? Noi stessi possiamo considerarci, in un certo senso, dei «beati», perché, in che senso? (Rispondere a queste due domande è il compito che vi lascio per questa settimana). A volte ci capita di sentir dire: “Beato te!” e in genere si usa quell’espressione per definire uno stato particolare di benessere che una persona si trova a vivere, un benessere che, magari, a noi in quel momento manca: es. “Beato te che sei in ferie, a me tocca invece andare a lavorare”; “Beato te che hai trovato lavoro, io, invece, non l’ho ancora trovato”. Anche Gesù usa la nostra stessa terminologia, anche se parla di beatitudini particolari: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». E’ la prima beatitudine, non solo in senso cronologico, ma è “prima” nel senso che contiene dentro di sé tutte le altre che la seguono. Infatti, la prima parte di ogni altra beatitudine spiega, concretamente, cosa vuole dire essere “poveri in spirito”, e la seconda parte spiega cosa vuol dire “possedere il regno dei cieli”. In sintesi, l’annuncio delle beatitudini è questo: Gesù è venuto ad offrirti la possibilità di entrare in stretta amicizia/comunione con Lui, di condividere la sua stessa vita di “Dio fatto uomo”. Siamo così in continuità con l’immagine di domenica scorsa, del battesimo di Gesù che porta i cieli ad “aprirsi”. Bene, il discorso delle beatitudini ”traduce” l’offerta di Dio di entrare “nei cieli”, che si sono appena aperti per tutti gli uomini. Allora comprendiamo subito che sarò lo Spirito Santo, sceso dal cielo sotto la forma di colomba, che, entrando nel nostro intimo, ci permetterà di “entrare/salire nei cieli” aperti. Questo per dire che non sta nelle nostre sole capacità umane il vivere le beatitudini, ma è un dono che Dio Padre ci fa, per mezzo di Gesù, sotto l’azione dello Spirito Santo. Per cui per essere davvero “Beati” bisogna lasciarsi plasmare e guidare dallo Spirito Santo. Non ho messo a caso la “B” maiuscola, perché quando la Chiesa definisce “Beato” qualcuno, non solo riconosce che questa persona si trova nella beatitudine eterna, ma che, grazie all’azione dello Spirito Santo, egli ha potuto vivere la gioia delle beatitudini già nella sua vita terrena. Torniamo ora all’idea che le altre sette beatitudini sono una sorta di spiegazione e approfondimento della prima beatitudine. Se ci chiediamo chi siano i “poveri in spirito” (i soggetti della prima beatitudine), la risposta è: quelli che soffrono di fronte alle

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ingiustizie del mondo e desiderano, sopra ogni cosa, che regni l’amore e la verità (“quelli che sono nel pianto” e “affamati e assetati di giustizia”); quelli che cercano attraverso il loro esempio di cambiare il mondo instaurando un rapporto amorevole verso il prossimo (“miti” e “misericordiosi”); che sono disposti a perdonare quando subiscono dei torti (“operatori di pace”); sono semplici, sinceri, lineari e trasparenti (“puri ci cuore”). Inoltre, il vivere tutti questi atteggiamenti porterà loro ad essere contrastati da diversi, ad essere “perseguitati per la giustizia”: subiranno prese in giro, umiliazioni varie, violenze (verbali e a volte anche fisiche). Ma, dice Gesù, anche queste esperienze diventano delle beatitudini, perché non ci impediscono affatto di uscire dal regno dei cieli e dalla comunione con Dio, anzi ci rafforzano nella fede, nella speranza e nell’amore. Se ci chiediamo, invece, cosa voglia dire, in concreto, “possedere il regno dei cieli” (il contenuto della seconda parte della prima beatitudine), la riposta è: sperimentare la consolazione profonda dell’animo che solo Dio può dare; una consolazione che sazia, poiché pacifica il nostro cuore; sperimentare la vicinanza misericordiosa di Dio, come attenzione premurosa alla nostra vita e come dono del suo perdono per i nostri peccati; “vedere” o, forse è meglio dire, “intravedere” il volto di Dio, attraverso i sensi spirituali dell’anima (per esempio attraverso una profonda esperienza di preghiera contemplativa o di fronte ad una profonda esperienza di amore vissuta); essere considerati da Dio come suoi figli amati e prediletti e sperimentare questa verità sulla propria pelle. In sintesi, Gesù oggi ci chiama ad una vita “beata”, ovvero bella, felice, realizzata, intensa, coraggiosa, combattiva e generosa. Una vita che richiede l’accompagnamento continuo da parte dello Spirito Santo e che questa domenica chiediamo per ciascuno di noi.

V domenica del Tempo ordinario (Mt 5,13-16) “Essere sale della terra e luce del mondo” «Voi siete il sale della terra […] voi siete la luce del mondo». Come avrei voluto essere su quel monte per guardare Gesù negli occhi quando pronunciava quelle parole! Sì, perché Gesù nel dirle avrà senz’altro guardato negli occhi i suoi discepoli che aveva davanti, uno per uno… Che bello immaginare Gesù che ci guarda negli occhi e ci ripete: “Voi, miei cari fratelli e sorelle, siete il sale della terra e la luce del mondo”. Sono parole “pesanti” nel senso che danno un indirizzo chiaro e preciso al senso della nostra esistenza, parole che gettano luce sulla nostra “vocazione”! Finché Gesù era sulla terra, era lui la luce del mondo: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Ma dopo la sua ascensione al cielo ha inviato i suoi discepoli a continuare la sua missione di “salvatore dell’umanità”. Questo non vuol dire che i discepoli hanno preso il posto di Gesù, ma che essi sono diventati i collaboratori stretti di Gesù, nel senso che “normalmente” Gesù agisce nel mondo attraverso la libera collaborazione dei suoi discepoli. E’ chiaro allora che il divenire “sale della terra” e “luce del mondo” è una

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diretta conseguenza dell’essere discepoli di Gesù, dell’incarnare nella propria vita il Vangelo delle “beatitudini” che abbiamo meditato domenica scorsa: “Se voi metterete in pratica le mie parole, che danno luce al mondo e sapore alla vita, allora anche voi diventerete sale della terra e luce del mondo, perché io rivivrò in voi!». Fermiamoci un attimo ad approfondire le due metafore del “sale” e della “luce”. Noi sappiamo come il sale sia un elemento fondamentale della cucina, esso appare come una sorta di ritrovato “magico” capace di dare sapore a tanti cibi. Per esempio, si possono mangiare i pomodori senza sale e hanno un certo gusto, ma se ci si aggiunge un po’ di sale diventano senz’altro più gustosi. Il sale, allora, è quell’elemento che “esalta”, possiamo dire, le proprietà di un cibo, che porta a compimento ciò che è già presente, ma che non è ancora manifesto in tutta la sua potenzialità. Mi viene spontaneo, allora, associare all’azione del sale l’amore, in quanto esso ha la capacità di dare gusto alle realtà della vita e di portare a pienezza il nostro essere più profondo. E’ vero, infatti, che se riesco a fare una cosa davvero “per amore”, tutto cambia: ciò che è pesante diventa leggero, ciò che è poco attraente diventa bello, ciò che è disturbo diventa gioia: è proprio amando, allora, che si diventa sale della terra. Ritornando alle parole di Gesù sulla metafora del sale potremmo chiederci: “Un cristiano che non ama a cosa serve?” Risposta: «A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente». Infatti nessuno si accorgerà della sua presenza, perché non dà nessuna testimonianza del suo legame con Gesù, risulterà essere una persona “insipida” … Passiamo ora alla luce. Essa è fondamentale per “vedere”, ossia per conoscere la realtà delle cose. Entrando in una stanza buia non si vede niente, per cui non si è in grado di capire cosa ci sia in quella stanza, ma accendendo la luce tutto diventa chiaro e visibile. Allora io penso che la metafora della luce ci rimandi alla verità della parola di Gesù, della parola di Dio, che in quanto parola divina ha la capacità di illuminare tutte le realtà che l’uomo può vivere: amore, dolore, vita, morte, gioia e tristezza. Gesù dice che una lampada viene accesa per essere messa in alto e così fare luce a tutta la casa e non per essere messa in un cantuccio, così che si continui a vivere quasi al buio. Con questa immagine Egli ci ricorda che siamo chiamati ad essere “lampade” nel mondo, per aiutare gli uomini a “vedere” dove sta la verità delle cose e dove la menzogna, dove sta il bene e dove sta il male, sapendo che in questo campo la battaglia si fa dura. Infatti, nel nostro contesto culturale odierno, ciò che interessa non è tanto il vero bene e il vero male in assoluto, ma ciò che “io” considero il mio bene e il mio male, limitatamente a quella determinata situazione che sto vivendo. Il “sale-amore” e la “luce-verità” devono essere considerati come i due assi portanti della nostra vita di discepoli di Gesù, in effetti la carità e la verità devono sempre andare insieme, in quanto entrambe fanno parte della rivelazione di Dio che è Amore, ma è anche Verità. «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». Così si conclude il Vangelo di oggi, un invito pressante a prendere sul serio la missione che abbiamo ricevuto direttamente da Gesù di essere “sale della terra” e “luce del mondo”, sapendo che il “segreto” della sua riuscita sta nel lasciare che il nostro cuore venga “salato” dall’amore di Gesù e che la nostra mente venga “illuminata” dalla sua Parola di verità.

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VI domenica del Tempo ordinario (Mt 5,17-37) “Osservare i comandamenti” «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma a dare pieno compimento». Gesù sembra mettere le mani avanti per anticipare eventuali critiche da parte di qualche scriba zelante, che lo poteva accusare di voler sovvertire la sana e tradizionale religiosità ebraica, insegnando una nuova dottrina che non aveva nessuna radice nelle Sacre Scritture. Gesù spiega che non vuole affatto tagliare i ponti con il passato, ma attraverso i suoi discorsi vuole approfondire ciò che era già stato rivelato attraverso le Scritture, ma che non era ancora stato compreso nella sua vera e totale portata. Mi fermo su due degli esempi fatti da Gesù. Il primo è in riferimento al comandamento: “Non uccidere”. Uno pensa subito all’eliminazione fisica di qualcuno, una colpa davvero gravissima, ma Gesù approfondisce il senso del comandamento allargandone il significato, includendo anche l’azione di “adirarsi con il proprio fratello”, affermando che entrambi gli atti saranno ugualmente sottoposti a giudizio. E’ chiaro che adirarsi con il proprio fratello qui non si significa avere litigato per qualcosa e poi essersi riconciliati, ma avere qualcosa contro di lui tanto da avere rotto definitivamente i rapporti. Come dire: “Basta! Per me quella persona da ora in poi non esiste più, è come fosse morta!”. Capiamo subito, allora, il perché del parallelo fatto da Gesù: c’è un omicidio chiamiamo “fisico”, che porta all’eliminazione materiale della persona, ma c’è anche un omicidio chiamiamolo “spirituale”, che porta all’eliminazione “di fatto” di quella persona dalla nostra vita. Pensandoci bene il risultato è identico, poiché in entrambi i casi quella persona per noi non esiste più, l’abbiamo eliminata dalla nostra vita, quindi è “morta”! Guardiamo all’opera di Gesù: che cosa ha fatto riguardo al comandamento “non uccidere”? Non lo ha cambiato, lo ha solo approfondito, portandolo all’estremo, permettendo di rivelare tutta la sua portata, svelandone tutta la sua luce. In questo contesto poi si inserisce l’invito, o meglio, l’imperativo della riconciliazione: «Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono». Qui si parla evidentemente di un sacrificio con il quale ci si vuole mettere in una relazione di comunione con Dio. Beh, direbbe Gesù, se tu non sei in comunione con i tuoi fratelli, il tuo sacrificio di comunione con Dio non è per nulla autentico, ma è falso e ipocrita, perché vuole significare un qualcosa che tu in quel momento non stai affatto vivendo. Non esiste vera comunione con Dio se non sei in comunione con i fratelli! Passiamo ora al secondo esempio. Gesù parla di un altro comandamento: “Non commettere adulterio”. Ancora il riferimento che viene subito alla mente è il tradimento “fisico” consumato, ma anche qui Gesù approfondisce, scava, arrivando a dire che «chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore». Hai capito! Basta soltanto uno sguardo che rivela il tuo desiderio di avere un rapporto con un'altra donna, che il tradimento e, quindi, l’adulterio viene bello

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consumato, anche se tu quella donna non l’hai nemmeno sfiorata! Anche in questo caso, che cosa ha fatto Gesù? Non ha cambiato il comandamento, ha solamente chiarito e approfondito il suo oggetto, considerando la realtà del peccato a partire dall’ambito del pensiero e del desiderio, facendoci capire che l’intenzione di fare qualcosa di male è già male in sé! Dopo questi due esempi siamo in grado di capire il significato della frase che Gesù rivolge ai suoi discepoli: «se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli». La salvezza non si raggiunge con un’obbedienza ai comandamenti di Dio letterale, superficiale, poco convinta o farisaica, ma attraverso la costruzione di relazioni di vero amore con i nostri “prossimi”, per mezzo di un cuore capace di perdono e di fedeltà. Capiamo, allora, come il comandamento nuovo lasciato da Gesù: «amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato» (Gv 13,34) sia il comandamento che ingloba, chiarisce e approfondisce tutti gli altri comandamenti. Infatti, la vita dei discepoli di Gesù non è altro che una continua crescita nella capacità di amare. E’ amando che io obbedisco ai comandamenti, e facendo così i comandamenti cessano di essere dei veri e propri comandi, trasformandosi in desideri: io desidero perdonare, io desiderio essere fedele a mia moglie/marito, amico/a, etc. Che lo Spirito Santo aumenti in noi il desiderio di crescere in questo cammino d’amore!

VII domenica del T.O. (Mt 5,38-48) “Basta legge del taglione!” La missione di Gesù di «dare pieno compimento» alla Legge e ai Profeti arriva al suo culmine parlando dell’amore verso i nemici. Gesù parte richiamando la cosiddetta legge del “taglione”, dell’«occhio per occhio e dente per dente». Essa è presente nella legislazione del Levitico (cfr. Lv 24,19-20) ed era nata per evitare una reazione esagerata alla violenza subita, permettendo una sorta di vendetta “proporzionata” al danno subito: “Se tu mi hai danneggiato un occhio, anche io ho il diritto a mia volta di danneggiare un tuo occhio, ma non sarebbe giusto rovinarteli tutti e due”. Bene, Gesù richiama tale legge di giustizia possiamo dire “relativa” e “umana”, annunciando un cambiamento assoluto di rotta, affermando che la legge del taglione deve essere sostituita da una nuova legge, la legge della non vendetta e della non violenza: «Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra». Gesù continua la sua argomentazione spiegandoci il motivo di questo cambiamento di comportamento, del perché debbano essere bandite la violenza e la vendetta, perché non possiamo più fare del male a chi ci fa del male: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregare per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Attraverso queste parole di Gesù siamo arrivati ai vertici della rivelazione cristiana, che sarà poi esplicitata in particolare dall’apostolo Giovanni nel suo Vangelo e nella sua

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Prima Lettera. Ci troviamo di fronte all’annuncio della promulgazione della legge dell’amore incondizionato di Dio, destinata a divenire la regola “assoluta” dei discepoli di Gesù, chiamati a diventare, attraverso il loro santo comportamento, figli del Padre celeste, la cui “perfezione” consiste nell’amare incondizionatamente ogni sua creatura, anche quella che si ribella contro di lui… «Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani […] Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». In concreto, Gesù ci invita a sottometterci a un’operazione di “chirurgia spirituale”, per fare allargare il nostro cuore, in modo da fare spazio non soltanto a quelli che ci vogliono e ci fanno del bene, ma anche a quelli che ci fanno del male. La motivazione unica che Gesù dà per sottoporci a questa “operazione” è quella di assomigliare a Dio Padre, che continua a prendersi cura anche di quelli che fanno il male, non eliminandoli dal suo cuore, ma desiderando che possano convertirsi, un giorno, al bene! E’ Gesù stesso il primo ad applicare, sulla sua pelle, questa nuova legge dell’amore incondizionato di Dio, subendo e sopportando tutte le violenze fisiche e psicologiche che accompagnano la sua cattura, la sua condanna a morte, il suo viaggio al calvario e la sua crocifissione. Egli accetta tutto senza reagire mai con violenza, anzi, pregando per i suoi uccisori: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). A questo punto credo che si dovrebbero “buttare nel cestino” tutte quelle immagini che, prendendo spunto dalla Bibbia stessa, presentano un Dio vendicativo che punisce gli uomini che non sono stati fedeli alla sua Legge, perché queste immagini sono in contrasto con l’insegnamento e con l’esempio stesso di Gesù. Facendo così non abbiamo più scuse, siamo chiamati, come Gesù ricordava nel discorso delle Beatitudini, a divenire “operatori di pace” per essere realmente figli di Dio: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Quando subiamo il male da qualcuno, per diventare “operatori di pace” Gesù ci invita a compiere un duplice passaggio: il primo è quello di spegnere ogni ardore di desiderio di vendetta, di rispondere al male ricevuto facendo a nostra volta del male. Il secondo è quello di pregare per quella persona, perché riconosca il male che ha fatto ed eviti magari di rifarlo in futuro a noi o a qualcun altro, continuando da parte nostra a volere il bene di questa persona e non il suo male. Facendo così saremmo pronti anche a donare il perdono a quella persona, qualora essa riconosca il male commesso e venga a chiederci scusa. Chiediamo allora allo Spirito Santo che ci faccia crescere nell’amore generoso e gratuito verso coloro che ci vogliono bene, in modo così da essere pronti ad amare gratuitamente anche quelli che ci fanno del male, divenendo canali dell’amore incondizionato di Dio, la vera Legge che può cambiare nel profondo il mondo delle relazioni umane.

VIII domenica del T.O. (Mt 6,24-34) “Abbandoniamoci a Dio” Eccoci di fronte ad una pagina del Vangelo di Matteo particolarmente bella ed

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evocativa. Sembra proprio di ascoltare la voce di Dio Padre, che, dall’alto del suo amore infinito per le sue creature umane, le invita a vivere serenamente il loro avvenire, con estrema fiducia, senza inutili e ingiustificati affanni… Gesù, gettando uno sguardo sulla vita umana, si accorge di come tanti uomini e tante donne si “affannino” (è questo il verbo italiano che meglio traduce il termine greco presente nel Vangelo, tradotto nella versione attuale con “preoccuparsi”), chiedendosi, quasi con angoscia, se avranno ancora di che mangiare, bere e vestire. Gesù spiega che questa realtà la potrebbe capire se i soggetti in causa fossero i pagani. Questi infatti non credono nella presenza di un Dio buono e provvidente che si prende cura di loro, ma credono in tanti “dei”, più o meno occupati nei loro affari personali del cielo, che non hanno tempo e voglia di occuparsi delle cose degli uomini. Così che davvero il presente ed il futuro di queste persone “pagane” è solo affidato alle loro mani. Gesù rimane fortemente stupito quando nota che questo stesso stile di vita, “affannato” ed eccessivamente preoccupato per il domani, si trova presente anche in coloro che credono in Dio. Egli sembra dire loro: “Come potete dubitare della bontà provvidente di Dio Padre? Perché siete così poveri di fiducia in lui?”. Perché, allora, questo approccio alla vita, così eccessivamente affannato? Quale può essere il problema che ci sta dietro? Gesù fa luce, rivelando che ci sono due modi di vivere nel mondo, quello di coloro che vogliono mettere al centro la ricerca di Dio e quello di coloro che, invece, mettono al centro la ricerca della ricchezza materiale. Bene, Gesù comincia col dire che i due stili di vita sono assolutamente incompatibili: «Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». Per fare un esempio, non può esistere un imprenditore che possa mettere al centro della sua attività le leggi del Vangelo e, contemporaneamente, quelle del capitalismo, perché in tanti punti queste si “scornerebbero”, avendo fini e mezzi completamente differenti. La questione allora è riconoscere chi o che cosa c’è al centro della nostra vita, qual è la direzione nella quale stiamo incanalando i nostri sforzi, o, in altre parole, dirci con sincerità a quale tesoro è attaccato il “nostro cuore” (cfr. Mt 6,21). Posta la giusta domanda, Gesù ci aiuta a penetrare nel mondo di Dio, invitandoci a lasciare per un attimo il mondo umano delle leggi economiche, della tentazione della ricchezza, ecc, per gettare uno sguardo sulla natura, perché contemplandola essa può rivelarci qualcosa di come Dio agisce nella vita degli uomini: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre». Una bella immagine, che rischia ai nostri tempi di essere un po’ “sporcata” dall’inquinamento e dagli sconvolgimenti climatici provocati dall’uomo, i quali rendono la vita difficile anche agli uccelli! A parte questo, il messaggio di Gesù è di una semplicità estrema: “Se il Padre si prende cura ogni giorno di queste creature, quanto più si prenderà cura ogni giorno di ciascuno di voi!”. Un messaggio così chiaro, che non ha bisogno di ulteriori commenti, ma che merita di essere profondamente meditato e interiorizzato. Gesù ci offre anche una seconda immagine “naturale”, legata questa volta al mondo dei fiori: «Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano [...] Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?». In questo esempio emerge con forza l’amore quasi ”eccessivo” di Dio per le sue creature, tanto che ci verrebbe da chiedergli:

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“Ma, perché tanta cura per rendere così belli i fiori che oggi ci sono e domani seccano?”. Risposte possibili: 1. Io ragiono al presente e non mi preoccupo del domani; 2. Nel mio “DNA” c’è la generosità (quella che magari ai vostri occhi di “uomini economici” può sembrare spreco); 3. Io amo la bellezza (non il guadagno). Tre risposte “secche” da meditare seriamente… In conclusione, Gesù sembra dire: “Se proprio dovete e volete affannarvi non fatelo per le cose necessarie alla vostra sussistenza umana (mangiare, bere, vestire), perché per quelle credetemi, c’è già chi si preoccupa (il Padre vostro celeste). Affannatevi, invece, per il Regno di Dio, sforzandovi di mettere tutte le vostre migliori energie fisiche, psichiche e spirituali per portare nel mondo l’amore generoso e fedele, l’onestà, la misericordia, la bellezza!”. Chiediamo allo Spirito Santo di operare in noi questa santa “conversione”!

IX domenica del T.O. (Mt 7,21-27) “Conosci davvero Gesù?” «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli». Siamo arrivati al termine del lungo “discorso della montagna”, attraverso il quale Gesù ha indicato con estrema chiarezza, quale sia la giusta strada da percorrere per entrare nel regno dei cieli, in una relazione di vera e profonda amicizia con Dio. E’ la strada delle “beatitudini”, che consiste nel non cancellare qualche “prossimo” dalla nostra vita, essere integralmente fedeli al proprio coniuge (anche con i pensieri), continuare ad amare anche quelli che ci fanno del male, non affannarci per i beni materiali necessari a vivere, ma preoccuparci soprattutto delle “cose di Dio”. Bene, ora che Gesù ha finito il suo discorso, che ci ha comunicato cosa Dio si aspetti dalla nostra vita, la palla passa a ciascuno di noi. Ovvero, queste parole rimarranno lettera morta, oppure, rimanendo nel linguaggio del discorso della montagna, diventeranno il sale e la luce della nostra vita, delle nostre scelte di ogni giorno? Quale reale valore diamo alle parole detteci da Gesù? Quel Gesù che non è una persona qualsiasi, un conoscente alla lontana non particolarmente interessato alla nostra persona e alla nostra vita. Egli è colui per mezzo del quale siamo stati creati, che ci ama nel profondo e che desidera davvero la nostra piena realizzazione umana e spirituale e le cui parole non sono delle parole qualsiasi, ma solo la Parola di Dio, la sola capace di rilevare il bene e il male, la verità e la menzogna. Per avvalorare l’importanza decisiva della sua parola, Gesù stesso ci ricorda che arriverà per tutti noi un giorno (il termine del nostro pellegrinare su questa terra), in cui ci sarà un incontro personale con lui, incontro che svelerà, in maniera inequivocabile e definitiva, la nostra identità reale o presunta di suoi amici. Gesù guardandoci negli occhi e facendoci vedere il film della nostra vita potrà dire: “Sì, in verità io so chi sei, ti ho conosciuto, c’è davvero un legame di amicizia tra te e me”. Sulla base di cosa Gesù potrà dire ciò? Non su quanto abbiamo parlato di Dio, non su eventuali eventi prodigiosi (miracoli) che si sono verificati, magari per nostro mezzo, ma su quanto avremo messo

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in pratica il suo “discorso della montagna”. Per questo, infatti, si dice che i miracoli non fanno la santità di una persona, anche se sono dei segni che la possono attestare. Infatti, il primo atto che si fa di fronte ad una persona morta in presunto “concetto di santità” non è guardare a quanti o quali miracoli abbia fatto nella sua vita, ma vedere se e come ha vissuto profondamente le virtù cristiane, il “discorso della montagna”. Torniamo all’incontro di “quel giorno”. Ci sono alcuni che, sorpresi dall’atteggiamento stranamente poco accogliente di Gesù, gli ricordano come nel suo nome essi abbiano profetato, scacciato dei demoni e fatto tanti prodigi. Ma Gesù risponde loro: «Non vi ho mai conosciuti». Fermiamoci un attimo su questa espressione e sul significato del verbo “conoscere”. Se qualcuno mi chiedesse: “Tu conosci il presidente degli USA?” Io dovrei rispondere di no, che non lo conosco, dato che non l’ho mai incontrato, non gli ho mai parlato, non sono mai entrato in relazione con lui. Sta di fatto, però, che io so chi sia, perché l’ho visto diverse volte in televisione e più volte ho letto dei suoi discorsi. Lo stesso vale in rapporto a Gesù, nel senso che io posso dire di sapere chi lui sia, perché, per esempio, ho letto i Vangeli, ho ascoltato tante belle prediche che parlavano di lui, ma posso dire di conoscerlo solo nel momento in cui entro in una relazione personale con lui, condividendo qualcosa della mia vita con lui, entrando in un rapporto di amicizia, ossia lo amo e metto in pratica la sua Parola: «Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti» (1Gv 2,3); «Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,14.12). Allora posso dire di conoscere davvero una persona, nel momento in cui comincio ad amarla. E’ per questo che, alla fine dei nostri giorni, quando ci troveremo di fronte a Gesù, sarà la nostra stessa vita a parlare dell’amicizia vissuta con Gesù. Non saranno, infatti, le nostre parole pronunciate su Gesù che conteranno, ma i nostri gesti di amore vissuti con i nostri prossimi: i familiari e gli estranei, gli amici e i nemici, i vicini e i lontani, poiché «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40).

X domenica del T.O. (Mt 9,9-13) “Il peccatore: un malato!” Matteo era un esattore delle imposte per conto dell’impero romano, appartenente a quella categoria di persone volgarmente chiamate “pubblicani”. Questi erano, ovviamente, dei soggetti particolarmente malvisti dalla gente, per almeno tre motivi. Primo, perché lavoravano per gli “occupanti”; secondo perché raccoglievano le tasse (da che mondo è mondo pagare le tasse non è mai stato un piacere!); terzo perché spesso questi “pubblicani” erano disonesti, facendo pagare di più e intascandosi la “mazzetta”. Gesù, però, non si lascia guidare dal sentire comune. Egli non guarda al generale, ma al particolare, alla singola persona, per cui non ha alcun problema a chiamare nella cerchia dei suoi dodici discepoli preferiti anche un “pubblicano”: «Gesù vide un uomo,

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chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: Seguimi». Per lui Matteo non è, in primo luogo, un “pubblicano”, ma un semplice uomo presente nel suo luogo di lavoro, con una sua identità, una sua storia e una personalità ben precisa. L’evangelista Matteo, che sta parlando della propria chiamata (nei Vangeli di Marco e di Luca si parla invece di un certo Levi), non descrive nulla del motivo che lo ha spinto ad accettare l’invito di Gesù a seguirlo. Per lui la cosa importante da comunicare, oltre la subitanea decisione di cambiare radicalmente vita, mettendosi al seguito di Gesù, è l’episodio avvenuto subito dopo la sua chiamata. Prima di lasciare tutto e di entrare nel gruppo dei suoi seguaci, Matteo invita a pranzo Gesù con gli altri suoi discepoli. Spargendosi la voce dell’improvvisa e inaudita decisione presa da Matteo, tanti suoi conoscenti si aggregano alla tavola, tra i quali molti pubblicani e altri peccatori pubblici. Gesù, di fronte a tutti questi invitati, considerati dalla gente “poco raccomandabili”, non si scompone affatto, anzi è ben contento di condividere il pasto con ciascuno di loro. Ci sono, però, altre persone che, assistendo alla scena, ne restano “scandalizzati”. Sono i farisei che, predicando la purezza della Legge di Dio, non si sognerebbero mai di mangiare insieme a dei peccatori pubblici, considerando questo gesto una sorta di peccato in se stesso. I farisei, però, non hanno il coraggio di affrontare direttamente Gesù per chiedere spiegazione di quel suo inusitato e riprovevole comportamento, preferendo fare le loro rimostranze ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Ecco, allora, che Gesù prende la parola e spiega, con molta semplicità e schiettezza, il perché di quel suo comportamento: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati». E’ come se dicesse: “Queste persone che vivono nel peccato sono da considerare alla stregua di malati. E io che sono venuto a guarire i malati, come medico delle loro anime, mi metto a loro completa disposizione, per aiutarli a guarire e tornare in salute!”. Gesù ci offre così una luce nuova per vedere la realtà del “peccato”: esso è da considerarsi come una “malattia”, una malattia dalla quale si può sempre guarire (non è mai una malattia incurabile, a meno che la persona non decida, caparbiamente, fino alla fine della sua vita, di non lasciarsi curare). Se il peccato è da vedere come una malattia, allora il peccatore è da vedere come un “malato”, ovvero una persona che ha contratto, più o meno colpevolmente, un male. Un “malato” che deve perciò essere guardato sempre con occhi di “misericordia” e non di condanna. Così infatti si rivolge Gesù agli sprezzanti e superbi farisei: «Andate ad imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrificio». Gesù ci invita allora a distinguere tra il “peccato” e il “peccatore”. Se il primo deve essere sempre riprovato e condannato, il secondo deve essere sempre guardato con occhi misericordiosi. E’ infatti un malato, uno che sta male, che ha bisogno di aiuto per guarire. E’ chiaro che ogni “peccatore-malato” può scegliere liberamente di non farsi aiutare da nessuno per guarire, e così peggiorare sempre più nella sua malattia, ma noi dobbiamo essere sempre disposti ad offrirgli, quando lo chiede, la possibilità di intraprendere una terapia di guarigione. Questo è infatti il comportamento di Gesù, che non guarda il peccatore come uno che non potrà mai cambiare, uno dal quale prendere definitivamente le distanze, ma come uno al quale essere vicino e tendere la mano, uno al quale poter sempre sussurrare all’orecchio: «Seguimi»!

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I domenica di Quaresima (Mt 4,1-11) “Le tentazioni di satana” Eccoci arrivati al tempo liturgico della quaresima, in verità cominciato già mercoledì scorso, un tempo che, sulla base del Vangelo di questa domenica che presenta le tentazioni subite e vinte da Gesù nel deserto, ci viene offerto come tempo di purificazione, di verifica e di arricchimento del nostro cammino di discepoli del Signore Gesù. Voglio subito fare notare come l’iniziativa di vivere l’esperienza del deserto non parta da Gesù stesso, ma dallo Spirito Santo, che lo guida e lo accompagna. Per cui il primo suggerimento per vivere bene questo tempo di quaresima è quello di mettersi in ascolto della voce dello Spirito Santo per capire bene in quale “deserto” della nostra vita vuole accompagnarci. Inoltre, andando subito alla fine dell’episodio, dove compaiono gli angeli che vengono in soccorso di Gesù, siamo invitati ad inquadrare la nostra esperienza di quaresima nell’ottica della presenza provvidenziale di Dio, che ci porta sì nel deserto, ma che alla fine del combattimento ci viene a consolare e ad aiutare. La nostra quaresima, infatti, sappiamo già che avrà un esito positivo, perché ci condurrà a festeggiare con gioia la Pasqua, la risurrezione di Gesù, la nostra salvezza. Andiamo ora alle tentazioni subite da Gesù nel deserto di Giuda. Da notare che il diavolo non entra in gioco da subito, ma a partire dal momento in cui Gesù comincia ad avere fame, ovvero si trova in una situazione di mancanza, di debolezza. Questa diventa una breccia dove il diavolo, che credo non aspettasse altro, può accostarsi a lui e fare il suo mestiere di tentatore: «Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane». Il diavolo si propone a Gesù nelle vesti di un “amico”, di qualcuno che ha cura del suo bene e, vedendolo in difficoltà per la fame, gli propone la soluzione più logica e veloce per risolvere quel problema esistenziale: “Vedo che hai fame, so che sei il Figlio di Dio, che puoi fare quindi qualunque cosa, beh, perché non dici a quelle pietre che hai attorno di trasformarsi in pane?”. In verità il diavolo è il vero nemico di Gesù, per cui lo tenta facendo leva sull’orgoglio, mettendo cioè in dubbio la sua vera identità di Figlio di Dio: «Se tu sei il Figlio di Dio …». Come a dire: “Io non ci credo mica tanto, fammi vedere, metti in mostra i tuoi presunti poteri, allora ci crederò!”. Se Gesù avesse dato ascolto al sentimento dell’orgoglio avrebbe potuto rispondere così al diavolo: “Ma, brutto diavolaccio, che non sei altro, come osi mettere in dubbio la mia identità di Figlio di Dio, non hai ascoltato la voce del Padre celeste quando ho ricevuto il mio battesimo? Adesso ti faccio vedere io, guarda cosa può fare il Figlio di Dio!”. E avrebbe, tranquillamente, trasformato le pietre in pane. Vi faccio notare come il diavolo, “astutamente”, suggerisce a Gesù una soluzione al problema davvero alla sua portata, nel senso che il diavolo sa benissimo che Gesù ha il potere di trasformare delle pietre in pane. Qual é invece la risposta di Gesù al problema della fame nel deserto? «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», cioè io so che ho un Padre che mi ama, che vede che ho fame e che mi darà Lui da mangiare, io aspetto sereno il suo intervento (da notare come il versetto della scrittura citato da Gesù faccia riferimento al dono della Manna nel deserto). La riposta di Gesù di fronte al

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suo problema è quindi affidarsi all’amore del Padre. Andiamo un po’ più nel profondo e, tenendo presente anche le altre due tentazioni che seguiranno, ci chiediamo: Qual è l’obiettivo del diavolo? Attraverso quelle tre tentazioni dove vuole arrivare? Il diavolo ha un solo obiettivo, allontanare Gesù dal suo rapporto di unità profonda con il Padre suo, fatto di amore e fiducia, perché la vocazione del diavolo è proprio quella di dividere (la parola diavolo deriva dal greco diábolos, che significa “colui che divide”). Veniamo ora a noi. Sulla base delle tentazioni subite da Gesù ad opera del diavolo, possiamo prevedere come egli ci tenterà in questa quaresima. Il diavolo agirà a partire dalle nostre debolezze. Egli farà finta di essere nostro amico, suggerendoci delle possibili soluzioni ai nostri problemi, che sono realmente alla nostra portata. Ricordiamoci però che il suo obiettivo non è il nostro vero bene, ma il nostro male, per cui saranno delle soluzioni che, apparentemente, sembreranno avere risolto i nostri problemi, ma che in realtà ci avranno allontanati dall’amore e dalla fiducia in Dio. Magari facendoci cadere nella suggestione dell’autosufficienza (prima tentazione); nella pretesa che Dio debba per forza esaudire tutti i nostri desideri (seconda tentazione) o nella pretesa che gli altri debbano essere sempre al nostro servizio per “glorificarci” (terza tentazione).

II domenica di Quaresima (Mt 17,1-9) “La voce del Padre” In questa seconda domenica di quaresima ci viene proposto l’evento prodigioso della trasfigurazione di Gesù. Un evento premeditato da Gesù stesso, dato che decide di salire sul monte, che la tradizione identificherà con il monte Tabor, accompagnato da tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovani. Prima però di salire anche noi sul monte è necessario fare memoria del contesto che precede la trasfigurazione, ossia del fatto che sei giorni prima Gesù, per la prima volta, aveva spiegato ai suoi discepoli con chiarezza il destino di passione-morte-risurrezione che avrebbe vissuto a Gerusalemme. Annuncio seguito dalla dura reazione di rimprovero di Pietro, alla quale succede la reazione di contro-rimprovero di Gesù, che gli dà del “Satana”, e concluso con la solenne affermazione che “Se qualcuno vuole andare dietro a Gesù deve rinnegare se stesso, prendere la sua croce e seguirlo nel suo stesso cammino”. Saliamo ora sul monte e dopo avere visto tutto quello che è successo, chiediamoci quale sia, tra i vari eventi accaduti, quello più importante. Uno potrebbe dire, beh, il primo, cioè la trasfigurazione di Gesù. In verità, quello è da vedere soprattutto come il punto di partenza, come una sorta di “antipasto”, l’evento che attira l’attenzione dei discepoli. Un po' come Dio che, per attirare l’attenzione di Mosè sul monte Oreb, usa lo stratagemma di un roveto che brucia e non si consuma mai. Oppure nel caso di Elia, anche lui sul monte Oreb, Dio attirerà la sua attenzione attraverso i segni del vento impetuoso, del terremoto e del fuoco. In entrambi i casi la vera rivelazione avverrà attraverso le parole che Dio rivolgerà, rispettivamente a Mosè (cfr. Es 3) e ad Elia (cfr.

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1Re 19), parole molto importanti per la loro vita e per la storia del popolo d’Israele. Allo stesso modo, l’evento più importante del Tabor è la voce che Pietro, Giacomo e Giovanni ascoltano dalla nube, parole che sono rivolte direttamente a loro: «Questi è il Figlio, mio, l’amato: in cui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». L’importanza di quelle parole è testimoniato anche dal fatto che Pietro, molti anni dopo, per esaltare l’unicità di Gesù Figlio di Dio, farà riferimento proprio alla voce ascoltata sul Tabor, anche se, nel contesto della sua epistola, la racconta come rivolta a Gesù stesso: «siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Questa voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18). Quella voce, dice Pietro, è quella di Dio Padre. Pensate Dio Padre che parla! Un evento davvero incredibile, ancora più incredibile, credo, del vedere Gesù trasfigurato! Capiamo allora che quelle poche parole pronunciate da Dio Padre sono in realtà di un’importanza estrema. Cosa dice il Padre? Quello che aveva già pronunciato il giorno del Battesimo di Gesù (cfr. Mt 3,17), ovvero rivela che Gesù è davvero suo Figlio, per cui ogni parola che Gesù dice non è la parola di un semplice uomo illuminato, ma è la parola di Dio stesso, come Gesù stesso più volte affermerà: «la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14,24). Il Padre invita i tre discepoli e tutti i discepoli di Gesù e tutti gli uomini e donne della terra di tutti i luoghi e di tutti i tempi a considerare le parole dette da Gesù come la vera Parola di Dio rivolta all’umanità. Ma quali sono quelle particolari parole, dette da Gesù, che siamo chiamati ad ascoltare? Per rispondere alla domanda dobbiamo tornare al contesto che precede l’evento della trasfigurazione, alle parole di Gesù sulle esigenze della sua sequela. Il Padre, allora, ci esorta a prendere sul serio Gesù quando afferma di non avere paura di perdere la propria vita per Lui, di entrare convinti nel mistero della passione-morte per amore, nel mistero del chicco di grano che per portare frutto deve morire a se stesso (cfr. Gv 12,24). In altre parole, il Padre ci invita a scegliere sempre la strada dell’amore a tutti i costi, anche quando sembra assurdo, inutile, ci sentiamo consumati e privi di speranza. Perché questo? Perché ancora Gesù afferma che chi percorre la strada del dolore per amore vivrà una sorta di trasfigurazione interiore, farà l’esperienza della “risurrezione”, ossia troverà una vita nuova, più autentica, più profonda, più pura, perché sarà entrato nella dimensione stessa di Dio, dell’amore eterno, che non si spegne mai. Chiediamo, allora, per intercessione dei santi Mosè, Elia, Pietro, Giacomo e Giovanni, di fare sì che, anche noi, in questi giorni di quaresima, possiamo sperimentare la bellezza di contemplare il volto di Gesù risorto e di seguirlo portando la nostra croce quotidiana.

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III domenica di Quaresima (Gv 4,5-42) “La nostra vera sete” Gesù attraversa la Samaria, regione della Palestina considerata dai Giudei terra di eretici-peccatori, persone da cui stare alla larga. Poiché è l’ora sesta (lasso di tempo che andava da mezzogiorno alle tre del pomeriggio), quindi l’ora più calda della giornata, Gesù, stanco del cammino fatto a piedi, ha sete e ha bisogno di bere, per cui si dirige verso un pozzo. Che bello contemplare Gesù nella sua piena dimensione umana, è davvero come noi, soffre il caldo, la stanchezza e ha sete! Contemporaneamente c’è una donna che anch’essa si avvicina al pozzo per fare la provvista d’acqua per la giornata e, vista l’ora, anche lei sicuramente ha sete. Al pozzo avviene l’incontro fra due persone unite dalla stessa sete… Notiamo come Gesù, però, parlando con la donna, passi subito da quel comune bisogno “materiale” di bere dell’acqua, ad un altro bisogno “spirituale” di cui l’acqua e il bere diventano un “segno”. Gesù è ben consapevole di quale sia il suo bisogno spirituale, quale sia la sua vera sete, ovvero a che cosa corrisponda l’invito rivolto alla samaritana: «Dammi da bere», lo spiegherà ai suoi discepoli, utilizzando un altro simbolo della vita quotidiana, quello del mangiare: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete […] Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e di compiere la sua opera.». Di cosa sta parlando Gesù? Di quale sete? Di quale fame? Egli ha sete della conversione degli uomini, della loro vita santa, modellata sul comandamento dell’amore, e ha fame di compiere tutto quello che gli è possibile per portare a termine questa sua missione “rivelatrice” e “salvatrice”, donatagli dal Padre. E’ interessante notare come Gesù passi spontaneamente e velocemente dal piano “materiale“ a quello “spirituale”. Tutto per lui, tutto quello che vive, sente e vede ogni giorno: il mangiare, il bere, il giorno, la notte, la luce, il buio, il dormire, il vegliare, il camminare, il lavorare dei contadini ecc., non sono solo fini a se stessi, ma diventano “segni” che rimandano al Regno di Dio e alla “vita eterna”. Per Gesù questo passaggio dal materiale allo spirituale è “naturale”, mentre noi per realizzarlo abbiamo bisogno di compiere un’azione specifica, quella della preghiera: es. preghiera prima dei pasti, prima di addormentarci, quando ci svegliamo, prima di metterci al lavoro… Se Gesù ha ben chiaro quale sia la sua vera sete, che proviene dalla profondità della sua anima, la samaritana, al contrario, non è per nulla consapevole della sua. Così che Gesù con amore e pazienza, attraverso un dialogo progressivo, la conduce ad intraprendere un cammino interiore di chiarificazione. Gesù comincia parlando di un acqua “particolare” che lui può offrirgli, che ha il potere di estinguere ogni sete, e la donna, nel sentire quelle parole, sente nascere dentro di sé un desiderio, sebbene ancora “materiale”: “Dammi quest’acqua di cui parli, così farei a meno di questa fatica quotidiana di venire ad attingere al pozzo”. Questo è solo il primo passo, poiché Gesù, che vuole che questa donna si converta al vero bene e al vero amore, entra ora nella sua vita privata, nell’intimo del cuore, rivelandogli la sua situazione affettiva “disordinata”: «Hai detto bene: Io non ho marito. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito». Come a dire: “Cara samaritana, dalla tua situazione affettiva attuale e passata, vedo che non hai

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ancora capito cosa vuole dire veramente amare ed essere fedele all’amore. Intuisco che sei una persona continuamente insoddisfatta, in fuga da una vera responsabilità affettiva. Sei schiava di te stessa, delle tue pretese, dei tuoi capricci, delle tue paure, dei tuoi peccati, ma io sono venuto a liberarti da questa situazione d’infelicità!”. La samaritana, allora, condotta dal dialogo con Gesù, passa dal piano della relazione con se stessa (il bisogno di attingere acqua per la propria sopravvivenza), a quello della relazione con gli altri (la sua vita affettiva insoddisfacente e “disordinata”), per cui ora è in grado di fare il terzo passo, quello più “spirituale”, che ha per oggetto la sua relazione con Dio. Si parte dalla domanda su quale sia il vero Dio da adorare e sulla figura del Messia che deve arrivare, raggiungendo il culmine nel momento in cui Gesù le rivela che quel Messia, tanto atteso, lo ha proprio davanti ai suoi occhi: «Sono io che parlo con te». In questa settimana lasciamoci accompagnare e stimolare dalla richiesta con cui Gesù apre il suo colloquio con la samaritana: «Dammi da bere», perché quelle parole sono rivolte oggi a ciascuno di noi. Parole che manifestano la sete di Gesù della nostra santità, della nostra amicizia e che possono condurci a rivelare, così com’è successo alla samaritana, quale sia la nostra vera sete!

IV domenica di Quaresima (Gv 9,1-41) “Il dono del Battesimo” Il Vangelo di questa domenica, tradizionalmente chiamato del “cieco nato”, è ricco di tante allusioni al Battesimo, infatti era uno di quei brani che venivano utilizzati nella preparazione dei catecumeni a ricevere il sacramento che li rendeva cristiani. Nel brano domino le accoppiate “vedere/non vedere”, “credere/non credere”, infatti al centro dell’episodio c’è la “fede” nella persona divina di Gesù. Inoltre, l’espressione di Gesù: «sono la luce del mondo» ci rimanda alla Veglia pasquale a quelle frase (“Cristo, luce del mondo”) che ripetiamo quando nella chiesa buia entra il cero pasquale acceso, simbolo di Gesù risorto, da cui attingiamo il fuoco per accendere le nostre candele e “vedere”. Allora lasciamoci illuminare anche noi da questo suggestivo episodio del Vangelo di Giovanni. Si parte da un miracolo “fisico” realizzato da Gesù, un miracolo piuttosto grande, che non è ridare la vista ad un cieco che prima ci vedeva, ma “creare” ex-novo un qualcosa che prima non c’era, perché l’uomo in questione era cieco dalla sua nascita (non è corretto perciò dire che è un miracolo di guarigione, poiché in realtà si tratta di un vero e proprio miracolo di “creazione”). Un miracolo che viene “offerto” liberamente e gratuitamente da Gesù all’uomo cieco, infatti non è il cieco che si rivolge per primo a Gesù per chiedergli il dono della vista. Questo è molto interessante perché ci ricorda un po’ l’esperienza del nostro Battesimo e del dono della fede che abbiamo ricevuto: chi di noi ha chiesto a Gesù il dono della fede? Lo abbiamo ricevuto dopo essere nati, possiamo dire quando eravamo ancora “ciechi”, nel senso che non eravamo ancora in grado di “vedere” Gesù e nemmeno sapevamo della sua esistenza! In verità, l’uomo cieco non viene guarito all’istante, poiché quanto il dono offerto da

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Gesù domanda un’accoglienza, che diventa affidamento alla sua persona e alla sua Parola (cosa che nel caso del nostro Battesimo hanno fatto i nostri genitori e padrino e madrina al posto nostro). All’uomo cieco viene chiesto di “obbedire” ad una richiesta di Gesù: andare a lavarsi in una piscina (chiaro riferimento all’acqua del Battesimo). Il nostro amico cieco obbedisce e si mette in cammino. Dal luogo in cui egli si trovava, alla piscina indicata da Gesù, c’erano diverse centinaia di metri, per cui non era così facile arrivarci, considerato che era cieco dalla nascita e non poteva perciò avere alcun punto di riferimento nella città. Come avrà fatto ad arrivare? L’evangelista Giovanni non lo dice, ma possiamo immaginare che sia stato accompagnato da uno o più discepoli di Gesù, anche perché il brano dirà poi che l’uomo «tornò e ci vedeva», quindi egli ritornerà allo stesso luogo da cui era partito, e anche qui possiamo immaginare che siano stati i discepoli a riaccompagnarlo. E’ bello vedere nell’immagine dei discepoli che accompagnano il cieco alla piscina, la Chiesa, la comunità dei credenti in Cristo che si prende cura gli uni degli altri e, tornando al nostro Battesimo, vedere i nostri genitori, il nostro padrino, la nostra madrina e il sacerdote che lo ha celebrato. Ma, tornando al luogo di partenza, Gesù non c’era più. Non è un caso che Gesù scompaia dalla “vista” del cieco. Egli ha ricevuto da Gesù il dono della vista, della luce fisica, ma la pienezza fisica non è il tutto della vita e nemmeno la cosa più importante. Ora, infatti, per il nostro amico vedente “fisicamente” comincia il cammino personale della fede, per diventare vedente “spiritualmente“ e questo senza più l’ausilio degli accompagnatori. Tornando al nostro Battesimo, possiamo dire che è il cammino personale che, crescendo, ciascuno di noi ha fatto, arrivando a fare un’esperienza personale di fede in Gesù. Il nostro amico sarà chiamato per ben tre volte, suo malgrado, a testimoniare di come Gesù sia intervenuto miracolosamente nella sua vita e non sarà creduto, anzi, sarà cacciato dalla comunità, trovandosi improvvisamente solo. Ma proprio in quel momento di “crisi” profonda, Gesù ricompare, cercandolo personalmente, per portare a termine la sua opera di “illuminazione” che aveva cominciato con la guarigione fisica: «Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovo, gli disse: Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». La risposta che darà il nostro amico: «Credo, Signore!» diventa la professione della sua fede nella persona di Gesù, quella stessa risposta che oggi Gesù attende da ciascuno di noi, quella riposta che ha la capacità di illuminare nel profondo il senso della nostra vita.

V domenica di Quaresima (Gv 11,1-45) “Ci credi alla risurrezione?” La liturgia di questa domenica ci spinge con forza a meditare sul mistero della nostra morte e risurrezione, a partire dal grande miracolo, o meglio dal grande “segno”, utilizzando lo stesso linguaggio dell’evangelista Giovanni, del “ritorno in vita” di Lazzaro, l’amico di Gesù. Ho evitato propriamente il termine risurrezione, perché quello

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che per noi cristiani è la “risurrezione” è qualcosa di ben altro della possibilità di ritornare a vivere su questa terra dopo essere morti: “risorgere”, infatti, significa rompere la barriera spazio-temporale ed entrare nella dimensione dell’eternità, così come ha sperimentato Gesù. Per capire il senso profondo dell’episodio che ha come apice l’uscita dal sepolcro di Lazzaro tornato in vita, credo sia fondamentale fermarsi a riflettere su quei tre momenti riportati dal Vangelo in cui Gesù vive un forte sconvolgimento emotivo, e sull’annuncio solenne che egli fa a Marta sulla sua identità: «Io sono la risurrezione e la vita». Il primo sconvolgimento emotivo Gesù lo prova di fronte al pianto di Maria e di tutti quelli che erano venuti da lei per consolarla della morte del fratello. Un pianto collettivo di immenso dispiacere per il lutto vissuto, che fa da eco all’affermazione di Maria: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Di fronte a ciò Gesù prova un forte movimento interiore del suo spirito: «fremette nello spirito e si turbò». Subito dopo, quando Gesù domanda dove hanno posto Lazzaro, essi gli rispondono di venire a vedere, Gesù allora si mette a piangere. Poi, quando qualcuno dei presenti accusa Gesù di non essere stato tanto amico di Lazzaro, perché non è venuto a guarirlo, egli, per la seconda volta, prova un forte fremito interiore. Qual é il significato di questi sentimenti provati da Gesù? Per cercare di rispondere alla domanda dobbiamo tornare indietro, alla frase centrale del brano, alla rivelazione solenne che Gesù fa a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà, chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno». Queste parole sono la chiave di lettura del comportamento di Gesù, nel senso che il suo pianto e i suoi fremiti interiori non esprimono soltanto una sua profonda partecipazione umana alla sofferenza di Maria, di Marta e degli altri loro amici, ma esprimono il desiderio profondo di Gesù che tutti i presenti credano che lui è la porta dell’eternità, «la risurrezione e la vita». Ossia che la morte non è l’ultima parola sull’esistenza umana, poiché Gesù, attraverso la sua risurrezione, ha vinto la morte, rendendola un passaggio da questo mondo all’eternità. Alla luce di questo siamo in grado allora di capire il senso profondo di quella promessa che Dio fa per bocca del profeta Ezechiele al popolo d’Israele, esule da tanti anni a Babilonia, che ha perso ormai ogni speranza di ritorno in patria, vivendo così in una situazione di “morte spirituale”: «Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele […] Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete» (Ez 37,12-14). Noi sappiamo che questa promessa si è realizzata, dato che il giorno in cui siamo stati battezzati abbiamo ricevuto lo spirito di Dio, come ricorda S. Paolo nella sua lettera ai Romani: «Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11). E allora, sulla base di queste parole di risurrezione promessa, chiediamoci qual è il rapporto che abbiamo con l’evento della nostra morte e su ciò che accadrà dopo. Siamo sereni? Siamo preoccupati? Siamo impauriti? Siamo increduli? Forse quando pensiamo alla Pasqua, pensiamo principalmente al fatto che Gesù è risorto, quasi che il mistero della risurrezione sia un qualcosa che riguardi soltanto lui, un mistero al quale noi siamo chiamati per fede a credere che si sia veramente realizzato. Ma questo non è il tutto della Pasqua, perché la Pasqua non parla solo della

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risurrezione di Gesù, ma parla anche della nostra risurrezione. Ma, noi ci crediamo alla nostra risurrezione? E’ la stessa domanda che Gesù pone a Marta: «Chi crede in me, anche se muore vivrà, chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gesù non le dice di credere che lui potrà risorgere dai morti, ma che lui ha il potere di fare risorgere dai morti e donare la vita eterna a tutti quelli che credono in lui. Questa domenica siamo invitati da Gesù a porre la nostra attenzione sul grande dono della Pasqua, della promessa della risurrezione dopo la nostra morte!

Domenica della Palme (Mt 26,14-27,66) “Perché non scendi dalla croce?” Gesù, crocifisso sul Golgota, viene insultato e preso in giro da tutti quelli che passano sotto di lui: «Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!». Siamo all’apice del mistero della passione di Gesù e, allo stesso momento, all’apice della non comprensione umana di quello che sta avvenendo: “Se quell’uomo inchiodato sulla croce che abbiamo davanti ai nostri occhi, che si è presentato dicendo di essere il Figlio di Dio in persona e che sembra abbia fatto tanti miracoli, non scende da quel patibolo di sofferenza estrema, è solo perché in realtà non è che un povero disgraziato, un esaltato e un mentitore” . Sono tutti d’accordo nell’affermare ciò, non c’è ombra di dubbio, è palese che sia così. E poi, chi può in quel momento, eventualmente, difendere Gesù da tutte quelle prese in giro e da quelle parole insinuanti? Nessuno, Gesù sul Calvario non ha nessun “avvocato” che possa difenderlo, perché i suoi discepoli lo hanno tutti abbandonato già da diverse ore; rimangono solo alcune donne, che guardano il tutto da lontano. Tutti quegli uomini presenti al Calvario che prendono in giro Gesù e che lo invitano, per beffarsi di lui, a scendere dalla croce per dimostrare di essere veramente il Figlio di Dio, inconsapevolmente stanno facendo la parte di satana, il tentatore: «Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane […] Se tu sei Figlio di Dio gettati giù» (Mt 4,1-11). Lo stanno tentando, nel senso che gli suggeriscono di ribellarsi a quella condizione assolutamente “disumana” e “assurda” in cui si trova, così come lo stesso Pietro, non appena ascoltò, per la prima volta, il destino di sofferenza e di morte che avrebbe subito Gesù a Gerusalemme, impulsivamente si mise a rimproverarlo, manifestando il suo assoluto rifiuto di accettare una cosa del genere: «Signore; questo non ti accadrà mai». Gesù gli risponderà in maniera severa, facendogli capire che se pensa veramente ciò, anche lui si mette, inconsapevolmente, dalla parte di Satana: «Va dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mt 16,21-23). Ma torniamo al Calvario, perché la presa in giro e la tentazione si fa ancora più forte, dato che arrivano i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani del popolo a rincarare la dose, pronunciando una frase, assente negli altri Vangeli, che può essere vista come la “pugnalata” più bruciante inflitta al cuore di Gesù: «Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”». Eccoci alla “stilettata”, nel senso che questi ultimi personaggi, continuando a fare la parte del tentatore, gli

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dicono: “Guarda, che in realtà tu ti sei sbagliato di grosso, non è vero che Dio ti vuole bene; altro che figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto, se sei lì sulla croce è perché Dio ti ha maledetto e ti ha abbandonato”. Che cosa devono sentire le orecchie di Gesù! “Guarda che Dio, quello che tu dici che è tuo Padre, non ti ama affatto!”. Davvero la sofferenza più grande che Gesù potesse subire. Se la vicenda del Calvario fosse un film che vuole dimostrare come, alla fine, la giustizia umana trionfa sempre sulle falsità e sulle cattiverie, sarebbe questo il momento top dove il “super-eroe” mostra tutti i suoi super-poteri e scende dalla croce, facendo “giustizia” di tutti quelli che lo hanno ingiustamente e perfidamente accusato e preso in giro. Ma la vicenda del Calvario non è film che ha un regista umano, è una storia vera che ha per autore Dio in persona, che vuole mostrare all’umanità di tutti i tempi fin dove il suo amore può arrivare. Un Dio che per amore delle sue creature si mostra così debole e impotente, tanto da lasciarsi condannare a morte e morire proprio per mezzo di quelle stesse creature che è venuto a salvare. Ma, in realtà, la morte di Gesù non è affatto un incidente di percorso, poiché rientra nel progetto salvifico di Dio: Gesù “doveva” morire, nel senso che doveva fare l’esperienza della morte per aprire e aprirci la porta della risurrezione e della vita eterna. Per questo Gesù non scende dalla croce e non pensa affatto di farlo, perché deve e vuole andare fino in fondo nel progetto di salvezza del Padre, non può e non vuole smettere di amarci, perché il suo è un amore eterno. Immaginiamoci per un attimo che Gesù fosse sceso dalla croce, così facendo avrebbe dimostrato di non amarci veramente, ma di amare solo se stesso, sarebbe stato sì un super-eroe, ma non sarebbe più stato il nostro Salvatore… E’ per questo suo restare fedele sulla croce, in quella sofferenza estrema, fino alla morte, per amore nostro, che dobbiamo essergli grati, in eterno!

Veglia pasquale (Mt 28,1-10) “Con i segni della passione” Siamo all’alba di una nuova settimana, dopo la morte tragica di Gesù la vita ricomincia… Maria di Magdala e un’altra donna di nome Maria hanno il forte desiderio di essere, comunque, vicine a Gesù, almeno al suo corpo, decidendo di andarlo a trovare nel sepolcro dove era stato messo. Un sepolcro, come ci racconta l’evangelista Matteo, che era stato ben sigillato e custodito da un gruppo di soldati, per paura che qualche discepolo di Gesù avrebbe potuto trafugarne il corpo e dire che Egli era risorto. Questa, almeno, era la paura dei capi dei sacerdoti e dei farisei. Ma quale essere umano può mettersi a competere con Dio? Chi puoi impedirgli di portare a compimento il suo piano di salvezza? Mettete pure la “task force” davanti al sepolcro! Proteggetelo con dei campi magnetici o con gli ultimi ritrovati della tecnologia! Fate pure, direbbe Dio, ma non servirebbe a niente! E’ bello pensare che l’uomo ha tutte le capacità possibili e immaginabili per fare morire qualcuno, ma per dare la vita a uno che è morto, non può fare nulla (e se anche un giorno, grazie al

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progresso della scienza, si riuscisse anche a fare tornare in vita un uomo morto, sappiamo che la “risurrezione” che opera Dio è, comunque, un’altra cosa…). La risurrezione è un qualcosa che compete unicamente a Dio, in tale evento l’uomo non è soggetto attivo, ma completamente passivo (in effetti è morto). Possiamo dire che egli la risurrezione la “subisce”. Basta l’intervento di un angelo, che con semplicità estrema rotola via la pietra “super sigillata”, facendo quasi morire di paura le super “guardie del corpo” addette al sepolcro, e il “gioco è fatto”. Ma, ascoltiamo ora il grande annuncio del messaggero celeste: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. E’ risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto». Se i soldati romani tremano di paura, “Voi non dovete affatto impaurirvi - dice l’angelo alle due donne - anzi, dovete essere letteralmente ricolme di gioia, perché il corpo di Gesù, al quale per amore siete venute a rendere omaggio, non c’è più! Entrate dentro il sepolcro e potrete constatarlo con i vostri occhi: è vuoto! Sì, perché Egli, Gesù, colui che era stato crocifisso, ora è risorto!”. E’ d’obbligo fermarsi un istante a riflettere sul fatto che Gesù risorto mantiene nel suo corpo glorioso i segni della sua passione e morte in croce («Gesù, il crocifisso è risorto»), a dimostrare che sono dei segni “indelebili” che devono rimanere in eterno. Perché Gesù non li ha cancellati? Una prima risposta, più superficiale, è che tali segni serviranno a Gesù per farsi riconoscere dai suoi discepoli, per mostrare che Egli è la stessa persona che era sulla croce (vedi, ad esempio, l’episodio dell’apparizione all’apostolo Tommaso). Ma, andando un po’ più in profondità, capiamo che la permanenza dei segni della passione-morte in croce di Gesù sono un richiamo alla permanenza di ciò che essi significano, ossia dell’amore che Gesù sulla croce ha mostrato per l’umanità. Essi sono da vedere come i segni più eloquenti della concretezza del suo amore per noi, possiamo dire i segni “eterni” del suo amore “eterno” per noi. Questa cosa ci permette di riflettere anche sul fatto che, in realtà, la sola cosa che ha il potere di oltrepassare la barriera del tempo e quindi anche l’evento della morte è l’amore, poiché come ci ricorda S. Paolo: «la carità non avrà mai fine» (1Cor 13,8). Di conseguenza, tutte quelle cicatrici spirituali che sono presenti nel nostro cuore come segni dell’amore sofferente che abbiamo vissuto su questa terra per Gesù e per gli uomini, saranno i segni più eloquenti del nostro essere stati dei veri discepoli di Gesù, perché il contemplare i segni della sua passione sono un invito a seguirlo sul suo stesso cammino d’amore. Per tutti questi motivi, allora, capiamo perché tali segni non si possono e né si devono cancellare dal corpo di Gesù risorto, sono troppo preziosi per entrare nel mistero dell’amore di Dio. Ma torniamo ora all’annuncio dell’angelo alle due donne, perché la constatazione del sepolcro vuoto e l’annuncio della risurrezione di Gesù non sono che la prima parte del suo messaggio: «Presto, andate a dire ai suoi discepoli: E’ risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; la lo vedrete». E’ un invito pressante a diventare dei testimoni di speranza, ad andare incontro a tutti quelli che sono nella tristezza, che soffrono la mancanza di senso della vita, che hanno perso la fede in Dio, che sperimentano sulla loro pelle l’oppressione dei lacci della morte, per annunciare che Gesù ha sconfitto la morte, è morto e risorto per aprirci le porte della vita eterna, che è vivo e che sta aspettando di incontrarti per abbracciarti e farti sperimentare quanto sei importante per lui!

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II domenica di Pasqua (Gv 20,19-31) “La domenica: il primo giorno della settimana” Il brano odierno, tratto dal Vangelo di Giovanni, ci presenta le due apparizioni di Gesù risorto agli apostoli riuniti nel cenacolo, avvenuto poche ore dopo aver ascoltato la testimonianza di Maria Maddalena, che affermava di avere visto di persona il Signore. In quale giorno sono avvenute le due apparizioni? Non è una semplice curiosità giornalistica o fine a se stessa, perché l’evangelista ci tiene a ricordare che entrambe le apparizioni, separate l’una dall’altra da sette giorni, avvengono lo stesso giorno, il primo giorno della settimana. Esso è il primo giorno dopo il sabato, ossia quello che diventerà in seguito il giorno di domenica, il “giorno del Signore”. Il Signore poteva apparire in qualsiasi altro giorno della settimana e invece ne sceglie uno in particolare, il primo giorno, perché? E’ chiaro che questa scelta non è casuale, ma contiene un messaggio importante per la vita di tutti i cristiani di tutti i tempi: l’evento della risurrezione di Gesù è ciò che dà il senso pieno alla vita di tutti i giorni, è il punto di partenza. In effetti, per noi cristiani il tempo ciclico della settimana ha inizio la domenica, non il lunedì. Qualcuno potrà pensare: “Ma che cosa cambia se la settimana inizia la domenica o il lunedì? Tanto è sempre di sette giorni e la loro sequenza è identica e non cambia mai”. Vi invito ad abbandonare per un attimo la nostra mentalità “scientifica”, di tipo “quantitativo”, per fare un po’ di “filosofia-teologia” e pensare alla “qualità” della nostra vita. Cosa vuol dire pensare la settimana partendo dal giorno di domenica? Significa mettere al centro della nostra vita Dio, la sua persona e la sua opera, nella fattispecie il mistero della risurrezione del nostro Signore Gesù, di quell’evento “spettacolare” che ci dice che la morte è vinta, che la nostra vita è ormai entrata nell’eternità, che la gioia e l’amore sono il nostro destino finale. Cosa vuol dire, invece, pensare la settimana partendo dal giorno di lunedì? Significa mettere al centro noi stessi, con i nostri progetti, le nostre preoccupazioni, i nostri problemi, le nostre paure, le nostre opere, il nostro lavoro (che spesso o non ci piace, o non ci realizza pienamente, oppure ci pesa). Credo che la differenza di qualità di vita, che ci si prospetta nel vivere la settimana partendo dalla domenica piuttosto che da lunedì, sia piuttosto evidente. In fondo siamo chiamati ad operare un cambio di mentalità, a non vedere più la domenica come l’ultimo giorno della settimana, che porta con sé anche la tentazione di mettere anche Gesù all’ultimo posto della nostra vita, ma a guardare e contemplare il giorno della domenica, come il primo giorno, come davvero il “giorno del Signore”, quello che dà senso e vita a tutti gli altri giorni. Sì, perché incontrando Gesù la domenica non sono più solo a vivere le fatiche, gli impegni, gli imprevisti del lunedì, del martedì, del mercoledì… La mia vita quotidiana non è più un vagare senza senso, o un vivere monotono, o soltanto un insieme di preoccupazioni e problemi da risolvere, ma è illuminata dalla presenza di Gesù risorto che mi dà la sapienza e la forza spirituale necessarie non solo per affrontare le difficoltà della vita, ma per imparare sempre più a gustarla e a contemplarla con gli occhi di Dio. E poi è bello pensare che arrivati alla fine della

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settimana, cioè al giorno di sabato, ci aspetta una nuova domenica, una nuova settimana da iniziare in compagnia di Gesù. Se riusciamo a fare questo cambiamento di mentalità, ossia a pensare la settimana che inizia dalla domenica, dal giorno in cui noi cristiani facciamo memoria della grande opera salvatrice di Dio, del mistero della morte per amore e della risurrezione del Signore Gesù, credo che la qualità della nostra vita possa notevolmente cambiare. E’ chiaro poi che iniziare la settimana dalla domenica significa mettere al centro del giorno di domenica la celebrazione dell’Eucaristia, il “luogo” in cui oggi ho la possibilità di incontrare Gesù risorto. E’ proprio questo il messaggio più profondo che Gesù vuole lasciarci, apparendo agli apostoli il primo giorno della settimana: “E’ nella celebrazione eucaristica che voi potete incontrarmi. E’ quello l’appuntamento più importante della settimana. E’ lì che io vi aspetto, ogni domenica, per ricordavi quanto vi amo e per ridonarmi a ciascuno di voi. Così che anche voi possiate dire con gioia, come gli apostoli nel cenacolo: «Abbiamo visto il Signore!»”.

III domenica di Pasqua (Lc 24,13-35) “Perché andare a Messa?” L’episodio dell’apparizione di Gesù ai due discepoli diretti ad Emmaus si presta bene per essere utilizzato come una formidabile catechesi sulla Messa. In fondo, che cos’è la Messa se non un incontro con Gesù risorto? La prima cosa da sottolineare, in effetti, è proprio la dimensione dell’incontro, ossia il fatto che io vado a Messa, o meglio “partecipo alla celebrazione eucaristica”, per incontrare Gesù. E’ lui, infatti, il centro di tutto quello che accade durante la Messa: parole, azioni, segni, canti e preghiere. Per cui io non vado a Messa per ottemperare ad un precetto della Chiesa o per incontrare i miei amici, o perché il sacerdote che celebra mi è simpatico, ma perché nella Chiesa, con i miei amici e attraverso il sacerdote “simpatico” incontro Gesù risorto! Andando un po’ più nel profondo, non vado a Messa perché ho bisogno dell’aiuto di Gesù per risolvere qualche mio problema, ma io vado a Messa principalmente per Gesù stesso, per incontrare la sua persona, non perché gli devo chiedere qualcosa. Un altro aspetto interessante del Vangelo odierno è la dimensione comunitaria dell’incontro, ossia il fatto che Gesù incontra “due” discepoli, possiamo dire una sorta di micro-comunità, un piccolo germe della Chiesa. Tornando alla Messa, è da sottolineare il fatto che non vi partecipo da solo, ma la vivo insieme ad altri, che come me sono stati invitati da Gesù ad incontrarlo. Ma andiamo avanti per vedere il comportamento di Gesù sulla via di Emmaus. Egli vuole subito entrare nella vita dei due discepoli, nel loro cuore, chiedendo di raccontargli di che cosa stavano discutendo durante il loro cammino. E loro “vuotano il sacco” raccontando tutta la loro forte delusione per la tragica morte in croce del profeta Gesù, il Nazareno, e la notizia di alcune donne che dicono di avere avuto una visione di angeli che, affermano che egli è vivo anche se, a dire il vero, nessuno l’ha visto. Che bello! Gesù che vuole entrare nel profondo del nostro cuore! Che desidera ascoltare le nostre preoccupazioni, i nostri affanni, le nostre delusioni, ma che

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soprattutto vuole aiutarci a fargli spazio nel cuore, perché solo così le preoccupazioni, gli affanni e le delusioni che sono presenti possono sparire. Comincia così un cammino di “catechesi biblica”: Gesù prende tutti i brani della Scrittura (il nostro Antico Testamento) che parlano profeticamente di lui e del mistero della sua sofferenza-morte-glorificazione. Qual è l’effetto di questa mirabile “lectio divina”? Che il cuore dei due discepoli cambia. Piano piano spariscono le preoccupazioni, gli affanni, le delusioni e comincia a crescere un sentimento di amore per Dio e per colui che parla con loro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Non è questo il senso della “liturgia della Parola” della Messa? Chi è che parla quando si leggono le Scritture? Non sono i lettori, perché essi prestano solo la voce, chi parla è Gesù in persona. E’ lui che parla al nostro cuore, perché vuole illuminarlo e scaldarlo, attraverso la parola domenicale egli intende gettare luce sui passi della nostra vita e fare crescere il germe dell’amore che lui stesso ha seminato nei nostri cuori. Torniamo al cammino dei nostri due amici, che col cuore ormai “caldo” d’amore si scoprono attratti affettivamente dalla figura di quel misterioso compagno di viaggio. Essi ormai gli si sono affezionali, gli vogliono bene, si preoccupano di lui e, soprattutto, vogliono continuare a stare insieme a lui, per tutti questi motivi gli dicono con insistenza: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Ormai che sono diventati amici dell’uomo misterioso, sono pronti per riconoscerlo. Quale gesto fa Gesù per farsi riconoscere? Tra tutti quelli possibili e immaginabili sceglie un gesto semplicissimo, quotidiano, lo spezzare il pane prima del pasto: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero». Siamo arrivati alla fine del processo di avvicinamento messo in opera da Gesù, del progressivo svelarsi della sua identità: ora gli occhi dei due discepoli lo riconoscono, quel loro compagno di viaggio misterioso era Gesù risorto! Siamo arrivati così alla “liturgia eucaristica” della Messa, al segno dei segni, al memoriale dell’ultima cena e della sua morte in croce, alla trasformazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Gesù e al dono che Gesù fa di sé in quel pane consacrato: è proprio in quel segno così speciale che anche noi possiamo “riconoscerlo”. E’ nella ”comunione” che si consuma l’incontro tra noi e Gesù, la comunione tra il suo cuore e il nostro cuore. E’ lì che ogni domenica egli ci aspetta!

IV domenica di Pasqua (Gv 10,1-10) “Il pastore che dà la vita” «In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore». Una frase che può sembrare a prima vista un po’ enigmatica oppure insignificante, ma che in realtà mostra l’estrema franchezza, chiarezza e trasparenza, con le quali Gesù si presenta nei panni del Pastore/Salvatore della nostra vita. Credo che tutti noi, nella nostra vita, abbiamo incontrato delle persone che all’inizio

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si sono presentate come persone per bene, “sinceramente” interessate a noi e al nostro bene, ma che col passare del tempo si sono rivelate dei soggetti ambigui, falsi, malvagi. Essi non volevano affatto il nostro bene, ma solo il loro, perché il loro intento era quello di prendersi qualcosa da noi, di “rubarci” affetto, attenzioni o soldi, comportandosi come dei veri e propri ladri, che di nascosto prendono dagli altri ciò che a loro interessa. Tutto questo per dire che Gesù non è così. Egli non ha doppi fini quando si presenta agli occhi del nostro cuore, non fa delle promesse particolarmente allettanti e adulanti, che poi non mantiene affatto. Egli non ha nessuna intenzione di prendere qualcosa dalla nostra vita senza il nostro deliberato consenso, anche perché non è venuto per prendere, ma per dare. Per questo Gesù può dire ad alta voce: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore». Qual è la qualità che fa di un pastore l’essere un buon pastore, piuttosto che un cattivo pastore? Il fatto di donare la “sua” vita per la vita delle pecore, ossia la “fedeltà nell’amare”. Il mercenario, al contrario, prende l’incarico del pastore solo per denaro, non per “vocazione”. Egli assume le vesti esteriori del pastore, ma in realtà, nel suo cuore non ha alcun interesse e amore per le pecore di cui deve occuparsi, che di fatto non gli appartengono. Questa verità verrà a galla nel momento in cui sorgeranno delle difficoltà, nel momento della prova, del pericolo, quando arriva il “lupo”. Le pecore, infatti, rischiano la loro vita e il mercenario che fa? Si mette a difendere le pecore? Nient’affatto, non sono mica le sue. Egli cercherà di mettersi in salvo al più presto possibile, altro che dare la propria vita. L’unica sua preoccupazione è quella di non perdere la sua di vita... Fratelli e sorelle, che bella rivelazione ci fa Gesù! Egli ci dice che lui è veramente il pastore della nostra vita, nel senso che dal momento in cui lo abbiamo conosciuto e amato, Gesù non ci può più abbandonare, qualunque situazione di difficoltà o di prova possiamo vivere: egli è lì, al nostro fianco come un pastore fedele pronto a dare la sua vita per noi! Ma questa è solo la prima parte della rivelazione di oggi, perché Gesù dice ancora: «Egli (il pastore) chiama le sue pecore ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le pecore, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua vita». Cosa significa tutto ciò? Da quale recinto Gesù vuole farci uscire? Ci invita a seguirlo, bene, ma per andare dove? Sono delle domande lecite, intelligenti ed importanti, alle quali cerchiamo di dare risposta. Da quale recinto il pastore Gesù ci invita ad uscire? Beh, facile, dal recinto del nostro egoismo. Per spiegare questo, l’immagine del recinto è particolarmente eloquente. Infatti noi di solito “recintiamo” per delineare e proteggere ciò che è nostro, la nostra proprietà privata, quella dove gli altri non possono e non devono entrare. Più profondamente, Gesù ci invita ad uscire dal recinto del nostro egoismo, dal nostro ripiegamento su noi stessi, per mostrarci le vaste praterie dell’amore donato agli altri, ciò che può davvero realizzare la nostra vita. Siamo così arrivati alla seconda parte della rivelazione connessa all’immagine del buon pastore, ossia il fatto che Gesù ci invita, seguendo i suoi passi, a diventare anche noi dei “buoni pastori”, come ci ricorda la prima lettera di Pietro: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1Pt 2,21). Nel nostro contesto la possiamo tradurre così: Gesù ti libera dal recinto del tuo egoismo, per proporti un cammino di apprendimento dell’arte di donarsi agli altri, quella stessa arte di amare che

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Gesù ha vissuto su questa terra e che lo ha portato a donare tutta la sua vita sulla croce per te e per tutti gli uomini. Per cui l’immagine di Gesù buon pastore non solo offre un ristoro alle nostre anime, sapendo di poter contare sempre sulla fedeltà assoluta ed eterna del suo amore, ma ci spinge ad imitarlo, nel donare anche noi la nostra vita agli altri, ciò che dà senso e sapore alla nostra esistenza.

V domenica di Pasqua (Gv 14,1-12) “Che cos’è il paradiso?” «Io sono la via, la verità e la vita». Attraverso queste brevi parole Gesù non solo fa una rivelazione particolarmente profonda della sua identità, ma, possiamo dire, offre ai suoi discepoli una sorta di sintesi della sua missione sulla terra e, allo stesso tempo, del cammino che i discepoli sono chiamati a compiere al seguito del loro maestro. Egli è venuto a mostrarci la strada da percorrere che porta allo svelamento e al discernimento di ciò che è vero, così che, abbracciando il suo messaggio di verità, possiamo sperimentare la pienezza e la bellezza della vita eterna. Di conseguenza per noi cristiani la vita, la verità e la vita non sono solo dei concetti, ma assumono il volto di una persona, quello di Gesù. In altre parole, quando nella nostra esistenza cerchiamo una via per uscire da certe situazioni o per dare senso a ciò che facciamo, sappiamo che la risposta della nostra ricerca è Gesù. Quando vogliamo scoprire la verità del nostro essere e del nostro agire, la riposta è Gesù. Quando ci sentiamo assetati di vita, magari perché stiamo sperimentando dei momenti di morte, la risposta è Gesù. Vado ancora oltre: che cos’è nel profondo la Bibbia? E’ la rivelazione di Gesù. Che cos’è la Chiesa? E’ il corpo mistico di Gesù. Cosa sono i sacramenti? E’ Gesù, che opera la nostra salvezza. Che cos’è la morale cristiana? Vivere come Gesù! Ma andiamo avanti, perché il Vangelo odierno ci offre altre rivelazioni molto preziose. Gesù parla di un viaggio che è in procinto di fare, di una destinazione, di un luogo da raggiungere, dice che deve andare nella casa del Padre per preparare un posto ai suoi discepoli. Un viaggio che non è di sola andata, in quanto prevede un ritorno: «Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi». Gesù lascia ai suoi discepoli una promessa, che esprime un suo desiderio molto profondo: voler condividere con loro la sua “abitazione”, ovvero la meta del suo viaggio. Ma qual è questa meta di cui sta parlando Gesù? E’ lo stesso Gesù, che continuando il suo discorso, ci fa capire che la meta da raggiungere nel suo viaggio, che è la stessa meta del viaggio che farà compiere ai suoi discepoli, non è un luogo fisico, ma una “persona”, o meglio una relazione intima e profonda con una persona: Dio Padre. Questo fatto ci invita allora ad abbandonare tutte quelle immagini troppo fisiche del “Paradiso” che si sono trasmesse nei secoli (vedi la Divina Commedia), come se esso fosse davvero un luogo situato in un certo spazio (in cielo). E anche tutte quelle credenze che ci fanno immaginare il Paradiso come il “luogo” dove ciascuno, chiuso nella sua singolarità, può finalmente fare tutto ciò che gli piace: tutte quelle cose che lo

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rendevano felice su questa terra, senza magari un legame con gli altri, quasi che ciascuno possa crearsi il proprio paradiso. Quello che noi chiamiamo il “Paradiso” è, fondamentalmente, un’esperienza di “condivisione”. E’ la condivisione di una “relazione”, di quella relazione d’amore eterno e infinito che lega Gesù al Padre per mezzo dello Spirito Santo. Una relazione che Gesù condivide con ciascuno dei suoi discepoli e che li unisce profondamente con Dio e tra loro: questo è il Paradiso cristiano, e sarà questa condivisione di relazione che ci farà essere davvero felici e beati. «Gli disse Filippo: Signore mostraci il Padre e ci basta. Gli rispose Gesù: Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre». Possiamo leggere questo desiderio di Filippo di vedere il Padre, come la richiesta di una sorta di anticipazione della beatitudine del Paradiso. Gesù risponde dicendo a Filippo che in questa relazione d’amore che lo unisce indissolubilmente al Padre («Io sono nel Padre e il Padre è in me») si può già entrare su questa terra: «Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre». Cosa vuol dire tutto ciò? E’ la rivelazione che già su questa terra possiamo fare un “assaggio” del Paradiso: tutte quelle volte che, grazie all’azione dello Spirito Santo, siamo in uno stato di vera comunione con Gesù (nei pensieri e nelle nostre opere). Cosi facendo entriamo in quella stessa relazione intima che Gesù ha con il Padre. Per cui il Paradiso non sarà altro che l’estensione nel tempo (nella dimensione dell’eternità) di quell’amore suscitato dallo Spirito Santo, che già su questa terra ci lega a Gesù e quindi al Padre. Ora siamo allora in grado di capire meglio l’espressione di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita». Gesù è colui che ci permette di accedere al mistero di Dio, Uno e Trino, ma non come un concetto astratto in cui credere, bensì come una relazione d’amore da sperimentare a partire da questa nostra vita terrena e che avrà il suo compimento nella dimensione del Paradiso.

VI domenica di Pasqua (Gv 14,15-21) “La missione dello Spirito Santo” Gesù è consapevole del fatto che dopo la sua risurrezione ascenderà al cielo e inizierà una nuova modalità di relazione con i suoi discepoli: non più una presenza “fisica” accanto a loro, ma una presenza “spirituale” in loro. Egli cerca di preparare i suoi discepoli a questo cambiamento, un passaggio che sicuramente destava in loro una forte preoccupazione, accompagnata da sentimenti di tristezza, smarrimento e solitudine. Gesù cerca di essere chiaro: «Non vi lascerò orfani: verrò da voi». Non si tratta perciò di un abbandono, di una rinuncia al suo essere maestro, pastore e amico, com’è stato fino a quel momento. Anche perché Dio non può abbandonare le sue creature, nemmeno per un istante: il suo è un amore eterno, la sua fedeltà è per sempre. Veniamo allora introdotti al grande mistero di Dio, dell’unico Dio “composto” da tre Persone in eterna relazione tra loro: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Per cui, dopo che il Padre invia il Figlio e dopo che il Figlio realizza la sua missione redentrice, si prepara ora un altro invio, quello dello Spirito Santo, che prenderà il posto di Gesù nel cuore dei discepoli: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché

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rimanga con voi sempre». Il discorso può sembrare difficile, astratto, poco comprensibile, ma in realtà è un percorso di riflessione che siamo invitati a fare nostro per conoscere più profondamente il Dio in cui crediamo: l’unità di Dio e la missione propria dello Spirito Santo. L’unità di Dio è eterna, per cui da sempre e per sempre il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un tutt’uno indissolubile e inseparabile. Quando il Figlio si è incarnato in Gesù di Nazareth non è che c’è stata una sorta di disgregazione o di affievolimento dell’unità delle tre persone della Trinità. L’unico cambiamento che si è verificato all’intero della Trinità è il mistero dell’incarnazione, poiché per il fatto che il Figlio si è fatto uomo, l’umanità è stata assunta da Dio. Gesù ripete spesso che lui viene dal Padre, che ha una missione da compiere che gli è stata conferita dal Padre; che lui e il Padre sono una cosa sola; che chi vede lui può vedere tranquillamente e trasparentemente il Padre: tutto questo dimostra la permanenza dell’unità tra il Figlio e il Padre. Noi sappiamo che questa unità ha un nome, si chiama Amore, che è personificato nello Spirito Santo. Per cui quando Gesù parla al Padre suo (prega) o parla del Padre suo (predica) o agisce per contro del Padre suo (guarisce, opera segni “miracolosi”), tutto ciò è espressione dell’Amore, ossia è opera dello Spirito Santo. Nel momento in cui il Figlio fatto uomo, ovvero il Signore Gesù, ascende al cielo, lo Spirito Santo viene inviato con una missione particolare, che non è quella di sostituirsi alla missione di Gesù di rivelare all’umanità il volto del Padre, poiché essa rimane propria del Figlio, ma di favorirla, aiutando gli uomini ad incontrare Gesù per unirli a Lui. Per questo motivo lo Spirito Santo prenderà posto nel cuore degli uomini, per trasformarlo nel profondo in modo che il Signore Gesù possa prendervi dimora e crescere, trasformando la persona in un cristiano, in un altro Cristo, mettendolo così in quella stessa relazione che il Figlio eterno ha con il Padre, che non è più solo suo Padre, ma diventa il Padre nostro. Alla luce di questa spiegazione possiamo capire il senso di quelle parole di Gesù: «In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi». Quel giorno è il giorno in cui accogliamo nel nostro cuore lo Spirito Santo e lo lasciamo operare liberamente come a lui piace, per trasformarci in Gesù. Quel giorno, in realtà, è ogni volta che accettiamo di lasciarci coinvolgere dal comandamento dell’amore: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui». A noi perciò il credere che questo processo di trasformazione in Gesù, in figli del Padre, operato dallo Spirito Santo, che si chiama “santificazione”, sia possibile per ciascuno di noi, nonostante tutti i nostri limiti, le nostre debolezze, i nostri peccati, le nostre cadute e le nostre fragilità. Un credere che deve poi trasformarsi in desiderio, nel volere fermamente che questo cammino di santificazione si realizzi nella nostra persona: un desiderio ardente di entrare, attraverso la porta dell’amore concretamente scelto e vissuto nella vita di ogni giorno, in quella comunione beata che lega indissolubilmente il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, quella comunione che sola può renderci felici e appagare i nostri cuori.

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Ascensione al cielo di Gesù (Mt 28,16-20) “Gesù è il Signore” Oggi ci viene presentato il finale del Vangelo di Matteo che narra del congedo di Gesù prima della sua ascensione al cielo, con la quale, dopo le diverse apparizioni da risorto, ha termine la sua missione terrena. E’ un momento di forte “cambiamento”, nel senso che gli apostoli e gli altri discepoli non vedranno più Gesù in “carne ed ossa” che vive al loro fianco, che parla del Regno dei cieli, che compie gesti e segni prodigiosi. Ma è anche un momento di grande “rivelazione”, poiché quelle poche frasi che Gesù pronuncia agli undici, prima di lasciarli, sono ricche di grandi significati, capaci di aprire una pagina “meravigliosamente” nuova della loro esistenza. «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra». Queste sono le prime parole con le quali Gesù apre il suo discorso di congedo. Parole che vogliono “svelare” il fatto che Gesù, dopo il mistero della sua risurrezione e ascensione al cielo, è diventato il “Signore” dell’universo (realtà che noi celebriamo alla fine del ciclo liturgico annuale nella solennità di “Cristo re dell’Universo”). Questa “signoria” di Gesù che cosa vuole significare? Significa che il “senso” del tempo si è ormai concluso, ossia che la realtà creata da Dio ha ricevuto la sua pienezza di significato. Per cui non c’è più d’aspettarsi l’arrivo di un “qualcuno” che possa rivelarci quale sia il senso profondo dell’esistenza umana, che possa insegnarci a superare l'impasse della sofferenza e della morte, un qualcuno che ci sveli finalmente il nostro destino ultimo, perché questo qualcuno è già arrivato: si chiama Gesù, il Signore dell’universo. In altre parole, questa “signoria” di Gesù nei confronti del mondo creato non è altro che la glorificazione e l’esaltazione del fatto che egli è davvero il Salvatore dell’umanità, colui che può rivelare all’uomo il vero volto di Dio e può farlo entrare in una profonda e piena relazione d’amicizia con lui. Questa “signoria” di Gesù è la chiave di lettura della seconda parte del suo discorso di congedo, quando dice agli undici: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato». L’ascensione al cielo di Gesù e la conseguente “intronizzazione” a Signore dell’universo, comportano un cambiamento nella vita degli undici, che solo ora sono in grado di capire il senso profondo del loro essere degli “apostoli” (degli “inviati”): uniti spiritualmente a Gesù sono chiamati a spendere tutta la loro vita a servizio della continuazione della sua missione di salvatore dell’umanità. Una missione che ha lo scopo di far conoscere la “signoria universale” di Gesù, il suo essere il salvatore di tutti gli uomini, facendo entrare ogni uomo nel grande mistero di comunione eterna d’amore del vero Dio, attraverso una relazione personale con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Questa è la traduzione “esistenziale” dell’invito a battezzare «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Questa missione si concretizza poi nel mostrare all’intera umanità la gioia di vivere il comandamento dell’amore lasciatoci da Gesù, la “via” per potere condividere la stessa vita divina della Trinità. Questo è il senso dell’invito a insegnare «a osservare tutto ciò che vi ho

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comandato». Questa missione rivelatrice del vero volto di Dio e dell’invito ad entrare in piena comunione con lui a chi è rivolto? A tutti gli esseri umani, a qualunque lingua, razza, cultura appartengano: «fate discepoli tutti i popoli». Qui si sente il respiro dell’universalità del messaggio “salvatore” di Gesù, che la Chiesa ha il compito di diffondere a tutte le latitudini del pianeta terra. Questa universalità esclude, perciò, qualunque atteggiamento restrittivo, “disperato” (nel senso di “privo di speranza”) o pregiudiziale, come il pensare che qualcuno, per varie ragioni (culturali, caratteriali, di stile di vita, di apertura o meno ad un discorso di tipo religioso, ecc.) non potrà mai credere in Gesù e diventare suo discepolo. Così che possiamo risparmiarci la fatica e non tentare di parlargli del Vangelo di Gesù, perché sarebbe assolutamente inutile. Questo comportamento sarebbe un peccato di terribile presunzione, di ignoranza e di disobbedienza netta al pensiero e alla volontà di Gesù. «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Siamo arrivati alla conclusione del breve discorso di congedo di Gesù. Sebbene “asceso al cielo”, Gesù promette la sua continua presenza nella vita degli undici, una presenza diversa e più forte di prima. Infatti, mentre prima egli era a fianco dei suoi discepoli, ora Gesù vive “in loro”: questa sarà la grande scoperta che faranno il giorno della festa di Pentecoste, quando i loro cuori si troveranno improvvisamente “invasi” dalla potenza dello Spirito Santo!

Solennità di Pentecoste (Gv 20,19-23) “Il dono dello Spirito Santo” Il brano di Vangelo scelto dalla liturgia per la solennità di Pentecoste è tratto dal Vangelo di Giovanni e fa riferimento alla prima apparizione di Gesù risorto ai discepoli riuniti nel cenacolo. E’ la seconda parte di questo brano che tratta dell’invio dello Spirito Santo e che, perciò, aiuta ad illuminare il mistero della Pentecoste. Sulla base delle parole dette da Gesù e del gesto che egli pone in atto, a significare l’invio dello Spirito, sono tre gli elementi che si evidenziano. Il primo elemento è il “dono”: «Ricevete lo Spirito Santo». Lo Spirito Santo appare come un “regalo”, un qualcosa che i discepoli ricevono gratuitamente. Un qualcosa che non hanno chiesto espressamente prima, un qualcosa che viene offerto loro liberamente per iniziativa e desiderio di Gesù. L’atteggiamento richiesto dai discepoli è, perciò, prettamente “passivo”: sono chiamati ad accogliere il dono, ad aprire le porte del proprio cuore per farlo diventare proprio. L’azione che precede le brevi parole dette da Gesù risulta essere particolarmente significativa: Gesù soffia, ossia indirizza il suo respiro verso i discepoli. E’ un gesto che rappresenta una “comunicazione”, un passaggio di qualcosa di vitale (il proprio respiro), ovvero è la “trasmissione” della vita divina di Gesù ai suoi discepoli, della relazione d’amore eterno che c’è tra lui e il Padre celeste, in altre parole, non credo di esagerare dicendo che Gesù trasmette ai suoi discepoli l’intima essenza della sua stessa anima. Il secondo elemento da rilevare è la “missione”: «Come il Padre ha mandato me,

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anche io mando voi». Il dono dello Spirito Santo è un qualcosa (o meglio un “Qualcuno”) che spinge ad uscire fuori da sé, a muoversi, ad andare verso gli altri: è il dono che trasforma i discepoli in apostoli (degli “inviati”). Accogliendo lo Spirito Santo i discepoli sono trasformati interiormente, nel senso che lo Spirito li lega indissolubilmente alla persona di Gesù, così che come S. Paolo potranno dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Allora, possiamo affermare che i discepoli, grazie alla presenza dello Spirito Santo nei loro cuori, stringono con Gesù un legame così forte, tanto quanto è il legame che Gesù ha con il Padre suo. Per cui sono pronti a continuare quella stessa missione di rivelazione del volto di Dio, di salvezza e di liberazione del mondo, per la quale il Figlio è stato inviato dal Padre. Il terzo elemento che risalta è il “perdono”: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Questa affermazione di Gesù ci permette di evidenziare tre cose. La prima è che i discepoli, per il fatto di essere intimamente legati a Gesù, hanno ereditato le sue stesse capacità. Così che come egli aveva il potere di perdonare i peccati, ora anche i discepoli, non per virtù propria, ma per il legame che hanno con Gesù, garantito dall’azione dello Spirito Santo, hanno il potere di perdonare i peccati commessi dagli uomini. La seconda cosa da evidenziare è il fatto che ci saranno uomini che non accetteranno questa possibilità, rifiutando di cambiare vita, di abbandonare il male, di entrare in un processo di “conversione” al vero bene, per cui non sperimenteranno la bellezza, la dolcezza e la grandezza dell’essere perdonati da Dio. Il terzo elemento che salta agli occhi è proprio la realtà del “perdono”, ossia il fatto che Gesù per mostrare la potenza dell’azione dello Spirito Santo, tra tutte le cose che poteva menzionare (p.e.: miracoli di guarigioni fisiche, prodigi straordinari, come il parlare in altre lingue) indica proprio il potere del perdono dei peccati. Gesù sembra volerci comunicare che ciò che conta veramente nella nostra vita è la “santità”, una vita indirizzata decisamente verso il vero, il bene e l’amore, nella consapevolezza che il peccato, ossia la caduta in ciò che è falso, male ed egoismo, è un ostacolo da rimuovere al più presto dal cammino dei suoi discepoli. Per cui possiamo dire che il “perdono dei peccati” è l’opera per eccellenza dello Spirito Santo, quella potenza d’amore che brucia nell’anima umana il segno del peccato e dona una vita “nuova” a colui che, pentito e desideroso di riscatto, si rivolge umilmente a Dio. Sappiamo come questa opera di “potente rinnovamento spirituale” la possiamo sperimentare nel sacramento della riconciliazione, dove i sacerdoti, ministri della misericordia divina, agiscono in persona di Gesù. Eccoci così pronti a ricevere il dono dello Spirito Santo, del “respiro di Dio”, ma per fare ciò bisogna aprire la nostra bocca, quella del “cuore”: «Sono io il Signore tuo Dio […] apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80).

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Solennità della Santissima Trinità (Gv 3,16-18) “La Trinità: un mistero d’amore” La solennità di questa domenica possiamo considerarla come il “mistero” dei “misteri della fede” cristiana. In effetti, se possiamo trovarci uniti agli ebrei e ai musulmani nel credere nell’esistenza di un unico Dio, il Dio in cui noi cristiani crediamo è diverso dal loro e, inoltre, non possiamo non ammettere che noi per primi facciamo fatica a comprendere il mistero del Dio che è allo stesso tempo Uno e Comunione di tre persone (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo). A dire il vero, se non avessimo il Vangelo di Giovanni, dove Gesù parla spesso del suo rapporto con il Padre e della figura dello Spirito Santo, difficilmente saremmo arrivati a conoscere il volto del Dio Trinità. Il Vangelo proposto dalla liturgia di questa solennità è un po’ deludente, nel senso che ci sono altri brani all’interno del Vangelo di Giovanni che, a mio parere, esprimono meglio il mistero della Trinità (ad es. Gv 14,15-26 o Gv 16,12-15). Il brano scelto, tratto dal lungo colloquio di Gesù con Nicodemo, esprime comunque un concetto che ci aiuta a penetrare un po’ il mistero della Trinità, la rivelazione delle prime due persone che la compongono: il Padre e il Figlio. Gesù infatti afferma che «Dio ha mandato il Figlio nel mondo», affinché il mondo si salvi per suo mezzo. Se si parla di un Figlio vuol dire che c’è un Padre che lo ha generato, per cui quel Dio che ha mandato il Figlio è evidentemente Dio Padre, così che il Padre è la prima persona della Trinità e il Figlio la seconda, che da lui è generata. Bene, abbiamo allora scoperto che ci sono due persone divine, il Padre e il Figlio, ma non ci viene detto nulla della terza, dello Spirito Santo. Per andare alla scoperta della terza persona della Trinità dobbiamo necessariamente lasciare questo brano per andare a trovarne un altro dove Gesù dica qualcosa di lei: «Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l'annunzierà» (Gv 16,13-15). In questo brano Gesù (il Figlio) parla di una altra persona con la quale è in relazione, che non è il Padre, chiamandolo lo Spirito di verità. E’ chiaro allora che il mistero di Dio non comprende solo la relazione tra il Padre e il Figlio, ma anche una seconda relazione con una terza persona, lo Spirito Santo. Ma andiamo oltre, perché questo brano si rivela di una grande importanza, in quanto ci permette di conoscere non solo la terza persona della Trinità, ma la caratteristica principale della Trinità, quel legame di “comunione” perfetta esistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. A questo proposito, l’affermazione chiave del brano di cui sopra è quella che afferma come lo Spirito, nel suo servizio di annunciare ai discepoli le parole comunicate da Gesù, “prenderà” ciò che appartiene a Gesù stesso. Gesù però prosegue affermando che, in verità, quello che appartiene a lui non è suo, perché appartiene al Padre suo. Questa è la rivelazione della comunione che c’è tra le tre persone della Trinità, il fatto che tutto quello che è del Padre, in verità appartiene, allo stesso titolo, al Figlio e allo Spirito Santo: tutto tra loro è in comune!

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All’interno della Trinità, quindi, non c’è uno che è più importante dell’altro, uno più grande dell’altro, uno più ricco dell’altro, perché ognuna delle tre persone dona liberamente e gratuitamente all’altro tutto quello che è e che ha. Siamo di fronte ad una dinamica continua (eterna) di “donazione” e “ricezione”, di “spogliamento” e contemporaneo “arricchimento”. Un circolo virtuoso che ha un nome ben preciso: amore. Siamo così arrivati alla sostanza del mistero del vero volto di Dio rivelato da Gesù: il Dio Uno e Trino, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che eternamente si amano. Arriviamo allora a un’altra frase del Vangelo di questa domenica: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Questa affermazione di Gesù ci dà il senso della gioia di questa solennità della Trinità, poiché ci mostra come il Dio Uno e Trino viva con il “cuore aperto”, desiderando ardentemente che ogni uomo possa entrare in quella stessa comunione eterna d’amore che lega tra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ciò che corrisponde all’espressione “avere la vita eterna”. Vediamo allora come il Dio Trinità non è un Dio chiuso in se stesso, geloso di ciò che è e che ha, ma anzi è pronto a spogliarsi di tutto per rivelare agli uomini il suo volto d’amore eterno e infinito. Così come ha fatto Gesù, il Figlio unigenito, che sulla croce ha donato la sua vita eterna per ciascuno di noi, permettendoci di entrare nel “cuore” della Trinità!

Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Gv 6,51-58) “Il pane vivo” Il brano del Vangelo di Giovanni che è stato scelto per questa domenica è da considerare il vertice irraggiungibile della rivelazione sul mistero del sacramento del Corpo e Sangue di Cristo. La frase d’apertura di questa profondissima meditazione è la sintesi del lungo discorso che Gesù rivolge alla gente dopo aver compiuto il miracolo della moltiplicazione dei pani «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo». In maniera solenne, utilizzando l’espressione divina “Io sono” (vedi il nome con il quale Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente: «Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono! […] Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi», Es 3,14), Gesù afferma di essere il Figlio di Dio, che è disceso dal cielo per farsi “pane”. Una metafora, quella del pane, che rimanda in maniera diretta al bisogno primario che l’uomo deve ottemperare per rimanere in vita: se non mangi non hai le energie che il tuo corpo necessita per funzionare, se non ti nutri, progressivamente il corpo deperisce e pian piano si spegne. Il pane è per tante culture, e anche per quella nella quale visse Gesù, il simbolo del nutrimento, per cui utilizzando la metafora del pane e identificandosi con esso è come se egli dicesse: “Come il pane è necessario al nutrimento del tuo corpo, per mantenerti in vita fisicamente, io sono necessario alla tua anima, per mantenerti in vita spiritualmente!”. Infatti, Gesù continua il discorso dicendo che «Se uno mangia di questo pane vivrà in

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eterno», associando al nutrirsi di lui, del “pane vivo disceso dal cielo”, la conseguenza del vivere in eterno, del sopravanzare il mistero della morte. Ma questo non vuol dire che chi si nutre di Gesù non affronterà l’evento morte, ma che l’evento morte sarà superato da un altro evento successivo, quello della risurrezione: «Chi mangia la mia carne è beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». In questo contesto capiamo allora anche il senso di quell’altra affermazione fatta subito dopo da Gesù: «Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda». Come il pane ti assicura il sostentamento fisico, così Gesù, il pane vivo, ti assicura il sostentamento spirituale, ovvero il suo “Corpo” e il suo “Sangue” hanno il potere di “nutrire” efficacemente la tua anima. Ma che cos’è questo nutrimento “spirituale”, che cosa produce? Gesù sta dicendo che lui, in quanto Figlio di Dio, è stato mandato dal Padre per offrire agli uomini la “vita divina”, ovvero il vivere eternamente, per sempre, nell’aurea dell’amore, che è l’essenza stessa di Dio. Per cui il nutrirsi del Corpo e Sangue di Gesù è la fonte per poter entrare nella stessa dinamica d’amore che regna eternamente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (qui possiamo vedere il collegamento tra la solennità di questa domenica e quella precedente, dedicata al mistero della Trinità). Sappiamo che questo amore ci è stato rivelato e donato sulla croce: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Alla luce di ciò siamo in grado di comprendere il perché della centralità della partecipazione alla “Messa” nella vita cristiana. Non dovremmo più sentirla come una sorta di “obbligo” imposto dall’esterno, ma come un’esigenza, un bisogno, una necessità che viene dal di dentro. Essa nasce dal “fare memoria” di quell’atto d’amore “incredibile” che ha portato Gesù a morire sulla croce per ciascuno di noi, per donarci la vita eterna, la sua stessa vita. Per cui la partecipazione alla Messa domenicale è da vivere come un evento di gioia, perché quella “carne” che Gesù ha donato per la vita del mondo, ovvero quel corpo crocifisso, dilaniato e sanguinante, oggi si è fatto “pane”, nutrimento spirituale della nostra vita. Nutrendomi di quel pane vivo, che è l’Eucaristia, io entro in “comunione” con Gesù stesso, in persona, con il Signore risorto, asceso al cielo e re dell’universo: quale gioia più grande, quale nutrimento più sostanzioso per la nostra anima? «Colui che mangia me vivrà per me». Arriviamo all’ultimo passaggio del brano. Nutrendomi di Gesù presente nell’Eucaristia, entrando in comunione intima e profonda con lui, la mia vita cambia, nel senso che non sono più solo a vivere, io vivo per Gesù. Questo “per” ha un duplice significato: vivere “per Lui” come scopo e fine della mia vita, ma anche come punto di partenza, come sorgente delle mie scelte di vita, un vivere “grazie” a lui, a motivo di lui. Allora anche noi potremo dire come l’apostolo Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

XIV domenica del TO (Mt 11,25-30) “Farsi piccoli...” Per comprendere il significato di questo brano dobbiamo richiamare il contesto che lo precede, l’amara constatazione di Gesù che, dove ha più predicato e compiuto

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miracoli, la stragrande maggioranza delle persone che lo hanno visto e ascoltato non hanno creduto alla sua persona, non accogliendo perciò il suo messaggio di salvezza: «Allora si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggioranza dei suoi prodigi, perché non si erano convertite» (Mt 11,20). Dopo avere provato questa forte delusione, Gesù volge lo sguardo verso quei pochi che, invece, non solo hanno creduto alle sue parole, ma hanno preso la ferma decisione di seguirlo, divenendo suoi discepoli. Contemplando i loro volti di persone semplici, disponibili e fiduciose, di “piccoli”, il suo cuore si riempie di gioia, tanto da irrompere in una preghiera di lode rivolta al Padre, pronunciata ad alta voce: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli». L’oggetto della lode è la constatazione del fatto che, per poter accogliere la rivelazione del Regno dei cieli, mediata da Gesù, bisogna assumere un atteggiamento di “piccoli”, ossia di persone umili, aperte, disposte a far spazio a Dio nella propria vita. Al contrario, le persone che si fanno e/o si credono “grandi”, sono così gonfie e sicure di loro stesse, dei propri convincimenti, della propria presunta “intelligenza”, dei propri strumenti e acquisizioni culturali, che non possono accettare di “umiliarsi”, tanto da diventare discepoli di qualcun altro. Loro infatti si atteggiano a “maestri”, sono loro che devono insegnare agli altri. Così non accettano assolutamente di lasciarsi “misurare” da Gesù, ma, al contrario, sono loro che devono “misurare” la rivelazione di Gesù con i parametri delle loro conoscenze “scientifiche”, naturalmente infallibili! E’ particolarmente interessante questo episodio del Vangelo di Matteo, perché ci permette di penetrare per un attimo nella dimensione “umana” di Gesù, osservando come egli ha superato questo forte momento di delusione, nel bel mezzo della sua missione di annunciatore del Vangelo. Egli supera la delusione guardando al positivo, all’opera del Padre suo, comprendendo che il messaggio del Vangelo può essere accolto solo da chi si fa “piccolo”: questa è la volontà del Padre, che Gesù scopre essere davvero sapiente e stupefacente. Poi Gesù trova ulteriore forza nel richiamare quel legame unico che ha con il Padre suo, del fatto di essere proprio lui, il Figlio unigenito, il vero e unico rivelatore del Padre: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». Così che, dopo la contemplazione dell’opera salvifica del Padre nei suoi discepoli e dopo la riconferma della sua missione unica di Figlio unigenito mediatore tra il Padre e gli uomini, Gesù può con estrema lucidità e convinzione riproporsi a tutti i “piccoli” della terra, invitandoli ad accogliere con fiducia la sua persona: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». Il “cerchio” si chiude, ovvero, Gesù riconosce che anche lui, il Figlio di Dio, prendendo la natura umana, si è fatto “piccolo”, nel senso che la sua persona divinoumana è divenuta lo “spazio” sempre aperto, dove ogni uomo può trovare riposo, conforto e ristoro spirituale per la sua anima: l’invito è quello di andare a prendere dimora nel suo cuore. In fondo l’espressione “prendere il mio giogo sopra di voi” non significa altro che accettare di vivere nella dinamica del “ricevere e donare” l’amore di Gesù, vivendo il

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comandamento nuovo dell’amarsi a vicenda come lui stesso ci ha amato e ci ama. Qui stanno, allora, la “dolcezza” del giogo e la “leggerezza” del peso di cui parla Gesù, perché nel momento in cui si entra nella dinamica dell’amore di Dio, è quello stesso amore ricevuto che ti condurrà ad amare gli altri, anche chi non immagineresti mai di poter amare… Allora, sotto questa luce, il farsi “piccoli” significa riconoscere e accettare che da soli non siamo capaci di amare Dio e i nostri prossimi. Abbiamo bisogno che sia Dio stesso ad insegnarci come si fa. Abbiamo un bisogno continuo di entrare e sostare nel cuore di Gesù, per lasciarci plasmare dai raggi calorosi del suo amore e farci condurre dallo Spirito Santo ad irradiare noi stessi quella stessa energia spirituale, in modo che anche altri possano farsi, a loro volta, “piccoli” per accogliere l’amore di Dio e rendere anch’essi lode al Padre del cielo e della terra, così come oggi ci ha voluto insegnare Gesù.

XV domenica del TO (Mt 13,1-23) “La parabola dei quattro terreni” Questa è la prima delle sette parabole che compongono il capitolo XIV del Vangelo di Matteo. E’ chiamata, tradizionalmente, la “parabola del seminatore”, ma io preferisco ribattezzarla la “parabola dei quattro terreni”, perché il cuore del messaggio si trova nel vedere quale fine fa il seme gettato dal seminatore nei diversi terreni che incontra. Gesù stesso, dopo avere raccontato la parabola alla numerosa folla che lo seguiva, ne dà la giusta interpretazione in privato ai suoi discepoli, che, a differenza della folla, sono abilitati ad afferrarne il significato nascosto. Infatti, questa parabola racconta di quello che può succedere dopo che si è ascoltata la parola del Regno di Dio. Il primo “terreno” è la strada, ovvero il sentiero di terra battuta dove gli uomini, come il seminatore, camminano per recarsi nei campi. Il seme gettato non fa in tempo a penetrare nel terreno, che è già duro, in quanto battuto dagli uomini, perché qualcuno (gli uccelli) si getta sulla strada e mangia il seme. Nella spiegazione di Gesù il “ladro” di semi è nientemeno che il diavolo (il Maligno), che fa di tutto affinché gli uomini possano dimenticarsi, al più presto, di quella parola divina che hanno appena ascoltata. Gesù ci rivela, allora, che quando siamo in ascolto della sua Parola, non siamo soli, c’è un altro, il nostro vero e unico “nemico”, il diavolo, che fa di tutto per distrarci, per essere poco concentrati, poco desiderosi di capirla e di accoglierla nella nostra vita. Il secondo “terreno” è quello sassoso, dove la terra è mescolata ai sassi, mancando così di profondità, e quindi della possibilità di produrre delle radici forti. Gesù spiega che questo terreno è simbolo di quelle persone che quando ascoltano la Parola di Dio, l’accolgono subito con grande gioia, facendo subito il proposito di trasformarla in vita. Ma quando, provando a metterla in pratica, si trovano di fronte a difficoltà e tribolazioni dovute proprio ad avere tentato di praticarla, gettano sconfortati la spugna. Facciamo un esempio. Ho ascoltato a Messa Gesù che invita a fare del bene ai propri nemici. Bene, m’impegno subito a fare del bene al mio nemico, ma quello, per tutta risposta, s’impegna a farmi ancora più del male! Allora ritorno sui miei passi e quella

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parola di Gesù la metto per un po’ da parte, perché non sembra che porti a qualcosa di buono, anzi… Il terzo “terreno” è composto dai rovi che, occupando la maggior parte del terra, quando crescono non possono fare altro che soffocare e far morire il nuovo germoglio seminato. Anche in questo caso la Parola di Dio viene accolta dalla persona, ma col tempo viene messa da parte. Le migliori energie, infatti, vengono impiegate per occuparsi di altre cose ritenute più importanti per la nostra vita, così che la Parola ascoltata, non essendo “coltivata”, piano piano, si spegne. Gesù spiega che sono due le cose che fanno soffocare la parola: l’eccessiva preoccupazione sulla nostra vita (cosa mangeremo, cosa berremo, cosa vestiremo?) e la seduzione della ricchezza (es. avere più soldi per avere sempre più possedimenti, sicurezze e comodità). Tutte cose che rischiano di trasformarsi in idoli che ci portano ad “adorare noi stessi” e ad allontanarci progressivamente da Dio. Arriviamo, infine, al quarto “terreno”, che in realtà è il vero terreno, quello “buono”. Immaginiamoci una terra ben irrigata, senza sassi, ricca di humus, l’ideale per coltivarci qualcosa. Bene, in questo terreno, che offre al seme tutte le condizioni necessarie per crescere, il seme produrrà un frutto abbondante (fino al cento per uno). E’ chiaro che il terreno buono non “si fa da solo”, ma c’è bisogno di qualcuno che si impegni a renderlo “buono”, innaffiandolo costantemente, aggiungendo del concime, togliendo i sassi e le erbe che lo infestano. Arriviamo così al messaggio finale della parabola: Gesù si rende conto che fino ad ora, nel suo cammino di seminatore, ossia di annunciatore della buona novella del Regno di Dio, ne ha incontrati ben pochi di questi attenti e laboriosi “contadini”. Infatti egli stesso, rivolgendosi ai suoi discepoli che gli chiedevano perché parlasse alla folla in parabole, risponde constatando che il cuore della gente «è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!». Cerchiamo allora di diventare dei buoni “contadini”, ponendo tutta la nostra attenzione affinché la Parola di Dio che ascoltiamo trovi in noi tutte quelle condizioni necessarie, perché possa crescere e fruttificare: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,8).

XVI domenica del TO (Mt 13,24-43) “Grano, senape e lievito” Dopo la parabola del seminatore di domenica scorsa oggi Gesù ci racconta altre tre parabole sul Regno dei cieli di cui una, la prima, quella del grano e della zizzania, ce ne offre anche la spiegazione. Partiamo proprio da questa, che è ricca di importanti rivelazioni. La prima è che Gesù, nella sua attività di seminatore di semi buoni del Regno dei cieli, ha un concorrente, il Maligno (il diavolo), che anche lui come Gesù si mette a seminare nello stesso campo (il mondo). Solo che mentre Gesù opera la semina dei semi

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di bene in piena luce (di giorno), nella trasparenza, senza doppi fini, in modo semplice e puro, il diavolo opera la semina dei semi di male nel buio (di notte), in maniera doppia, nascosta, ingannevole e impura. Questo nemico di Gesù, che contrasta la sua attività di seminatore di bene, è anche il nostro nemico, poiché ha il fine di contrastare la nostra crescita verso il bene. La seconda rivelazione è che Gesù ha deciso che questa battaglia tra bene e male, tra le buone piante di grano e le cattive piante di zizzania, durerà quanto dura la vita del mondo, per cui siamo avvisati, finché c’è vita, c’è battaglia! Qui si inserisce, però, la terza rivelazione, il fatto che questa battaglia tra il bene e il male avrà un termine. Quando infatti Gesù ritornerà sulla terra a porre fine a questo mondo opererà un giudizio sullo stesso, che consisterà in una distinzione/separazione tra quelli che hanno vissuto dalla parte del diavolo, imitandone l’operare ed il fine e quelli che, invece, hanno vissuto dalla parte di Gesù. Questi saranno trasferiti nel Regno del Padre celeste e “splenderanno come il sole” (paradiso), mentre i “figli del Maligno” andranno nella “fornace ardente” (inferno). La seconda parabola, quella del “granello di senape”, ci vuole comunicare come il Regno dei cieli sia un qualcosa che mostra una sorprendente sproporzione tra il suo inizio e il suo sviluppo conclusivo. Se qualcuno di voi ha visto un granello di senape, credo sia rimasto davvero sorpreso della sua estrema piccolezza, tanto che quasi non si vede. Gesù sceglie proprio questo semino, il più piccolo tra i semi esistenti, per indicare l’inizio della sua attività. In effetti, proviamo a ragionare. Gesù è nato in un piccolo e insignificante villaggetto della Giudea (non è nato a Roma, ad Alessandria d’Egitto o ad Antiochia, le grandi città di quel tempo); ha costituito un piccolo gruppo di suoi discepoli (12), non un esercito; è morto sulla croce da “maledetto” da Dio e dagli uomini... Però, da questo semino, pian piano si è sviluppata una pianta, anzi un albero: la sua Parola ha raggiunto oggi buona parte del mondo. Per cui questa parabola è un invito alla fiducia, alla speranza, all’affidamento nelle mani premurose del Signore, il cui Regno sta “misteriosamente” sviluppandosi. La terza parabola, quella del lievito nella pasta, appare in stretta connessione con la precedente, nel senso che aggiunge altri particolari sullo sviluppo del Regno cieli. Alla piccolezza del seme di senapa si aggiunge l’immagine della pochezza del lievito rispetto alla grande quantità di pasta (tre misure di farina = 25 kg.). Se uno assiste per la prima volta all’azione del lievito nei confronti della pasta, credo che rimanga molto meravigliato: come ha fatto quel poco lievito a fare lievitare tutta quella pasta? Deve avere in sé un “potere” speciale! Faccio notare come questa azione misteriosa e allo stesso tempo portentosa del lievito nei confronti della pasta, ci richiama all’esito positivo e meraviglioso delle due parabole precedenti: alla fine il male sarà cacciato via e trionferà il bene; alla fine il piccolo seme di senapa darà vita ad un grande albero; alla fine della sua azione il poco lievito farà lievitare tutta la pasta. Il messaggio mi sembra chiaro: per giudicare bene bisogna aspettare la fine! In un ambito, possiamo dire “umano” e “quotidiano”, ciò significa che prima di giudicare definitivamente una cosa o una situazione, dobbiamo necessariamente aspettare che arrivi al suo compimento. E’ un monito ad evitare giudizi definitivi affrettati: il giudizio sta sempre alla fine, non prima (è un invito a evitare i cosiddetti “pregiudizi”). Nell’ambito “soprannaturale”, che riguarda lo sviluppo del Regno dei cieli, dove

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l’agente principale è lo Spirito di Dio, anche qui, occhio ai giudizi affrettati, ad una mietitura “anticipata”, col rischio che, come ammonisce Gesù, con l’intento di eliminare dal campo la cattiva zizzania, si sradica con essa anche il grano buono… Preghiamo, allora, lo Spirito Santo che ci trasformi in grammi di lievito che, sciogliendosi nella pasta del mondo, si consumano completamente per far lievitare il Regno di Dio!

XVII domenica del TO (Mt 13,44-52) “Le cose preziose della vita” Ecco le ultime tre brevi parabole che vanno a concludere il “settenario” del capitolo XIII del Vangelo di Matteo. L’ultima delle tre parabole, quella dei “pescatori e dei pesci buoni e cattivi” rinforza il messaggio della parte finale della parabola del “grano e della zizzania”, ricordando come alla fine del mondo tutti gli uomini saranno giudicati da Dio sulla base delle loro opere di bene o di male. Più interessanti, in quanto portatrici di un messaggio nuovo, sono le altre due parabole, legate tra loro nella tematica e nella struttura. La prima narra della sorpresa di un uomo che, lavorando in un campo, trova “casualmente” un tesoro. La prima reazione di quest’uomo è ovviamente di grande gioia, perché si rende conto che da quel tesoro può dipendere la felicità di tutta la sua vita. Quel campo però non è di sua proprietà, per cui per avere legittimamente il tesoro deve comprare quel campo. Allora, dopo avere nascosto con cura il tesoro, per evitare che qualcuno glielo possa sottrarre, torna a casa e vende tutto quello che possiede per acquistare il campo e diventare così il proprietario del tesoro. Fermiamoci a riflettere sul messaggio della parabola. E’ chiaro che per Gesù quel tesoro non è un forziere pieno di monete d’oro o di diamanti, ma è la scoperta della grazia di Dio, della buona notizia (il Vangelo) che Dio esiste, ci ama ed è presente in mezzo a noi nella persona di Gesù stesso. Una scoperta meravigliosa che, se accolta, cambia totalmente la vita, riempiendoci di gioia e divenendo la cosa più preziosa che possediamo. Ma, mi chiedo, è davvero così? Davvero consideriamo la relazione con Dio la cosa più preziosa della nostra vita? Per fare una sorta di verifica “esistenziale” basta guardare al nostro stile di vita di ogni giorno: quanto del nostro tempo dedichiamo alla preghiera e alla meditazione? Quanto ci impegniamo nel costruire attraverso il nostro esempio il Regno di Dio? Quanto testimoniamo la fede che abbiamo ricevuto in Gesù, così che altri possano, a loro volta, conoscere Gesù e trovare anch’essi il vero tesoro della vita? E ad un livello ancora più profondo: Dove si trova realmente il nostro cuore? Poiché come Gesù stesso ha affermato: «dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34). Passiamo ora alla seconda parabola, che è molto simile alla prima. Anche qui un uomo trova un tesoro, una perla preziosa e anche qui per comprare la perla vende tutti i suoi averi. Questa insistenza sul vendere tutti i propri averi sta a significare che il tesoro dell’amore di Dio è così grande e prezioso che per possederlo si può e si deve rinunciare

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a tutto il resto: «chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). La differenza fondamentale tra le due parabole sta nel personaggio in questione, in questo caso un mercante, un uomo in ricerca di perle preziose. Ecco allora il messaggio per noi, un invito a non essere uomini e donne ferme o statiche, ma “in ricerca”, a non sentirsi mai degli “arrivati” e nemmeno delle persone “spente”, che non hanno più niente da dare o ricevere dalla vita. Non è per nulla un invito all’iperattivismo e alla dispersione delle energie, ma al contrario è un invito alla “concentrazione” degli sforzi verso una direzione ben precisa, quella delle cose realmente “preziose”. E’ un invito allora alla ricerca della bontà e della verità, a fare bene tutto quello facciamo, con impegno e dedizione, evitando con tutte le nostre forze il male in noi e negli altri, comportandoci sempre da persone sincere, leali e trasparenti, perché questo è ciò che rende “preziosa” e “bella” la nostra esistenza. E’ ovvio che in questa ricerca della bontà e della verità un ruolo fondamentale lo ha Gesù. E’ lui, infatti, in quanto Figlio di Dio, colui che è in grado di indicarci con certezza i confini tra il vero e il falso, tra il bene e il male, e inoltre, attraverso l’azione dello Spirito Santo, ci dona la capacità di perseguire realmente il vero e il bene, trasformandoci progressivamente, a sua immagine, in autentici figli del Padre celeste. In quest’ottica siamo in grado di rileggere sotto un’altra luce anche l’ultima parabola, quella sul giudizio finale. Il giudizio sulla nostra vita in realtà è già cominciato, a partire dal giorno in cui siamo diventati capaci di intendere e di volere, ad esercitare nella libertà la ricerca ed il perseguimento del vero e del bene. Ma la consapevolezza di avere lo sguardo continuo di Dio su di noi non deve assolutamente incuterci timore, ma solo gioia e rispetto, perché se è vero che Dio è per noi il tesoro prezioso della nostra vita, lo stesso pensa Dio nei nostri confronti, come dice un bellissimo versetto del libro del profeta Isaia, da cui è stato ispirato un canto che molti di noi conoscono e apprezzano: «Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4).

XVIII domenica del TO (Mt 14,13-21) “Condivisione e moltiplicazione” La parte iniziale del Vangelo di questa domenica ci permette di entrare un po’ nell’intimo del cuore di Gesù. Dopo avere raccontato le sette parabole del Regno dei cieli Gesù si dirige a Nazaret, la sua città, predica nella sinagoga, sperimentando però una ben poca accoglienza da parte dei suoi concittadini, che in grande parte non accettano la sua persona e di conseguenza il suo messaggio (cfr. Mt 13,53-58). Subito dopo questa deludente esperienza evangelizzatrice arrivano alcuni discepoli di Giovanni il Battista a comunicargli che Giovanni è stato decapitato da Erode. Due avvenimenti “forti”, che hanno bisogno di essere riflettuti, meditati e pregati, così che Gesù decide di prendersi del tempo, ritirandosi in un luogo deserto, in completa solitudine. C’è però un mucchio di gente che ha bisogno di Gesù, che studia con attenzione il percorso della sua barca e, andando a piedi, anticipa il suo sbarco. Così Gesù raggiunge il luogo isolato prefissato, ma scopre che non è da solo come aveva desiderato. Guardando i volti di tutta quella gente che chiede il suo aiuto, il suo cuore

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misericordioso si spalanca: «sentì compassione per loro», mettendosi subito a loro disposizione, guarendo i malati lì presenti. Ma andiamo avanti. Ora entrano in ballo i discepoli di Gesù, che notando come ormai era arrivata la sera, trovandosi in un luogo deserto, la gente rischiava di soffrire la fame. Allora prendono l’iniziativa e invitano Gesù a congedare la folla affinché possa andare a cercare qualcosa da mangiare in un luogo più ospitale. E’ divertente vedere come in quel frangente i discepoli si sentono di essere più “pratici” e “responsabili” del loro Maestro, che sembra molto attento al lato “spirituale” della vita, ma molto meno a quello “materiale”… Gesù prende sul serio l’interessamento “umanitario” dei suoi discepoli e vuole portarlo fino in fondo: «Non occorre che vadano; Voi stessi dato loro da mangiare». Una frase sorprendente e choccante. I discepoli pensano: “Siamo nel deserto, che non ci offre niente da mangiare. Quelli sono diverse migliaia di persone e se guardiamo alle nostre provviste abbiamo un’inezia, solo cinque pani e due pesci! Cosa possiamo fare?”. Arriviamo così all’apice del Vangelo, alla soluzione del problema, ossia alla rivelazione stupefacente della provvidenza di Dio e della sua onnipotenza. La soluzione è portare quello che si ha, anche se poco, e consegnarlo a Gesù, mettendolo a sua completa disposizione: sarà lui a fare il resto. E cosa fa Gesù? Semplice, si rivolge in preghiera al Padre suo, benedice i pani e i pesci e li consegna ai discepoli, affinché a loro volta li consegnino ai presenti, in modo che ognuno dei presenti possa essere saziato. Ogni discepolo riempie una cesta (è per questo che alla fine avanzano dodici ceste piene, perché i discepoli sono dodici) e si mette a distribuire i pani e i pesci, osservando con meraviglia come le ceste rimangano sempre piene, non esaurendosi mai! Ora, se ci chiediamo chi abbia dato da mangiare alla folla, la risposta non può che essere duplice: Gesù e i suoi discepoli. Infatti, “materialmente” sono i discepoli che vanno a distribuire il pane in mezzo alla gente, ma allo stesso tempo, “spiritualmente” è Gesù che, dopo aver manifestato l’intenzione e il desiderio di dare da mangiare alla folla, prega e compie il miracolo. Quali conseguenze trarre da questo episodio? La prima è che Gesù per operare i suoi “miracoli”, ordinariamente, cerca la collaborazione degli uomini. In fondo, il punto di partenza del miracolo è l’azione dei discepoli di mettere a disposizione di Gesù, e quindi della folla, tutto quello che avevano portato per il loro pranzo. La loro è stata perciò una dinamica di “condivisione”. Il messaggio sembra allora piuttosto chiaro: è un invito a mettere a disposizione ciò che “abbiamo” e ciò che “siamo” per far fronte ai bisogni e alla necessità degli altri. Non fissando tanto lo sguardo a quello che possiamo mettere a disposizione, che può apparire o essere oggettivamente ben poca cosa rispetto a quel bisogno, ma tenendo lo sguardo fisso su colui al quale mettiamo a disposizione, Gesù, per il quale tutto è possibile. A lui il compito di fare il miracolo della “moltiplicazione”, a noi quello della “condivisione”… Andando ancora un po’ più nel profondo possiamo notare come il movente del miracolo in questione non sia altro che la “carità”: la preoccupazione dei discepoli nei confronti di quella gente affamata e il desiderio benevolente di Gesù di volerli saziare. E’ l’amore quindi la “benzina” di quel miracolo, come di ogni miracolo compiuto da Dio. Un miracolo che per realizzarsi ha bisogno della collaborazione “fiduciosa” e “amante” di ciascuno di noi!

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XIX domenica del TO (Mt 14,22-33) “Camminare in acque avverse” Dopo aver prestato il suo servizio amorevole alla folla, terminato con la super cena “miracolosa”, Gesù mette finalmente in pratica il suo proposito iniziale di vivere un momento di preghiera solitaria, che lo aveva condotto nel deserto. Invita perciò in maniera molto decisa i suoi discepoli (li «costrinse») a salire sulla barca per andare all’altra riva e lasciarlo solo. Fermiamoci un istante sul comportamento coerente e deciso di Gesù, che era partito per il deserto con la ferma intenzione di pregare nella solitudine, ma che poi non si era potuto realizzare, a motivo della moltitudine di gente bisognosa incontrata. Questa novità inaspettata però non fa cambiare il suo proposito, infatti Gesù appena congedata la folla sul monte per pregare in solitudine. Credo che in questo suo esempio ci sia un primo messaggio importante per noi: la preghiera silenziosa, intima, vissuta nella solitudine, non può essere “sostituita” dal servizio verso il prossimo. Sono due cose diverse, entrambe importanti, ma che non sono “interscambiabili”: non è vero che il lavoro/servizio è preghiera; è vero che il lavoro/servizio può essere offerto al Signore nella preghiera. Non sono però la stessa cosa, uno non può sostituire l’altro... Ma andiamo avanti. Gesù sale su un monte e ci sta dal tramonto all’alba, una preghiera quindi molto prolungata (più o meno otto ore), intima, profonda, di dialogo tra lui e il Padre suo. Anche questo è un altro messaggio per noi: non si può avere un rapporto profondo con Dio se non si vivono dei momenti profondi con lui, momenti anche prolungati, necessari per arrivare all’intimità del nostro cuore e così poter giungere all’intimità del suo cuore. Se la mia vita di preghiera è superficiale, superficiale sarà anche il mio rapporto con Dio… Torniamo al brano. Mentre Gesù passa la notte sul monte a pregare, i discepoli, nel frattempo, non se la passano affatto bene. Essi stanno infatti remando da ore, con grande fatica, sul lago di Tiberiade, perché il vento è loro contrario, preoccupati oltremodo dal fatto che le acque del lago sono piuttosto agitate. Andiamo ora alla fine dell’episodio, al momento in cui Gesù sale sulla barca dei discepoli, poiché l’evangelista sottolinea il fatto che proprio in quell’istante «il vento cessò». Bellissima metafora della vita: nelle difficoltà della vita simboleggiate dalle acque agitate del lago, la “salvezza” viene da Gesù, dall’accoglienza della sua persona nella nostra esistenza, simboleggiata dalla barca. Solo Gesù può donare la vera pace ai nostri cuori, quell’insieme di grande serenità e pienezza di vita! Andiamo ora al vertice di questa pagina del Vangelo. Gesù, dopo la preghiera, intende raggiungere i suoi discepoli nel lago e non avendo una barca a disposizione, non gli rimane altro che mettersi a camminare sulle acque (lui può farlo!). Ma, essendo notte fonda, i discepoli appena vedono questa figura misteriosa avvicinarsi si mettono ad urlare spaventati dalla paura: «E’ un fantasma!» (davvero una bella accoglienza!). Gesù subito li tranquillizza facendosi riconoscere, ma Pietro sembra non essere molto convinto della vera identità del personaggio misterioso, per cui decide di sfidarlo, mettendolo alla prova: “Se tu sei veramente Gesù, come dici di essere, fa che anche io possa camminare sulle acque e venire lì dove sei tu!”.

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Gesù accetta la sfida e gli dice «Vieni!». Cosa succede? Pietro rinfrancato da quell’invito “si butta” e comincia a provare a camminare sulle acque. Ce lo immaginiamo con lo sguardo fisso su Gesù che, a sua volta, lo guarda con occhi amorevoli. Così che “miracolosamente” e senza grandi sforzi Pietro fa diversi passi in direzione di Gesù, soltanto che ad un certo punto la sua attenzione si sposta. Egli non guarda più Gesù, ma notando la particolare violenza del vento comincia ad aver paura, rendendosi conto che potrebbe cadere in mare e affondare, ciò che subito infatti si verificherà… Perché Pietro comincia ad affondare? Perché ha tolto lo sguardo da Gesù, che gli aveva dato il potere di camminare sulle acque, fissandosi sugli ostacoli del cammino (il vento forte). Quale insegnamento! Se fisso lo sguardo sugli ostacoli, sulle difficoltà della vita non le supererò mai, anzi saranno loro a vincermi. Se invece fisso lo sguardo su Gesù, allora qualunque ostacolo può essere vinto. Infatti, subito dopo averlo salvato, afferrandolo con la sua mano, Gesù rimprovera Pietro: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». In effetti, il fatto di dubitare di continuare a camminare sulle acque, nonostante il vento, significava in fondo dubitare della stessa capacità di Gesù di farlo arrivare al traguardo, in quelle condizioni avverse. Chiediamo allora al Padre il dono di una fede sempre più forte nel suo Figlio Gesù, che possa sostenerci in tutte le nostre fatiche e le battaglie della vita!

XX domenica del TO (Mt 15,21-28) “La fede ostinata di una donna pagana” Ci sono degli episodi narrati dai Vangeli dove il comportamento di Gesù è sorprendente, nel senso che facciamo fatica a comprenderlo e ad accettarlo. E’ il caso dell’incontro con la donna cananea, così come ci viene proposto questa domenica nella versione del Vangelo di Matteo. Gesù, dopo essersi duramente scontrato con alcuni farisei e scribi venuti da Gerusalemme per contestarlo (cfr. Mt 15,1-14), lascia la Galilea, indirizzandosi con i suoi discepoli verso la regione di Tiro e Sidone, varcando così il confine “fisico” del territorio d’Israele. Cosa succede in terra pagana? Una donna di quella regione va incontro a Gesù per chiedergli, a voce alta, la guarigione di sua figlia tormentata da un demonio. Noi ci saremmo aspettati un pronto intervento da parte di Gesù, che è venuto nel mondo proprio per liberare gli uomini dal male, ma sorpresa, Gesù fa finta di niente, non degnandole un minimo sguardo, proseguendo come se niente fosse il suo cammino… Ma questa donna non si dà per vinta. Ella continua a seguire a distanza Gesù, gridando ripetutamente la sua richiesta di guarigione. Non sappiamo quanto tempo duri questa scena, sta di fatto che i discepoli di Gesù ad un certo punto si stancano di sentire le grida della donna, tanto da rivolgersi a Gesù con toni piuttosto scocciati, chiedendogli di esaudire la sua richiesta (letteralmente lo “implorano”). Questa è la risposta di Gesù rivolta ai suoi discepoli, ma anche, indirettamente, alla donna lì presente: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». In effetti, Gesù è

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coerente con quel principio che aveva già esposto ai suoi discepoli prima del loro invio a predicare il regno dei cieli: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele» (Mt 10,5-6). Cosa significa ciò? Che Gesù ha un progetto ben chiaro in testa. Egli sa di essere il Salvatore di tutti gli uomini, appartenenti alla casa d’Israele e non, e sa anche che i pagani presto si convertiranno a lui. Ma nel suo progetto pastorale di annuncio della salvezza c’è una priorità, quella cioè di rivolgersi prima al popolo d’Israele con il quale il Padre suo, già da secoli, aveva stretto una relazione di Alleanza. Tra l’altro, almeno teoricamente, gli israeliti, rispetto ai pagani, apparivano senza dubbio più preparati ad accogliere il Vangelo di Gesù. In verità, già una volta Gesù non aveva rispettato questa priorità pastorale, quando a Cafarnao guarisce prontamente il servo di un centurione romano (un pagano), a motivo della sua grande fede e umiltà dimostrata nei confronti della persona di Gesù, tanto da fargli esclamare: «In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,10-11). Una cosa simile accade con la donna cananea, la quale, di fronte al secondo rifiuto operato da Gesù, non demorde affatto, ma si “umilia” gettandosi ai suoi piedi e dicendogli: «Signore, aiutami!». Cosa fa ora Gesù? Ancora una volta nega il suo intervento, rimarcando che lei è una donna pagana, una che non appartiene al popolo d’Israele e che, per questo motivo, non avrebbe diritto ad essere esaudita. Tra l’altro Gesù esprime questo concetto giocando sul fatto che gli ebrei consideravano i pagani come dei “cani”: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Notiamo però la delicatezza di Gesù che addolcisce la pillola definendo la donna pagana, non una cagna, ma una “cagnolina”… A questo punto la donna, sempre con molta umiltà e candore, non si mette a discutere le parole di Gesù, ma accettando i panni di donna pagana “cagnolina” riconosce, comunque, di avere bisogno anche lei di essere nutrita da Gesù: «Eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Che grande umiltà e fede sono presenti in queste parole! Tanto che Gesù rimane fortemente meravigliato e si trova “costretto” a compiere il miracolo tanto agognato: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». Che cosa trarre da questo episodio? Un esempio splendido di come l’umiltà (il considerarsi piccoli di fronte a Dio), la fede (il credere che qualunque cosa sia possibile a lui), la speranza (il desiderare fortemente che il Signore ci aiuti nella nostra lotta contro il male) e la carità (il grande amore per i nostri prossimi) dimostrate da questa donna pagana hanno avuto il potere di far cambiare le “priorità pastorali” di Gesù! E’ un esempio allora che ci dona forza e coraggio, che ci sprona ad una preghiera viva, perseverante e convinta, invitandoci a bussare con umiltà e fiducia al cuore sempre amorevole di Gesù...

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XXI domenica del TO (Mt 16,13-20) “Ma chi è Gesù?” Gesù è da tempo che percorre le strade e i villaggi della Palestina, parlando del regno dei cieli e operando molti miracoli, così che ai suoi occhi i tempi sembrano ormai maturi per gettare luce sulla sua identità. Giunto nella regione di Cesarea di Filippo scioglie gli indugi e chiede ai suoi discepoli che cosa la gente pensi di lui: «La gente, chi dice sia il Figlio dell’uomo?». Ma chi è il “figlio dell’uomo”? Egli è quel personaggio misterioso che, secondo la tradizione d’Israele, sarebbe venuto sulla terra per inaugurare i tempi finali del regno di Dio sul mondo, appellativo che Gesù stesso accetta e utilizza per parlare di sé stesso. Andiamo alla risposta della gente: il “figlio dell’uomo”, ovvero Gesù di Nazaret, non è altro che un profeta del passato tornato in vita. Guardando infatti all’operato di Gesù, la gente si è convinta che Dio abbia messo nel suo corpo umano lo spirito di uno dei grandi profeti della storia d’Israele. Se questa è la certezza, rimane però un dubbio sull’identità di questo grande profeta del passato tornato in vita. Qui, infatti, le opinioni si dividono: alcuni vedono nelle parole e nei gesti compiuti da Gesù lo spirito di Giovanni il Battista in azione, altri quello di Elia, altri quello di Geremia, altri, una minoranza, non sono convinti di nessuno dei tre, propendendo per altri nomi di profeti. Tutti però rimangono “chiusi” nel cerchio di una sorta di “reincarnazione” spirituale operata da Dio in Gesù di Nazareth: la ragione umana sembra non riuscire ad andare oltre. In realtà, quando si parla di gente si parla di persone che non hanno avuto la possibilità di conoscere Gesù da vicino. Magari lo hanno incontrato qualche volta, l’hanno sentito predicare, l’hanno visto compiere qualche miracolo, ma non hanno vissuto a stretto contatto con lui in maniera continuativa, a differenza dei suoi discepoli. Gesù dopo avere ascoltato questo primitivo “sondaggio d’opinione” un po’ generico e anonimo, si rivolge ora al gruppo dei suoi discepoli che ormai da qualche anno vivono insieme a lui. Questa volta per parlare della sua identità non utilizza più la figura del “figlio dell’uomo”, ma pone la domanda in maniera diretta: «Ma voi, chi dite che io sia?». Mi piace la presenza del “ma”, a sottolineare che la risposta della gente è sbagliata, essa non è assolutamente condivisibile: Gesù non è un uomo del passato tornato in vita, è di più, molto di più… Pietro, ispirato da Dio, sente di avere capito quale sia la vera identità di Gesù e non ha paura ad ammetterlo di fronte a tutti: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Un’affermazione davvero “pesante”! Egli afferma che Gesù, da un parte è il Messia atteso dal popolo, quell’uomo che avrebbe finalmente liberato Israele da ogni schiavitù e oppressione, dall’altra che Gesù non è solo un uomo, ma è anche Dio: il “Figlio del Dio vivente”! Questa è la risposta esatta! «Ne carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli». Gesù riconosce che arrivare ad affermare questo, cioè che Gesù è “vero uomo e vero Dio” è un qualcosa che oltrepassa i limiti della ragione umana, è necessario un intervento di Dio. Senza un’ispirazione da parte del Padre, non è possibile comprendere la vera identità del suo Figlio Gesù. Questa necessità della rivelazione divina la troviamo nel

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prologo del Vangelo di Giovanni dove si dice che quelli che hanno creduto nella rivelazione di Gesù sono diventati figli di Dio «non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,13). Ora facciamo un salto di duemila anni. Se oggi Gesù ponesse la domanda: “Cosa si dice in giro per il mondo riguardo la mia identità?”, la situazione non è poi così differente rispetto al passato. Le risposte sarebbero di due tipi: da una parte ci sono i “discepoli” di Gesù, i “cristiani”, che credono che Gesù sia il Dio fatto uomo, dall’altra abbiamo il gruppo variopinto della “gente” che con sfumature diverse è d’accordo nell’affermare che Gesù sia un uomo, ma solo un uomo. Poi, alcuni lo considerano un grande uomo illuminato (es. i buddisti), per altri è un vero profeta di Dio (es. gli islamici), per altri è un uomo saggio e coerente con i suoi ideali professati (es. tanti atei). L’unica cosa che, rispetto al passato, è cambiata, è il numero di coloro che credono nell’identità di Gesù come uomo-Dio: non c’è solo Pietro, oggi siamo diverse centinaia di milioni di persone… Abbiamo allora un grande compito: portare nel mondo il messaggio della vera identità di Gesù, perché non c’è cosa più bella che sapere che Dio, per il grande amore che ha per l’umanità, ha deciso di farsi così vicino agli uomini, tanto da diventare uno di loro. Una missione da vivere in stretta collaborazione con l’azione ispiratrice dello Spirito Santo, perché credere nella divinità di Gesù, come abbiamo visto, non è opera umana ma divina!

XXII domenica del TO (Mt 16,21-27) “Lo spirito della carne e lo spirito di Dio” Subito dopo avere investito Pietro della sua speciale missione di “pietra” sulla quale edificare la sua Chiesa, Gesù riprende a parlare ai suoi discepoli, affrontando per la prima volta l’argomento della sua futura passione-morte-risurrezione. Pietro, non appena sente Gesù parlare di rifiuto, sofferenza e morte, rimane così negativamente colpito tanto da prendere Gesù da parte, rimproverandolo per aver avuto l’ardire di pronunciare quelle parole che, dal suo punto di vista, non si addicono affatto al Messia glorioso, il Figlio del Dio vivente: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai!». E’ divertente notare come qui Pietro vesta i panni di “direttore spirituale” di Gesù, volendogli indicare quale sia l’autentica volontà di Dio su di lui… La risposta di Gesù alle parole di Pietro è secca, chiara e dura: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Per prima cosa dice a Pietro di togliersi subito quei panni di direttore spirituale, che indebitamente ha indossato e che non gli si addicono affatto, per tornare ad indossare quelli del semplice discepolo («Va’ dietro a me!»). Poi gli rivela che, attraverso le sue parole, ha “prestato” la voce nientemeno che a “Satana”, il nemico di Dio, colui che fa di tutto per ostacolare il cammino di salvezza che Dio ha predisposto a favore degli uomini. Notiamo come questa volta si sia verificato l’esatto contrario rispetto alle parole pronunciate in precedenza da Pietro come riposta alla domanda sull’identità di Gesù. Là era stato lo “Spirito di Dio” a ispirargli le “giuste” parole, qui sono state «la

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carne e il sangue» a parlare, ciò che S. Paolo chiama lo “spirito della carne”. Che cos’è lo “spirito della carne”? E’ l’impulso che promana dall’umanità ferita dal peccato originale, che dà voce all’egoismo dell’uomo, facendo chiudere le porte del cuore all’amore di Dio e del prossimo e, alla lunga, conduce alla morte spirituale dell’anima. Lo “spirito della carne” agisce in contrapposizione allo “Spirito di Dio”: essi, come vedremo, esprimono interessi, desideri e modi di agire diametralmente opposti. Ma torniamo al nostro episodio. Quale pensiero di Dio nasconde il rimprovero che Pietro fa a Gesù? Pietro ha nella mente l’immagine di un Dio potente, glorioso, che schiaccia con forza i suoi nemici, per cui non può assolutamente accettare le parole di Gesù, che parlano di un Figlio di Dio che si lascia umiliare, flagellare, bastonare, condannare e morire inchiodato miseramente su una croce. Qui sta la diversità di pensiero tra gli uomini e Dio, che si manifesta concretamente nella differente e opposta interpretazione di quei concetti quali gloria, potenza, grandezza, ricchezza, realizzazione della propria vita, etc. Infatti lo “spirito della carne” ci sprona ad essere centrati unicamente su noi stessi, desiderosi di stare sopra gli altri per dominarli e usarli a nostro piacimento, nella convinzione che gli altri debbano servirci e riconoscere la nostra grandezza. Lo “Spirito di Dio”, al contrario, ci spinge ad aprire il cuore agli altri, a vivere nell’umiltà e a metterci per primi al servizio del prossimo. Gesù, il Messia, il Figlio di Dio, non è venuto nel mondo per “essere servito” dagli uomini, ma per mettersi lui al loro servizio, non “prendendo” loro la vita, ma “donando” la sua… Siamo allora in grado di capire il senso profondo di quelle parole, a prima vista dure e aspre, che Gesù rivolge ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». “Rinnegare se stessi” significa dire “no” ai suggerimenti e agli istinti che provengono dallo “spirito della carne”, che vogliono mantener vivo e alimentare il nostro egoismo (questo è il senso dell’espressione “volere salvare la propria vita”): il desiderio di essere serviti dagli altri e di ricevere onore e gloria dagli uomini. Al contrario, “perdere la propria vita” significa, proprio come ha fatto Gesù, vivere nella dinamica del dono di sé, del servizio agli altri, della testimonianza dell’amore anche in quei momenti dove ciò risulta essere faticoso e costoso (questo è il significato profondo dell’espressone “portare la propria croce”). Gesù ci invita allora a seguire il suo stesso stile di vita, a lasciarci guidare sempre dal suo Spirito d’Amore e a salire anche noi sul calvario con lui, portando la “nostra croce”, il peso dello sforzo di restare fedeli al comandamento dell’amore, perché è solo così che si può “trovare” il senso pieno e autentico della nostra esistenza: «Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà».

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XXIII domenica del TO (Mt 18,15-20) “Il servizio della correzione fraterna” La prima parte del Vangelo di questa domenica ci parla di quell’esercizio spirituale che correntemente viene chiamato “correzione fraterna”. Prima di entrare nel merito di questo argomento dobbiamo comprendere il contesto in cui applicarlo. Gesù parla di correzione “fraterna” perché, rivolgendosi ai suoi discepoli, si riferisce alle relazioni all’interno di una comunità di persone unite tra loro da un legame spirituale che li fa essere l’uno per l’altro fratelli e sorelle. Sta parlando perciò della comunità della Chiesa e delle relazioni tra i suoi membri, anche se lo stile operativo suggerito da Gesù può ispirare anche le relazioni all’interno di altre forme di comunità che non sono fondate da legami prettamente “spirituali”, come la famiglia, gli amici, il lavoro, il vicinato… Poi dobbiamo capire bene il tipo di azione da “correggere”. Gesù si riferisce ad un comportamento “oggettivamente” malvagio e intenzionale e quindi colpevole. Non si tratta perciò di accusare un fratello perché ci sembra che si sia comportato male nei nostri confronti, oppure che ci abbia danneggiato, ma che in realtà non aveva alcuna intenzione di “farci del male”. In questo caso non c’è un’intenzionalità malvagia e un opportuno chiarimento riesce a risolvere il problema. La situazione che sottintende Gesù è questa: un membro della tua comunità si comporta oggettivamente e intenzionalmente male nei tuoi confronti. Cosa fare? Gesù non ti suggerisce di troncare subito il rapporto, oppure di andare a riferire subito ad altri quello che è successo, ma ti invita a prendere l’iniziativa e ad andare tu solo da lui con l’intento di fargli capire il male/peccato che ha commesso. Questo per tentare di recuperarlo in quella dimensione di carità fraterna dalla quale con quell’atto malvagio si è allontanato. Perché questo impegno da parte nostra? Semplicemente perché siamo “fratelli” e questo forte legame spirituale che ci unisce ci rende responsabili l’uno della salvezza dell’altro. Alla luce di tutto questo, possiamo allora definire la “correzione fraterna” come un “servizio spirituale” al fratello che, avendo commesso un peccato, si trova in una situazione oggettiva di grave povertà/mancanza morale e spirituale. Ci sembra che i termini più appropriati per descrive questo esercizio di correzione fraterno suggerito da Gesù possano essere: “servizio spirituale di recupero del fratello che ha peccato”. Una missione che non è per nulla facile, perché si tratta di mettere il fratello di fronte alla verità del suo comportamento, un comportamento “oggettivamente” malvagio, del quale non è così immediato assumersi le proprie colpe. Ma continuiamo il percorso suggerito da Gesù. Se il primo tentativo di correzione, faccia a faccia, tu e lui solo, fallisce, ossia il fratello non ammette affatto la sua colpa e non intende assolutamente emendarsi, Gesù non ti invita a desistere, ma a chiedere aiuto a qualche altro fratello della comunità, affinché possa aiutarti nel tentativo di recupero del fratello che ha commesso del male contro di te. Perché il coinvolgimento della comunità? Perché il peccato commesso da un fratello nei confronti di un altro fratello non riguarda solo loro due, ma l’intera comunità. A partire da questo secondo tentativo si vede come la “correzione fraterna” assuma la caratteristiche di un servizio “comunitario” nei confronti del fratello che ha peccato.

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Se anche questo secondo tentativo fallisce, a questo punto Gesù invita a renderne partecipe tutti i membri della comunità dell’incresciosa situazione, così che l’intera comunità possa provare ancora una volta a invitare il loro fratello alla conversione, secondo le modalità che riterrà più opportune. Se anche questo terzo tentativo dovesse fallire, a questo punto, la comunità ha il potere/dovere di comunicare al fratello l’estrema gravità del suo comportamento, che lo ha portato ripetutamente a mettersi lui stesso al di fuori della comunione, per cui verrà “espulso” dalla stessa, nella speranza che questo atto così forte possa spingerlo a rientrare in se stesso e, finalmente, a convertirsi. Sulla base di questo percorso offerto da Gesù si rileva che il male subito da un tuo fratello non è una chiamata a spezzare il legame con lui, ma, anzi è una chiamata a diventare proprio tu lo strumento privilegiato per la sua conversione. In fondo, agli occhi di Dio, chi sta peggio: chi subisce il male o chi lo compie? Certamente il secondo, perché ha infranto il comandamento dell’amore e della comunione, un male che ha il potere di rovinarlo nell’anima. Proprio per questo Gesù ci invita, attraverso l’amore per il bene, a bruciare nel nostro cuore il male che abbiamo subito e a invitare il fratello a fare lo stesso, a bruciare nel suo cuore il male che ha commesso.

XXIV domenica del TO (Mt 18,21-35) “La necessità del perdono” «Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me?». Se domenica scorsa Gesù ci ha indicato i passaggi da seguire per esercitare il “dovere” della correzione fraterna, questa domenica il discorso continua affrontando l’argomento della “necessità” del perdono. Possiamo fare questo collegamento. Immaginiamo che l’esercizio della correzione fraterna porti frutto e quella persona che mi aveva fatto del male riconosce il suo peccato e viene a chiedermi di perdonarlo: io sono chiamato a perdonarlo, perché questa è la volontà di Dio. C’è un brano del Vangelo di Luca dove Gesù chiarisce bene il contesto del brano di questa domenica: «Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai» (Lc 17,3-4). Appare chiaro che l’esercizio di offerta del perdono è condizionato dal fatto che il fratello riconosca il male fatto e ne sia pentito, venendo effettivamente a richiedere di ricevere il nostro perdono. Inoltre viene specificato che “sette volte” è da interpretare come “sette volte al giorno”, un numero piuttosto elevato, ma che in realtà simboleggia pienezza, totalità, da intendersi quindi come un indice di una generosità grande, illimitata. Pietro invece non guarda al simbolo del numero sette, ma si ferma al suo significato quantitativo, leggendolo come un limite umano, in sé piuttosto esigente, oltre il quale si verrebbe esentati dall’esercizio del perdono. «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». Gesù dà a Pietro una risposta che, giocando ancora sul significato simbolico dei numeri, rivela come non ci sia un limite al perdono: la porta del nostro

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cuore deve essere sempre aperta al fratello pentito che chiede di riconciliarsi con noi. Per spiegare meglio questa necessità di un amore perdonante tendente all’infinito Gesù racconta una parabola. C’è un servo che contrae un debito esorbitante nei confronti del suo re (diecimila talenti = un miliardo di denari = circa 60 miliardi di €!). E’ un debito così esagerato, che quel servo non è assolutamente in grado di assolverlo. Di fronte alla prospettiva di essere venduto assieme a tutta la sua famiglia, in modo da poter rifondere almeno parzialmente il debito contratto, al povero servo non resta altro che abbandonarsi alla misericordia del re, chiedendogli un’ultima dilazione di tempo. Il re viene toccato nel cuore, prova pietà per la situazione disperata di quel servo, ed essendo consapevole che la somma del debito è una cifra astronomica, che non riuscirà mai a saldare, opera un gesto sorprendente, di una generosità inaudita: gli condona l’intero debito! Quel servo, subito dopo avere sperimentato la grande e inaspettata misericordia del re, si imbatte in un altro servo come lui, che gli doveva una certa somma (100 denari = circa 6000€). Il servo debitore, non avendo di che pagare, si abbandona alla misericordia del servo creditore, proprio come prima quest’ultimo aveva fatto nei confronti del re (il testo sottolinea bene questo parallelo tra i due comportamenti descrivendo lo stesso atteggiamento e riportando le stesse identiche parole). Ma, a differenza del re, egli non prova nessuna pietà, anzi fa subito gettare il servo insolvente in prigione. Il re, avvertito di questo comportamento così “cattivo” dal parte del primo servo, lo manda allora a chiamare e lo rimprovera aspramente per non avere avuto pietà per il suo compagno, sottolineando che avrebbe dovuto comportarsi proprio come lui si era comportato nei suoi confronti: «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». Cosa vuole insegnarci Gesù attraverso questa parabola? Che il modello da tenere sempre presente, per poter avere il cuore aperto al perdono, è il cuore di Dio Padre. Egli infatti è sempre disposto a perdonare ciascuno di noi, per un numero infinito di volte, tante quante ne abbiamo bisogno, a motivo dei nostri peccati. Inoltre, l’esperienza del perdono ricevuto da Dio non è da vedere solo come il mezzo per riconciliarci con lui, ma è un’esperienza che siamo invitati a “travasare” quando i fratelli vengono a chiedere perdono a noi. E’ la coscienza della misericordia infinita esercitata da Dio nei nostri confronti, la “forza” spirituale che ci permette di tenere sempre il cuore aperto al perdono dei fratelli: è l’esperienza del perdono ricevuto da Dio che ci permette di perdonare gli altri. Il perdono del fratello è da vedere come un “travaso d’amore”: dal cuore di Dio, al nostro cuore, al cuore del fratello. Chiediamo allo Spirito Santo che aiuti anche noi ad entrare in questa logica di misericordia infinita, divenendo dei “vasi” comunicanti l’amore che perdona…

XXV domenica del TO (Mt 20,1-16) “Giustizia divina e giustizia umana” «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna». Siamo alla parabola cosiddetta “degli operai della

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vigna”, una parabola ben nota, ma che forse non è stata sempre approfondita a sufficienza e soprattutto compresa, nel senso letterale di “presa con sé” da tutti i cristiani, nella propria mentalità e stile di vita. Nella letteratura biblica l’immagine della “vigna” è spesso usata da Dio per parlare del suo rapporto con il popolo d’Israele (cfr. Is 5,1-7), per cui gli uditori della parabola di Gesù capiscono subito che il padrone della vigna è figura di Dio e gli operai della vigna sono loro stessi, i credenti che hanno stretto alleanza con Lui. Detto questo, prima di entrare nel cuore della parabola, mi piace sottolineare due cose importanti. La prima è l’iniziativa del padrone della vigna, che va personalmente a cercare delle persone disposte a lavorare a giornata nella sua vigna. Questo ci ricorda come sia stato Dio a prendere l’iniziativa nella nostra vita. E’ lui che per primo è venuto a cercarci per rivelarci il suo volto e per intessere con noi una relazione d’amore: la nostra è una risposta ad una sua iniziativa, che sempre ci precede. La seconda, il fatto che il padrone della vigna vuole che tante persone possano andare a lavorare nella sua vigna, infatti, per questo motivo, esce ben cinque volte in cerca di manodopera (alle sei, alle nove, a mezzogiorno, alle tre e alle cinque), segno che Dio vuole che tutti possano conoscerlo e amarlo: il suo cuore è sempre aperto perché ogni uomo possa entrarvi e prendervi dimora. Andiamo ora al cuore del messaggio della parabola, ossia allo strano e sorprendente comportamento del padrone della vigna, che prende l’iniziativa di pagare tutti i suoi operai con lo stesso “stipendio” (un denaro ciascuno), indipendentemente da quante ore di lavoro effettivo hanno fatto. La sua è una logica piuttosto “originale”, che va contro ogni legge economica, ogni diritto sindacale e ogni sano principio imprenditoriale, tanto che la mormorazione degli operai della prima ora credo che troverebbe ancora oggi un mucchio di difensori: “Perché noi che abbiamo lavorato l’intera giornata, per ben dodici ore, dobbiamo ricevere la stessa paga di quelli che hanno lavorato un’ora soltanto?” Questo è il problema! Il ragionamento dei primi operai è molto “umano” (più ore lavorate = più stipendio) e, apparentemente, non fa una grinza, ma c’è una cosa che fa scemare ogni loro pretesa di trattamento diverso e ogni accusa di comportamento ingiusto da parte del padrone: il padrone non ha fatto nessun torto a loro, perché dà proprio quello che aveva loro promesso (un denaro), per cui il suo è un comportamento ineccepibilmente “giusto”! Il problema nasce nella testa e nel cuore degli operai della prima ora che, confrontandosi con gli altri operai che hanno lavorato di meno, sentono affiorare un sentimento di grande ingiustizia subita. La domanda allora verte su quale sia il salario “giusto” al quale ogni operaio ha diritto per il lavoro prestato nella vigna, un tema che lo stesso padrone della vigna aveva anticipato agli operai delle nove del mattino: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». Allora, che cosa è “giusto” agli occhi di Dio? Che tutti quelli che entrano in relazione con lui, mettendosi a servizio del suo regno ricevano la stessa ricompensa, il suo amore, indipendentemente dalla quantità del loro impegno fattivo: Dio ama con lo stesso amore colui che lo serve fin da quando è bambino e colui che si converte poco prima della morte. Diverse volte ho sentito, con le mie orecchie, persone “cristiane” che all’idea di Dio che è disposto a perdonare colui che si pente all’ultimo minuto della sua vita, trattandolo perciò con lo stesso amore che ha per noi, che magari abbiamo cercato di obbedire a suoi comandamenti da decine di anni, ne rimangono letteralmente

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“scandalizzate”: “Non è giusto, a cosa serve, allora, essere fedeli a Dio, fare tanti sacrifici se poi basta pentirsi all’ultimo minuto?”. Chi pensa davvero così, sappia che Dio, in verità, non l’ha ancora conosciuto, non è ancora entrato nella logica della sua bontà: «Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te […] perché io sono buono». Questa domenica Dio ci invita a “sposare” la logica del dono del suo amore gratuito a chiunque apra le porte del cuore, indipendentemente dalla “quantità” della sua risposta, perché egli è più interessato alla “qualità” della risposta: una risposta sincera, umile, devota e grata, che non si confronta con gli altri e non pretende da Dio trattamenti “speciali” o di favore…

XXVI domenica del TO (Mt 21,28-32) “Fare la volontà di Dio” Gesù è appena entrato in Gerusalemme accolto da una folla festante, che lo osanna come il Messia. Entra nel Tempio, caccia via tutti i compratori e venditori presenti, guarisce ciechi e storpi e predica al popolo. Tutto ciò urta notevolmente i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo d’Israele, che si sentono “spodestati” da questo novello super-profeta venuto da Nazareth, accusandolo di non avere l’autorità per fare tutte quelle cose. In questo contesto di forte contestazione e scontro, Gesù, dopo avere messo i suoi interlocutori di fronte al significato profondo del battesimo di Giovanni, racconta loro la “parabola dei due figli”. C’è un padre che chiede ai suoi due figli una cosa normale, ossia di andare a lavorare quel giorno nella vigna. Due figli, che danno due risposte diverse, alle quali fanno seguito due comportamenti diversi. Il primo figlio mette subito in discussione il comando del padre, si guarda dentro e riconosce che non ne ha proprio voglia di andare a lavorare nella vigna, vorrebbe fare altre cose durante la giornata, per cui con sincerità risponde al padre: “No, non ci vado!”. Poi, succede qualcosa, ci ripensa, si rende conto di avere avuto un comportamento impulsivo ed egoista, riconosce che è giusto andare a lavorare nella vigna, che è sì del padre, ma in fondo anche sua. Per cui cambia risoluzione, decide di obbedire al desiderio del padre e va a lavorare nella vigna. Il secondo figlio invece non mette assolutamente in discussione il comando del padre, dice prontamente “sì”, promettendo di andare sicuramente a lavorare nella vigna. Ma, in verità, durante quella giornata egli nella vigna non ci metterà piede, occupando il tempo in cose per lui sicuramente molto più interessanti e importanti che andare a lavorare nella vigna del padre! Un racconto breve, semplice e chiaro. Ora Gesù pone una domanda ai suoi interlocutori, una domanda la cui risposta appare “scontata”: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». “Ovviamente il primo!”, rispondono in coro. Bene, dice Gesù, sappiate allora che «i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Un’affermazione “forte”, inaspettata e sorprendente, ma profondamente vera. Sì, perché se in un primo tempo queste persone avevano fatto delle scelte di vita contrarie alla volontà di Dio (come il primo figlio hanno detto “no”), poi, in un secondo tempo, grazie all’esempio e alla predicazione di Giovanni il battista, questi uomini e queste donne

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hanno iniziato un cammino di conversione: hanno riconosciuto il male delle loro azioni e hanno preso la ferma decisione di cambiare vita, di volere intraprendere un cammino di santità, in modo da dire il loro “si” a Dio. Al contrario, i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, ovvero l'élite religiosa d’Israele, che a parole e con le loro scelte di vita avevano manifestato la volontà di porre Dio al centro della loro esistenza (come il secondo figlio avevano detto “sì”), in realtà, non si sono affatto convertite al suo effettivo volere, non hanno avuto l’umiltà e il coraggio di riconoscere le proprie piccolezze e i propri peccati, così da gettarsi nelle acque del Giordano e ricevere quel battesimo di “conversione” proposto da Giovanni. Essi si sentivano “già santi”, a posto con Dio, così che questa loro “chiusura” ha fatto dire loro “no” alla voce di Dio. Ma, la cosa peggiore è che quell’atteggiamento di chiusura e di rifiuto della conversione rimane anche di fronte alla persona stessa di Gesù, del quale non accettano lo stile, i gesti, il comportamento. Non lo considerano affatto, al pari di Giovanni, un uomo inviato da Dio, tanto meno se afferma di essere il Figlio di Dio! Assurdo! Passiamo a noi, quale può essere il messaggio che il Signore ci vuole comunicare attraverso questa parabola? Beh, mi sembra piuttosto chiaro: il “cristiano”, ovvero il vero seguace/discepolo di Gesù, non è colui che dice di esserlo a parole, ma poi lo contraddice con i fatti. E’ colui che assume uno stile di vita pienamente conforme al messaggio e alla vita di Gesù: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). In particolare, il contesto della parabola e l’applicazione concreta fatta da Gesù, ci richiamano all’esigenza di intraprendere un autentico cammino di conversione, che passa dal riconoscere le nostre debolezze, i nostri limiti, i nostri peccati, per andare davanti a Gesù in tutta umiltà e fiducia e dirgli: “Cambiami! Non mi accontento più di averti tra le labbra, ma non averti nel cuore, poiché il primo a soffrire di questa incoerenza e mancanza sono io stesso. Aiutami ad essere un vero “cristiano”, che ti testimonia con la parola e, soprattutto, con la vita!”.

XXVII domenica del TO (Mt 21,33-43) “Il rifiuto di Dio” Questa parabola, chiamata normalmente dei “vignaioli omicidi”, è un capolavoro della creatività di Gesù, capace di raccontare attraverso una metafora il suo destino, che di lì a pochi giorni andrà a compiersi, e quello dei suoi interlocutori. Ma non solo, perché la parabola può essere letta a vari livelli: il primo è quello della relazione tra Gesù e i suoi interlocutori (i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo); il secondo è quello della relazione tra Dio è il popolo d’Israele; il terzo, il raggio più ampio, è quello della relazione tra Dio è l’intera umanità (noi). Attraverso questa triplice lettura la parabola non fa altro che raccontare il “dramma” del rifiuto di Dio da parte degli uomini. Cominciamo dal primo livello. Come dicevo, Gesù racconta ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo quello che succederà dopo quel loro incontro-scontro nel Tempio

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di Gerusalemme, il fatto che Gesù, pochi giorni dopo, dichiarando la sua figliolanza divina davanti al sinedrio, verrà condannato a morte dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Egli prefigura tutto questo nella parabola: «(i vignaioli) lo presero (il figlio unico del padrone della vigna), lo cacciarono fuori della vigna (fuori dei confini murari della città di Gerusalemme) e lo uccisero (sulla croce)». Il peccato di cui si sono macchiati i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo è quello di non aver creduto al messaggio profetico di Giovanni il Battista, non avere accettato di riconoscere la loro pochezza e fallacità davanti a Dio, il loro bisogno di conversione e, soprattutto, non avere aperto il loro cuore alla “novità” della persona di Gesù, al fatto che Dio potesse farsi uomo: un evento troppo scandaloso, troppo “poco” divino per poter essere vero! Chiamati ad essere i depositari della volontà divina presso il popolo, condannando a morte Gesù, hanno di fatto messo a morte Dio stesso, il suo agire, la sua opera, il Figlio suo unigenito! Non c’è peccato più grande di questo, il cosiddetto “peccato contro lo Spirito”, ovvero attribuire a Satana, l’opera di Dio! (cfr. Mt 12,2532). Allarghiamo ora lo sguardo al secondo livello, quello della relazione tra Dio e il popolo d’Israele. Quante volte Dio ha mandato i suoi profeti per invitare il popolo alla conversione, a rispettare i suoi comandamenti, ad abbandonare la via del male e intraprendere quella del bene, della giustizia e della santità. Ebbene, molte volte il popolo d’Israele ha rifiutato la parola e l’esempio dei profeti! Quelle parole che invitavano alla conversione e al ritorno sincero a Dio, procuravano loro un fastidio terribile, tanto da indurre spesso a delle reazioni violente, come quella nei confronti del profeta Geremia che, facendosi portavoce della parola di Dio nel Tempio di Gerusalemme, come risposta riceve dal popolo questo messaggio: «Devi morire!» (Ger 26,8). Arriviamo ora ai nostri tempi e a noi. La storia si ripete, il rifiuto di Dio è una tentazione che accompagna il cammino dell’uomo. In fondo, qual è il meccanismo che porta al rifiuto di Dio? Chiediamolo ai vignaioli della parabola. Essi, profittando della lontananza del padrone della vigna e riconoscendo come il frutto della vigna dipenda soprattutto dal loro lavoro, decidono che è nel loro diritto dichiararsi i “nuovi” padroni della vigna, mettendosi al posto del vero padrone. Non succede lo stesso anche oggi? La tentazione è la stessa. Si tratta di mettersi al posto di Dio, rifiutando di essere “dipendenti” da lui nell’essere e nell’esistere, rompendo l’originario legame creatura/Creatore. Non accettando di offrire il nostro servizio a un progetto di vita che non abbiamo concepito noi, ma lui (il “suo” regno), al quale però Dio ci chiama a collaborare per farlo diventare anche il “nostro” progetto di vita. Il destino di Gesù, del Figlio unigenito di Dio, del rivelatore della bontà e della paternità divina, si ripete! Anche dopo la sua risurrezione, Gesù continua a vivere l’esperienza del rifiuto, del fatto che tanti uomini sono convinti che eliminando il Figlio di Dio dalla loro vita possano finalmente essere liberi di godersi i frutti della loro vita: «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». Quale può essere il nostro “posto” in tutto questo? Da una parte, cercare noi per primi di non cadere nella tentazione di rifiutare Dio, mettendoci al suo posto nel decidere cosa è il bene e cosa è il male, considerandoci gli unici fautori del nostro destino. Poi, essere consapevoli della dimensione “profetica” della nostra vita di “cristiani”, dell’essere inviati da Dio nel mondo come testimoni e proclamatori della sua

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“presenza” e “signoria”, della sua qualità di Creatore dell’universo e Salvatore dell’umanità. In particolare, facendo conoscere Gesù, il Figlio di Dio, nella speranza che ognuno possa farlo diventare la “pietra angolare” della propria esistenza.

XXVIII domenica del TO (Mt 22,1-14) “Invitati a far festa” Questa è la terza parabola consecutiva che Gesù racconta ai capi dei sacerdoti e ai farisei, dopo quella dei due figli chiamati a lavorare nella vigna e quella dei vignaioli omicidi. Gesù cambia ambientazione, non si parla più di lavorare in una vigna, ma di rispondere ad un invito a nozze. Ma il tema della parabola resta sempre lo stesso: il dramma della non accettazione di Gesù come il Figlio mandato da Dio per salvare il mondo. L’immagine utilizzata è quella di un re che vuole condividere la sua gioia per il matrimonio del figlio. Egli prepara uno splendido banchetto, invita un mucchio di gente, ma nessuno di quelli è interessato a partecipare alla festa. Tutti hanno altre cose più importanti da fare: dedicarsi al proprio lavoro, alla propria famiglia, ai propri impegni. Eh sì, non c’è proprio spazio per andare alla festa! Com’è facile fare il passaggio all’invito che ogni domenica il Signore ci fa di partecipare alla sua festa, la festa dell’Eucaristia! Tutto è pronto: l’altare, le tovaglie, le luci, il vino, le ostie, il sacerdote è lì che si è preparato per presiedere al memoriale di Gesù che ha donato tutto se stesso morendo sulla croce, e che tra poco ci dona ancora la sua Parola di vita e il suo Corpo glorioso. Tutto è pronto! Ma la stragrande maggioranza degli invitati non è presente, non è interessata a condividere la gioia di Dio che ci dona la sua stessa vita, ci sono cose più importanti da fare: riposo, divertimento, impegni familiari e altro. Anzi, come nella parabola, qualcuno si arrabbia pure dell’invito: “Ma come si permettono i preti di dirmi quello che devo fare la domenica? Che ci vadano loro a Messa, che non hanno un tubo da fare tutti giorni!”. Il dramma del rifiuto di Dio! Per lui non c’è tempo, non c’è spazio, non c’è interesse! Vengono in mente le parole della prima lettura di domenica scorsa dove Dio si stupisce della mancata corrispondenza tra la cura con cui ha preparato la sua vigna e la scarsa qualità del suo frutto: «Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? (Is 5,4). Cosa può fare Dio per attrarre a sé gli uomini, più che dare tutto se stesso? Povero Dio e, soprattutto, poveri noi! Ma passiamo ora alla seconda parte della parabola. Il re vuole vedere la sala del suo palazzo piena di invitati, per cui suggerisce ai servi a cambiare target: non più quelli di prima, i destinatari “naturali” dell’invito (i figli d’Israele), quelli che sanno bene chi è il re e chi è suo figlio, ma tutti gli sconosciuti che si trovano per strada, senza distinzione di sorta (i pagani). Questi sono ben lieti dell’invito, non lo aspettavano affatto, si sentono perciò onorati di partecipare alle nozze del figlio del re, per cui vanno a casa e si mettono tutti l’abito più bello, quello della festa, per fare onore a chi li ha invitati. Tutti, meno uno, che viene subito colto in flagrante dal re: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello non risponde nulla, ma quel silenzio per il re è una

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risposta molto eloquente, tanto che brutalmente lo fa gettare fuori dal palazzo! Cosa significa tutto ciò? Che significato ha “l’abito nuziale”, da indossare come condizione indispensabile per partecipare al banchetto di nozze del figlio del re? Io vi offro la mia interpretazione. Indossare l’abito nuziale alla festa di nozze, significa manifestare, anche esteriormente, la partecipazione della nostra persona alla gioia dell’evento: l’essere felici di condividere la gioia del re e del figlio che si sposa. Quindi, ad un secondo livello, l’abito nuziale esprime la gioia e la gratitudine per essere stati invitati a quella bellissima festa, un invito inaspettato e immeritato. Passiamo, allora, all’applicazione dell’indossare l’abito nuziale come requisito fondamentale per non deludere e non far “arrabbiare” il Padre che ci invita, per l’azione dello Spirito Santo, al banchetto delle nozze del suo Figlio con gli uomini. Non mi riferisco tanto alla tradizione di mettersi il cosiddetto “vestito della domenica” per andare a Messa, anche se questo era e rimane, comunque, un modo per rendere “speciale”, anche esteriormente, il giorno dove si celebrano le nozze di Dio con l’umanità. Quello che dobbiamo cambiare è soprattutto il “vestito interiore”, assumendo un atteggiamento di gratitudine, di gioia, di desiderio di partecipare con tutto il meglio di noi stessi (questo vuol dire mettere il “vestito più bello”) a quell’incontro “meraviglioso”, grandioso e stupefacente con lo Sposo della nostra anima! Invece, a volte, arriviamo di fretta, svogliati, col desiderio che l’incontro finisca presto, senza indossare quindi l’abito nuziale, l’abito “adatto” alla grande festa alla quale siamo stati invitati da Dio (in latino habitus = atteggiamento, abitudine), dimenticando poi che tutta quella festa è organizzata, ogni domenica, proprio per noi!

XXIX domenica del TO (Mt 22,15-21) “Restituiamo a Dio quello che gli appartiene” «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Una frase tra le più celebri dei Vangeli, che ha varcato la soglia della fede, diventando una frase di uso comune per dire che ognuno deve avere ciò che di diritto gli appartiene. Poi, nell’ambito della riflessione cristiana, la stessa frase viene utilizzata come principio guida per trattare dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, nella loro distinzione e autonomia. Ma qual è il senso originario di quella frase? Per rispondere dobbiamo andare a vedere il suo contesto originario. I farisei, dopo essere stati “aggrediti” verbalmente da Gesù attraverso tre parabole palesemente rivolte contro di loro e i sommi sacerdoti, non hanno nessuna voglia di convertirsi, anzi, il loro unico desiderio e quello di sbarazzarsi al più presto di Gesù, facendolo catturare per consegnarlo ai romani. Progettano allora un tranello, preparando una domanda la cui risposta, negativa o positiva che fosse, avrebbe sicuramente incastrato il grande profeta di Nazaret. La questione posta è sulla liceità del pagamento del tributo dovuto all’Imperatore. Essa non era una questione scottante solamente perché l’argomento “tasse” è sempre stato e sempre sarà argomento spinoso e doloroso (almeno per chi le deve pagare), ma anche perché i farisei, in qualità di strenui difensori della fede ebraica, vedevano nel

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pagamento del tributo a Cesare un atto di idolatria, una sorta di riconoscimento ufficiale dell’origine divina dell’Imperatore, che contravveniva al primo comandamento della Legge di Mosè: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,2-3). Perché questa domanda avrebbe dovuto incastrare Gesù? Perché se egli avesse risposto “sì”, i discepoli dei farisei lo avrebbero potuto accusare di idolatria, se avesse riposto “no”, gli erodiani, fedeli al potere imperiale, lo avrebbero potuto accusare di ribellione contro l’autorità romana. La trappola sembra ben congeniata. Andiamo a vedere il comportamento di Gesù. Per prima cosa smaschera la maliziosità della domanda: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?», e poi, con molta calma e intelligenza non solo non risponde subito con il “si” o “no”, in modo da evitare il tranello, ma si mette lui stesso a porre una domanda agli interlocutori, affinché possano aprire il loro cuore alla verità di Dio. Chiede di farsi portare un esemplare della moneta del tributo, la guarda e domanda cosa si vede in quella moneta. Rispondono che in quella moneta (una moneta d’argento) si trova raffigurato Cesare (l’Imperatore di Roma), nel dettaglio c’è disegnata la testa dell’imperatore coronata d’alloro con attorno l’iscrizione completa del suo nome: “Augusto Tiberio Cesare figlio del divo Augusto”. Bene, a questo punto Gesù dà la risposta richiesta dai suoi interlocutori, ma una risposta inaspettata, sorprendente e allo stesso tempo ricca di significato: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Cosa significa questa frase? Per prima cosa, che è giusto pagare il tributo all’Imperatore, perché in fondo è roba sua. Ma questa non è la parte più importante della risposta, la parte più importante è ciò che segue, “dare a Dio quello che è di Dio”, perché è quello che i suoi interlocutori non hanno assolutamente intenzione di fare. Sì, perché non vogliono riconoscere, in quella figura umana che hanno di fronte, Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio venuto sulla terra. E’ così che Gesù, dopo avere smascherato la malizia dei suoi interlocutori, li costringe a mettersi con sincerità davanti a Dio: “Se siete così intelligenti e saggi da riconoscere che quella moneta appartiene all’imperatore romano, perché sono presenti il suo nome e il volto, perché non fate lo stesso e riconoscete nella mia persona il nome e il volto di Dio?”. Cosa vuol dire allora per noi “dare a Dio quello che è di Dio”? Giocando sulla relazione moneta-immagine-proprietario, una verità balza agli occhi: ogni essere umano è stato creato a immagine di Dio, perciò appartiene a lui. Che cos’è allora che dobbiamo restituire a Dio, che di diritto gli appartiene? Non un qualcosa di noi, ma il “tutto” di noi: la nostra vita! Gesù questa domenica ci vuole ricordare che la nostra vita non è frutto del caso, non è un qualcosa di insignificante: noi siamo figli di Dio, veniamo da lui e apparteniamo a lui. La nostra vita è un vero e proprio “progetto” divino, è un dono del suo amore che siamo chiamati ad accogliere e, a nostra volta, ridonare. Così che “dare a Dio quello che è di Dio” non significa altro che amarlo con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutta la nostra mente e con tutte le nostre forze, amando il prossimo come noi stessi...

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XXX domenica del TO (Mt 22,34-40) “Il grande comandamento dell'amore” Ancora una volta Gesù è tentato dai farisei, ora ci provano con un esperto della Legge di Mosè, uno che conosce bene tutti i comandamenti di Dio e, dato che questi ultimi erano diverse centinaia, il “dottore” si mette a tastare la conoscenza teologica di Gesù, chiedendogli quale tra essi debba essere considerato il più grande di tutti, quello più importante. Gesù risponde in maniera “originale” citando due versetti del Pentateuco (i cinque libri che componevano la Legge di Mosè), il primo tratto da libro del Deuteronomio, sull’amore totale dovuto a Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente” (cfr. Dt 6,5), il secondo tratto dal libro del Levitico, sull’amore del prossimo, da amare “come se stessi” (cfr. Lv 19,18). Dove sta l’originalità della risposta di Gesù, visto che si mette a citare due testi ben noti della Scrittura? L’originalità sta nell’averli uniti insieme, rivelando che il “grande comandamento” è composto, in realtà, da due comandamenti, un primo ed un secondo, che devono essere considerati la chiave di lettura dell’intera Scrittura (questo significa l’espressione «la Legge e i Profeti») e quindi di tutta la rivelazione di Dio. Cerchiamo allora di approfondire questi due comandamenti, perché essi esprimono, in sintesi, la “volontà di Dio” su di noi. “Che cosa vuole Dio dalla mia vita? Che cosa si aspetta da me? Che cosa è veramente importante da vivere, perché la mia vita acquisti senso? Cosa mi può veramente rendere felice?”. Se poniamo queste domande a Dio, con il desiderio sincero di prendere sul serio le sue risposte, il discorso diviene molto semplice. Egli ad ogni nostra domanda risponderebbe dando sempre la stessa risposta, parlandoci di una cosa sola da fare, un solo comportamento da adottare, una sola azione da compiere, ci direbbe infatti una sola parola: “ama”! Che cosa vuole Dio dalla nostra vita? Che “amiamo”! Solo quello e niente di più, non c’è altro da aggiungere… Bene, abbiamo ottenuto la risposta, ma, andiamo oltre, cosa vuol dire agli occhi di Dio “amare”? Egli risponderebbe che amare significa abbracciare la dinamica del dono di se stessi, ossia vivere con le braccia sempre “aperte”, per tessere legami di amicizia, di comunione, solidarietà e bontà con l’Altro (braccia aperte verso l’alto) e con gli altri (braccia allargate alla propria destra e alla propria sinistra). La dinamica dell’amore comporta, allora, l’uscire da quella coltre di egoismo che non ci permette di essere in una relazione trasparente, libera, generosa e gratuita con l’Altro e con gli altri. Ma da dove viene l’amore? Ce lo insegna qualcuno? A queste domande la prima lettera di Giovanni suggerisce che la risposta ce la offre sempre Dio, perché è Lui l’”inventore” dell’amore: infatti «Dio è amore» (1Gv 4,8). E’ lui stesso che per primo ci ha rivelato l’amore, creandoci, amandoci e invitandoci a condividere la sua stessa vita d’amore divino: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). E’ Dio l’insegnante dell’amore, è lui il modello da seguire. E Gesù ha mostrato sulla croce il volto dell’amore divino, un amore che non ha limiti, un amore che consuma, un amore che soffre e si offre, un amore che chiama, a sua volta, all’amore… Torniamo allora al duplice comandamento dell’amore, perché la sua spiegazione si trova proprio nel contemplare l’amore rivelato da Gesù sulla croce. Perché Dio ci

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chiama ad amarlo in una maniera totalizzante, con tutto il nostro cuore, la nostra anima, la nostra mente, le nostre forze? Perché lui ci ha amati proprio così, con tutto il suo cuore, la sua anima, la sua mente e le sue forze. Gesù si è donato a noi completamente e ci invita a fare altrettanto nei suoi confronti, proprio come uno sposo e una sposa si promettono di vivere nel loro matrimonio. La relazione che Gesù ci invita a vivere con lui è una relazione “sponsale”, un vero e proprio matrimonio spirituale, un appello a ricevere tutto il suo amore, per donargli a sua volta tutto il nostro amore. Arriviamo ora al secondo comandamento dell’amore: l’invito ad amare il prossimo come noi stessi. Perché questa richiesta? Perché sulla croce, quell’amore totalizzante che Gesù ti ha offerto, non l’ha offerto solo a te, ma a tutti gli uomini, che proprio in virtù di questa comune offerta d’amore, non sono più da vedere come degli estranei o dei lontani, ma dei vicini. E’ l’amore di Gesù che ci ha “avvicinati” gli uni agli altri e ci ha reso “prossimi”, invitandoci a condividere tra noi quell’amore che lui stesso ha voluto condividere con noi: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Io mi amo, perché Dio mi ama, e proprio in virtù di questo amore, posso a mia volta amare gli altri, i miei “prossimi” di ogni giorno…

XXXI domenica del TO (Mt 23,1-12) “Abbasso i superbi!” Gesù, dopo tante critiche e inganni subiti dai farisei, si sente in dovere, per amore della verità, di “leggere la vita” a questi super-zelatori della Legge di Mosè. Osservando il loro stile di vita, egli non ha paura di definirlo “superbo”, “ipocrita” e “pretenzioso”. «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei», ecco il primo peccato dei farisei, la superbia, ovvero l’essersi elevati di loro iniziativa in un posto di autorità che non compete loro affatto: essere considerati i successori di Mosè nella guida spirituale del popolo d’Israele, gli intermediari e gli interpreti dell’autentica volontà di Dio. Questo comportamento dei farisei è un peccato davvero grande, perché essi hanno di fatto usurpato un potere che appartiene di diritto a Dio. Se è lui che ha chiamato Mosè a guidare il popolo d’Israele, spetta anche a lui decidere chi debba prenderne le veci. E’ Dio infatti che sceglie e chiama le guide del suo popolo: nessuno può eleggersi di sua iniziativa “guida al posto di Dio”. Il fatto che Gesù dica che i farisei “si siano seduti” sulla cattedra di Mosè, sottintende che Dio non li ha per nulla chiamati a ricoprire quel ruolo, un ruolo che sappiamo Dio Padre ha dato al suo Figlio Gesù, è lui, in verità, il nuovo Mosè. L’atteggiamento di superbia dei farisei comporta anche il pretendere dagli altri il riconoscimento della loro importanza, elevatezza e autorità, per cui devono essere sempre ossequiati e messi in ogni occasione al primo posto: «amano i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe». Infine, per concludere il quadro, i farisei si comportano anche da “ipocriti”, nel senso che nei loro giudizi adottano “due pesi e due misure”. Infatti, nell’indicare la via di Dio, con gli altri sono super intransigenti, mentre con loro stessi sono sempre pronti a scusarsi e giustificarsi, quando capita di non dare

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per primi l’esempio: essi «dicono e non fanno». Perché Gesù si è messo a fare questo ritratto così poco edificante dei farisei? Per mostrare ai suoi discepoli come non devono comportarsi, ed indicare la vera strada dell’autorità e dell’autorevolezza nella Chiesa: «Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato». Se vedete una persona tendente alla superbia, all’ipocrisia e alla pretesa, bene, quella persona è completamente inadatta ad avere un ruolo di guida nella Chiesa, a qualunque livello. L’autorità nella Chiesa è sempre e solo un servizio agli altri, alla comunità, per il loro bene e deve essere sempre accompagnato dall’umiltà, dall’esemplarità e dal dono. Questo significa, concretamente, l’azione di “abbassarsi” richiamata da Gesù e sono proprio tali atteggiamenti che fanno “grande” una persona, rendendola somigliante a Gesù stesso, che ha incarnato dall’inizio della sua nascita a Betlemme fino alla sua morte sulla croce, la vocazione ad essere un umile ed esemplare dono per l’umanità. A questo “santo abbassamento”, ovvero il vivere la nostra vita “a servizio” della comunità, nell’umile ed esemplare dono di sé, al quale tutti siamo chiamati da Gesù, corrisponde l’azione divina dell’”innalzamento”: l’essere “innalzati” ad essere come Dio, ad entrare nel cuore del mistero d’amore della Trinità, dove il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vivono reciprocamente l’umile ed esemplare dono di sé all’altro. Al contrario, la via scelta dai farisei, quella dell’auto-innalzamento, che porta ad usare il potere che si ha come un mezzo per dominare sugli altri, per sfruttarli, ed essere sempre pretenziosi nei loro confronti, è la via “diabolica”, adottata da satana in persona, che ha l’ardore e la superbia di volersi mettere, da semplice creatura angelica qual è, allo stesso posto di Dio. Bene, fai pure così, direbbe Gesù, ma sappi che, prima o poi, Dio ti farà scendere dal tuo piedistallo di creta, ti farà vedere l’assurdità, la falsità, la stupidità e la malignità del tuo comportamento. E quel tuo presunto potere che ti sei costruito con le tue mani, “improvvisamente” scomparirà dalle tue mani, si dissolverà, e allora rimarrai davvero solo e forse a quel punto potrai, per la prima volta, aprire il tuo cuore all’Altro e agli altri… Cerchiamo allora di crescere nell’umiltà, che non ci fa sentire migliori degli altri, ma ci pone in un atteggiamento di cercare e desiderare non solo il nostro bene, ma anche quello degli altri. Cerchiamo di essere coerenti ed esemplari nel nostro stile di vita, di non essere degli ipocriti che distribuiscono feroci critiche, a destra e a manca, su come gli altri dovrebbero comportarsi, quando magari siamo noi i primi a non fare quello che dovremmo. Infine, lasciamo che sia Dio ad “esaltarci”, senza pretendere dagli altri una sorta di “santificazione” anticipata. Così saremo tutti molto più tranquilli, sereni e liberi!

XXXII domenica del TO (Mt 25,1-13) “Il ritorno di Gesù” Eccoci di fronte alla famosa parabola delle “dieci vergini” in attesa dello sposo. Gesù prende spunto dalla normale celebrazione di un matrimonio del suo tempo, dalla

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preparazione al corteo con il quale le amiche della sposa accompagnavano lo sposo che andava a prendere la sposa per portarla nella sua casa e dare così inizio al banchetto nuziale. Ma, in verità, Gesù prende solo spunto da questa realtà, per costruire una parabola dove mostra chiaramente che lo sposo è lui stesso e le dieci vergini simboleggiano tutti coloro che sono chiamati al matrimonio eterno con lui. Andiamo alla parabola. Ci sono dieci vergini in attesa di andare ad incontrare lo sposo per iniziare il corteo che vi dicevo sopra (dieci simbolo di pienezza e di totalità, dieci vergini = simbolo della moltitudine dei credenti). Ma, lo sposo non è puntuale. Il ritardo si fa sempre più prolungato, tanto che le dieci vergini non reggono alla stanchezza dell’attesa e, una dopo l’altra, candidamente si addormentano. All’improvviso viene annunciato l’arrivo dello sposo. Siamo però a notte fonda, per cui per andare fuori ad incontrarlo ci vuole la luce, allora le dieci vergini accendono in fretta le loro lampade. Ma, arriva il “dramma”: cinque di esse sono state previdenti, infatti non sapendo bene l’orario di arrivo dello sposo, hanno portato con loro dell’olio di riserva per alimentare le lampade, a differenza delle altre cinque che questo pensiero non lo avevano fatto. Questo “errore” si rivelerà per loro fatale, perché arriveranno in ritardo all’appuntamento con lo sposo, quando il banchetto sarà ormai cominciato. Inoltre, lo sposo, con loro enorme sorpresa, non le farà più partecipare alla festa di nozze, affermando di non sapere affatto chi siano… Come interpretare la parabola? Per prima cosa, come accennavo all’inizio, evitiamo di leggerla come un episodio verosimile, perché verosimile non è (da quando in qua i negozi che vendono olio sono aperti a mezzanotte?). In caso contrario ci verrebbe da giudicare “cattive” le cinque vergini che non vogliono condividere l’olio con le altre, come ancora più cattivo è lo sposo che alla fine, non solo non apre la porta alle altre cinque ritardatarie, ma nega pure di conoscerle. Tanti, poi, si sono avventurati su cosa possa simboleggiare l’”olio” che non può essere condiviso con le altre (la fede, la carità, la perseveranza?). In realtà, non sono importanti i particolari della parabola, ma il messaggio finale di Gesù, la breve frase con la quale egli la commenta, spiegandone il suo significato profondo: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora». Gesù vuole ricordarci che è possibile “fallire” l’incontro definitivo con lui, che bisogna perciò arrivarci preparati, pronti e svegli. E’ su questo invito a “vegliare” che siamo chiamati a meditare... Noi sappiamo che, dopo la sua ascensione al cielo, Gesù ha detto agli apostoli che un giorno sarebbe tornato: «Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (Gv 14,2-3). Ha detto che ritornerà, ma non ha detto quando. Sono passati circa duemila anni da quell’annuncio e non è ancora tornato. E se arrivasse nei prossimi giorni? Nelle prossime ore? Quale sarebbe il nostro stato d’animo? Siamo contenti? Siamo dispiaciuti? Siamo preoccupati? E’ interessante che ognuno di noi si dia una risposta sincera. Tornando alla parabola, il messaggio di Gesù appare piuttosto chiaro: ci invita a tenere sveglio il desiderio dell’incontro definitivo e finale con lui. A non far finta di niente, come se egli non potesse arrivare da un momento all’altro. In altre parole, visto che la parabola ci rimanda ad una relazione di tipo matrimoniale, la vera domanda da porsi è: è davvero Gesù lo sposo intimo della mia anima? La persona più importante

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della mia vita? Se la risposta è sì, è chiaro che il sapere della sua venuta prossima non ci inquieta affatto, anzi ci procura solo una grande gioia. Se la risposta è no, allora i sentimenti sono altri: paura, dispiacere, preoccupazione… Sì, perché quando pensiamo al ritorno di Gesù e alla fine del mondo, oppure alla nostra morte (la fine del “nostro” personale mondo), ci viene soprattutto da pensare a quello che perdiamo (la vita, gli affetti, i nostri progetti sul futuro, etc.) e poco, invece, a quello che guadagniamo, quello che Gesù col suo ritorno viene a donarci. Egli infatti ci restituirà una vita “per sempre”, ma senza più fatiche, lotte, difficoltà, peccati, preoccupazioni, dolori e sofferenze varie. Ci donerà una capacità di amare potenziata all’infinito e la nostra persona troverà una realizzazione piena e definitiva: l’appagamento di tutti i nostri desideri più profondi. Allora “vegliare” significa vivere ogni giorno senza escludere che Gesù possa arrivare da un momento all’altro, per essere pronti ad accoglierlo nella gioia, a motivo di tutto quello che viene a donarci!

XXXIII domenica del TO (Mt 25,14-30) “Un talento da moltiplicare” La parabola di questa domenica, soprannominata la “parabola dei talenti”, segue nel testo del Vangelo di Matteo quella delle dieci vergini in attesa dello sposo, che abbiamo ascoltato e meditato domenica scorsa. Il collegamento tra le due parabole è dato allora dalla frase di Gesù: «Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno, né l’ora». Come a dire che la parabola dei talenti offre un’interpretazione di ciò che significa per Gesù “vegliare” in attesa del suo arrivo. In effetti, si parla di un uomo che parte per un viaggio e che ritorna dopo molto tempo. Colpisce subito la generosità di questo personaggio, che prima di partire non ha alcun problema ad affidare tutto il suo patrimonio ai suoi servi (i talenti erano, infatti, delle monete molto preziose), dimostrando di avere anche una grande fiducia in loro. E’ interessante notare, poi, il fatto che quest’uomo conosce bene i suoi singoli servi, sa quali sono le loro capacità “imprenditoriali”, per cui distribuisce i suoi talenti in maniera diversa, a chi cinque, a chi due, a chi uno. Fermiamoci allora a fare una prima serie di riflessioni. I talenti rappresentano le cose più preziose possedute da quell’uomo, per cui possiamo dire, che egli dà tutto ciò che ha in affidamento ai suoi servi. Nel linguaggio comune, proprio partendo da questa parabola, noi parliamo di “talenti” per indicare le nostre qualità personali (umane e spirituali), riconoscendo che sono un dono del Signore. Ed è vero. Ma, restando al contesto della parabola, se i talenti corrispondono ai beni più preziosi del personaggio della parabola, facendo un passaggio a Dio, possiamo dire che egli possiede un solo talento, che comprende in sé tutti gli altri talenti: l’amore. Esso è il talento più importante di Dio ed è il dono più prezioso che ci ha fatto. Dio ci ha donato la capacità di amare come ama lui stesso e questa capacità viene distribuita in quantità diverse, perché non siamo tutti uguali: tutti siamo chiamati ad amare, ma

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abbiamo delle capacità d’amare differenti… Chiarito questo possiamo andare avanti con la lettura della parabola. Due dei tre servi non perdono tempo e si mettono subito nei panni del loro padrone, investendo i talenti che, in poco tempo, si duplicano. Questa velocità di duplicazione sembra che dipenda non solo dalle capacità imprenditoriali dei due servi, ma anche da una proprietà intrinseca del talento, che possiede, per così dire, un’estrema facilità di guadagno. Passando al nostro paragone con il talento dell’amore, il messaggio è che l’amore possiede in sé la capacità e la facilità di propagarsi, diffondersi e moltiplicarsi, come a dire: ci vuole davvero poco per amare! Al ritorno del lungo viaggio il padrone fa i complimenti ai suoi due servi, che hanno fatto fruttificare i talenti dati loro in gestione: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Questa duplicazione dei suoi talenti riempie di gioia il cuore del padrone, tanto da volerla condividere con i suoi servi. Cosa vuol dire ciò? Che la gioia più grande che Dio può provare è vedere come il suo amore si moltiplichi e si propaghi nel mondo e questo grazie all’amore messo in pratica dai suoi figli amati. Possiamo allora fare subito un passaggio all’incontro ultimo e definitivo con Gesù, quello di cui non sappiamo il giorno e l’ora: esso sarà un incontro dove l’oggetto del nostro colloquio con lui sarà l’amore, ossia quanto abbiamo amato nella nostra vita. In questo contesto, allora, vegliare significa “amare”… Ma andiamo alla parte finale della parabola, a quel servo che per paura del giudizio esigente del padrone, preferisce nascondere il talento sotto terra e, per questo motivo, sarà duramente rimproverato. Cosa vuole comunicarci Gesù attraverso questo rimprovero? Che non possiamo nascondere l’amore che ci ha donato. Questo è, infatti, un grande peccato agli occhi di Dio, poiché lo priva della gioia di vedere la bellezza del suo amore diffondersi nel mondo. E poi Dio sa benissimo che se noi non amiamo, i primi a perderci siamo noi stessi, vivendo nella tristezza e nella solitudine! Allora, ecco la duplice domanda di questa settimana: Che fine ha fatto il talento dell’amore che Dio ti ha donato? Stai facendo tutto il tuo possibile per farlo fruttificare attorno a te? Sappi e ricorda bene che Dio ti ha creato per amore e per amare e che la condivisione di questo amore è la gioia di Dio e anche la tua gioia più profonda, così come ci ricorda Gesù: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,9-11).

Gesù Cristo re dell'universo (Mt 25,31-46) “Il giudizio universale” Eccoci arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico, che tradizionalmente è la solennità di Gesù Cristo re dell’universo. E’ interessante rilevare come Gesù sia il centro dell’anno liturgico, che inizia con la prima domenica di Avvento, il cui Vangelo ci parla della sua venuta finale, e si conclude con questa solennità odierna, che ci mostra

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l’evento culmine di questa sua venuta finale, quello che comunemente viene chiamato il “giudizio universale”. Quando pensiamo al “giudizio universale” dobbiamo evitare due rischi: il primo è quello di sentirlo come un evento distante, come un qualcosa che riguarda solamente il nostro futuro destino dopo la morte, ma che non ha una valenza esistenziale nella vita di ogni giorno. Il secondo rischio è quello di provare un senso di “paura” e di “timore”, forse ereditata dalle immagini “a tinte forti” con le quali nel passato vari pittori hanno provato a descriverlo. In realtà, il giudizio universale rappresenta un grande “faro” che permette di illuminare il nostro presente di ogni giorno e dobbiamo vederlo non tanto come un processo intentato nei nostri confronti per evidenziare tutte le nostre colpevolezze, ma come l’incontro finale con Gesù, il nostro amato Signore. In effetti, guardando a questa visione parabolica del giudizio universale proposta dal Vangelo di Matteo, al centro c’è proprio Gesù, il re dell’universo, che non è soltanto il soggetto che ha il potere e il diritto di giudicare ogni essere umano, ma è anche l’oggetto stesso del giudizio. Infatti, il giudizio verterà sulla carità che ciascun essere umano avrà usato nei suoi confronti, che testimonia se nella vita terrena sia esistita o meno una vera relazione d’amore con lui. Il brano evangelico evidenzia, in particolare, il legame esistente tra l’amore per il prossimo e l’amore per Dio, legame ben approfondito nella prima lettera di Giovanni, per esempio in questo versetto: «Se uno dicesse: Io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). La grande rivelazione che fa Gesù, re e giudice dell’universo, è che l’amore manifestato per i fratelli e le sorelle non significava soltanto avere cura, attenzione e affetto nei loro confronti, ma anche per Gesù stesso: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». La rivelazione di questo legame tra Gesù e i “suoi fratelli più piccoli” coglie tutti i convocati a giudizio di sorpresa, apparendo una novità assoluta. Chi l’avrebbe mai detto che prendersi cura di quella persona, significava prendersi cura di Gesù stesso? In verità, nel giorno del giudizio questa rivelazione sarà una novità assoluta solo per quelli che non hanno conosciuto la fede cristiana, quelli che non hanno sentito parlare di Gesù e del suo Vangelo, che, spinti inconsciamente dallo Spirito Santo, hanno amato i loro prossimi come loro stessi. Ma per i cristiani, che hanno conosciuto il messaggio evangelico di Gesù, tale rivelazione apparirà, in realtà, una verità ben nota. Infatti, noi sappiamo che con il sacramento del Battesimo siamo stati uniti a Cristo risorto e glorioso, divenendo parte del suo Corpo mistico, così da essere intimamente uniti tra ciascuno di noi, come membra di uno stesso e unico corpo spirituale. La conseguenza “miracolosa” di questo è che Gesù è presente spiritualmente in ognuno di noi, ed è proprio questa sua santa presenza che ci rende fratelli e sorelle. Così che se un fratello o una sorella sono nella sofferenza, Cristo soffre con loro: se hanno fame, Cristo ha fame con loro; se hanno sete, Cristo ha sete con loro; se sono malati, Cristo è malato con loro, e così via… E qui arriva anche un’altra grande rivelazione: il grande amore che Gesù ha per ciascuno di noi, tanto da farsi “uno” con noi, condividendo tutte le nostre difficoltà e le nostre sofferenze. E’ proprio questo amore che porta Gesù a condividere nel profondo tutti i nostri bisogni, invitando anche noi ad assumere lo stesso atteggiamento di amorevole condivisione dei bisogni degli altri.

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Questa, allora, è la luce che promana dal giudizio universale e che illumina e riscalda il cammino di ogni giorno. La scoperta di come Gesù è amorevolmente presente nella nostra vita e nella vita dei nostri fratelli e sorelle, e di come egli ci invita ad prenderci cura gli uni degli altri. Così che il giudizio finale sarà la manifestazione del trionfo universale dell’amore di Gesù, re e Signore dell’universo, contro ogni forma di odio, egoismo ed indifferenza. Un evento quindi da non temere, ma da desiderare ed attendere con gioia grande!

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