Raffaele Ruffo
Riflessioni al Vangelo della domenica Anno C
ANNO C I domenica di Avvento (Lc 21,25-28.34-36) L’Avvento nostro e quello di Gesù Oggi inizia un nuovo anno liturgico. Non credo che la cosa ci sconvolga più di tanto, anzi, forse ci lascia indifferenti. Magari le nostre speranze per un futuro migliore le affidiamo non tanto al nuovo anno liturgico, ma al nuovo anno civile che inizierà fra circa un mese. Il nuovo anno liturgico poi, che inizia con il tempo dell’Avvento, rischia di mandare i nostri pensieri subito alle feste di Natale e a tutto ciò che esse richiamano: i regali da fare, i pranzi o le cene da organizzare con i vari familiari, che dovrebbero essere fonte di gioia, ma che a volte si trasformano in fonte di “sofferenza”… No, questa domenica vi invito a fermare i vostri pensieri che stanno andando, effettivamente, un po’ troppo avanti. Fermiamoci alle parole di Gesù che non parlano né di anno nuovo né di feste di Natale, ma di una cosa che molto probabilmente non cerchiamo, non desideriamo e, magari, ci fa anche un po’ paura: la sua ultima venuta nella gloria a porre fine a questo mondo. Mentre noi pensiamo già al Natale o all’anno prossimo, proiettandovi i nostri progetti, i nostri desideri e le nostre speranze, Gesù invita a “concentrarci” ora su di lui, o meglio, sul nostro incontro personale con lui: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». Gesù ci parla di “liberazione”, ma liberazione da che cosa? Dalle contraddizioni di questo mondo, dal male presente in noi e fuori di noi, dalle innumerevoli situazioni d’ingiustizia che costellano le relazioni umane, dalle variegate esperienze di sofferenza fisica, psichica, morale e spirituale che offuscano e rischiano di “spezzare” la bellezza e la grandezza della vita umana. Siamo chiamati allora a staccare per un attimo lo sguardo da questo mondo per alzare gli occhi verso il “cielo”, a quella liberazione definitiva promessa da Gesù, al “regalo” del suo “ultimo” e definitivo “avvento” nella storia dell’umanità. Esso porrà fine alla stessa storia e ci inserirà nell’eterno presente della gloria di Dio, che altro non è che il vivere per sempre la gioiosa comunione piena e totale con lui e, in lui, con tutti gli esseri umani. Se le parole di Gesù, che ci annunciano il suo avvento liberatore, ci lasciano piuttosto indifferenti è segno che Gesù Cristo non lo abbiamo posto al centro della nostra esistenza, ma lo abbiamo messo da parte. Ci sembra che ci siano altre cose più importanti a cui pensare, i tanti problemi che “appesantiscono” e impegnano le nostre giornate. Anche Gesù è conscio di questo pericolo ed è proprio per questo che ci “mette in guardia”: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso». Ci invita a non “affannarci”, ossia a non farci sopraffare dai problemi e dalla difficoltà della vita di ogni giorno. Concretamente ci esorta a non perdere mai la fiducia in lui e, sostenuti da questa fiducia, a non perdere la fiducia in noi stessi e negli altri,
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perché senza questa triplice fiducia il peso della vita risulta essere davvero insopportabile. Non è tanto l’anno nuovo che può cambiare radicalmente la nostra vita, ma è l’incontro quotidiano con Gesù che ha il potere di migliorare la qualità della nostra esistenza: solo lui ha il potere di fare i “miracoli”! Un incontro che si realizza nel nostro cuore attraverso la “preghiera”, da vivere come una relazione intima e profonda con lui, fatta di ascolto, dialogo, richiesta di consolazione, luce, forza e perdono. Un’esperienza di gioia, gratitudine e affidamento, così come lui stesso desidera: «Vegliate in ogni momento pregando». II domenica di Avvento (Lc 3,1-6) Le attese di Gesù Nella prima domenica di Avvento abbiamo focalizzato l’attenzione sulla nostra attesa e sul nostro desiderio della venuta del Signore, espressi con l’immagine dell’impegno a “vegliare”, ossia del non disperdere tempo ed energie per cose che non ci avvicinano a Dio, o peggio, ci allontanano da lui. In questa seconda domenica siamo invitati a focalizzare la nostra attenzione sull’attesa e sul desiderio del Signore Gesù, non pensando a quello che noi ci attendiamo da Gesù, ma a quello che lui si attende da noi. Qual è il desiderio profondo di Gesù in questo Avvento? Esso è uno solo: il desiderio che gli uomini possano “vederlo”, incontrarlo ed essere “salvati” da lui, sperimentando nelle fibre più intime dei loro cuori il dono della gioia e della pace, frutto dell’esperienza dell’amore di Dio. Sì, Gesù vuole “salvarci”, ovvero desidera vederci sereni, pacificati, contenti, nonostante le situazioni, a volte difficili e pesanti, da portare e sopportare. E’ bello allora guardare l’Avvento con gli occhi di Gesù, fissare il suo sguardo “divino” e scorgere l’esercizio delle tre virtù teologali nei nostri confronti: la sua fede, la sua speranza e la sua carità. Egli infatti ha fiducia nella nostra capacità di comprendere ciò che è davvero importante nella vita e soprattutto che, senza un affidamento amorevole e totale in lui, siamo continuamente sballottati dagli eventi, dalle nostre pretese e dai nostri mutevoli umori. Perciò egli desidera e spera con tutto se stesso che ognuno di noi arrivi ad adoperare tutte le sue migliori energie dell’intelletto, del cuore e dell’animo, al fine di costruire una relazione di vera e sincera amicizia con lui, mettendolo davvero al centro della propria esistenza. Tutto questo motivato da quell’amore meraviglioso e incredibile che lo spinge a ricordarsi sempre di noi nelle sue preghiere e ad “offrirsi” continuamente nella Parola e nei Sacramenti, in particolare nell’Eucaristia, per diventare realmente “uno” con ciascuno di noi. Tutto questo per dire che al centro dell’Avvento non ci siamo noi, ma c’è Gesù con la sua promessa di venire ad abitare per sempre “con noi” e “in noi”. Alla luce di questo siamo in grado di comprendere il senso del messaggio dell’oracolo del libro del profeta Isaia, del quale Giovanni il Battista si fa portatore: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie
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tortuose diventeranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!». Il versetto più importante di questo oracolo profetico è l’ultimo. Esso manifesta il desiderio di Dio di “mostrare” il dono della sua salvezza a tutti gli uomini. Un desiderio che è anche una promessa. Quell’oracolo infatti prefigura la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù babilonese e il suo ritorno in Gerusalemme, un secondo “esodo” dopo quello d’Egitto. E in effetti avvenne proprio così. Dio mantiene sempre le sue promesse: le sue parole sono “creatrici” di nuove strade “miracolose”! Chi è, infatti, colui che raddrizzerà i sentieri, riempirà i burroni, abbasserà monti e colli? Non è un compito rivolto al popolo d’Israele, ma a Dio stesso, che realizzerà tutto ciò per sua iniziativa, libera e gratuita. Perché allora all’inizio dell’oracolo il popolo è esortato a “preparare la via del Signore”? Perché se a Dio compete il “realizzare” la salvezza, a noi compete il desiderarla e l’abbandonarci alla sua azione liberatrice, riconoscendo con umiltà il peccato di pensare che possiamo salvarci da soli, facendo leva sui nostri sforzi e sulle nostre capacità personali. Per questo Giovanni predica «un battesimo di conversione per il perdono dei peccati», invitando a compiere un’immersione “totale” nel torrente della grazia divina, per lasciarsi purificare e guidare sempre dalla sua “santa” corrente… III domenica di Avvento (Lc 3,10-18) Il regalo di Natale: essere solidali, onesti e giusti Dopo le parole aspre e dure con le quali Giovanni invitava tutti coloro che si recavano da lui per farsi battezzare («Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di potere sfuggire all’ira imminente?»), la gente prende sul serio il suo messaggio di fare dei “frutti degni della conversione”, cominciando a farsi un serio esame di coscienza: «Che cosa dobbiamo fare?». La risposta di Giovanni è semplice. Dio infatti non chiede di fare delle cose straordinarie e sovraumane, chiede solo di aprire il proprio cuore alle esigenze degli altri, con particolare riguardo a quelli che stanno peggio di noi: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Un messaggio che si pone in netta controtendenza al “Natale” consumista che ogni anno occupa sempre di più la scena mondiale. Se infatti le varie pubblicità ci invitano ad acquistare e acquistare, magari sfruttando le “provvidenziali” e incredibili offerte del momento, Giovanni Battista non esorta a “prendere” qualcosa di nuovo per noi, ma a “dare” qualcosa di “vecchio”, che già possediamo, agli altri. Siamo in linea con il senso profondo del Natale, ovvero del “regalo” che Dio Padre ha fatto a tutti gli uomini, mandando il suo Figlio sulla terra come salvatore di ogni uomo e di ogni donna di ogni luogo e di ogni tempo. E’ proprio nel contesto di questo sorprendente “regalo” universale, capace di riempire di gioia il cuore dell’uomo (almeno così dovrebbe), che Giovanni ci invita ad allargare il nostro sguardo, non limitandoci a fare solamente il regalo “aspettato” dai nostri cari, ma a farci prossimi di quelle persone che, per vari motivi, hanno bisogno di ricevere un nostro “inaspettato” regalo.
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Oltre all’invito alla condivisione verso i più bisognosi, suggerimento valido per tutti i suoi uditori, Giovanni contestualizza poi la risposta al quesito sul “che cosa dobbiamo fare per convertirci” a seconda dello “stato di vita” di coloro che gli pongono la questione. Ai pubblicani infatti, notoriamente disonesti nell’esigere il pagamento delle tasse al popolo, Giovanni lancia l’esortazione a essere “onesti”, a non imbrogliare il prossimo per ricavarne dei guadagni illeciti. Ai soldati poi suggerisce di usare il loro “potere” nei limiti della legge, non per vantaggi personali. Anche in questi casi Giovanni non dice nulla di straordinario, invitando solamente a comportarsi onestamente e secondo giustizia in ogni momento e in ogni “luogo” in cui si sviluppa la nostra vita. La cosa interessante è che dopo le semplici e schiette parole di Giovanni Battista sulla necessità della condivisione con gli altri, del rispetto, dell’onesta e della giustizia, valori testimoniati radicalmente dalla sua stessa persona, la gente si domanda ammirata «se non fosse lui il Cristo». Se basta il richiamo alla solidarietà, all’onestà e alla giustizia, accompagnate dall’esempio della propria vita, per far arrivare il tanto atteso “Messia”, vuol dire che i tempi non sono cambiati poi di molto! Andando nel campo politico, penso che se arrivasse qualcuno a dire le stesse cose di Giovanni il Battista, mettendole in pratica lui per primo, beh, sarebbe davvero un “rivoluzionario”, che meriterebbe subito il ruolo di leader di quel paese! Ma torniamo a noi. Qual è il “regalo” che il Signore si aspetta in questo Avvento? La risposta è semplice: essere solidali con gli altri, onesti, rispettosi e giusti. Non c’è da andare a “comprare” qualcosa di nuovo in chissà quale negozietto o grande magazzino, ma da “offrire” qualcosa che lo Spirito Santo ha già seminato nel nostro cuore: la carità e la giustizia. Basta spalancare la porta del cuore e il dono è fatto… IV domenica di Avvento (Lc 1,39-45) Una visita che ci fa grande onore! «A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?». Elisabetta non sta più nella pelle; l’incontro con la cugina Maria di Nazaret è molto diverso da quelli avuti in passato. Appena la voce di Maria ha varcato la soglia della sua casa è successo qualcosa di straordinario: il figlio che Elisabetta porta da sei mesi nel grembo (il futuro Giovanni il Battista), subito si agita, si mette a saltare, riconoscendo in quella voce la voce di colei che darà alla luce il Figlio di Dio. Com’è possibile tutto questo? E’ lo Spirito Santo che compie quest’autentico miracolo dato che, come aveva già preannunciato l’angelo Gabriele a Zaccaria, il piccolo Giovanni: «sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre» (Lc 1,15). E lo Spirito Santo che, muovendo l’animo e il corpo di Giovanni, passa poi all’animo e al corpo di sua madre, la quale improvvisamente si mette a gridare, quasi fuori di sé: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!». Qui si pone la domanda sul perché di quella visita. Elisabetta è consapevole di trovarsi davanti a colei che è stata prescelta da Dio per dare alla luce il suo Figlio unigenito, per questo motivo non riesce a capacitarsi del grande onore che Maria le ha
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tributato, facendole visita. E’ come se dicesse: “Perché mi fai tu l’onore di venire a casa mia? Semmai sono io che dovrei venire ad onorarti a casa tua!”. Perché allora quella visita? Maria, appena ricevuto l’annuncio dell’angelo e avere dato il suo pieno assenso all’incredibile progetto della maternità divina, comincia ad incarnare sin da subito lo stile che contraddistinguerà il suo santo figlio, che assumerà la parte del “servo”, mettendosi a completo servizio degli uomini, fino a dare loro tutta la sua vita. Maria, ci dice il racconto evangelico, non lascia passare molti giorni dal mistico incontro con l’angelo Gabriele e «in fretta», prende l’iniziativa del viaggio in Giudea. Ha nel cuore una splendida notizia da condividere, perché sa bene che quel figlio non sarà solo il “suo” figlio, ma essendo Figlio di Dio, sarà allo stesso tempo figlio di tutta l’umanità. Così Maria, senza proferire parola, diventa la prima evangelizzatrice. Infatti, essendo la nascita di Gesù opera dello Spirito Santo, sarà lo stesso Spirito Santo a proferire le prime parole per mezzo di Elisabetta, quella bellissima benedizione, che riecheggia ogni giorno nella preghiera dell’Ave Maria: “Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù”. In verità abbiamo visto che, prima delle parole “spirituali” di Elisabetta, il primo che ha riconosciuto e ricevuto la buona notizia della prossima maternità divina è un feto di sei mesi. Un feto che non può ancora parlare, ma che usa l’unico mezzo a sua disposizione per “farsi sentire” all’esterno: il movimento. Maria si muove e va a trovare la cugina Elisabetta, questo movimento fa muovere il piccolissimo Giovanni, che spinge sua madre a proferire parola, ispirata dallo Spirito Santo. Infine la stessa Maria prenderà, a sua volta, la parola con il bellissimo canto del Magnificat… Che cosa può dire a noi questa straordinaria vicenda, in particolare nell’approssimarsi della festa della Natività di Gesù? Che Maria oggi viene a visitarci! Ella entra nelle nostre case, ci saluta e ci dice che ha una notizia splendida per ciascuno di noi: presto darà alla luce un figlio, che è insieme Figlio di Dio e figlio dell’umanità. Ci dice che “partorirà” un figlio proprio per noi! Quel figlio che distruggerà la morte e debellerà la forza del peccato, spalancandoci le porte dell’eternità divina. Allora, quando Maria busserà alla porta di casa nostra, facciamole una degna accoglienza e stupiamoci anche noi come Elisabetta, per una visita così “inaspettata” che ci fa grande onore… Natale del Signore – Messa del giorno (Gv 1,1-18) Adottati da Dio! «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Ecco, in sintesi, il senso della festa del Natale, della nascita di Gesù di Nazaret, figlio di Dio e figlio dell’umanità. Nel prologo del Vangelo di Giovanni l’evangelista spiega con chiarezza chi è questo “Verbo” che pone la sua “tenda” fra gli uomini: egli è Dio, il Figlio di Dio, la seconda persona della Santissima Trinità, colui per mezzo del quale «tutto è stato fatto». E’ la Parola creatrice di tutto, creatrice della vita dell’universo, perché «in lui era la vita». E’ la Parola che ha il potere di illuminare la vita di ogni creatura, poiché egli è «la luce vera, quella che illumina ogni uomo». E’ colui che possiede in pienezza la
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“verità” delle cose e dell’esistenza, ossia colui che solo ha il potere di svelare il senso profondo della vita, degli eventi, della storia e persino di Dio stesso: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel senso del Padre, è lui che lo ha rivelato». Una “verità” che viene offerta all’uomo con “grazia”, ossia con amore, con delicatezza e nella più assoluta libertà, senza costrizione e senza alcuna violenza, poiché egli è «pieno di grazia e di verità». Questa “Parola eterna di Dio” un giorno preciso (circa duemila anni fa) si fa “carne”, prendendo dimora in un essere umano, nel corpo di una giovane vergine (Maria di Nazaret), fecondata “miracolosamente” dallo stesso Spirito di Dio. Sì, perché Dio vuole che quel bambino sia contemporaneamente Figlio di Dio e figlio dell’umanità: Dio e uomo allo stesso tempo. E’ questa la grande notizia del Natale! Dio ha squarciato i cieli e ha voluto diventare uno di noi (cfr. Is 63,19). Così facendo Dio è andato ben oltre ogni desiderio umano, poiché da sempre l’uomo si è rivolto a Dio chiedendogli di stargli vicino per proteggerlo dal male. Ma nessuno poteva immaginare il progetto di Dio di farsi così prossimo agli uomini, tanto da diventare uno di loro. Ma perché Dio si è fatto uomo? E’ una domanda che non possiamo non farci, perché un evento così impensabile ed incredibile non può non voler significare qualcosa di “decisivo” per la nostra esistenza. E allora perché Dio si è fatto uomo? Semplice, per offrire ad ogni uomo la possibilità di diventare anche lui, a sua volta, figlio di Dio: «A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio». Sì, c’è un “pero” in questa festa del Natale, un “dramma” messo in scena dagli uomini. La possibilità reale e concreta di “rifiutare” il “regalo” di Natale, che Dio in persona, facendosi uomo, ci vuol fare: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto». Il mistero dell’incarnazione di Dio è davvero qualcosa di “incredibile”, che ci supera, andando oltre i nostri bisogni e le nostre aspettative di ogni giorno (salute, lavoro, vita affettiva soddisfacente…). Il “regalo” di Natale, donatoci da Dio, va oltre tutto questo: è una “richiesta” di adozione della nostra persona. Sì, il senso profondo del Natale è che Dio vuole “adottarci”, facendoci diventare, per sua grazia, quello che per natura noi non siamo, ossia degli esseri “divini”. E’ chiaro che questa cosa così straordinaria e impensabile possa apparire un po’ lontana dalle nostre vicende di ogni giorno, sembrando non particolarmente allettante. Forse qualcuno preferirebbe vincere un po’ di soldi alle varie lotterie di fine anno: “Quello sì che risolverebbe i miei problemi, altro che adozione divina!”. Ammettiamo invece che il discorso dell’adozione divina ci interessi, che cosa dobbiamo fare per dire di sì a questa incredibile proposta? Semplice, dobbiamo aprire il nostro cuore e lasciare che Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, possa nascere, crescere e svilupparsi. Egli, vivendo in noi, ci trasformerà progressivamente in lui, divenendo così degli “uomini-divini” … Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Lc 2,41-52) Una famiglia per Gesù
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L’episodio del ritrovamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme è davvero “emblematico”, tant’è che gli stessi Maria e Giuseppe, dopo la spiegazione offerta loro da Gesù, non riescono comunque ad afferrarne il significato. Cerchiamo di evitare il rischio di darne una lettura di tipo “umana”, magari dicendo che anche Gesù da piccolo disobbediva ai suoi genitori. Infatti, proprio per evitare questo abbaglio, l’evangelista Luca ci tiene a puntualizzare che, dopo il suo ritorno a Nazaret, Gesù «stava loro sottomesso». Poi, se ci pensiamo bene, non è vero che Gesù ha disobbedito ai suoi genitori, infatti non è andato contro un loro comando. Non è scappato di casa, non si è ribellato ai suoi genitori, svincolandosi furbescamente dalla loro custodia, è solo “rimasto” lì dove i suoi genitori lo avevano portato, a Gerusalemme, per festeggiare la Pasqua. Perché Gesù vuole “rimanere” nel tempio di Gerusalemme? Mettiamoci per un attimo nei panni di Gesù che, avendo compiuto i dodici anni, ha ormai raggiunto la “maggiore età” religiosa, chiamato anche lui, come tutti gli altri ebrei adulti, a recarsi a Gerusalemme per compiere il culto a Dio prescritto dalla Legge. Era perciò la sua “prima volta” a Gerusalemme e al tempio. L’evangelista Luca poi, nella sua grande abilità narrativa, ci mostra dei segnali per farci capire il significato profondo di quell’episodio. Per esempio il fatto che «dopo tre giorni» riuscirono finalmente a trovare Gesù, un chiaro rimando al mistero della sua morte e risurrezione, che si compirà proprio lì a Gerusalemme, all’interno della stessa festa di Pasqua. Possiamo allora dire che il “mistero” della non comprensione di Maria e Giuseppe è una sorta di anticipazione della difficoltà a comprendere il “mistero” ancora più grande della passione, morte e risurrezione di Gesù. Ma torniamo a Gesù, perché soltanto lui può darci la “chiave” giusta per comprendere il suo misterioso “restare” nel tempio di Gerusalemme, senza comunicarlo ai suoi genitori. Ecco le sue parole chiarificatrici: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E’ come se Gesù abbia preso coscienza (o comunque è la prima volta che lo comunica pubblicamente), per la prima volta, della sua “vera” identità: l’essere il Figlio unigenito del Padre che si è fatto uomo. Non è un caso allora che questa scoperta-rivelazione Gesù la faccia proprio all’interno del tempio di Gerusalemme, il luogo dove abita la “presenza” di Dio, il luogo “santo”, possiamo dire, dove Gesù può sentirsi maggiormente a “casa”. E’ come se Gesù dicesse a Maria e a Giuseppe: “La mia vera casa non è quella dove viviamo a Nazaret, ma è il luogo dove “dimora” il Padre mio: è questo tempio!”. In realtà sappiamo che Gesù nella sua predicazione spiegherà che il vero tempio di Dio non è fatto di pietre e non è legato ad un luogo particolare, ma è il cuore degli uomini che si aprono all’azione santificatrice dello Spirito Santo: «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre […] i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,21-23). Quale può essere allora il messaggio di questo episodio evangelico per noi, in questa festa della Santa Famiglia? Tenendo presente che questa festa è inserita all’interno del tempo liturgico del Natale, credo che il messaggio che Gesù oggi ci vuole comunicare è l’esortazione a mettere “lui” al centro di ogni famiglia. E’ lui infatti la pietra angolare, la solida roccia sulla quale “costruire” e “modellare” tutte le relazioni familiari: maritomoglie, padre-figli, madre-figli e viceversa. In modo che ogni famiglia possa crescere, come Gesù e unita a Gesù, in «sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» …
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Epifania del Signore (Mt 2,1-12) Venuti da lontano Dei Magi siamo convinti di sapere diverse cose: quanti erano (tre), chi erano (dei re), a quale razza appartenevano (un bianco, un nero, un olivastro), e persino quali erano i loro nomi (Gaspare, Melchiorre e Baldassarre). In realtà tutte queste informazioni sono state “create” soprattutto nel Medioevo, andando molto al di là del testo evangelico che, in effetti, dice davvero poco sull’identità di questi misteriosi personaggi. La parola greca magoi, poi, letteralmente significa “maghi”: allora i magi erano degli illusionisti, dei cartomanti? No, tranquilli, non erano dei sinistri “fattucchieri”, ma certamente erano degli esperti astrologi e astronomi, visto che si mettono in movimento non appena vedono sorgere la nuova “stella” apparsa nel cielo. Diciamo che i nostri magi appartengono a quella categoria di persone che si lasciano interrogare dalla realtà, dalla natura e dagli eventi. Non sono di certo dei superficialoni, dei qualunquisti, degli uomini senza personalità. Sono invece dei “curiosi”, ma ancora di più, sono dei “sapienti”, delle persone in ricerca appassionata della verità sull’uomo, sul mondo e su Dio. Chiarita l’identità dei magi, lasciamoci ora guidare dalla narrazione dell’evangelista Matteo che, attraverso la storia di questi misteriosi personaggi venuti dall’Oriente, ha un “messaggio” molto interessante da comunicarci. I magi fanno un viaggio di migliaia di chilometri per andare ad “adorare” un bambino appena nato, annunciato da un astro in cielo come il re dei Giudei. Ma i magi non sono giudei, per cui si imbarcano in un lungo e faticoso viaggio per andare ad adorare un re che non è neanche il loro re. Davvero strano. Quando i magi giungono a Gerusalemme, la capitale del regno d’Israele, chiedono al re Erode delle informazioni precise sul luogo in cui doveva nascere il re dei Giudei, il loro re. I capi religiosi d’Israele, esperti nella Scrittura, rispondono con certezza che quel luogo è la piccola città di Betlemme. Che cosa succede però adesso? Che di fronte a questa notizia si formano tre categorie di persone ben distinte: i magi, che vanno a Betlemme pieni di gioia ad adorare un re che non è il loro re; i capi religiosi d’Israele che, di fronte alla notizia della nascita del loro re, non si muovono da dove sono; il re Erode che rimane al suo posto, turbandosi fortemente per la paura di perdere il suo posto di comando (comincerà a concepire un progetto di “eliminazione” del concorrente appena nato). Tre atteggiamenti ben diversi: chi si muove per andare a trovare Gesù, chi non si muove affatto, chi si muove per mettersi “contro” Gesù… Se poi confrontiamo il lungo viaggio di migliaia di chilometri fatto dai magi per andare ad adorare un re che non è il loro re, con il brevissimo viaggio di pochi chilometri (da Gerusalemme a Betlemme) che i capi religiosi d’Israele si rifiutano di compiere, la situazione appare davvero paradossale! Quello però è lo specchio della realtà che ha presente l’evangelista Matteo: ci sono tanti ebrei che stanno ben alla larga da Gesù, non considerandolo il loro Messia e, allo stesso tempo, ci sono tanti pagani che si avvicinano a Gesù, riconoscendosi suoi sudditi.
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Poi ci sono altri, sia ebrei sia pagani, che si mettono con tutte le loro forze a combattere quel Gesù, considerandolo un ostacolo alla loro felicità. E noi, da che parte stiamo? Credo e spero dalla parte dei cari “magi”, assetati di incontrare quel santo bambino, la vera stella che brilla nell’universo, «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Anche se a volte anche noi sembriamo piuttosto “indifferenti” a Gesù, proprio come i capi religiosi d’Israele, non credendo che quello sia davvero il re della nostra vita. Talvolta poi rischiamo di comportarci come Erode, vedendo in Gesù un pericoloso nemico che minaccia di toglierci la possibilità di decidere in piena libertà della nostra esistenza. Prostriamoci allora anche noi davanti a Gesù, come i magi; adoriamolo con tanta umiltà e stupore, facendogli omaggio non tanto di cose materiali, quali oro, incenso e mirra, ma mettendogli fra le mani la cosa più preziosa che possediamo: la nostra vita.
Battesimo di Gesù (Lc 3,15-16.21-22) Immersi nello Spirito Con la festa del Battesimo del Signore Gesù si conclude il tempo liturgico del Natale. Nel brano odierno riecheggiano alcuni leitmotive tipici del periodo di Avvento, come l’attesa del popolo riguardo al Messia e la figura di Giovanni il Battista, colui che prepara il popolo all’incontro con il Verbo di Dio fatto uomo. Possiamo dire allora che, se il Natale ha “colmato” l’attesa dell’Avvento, avendo contemplato la nascita del vero e unico Salvatore del mondo nato a Betlemme circa duemila anni fa, la festa del battesimo di Gesù ci “rilancia” un’altra attesa, quella del conoscere l’identità di questo Gesù di Nazaret, figlio di Dio e figlio dell’umanità. Attesa che verrà “riempita” ogni domenica del tempo ordinario e “colmata” poi con il mistero della sua passione-morterisurrezione. Giovanni Battista, esperto di “attese”, ci introduce allora al primo incontro con il Messia Gesù di Nazaret: «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Gesù proporrà a tutti gli uomini un’“immersione” (questo è il senso letterale del termine greco baptizō, da cui deriva il nostro “battezzare”). Un’immersione che non ha niente a che vedere con quella operata da Giovanni il Battista, poiché quella è fatta per mezzo di una “creatura”, l’acqua, mentre quella di Gesù sarà operata per mezzo del “Creatore” stesso, attraverso la persona divina dello Spirito Santo. La prima immersione simboleggia il desiderio dell’uomo di essere purificato dal male e dai propri peccati. La seconda ha il potere effettivo di purificare i cuori e di cancellare i peccati, nonché di far crescere nell’uomo il desiderio di allontanarsi dal male e di essere trasformato progressivamente in un essere “divino”. Ecco allora il senso profondo del sacramento del Battesimo, che ciascuno di noi ha ricevuto: lasciarsi avvolgere dallo Spirito Santo per entrare a far parte della grande famiglia di Dio. Diventare figli adottivi del Padre, attraverso l’unione “mistica” con il suo Figlio unigenito, il Signore Gesù. In quest’ottica possiamo anche leggere il senso
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del battesimo ricevuto da Gesù che, umilmente, mettendosi anche lui in coda come gli altri uomini, si lascia immergere da Giovanni il Battista nel fiume Giordano. L’evangelista Luca ci tiene a sottolineare un’azione compiuta da Gesù subito dopo aver ricevuto il battesimo: «stava in preghiera». Questa è nei Vangeli la prima testimonianza di Gesù che prega. Chiediamoci: per chi sta pregando? Certamente per tutte quelle persone che si erano battezzate nel Giordano e, mi piace immaginare, anche per tutti quelli che avrebbero ricevuto in futuro il sacramento del Battesimo, quindi anche per ciascuno di noi. Allora la discesa “miracolosa” dello Spirito Santo su Gesù la possiamo leggere come la risposta del Padre alla preghiera di Gesù. Lo Spirito Santo viene inviato dal Padre su Gesù affinché lui possa, in seguito, dispensarlo a tutti coloro che vogliono entrare in comunione con Dio. Così che le parole “solenni” e, allo stesso tempo, molto “affettuose, rivolte dal Padre a Gesù («Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»), sono rivolte, indirettamente, anche a noi. Sì, perché nel momento in cui lo Spirito Santo si appropria della nostra persona, il Padre può vedere i lineamenti spirituali del suo Figlio Gesù riflessi in ciascuno di noi: nelle nostre parole, nelle nostre azioni, nei nostri desideri e nei nostri pensieri. Sì, il Padre ci ama come ama il suo Figlio Gesù e il mistero dell’incarnazione del Figlio eterno in Gesù di Nazaret lo testimonia chiaramente. Guardando a quel bambino divino nato “corporalmente” per noi, possiamo riflettere la persona di ciascuno di noi, che con il sacramento del Battesimo è rinata “spiritualmente” per lui. La festa del battesimo di Gesù nel Giordano richiama così la festa del nostro Battesimo, di quel primo sacramento che ci ha resi “familiari” di Dio, appartenenti a lui per l’eternità. Cerchiamo allora di vivere sempre più “immersi” in questa vita divina che ci è stata donata, facendo emergere quel desiderio di purezza, di bontà, di luce, di verità che sono presenti nelle fibre più profonde del nostro animo, ma che, forse, con le fatiche, i problemi e le delusioni della vita, sono state messe da parte e sepolte. Anno nuovo, vita nuova! Riprendiamo la veste bianca ricevuta il giorno del nostro Battesimo e mettiamola sul nostro cuore, come segno che vogliamo diventare “adulti” nella fede, vivendo “immersi” nella santità di Dio.
II domenica del Tempo Ordinario (Gv 2,1-11) Il vero vino Per capire il significato profondo di questo episodio bisogna andare all’ultimo versetto, quando l’evangelista Giovanni dice che la trasformazione miracolosa dell’acqua in vino fu l’«inizio dei segni» compiuti da Gesù. Il Vangelo di Giovanni infatti riporta sette “segni” compiuti da Gesù (l’ultimo sarà la risurrezione di Lazzaro). Questo di Cana è il primo in ordine cronologico, ma anche il “principio” di tutti gli altri sei, quello che ne offre la giusta chiave di lettura. Ma veniamo all’episodio. All’interno di una festa di nozze viene a mancare
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prematuramente il vino, simbolo di gioia e di convivialità. Maria, chiamata da Giovanni non con il suo nome proprio, ma semplicemente «la madre di Gesù», comunica al figlio questa mancanza. E’ bello notare lo stile di Maria, che non dice al figlio quello che deve fare, solo gli presenta la situazione di bisogno. Uno stile di preghiera d’intercessione che dovremmo adottare anche noi, lasciando in ogni situazione a Gesù la libertà di agire come meglio crede. Maria continuerà su questa stessa linea, avvisando i servi a essere pronti a fare qualunque cosa Gesù dirà loro, anche se sembreranno delle cose “assurde”… Infatti, di fronte alla mancanza di vino, come rimedia Gesù? Invitando a riempire d’acqua le giare che si usavano per le purificazioni rituali. E fin qui, niente di strano. Il problema nasce quando Gesù dice di attingere da quelle giare e portare il contenuto al maestro di tavola. Questi era colui che dirigeva il banchetto, la persona che assieme ai parenti dello sposo, ai quali competeva l’organizzazione del banchetto di nozze, erano i maggiori indiziati dello “scandalo” della fine prematura delle scorte del vino. Immaginiamoci la faccia di quei servi, che devono andare a portare nella sala dell’acqua, quando tutti si stanno lamentando della mancanza del vino! Ma essi si fidano. Sono disposti a compiere quel gesto “assurdo” ordinato da Gesù e, grazie a questa loro fiduciosa collaborazione, avviene il “miracolo”: il maestro di tavola non troverà infatti dell’acqua, ma del vino! La cosa però non finisce qui, perché quel vino è di una qualità nettamente superiore rispetto a quello bevuto prima. Tra l’altro il termine greco usato per descrivere la qualità di questo vino può essere tradotto sia “buono” che “bello”. L’espressione, allora, vuole significare che quello è il vino per eccellenza, il vero vino (noi avremmo detto: “Questo sì che è vino!”). Avendo individuato gli elementi più rilevanti dell’episodio, dobbiamo capire ora perché questo “segno” è così importante, tanto da essere considerato il “segno dei segni” operati da Gesù. Partiamo dal “vino”, simbolo di “gioia”, una gioia che in quella festa di nozze è venuta prematuramente a mancare. Una gioia che, grazie all’intervento di Gesù, non solo è tornata, ma è diventata molto più intensa di prima. Questo vino particolarmente squisito diviene così segno di quella “gioia” profonda e indelebile che solo Gesù può dare: una vita “gustosa”, piacevole, bella, ricca di soddisfazioni, quello che ciascuno di noi desidera dal più profondo del cuore. Gesù è venuto a portare nel mondo questa gioia, la gioia di essere amati eternamente da Dio e di poter contraccambiare questo amore con lui, condividendolo con tutti gli altri uomini. Quel vino richiama così un altro vino utilizzato da Gesù in un altro banchetto, l’ultima cena: quel vino che da quel giorno ha cominciato a significare il suo “sangue”, sparso per amore sulla croce. Ecco allora il “luogo” dove, quando vogliamo, possiamo “bere” quel vino inebriante, la celebrazione eucaristica: «Chi mangia la mia carne e bene il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6,54). Quel “vino-sangue” è la vita divina di Gesù, che dissetando il nostro spirito ci dona quella gioia piena ed eterna che, come ricorda Gesù stesso, «nessuno vi potrà togliere» (Gv 16,23). Ma per poter sperimentare la gioia divina dobbiamo fare anche noi la nostra parte: “fidarci” di Gesù. Infatti, senza la collaborazione fiduciosa dei servi, disposti a portar l’acqua in tavola al posto del vino, il miracolo non si sarebbe potuto realizzare. Anche noi siamo invitati a “portare la nostra acqua”, che rappresenta la nostra
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debolezza, le nostre inadeguatezze, i nostri limiti, tutto quello che non ci permette di essere nella gioia. Portiamo tutto questo “fardello povero” da Gesù, affidiamolo a lui e attendiamo fiduciosi il suo intervento “miracoloso”… III domenica del Tempo Ordinario (Lc 1,1-4; 4,14-21) La salvezza è oggi Con questa domenica inizia il ciclo delle letture dell’Anno C. Saremo quindi accompagnati dall’evangelista Luca, che nei suoi primi versetti ci tiene a spiegare il perché del suo Vangelo e il metodo utilizzato nella redazione. Egli ha voluto fare una ricerca accurata di tutto quello che fino a quel momento circolava sulla persona e la storia di Gesù, soprattutto facendo leva sulle testimonianze degli apostoli e di quelli che lo avevano conosciuto personalmente. Per esprimere questa sua accuratezza nel vagliare le fonti (scritte e orali) a disposizione Luca usa il termine akribōs, che significa “con estrema attenzione”, esattezza e scrupolo, possiamo dire con vera e propria “acribia”. Inoltre il suo intento è quello di “mettere ordine” tra i vari eventi, utilizzando un metodo storico. Però non dobbiamo dimenticare che Luca, come gli altri evangelisti, è un credente che si indirizza con il suo Vangelo ad altri credenti. Non dobbiamo quindi aspettarci una vera e propria “storia” di Gesù, come la concepiremmo noi oggi, ma un’opera di “catechesi” ben ordinata e precisa, che utilizza delle fonti ritenute dall’autore assolutamente attendibili e sicure. Luca indirizza la sua opera ad un amico, un certo Teòfilo, che letteralmente significa “amico di Dio”, per cui in quel Teòfilo possiamo rispecchiarci tutti noi: quel Vangelo è indirizzato a tutti gli “amici di Dio” e a tutti quelli che desiderano diventare “amici di Dio”. Dopo i primi versetti del Vangelo di Luca la liturgia odierna ci fa fare un salto al capitolo IV, alla prima uscita ufficiale di Gesù in veste di annunciatore della “buona novella”. Egli predica in vari villaggi della Galilea e un giorno torna alla sua città, Nazaret. All’interno della consueta liturgia sinagogale del sabato gli viene proposto di leggere un rotolo della Scrittura e di commentarlo a beneficio dei presenti. Il “destino” vuole che il responsabile della sinagoga scelga il rotolo contenente il libro del profeta Isaia. Gesù lo prende e sceglie questo brano: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio…». Questo è un chiaro oracolo profetico che annuncia la venuta del Messia d’Israele, che verrà a liberare il popolo da tutte le sue schiavitù, cecità e povertà materiali e spirituali. Gesù, dopo aver proclamato quelle solenni parole profetiche, pronuncia poi una frase sconvolgente e stupefacente: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Il messaggio è chiaro: quel Messia annunciato dal profeta Isaia lo avete davanti ai vostri occhi: sono io! «Oggi». Fermiamoci a meditare un po’ su questo avverbio di tempo. “Oggi” significa
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in questo momento, ora. E’ un invito a non pensare a ciò che non c’è più (il passato) e nemmeno a quello che non c’è ancora (il futuro), ma a riconoscere e valorizzare ciò che offre il presente. Un presente che per noi cristiani è riempito da una “presenza” speciale, quella di Gesù in persona. In questo momento in cui io sto scrivendo questa meditazione Gesù è in me e, nel momento in cui voi leggerete queste parole, Gesù è presente in voi! La presenza di Gesù vivo in noi è l’”oggi” della nostra vita! Torniamo alle parole dell’oracolo profetico di Isaia. Gesù afferma che “oggi”, ossia “sempre” è pronto a liberarci dalle nostre schiavitù, cecità e povertà di vario genere. L’oggi annunciato da Gesù è perciò un oggi di liberazione, redenzione e salvezza. Il nostro oggi di ogni giorno è riempito dalla presenza di Gesù, il cui nome significa non a caso: “Dio salva”. Per cui “Dio salva” è colui che abita il mio “oggi”. Come devo vedere allora il mio “oggi”? Come una promessa di salvezza. Una promessa pronunciata da Gesù, che assume quindi i connotati di una cosa “solida” e “certa”, così come solide e certe sono le informazioni prese dall’evangelista Luca per confermare il suo amico Teofilo e ciascuno di noi nella fede. Allora sta a noi alzare lo sguardo fiducioso su Gesù, chiedendogli di “riempire” di senso e di gioia il nostro “oggi”, liberandoci dalla fuga in avanti o indietro, verso il futuro o il passato, guarendoci da tutte quelle cecità che ci impediscono di “vedere” ogni giorno la presenza e l’azione salvatrice di Gesù nella nostra vita e in quella delle persone con cui viviamo. Così che la sua presenza “sanante” ci farà sentire ricchi di pace, di amore e letizia. Quando tutto questo? A partire da “oggi”… IV domenica del Tempo Ordinario (Lc 4,21-30) Profeti in patria La prima reazione degli abitanti di Nazaret alle parole di Gesù è la stessa avuta da tutti quelli che hanno avuto il piacere di ascoltarlo predicare nelle loro sinagoghe: «Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca». Gesù ha uno stile nettamente diverso da quello degli altri commentatori della Scrittura. Egli infatti non si limita a citare quello che gli altri maestri hanno detto prima di lui. Si presenta come uno che ha “autorità”, parlando spesso in prima persona, “mettendosi” allo stesso posto di Dio: «Avete inteso che fu detto dagli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto a giudizio. Ma io vi dico…» (Mt 5,21). Sicuramente Gesù aveva un fascino unico quando parlava di Dio e del suo regno. Come avrei voluto essere là ed osservarlo mentre parlava in quella sinagoga! Ma siamo in un posto particolare, a Nazaret, il paese che lo ha visto crescere, dove Gesù ha vissuto quasi trent’anni e dove tutti possono dire di conoscerlo bene, lui e i suoi familiari. In quegli anni di umile lavoro come falegname Gesù non dà segni di possedere particolari “poteri” spirituali e non era nemmeno andato a Gerusalemme ad imparare la Legge dai grandi maestri del tempo. Possiamo capire allora la grande
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meraviglia dei suoi concittadini quando, leggendo il brano del profeta Isaia, Gesù fa capire che quelle sante parole sono rivolte propri a lui: è lui il Messia atteso da secoli: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». La notizia è a dir poco “incredibile”, tanto che la gente, abbandonata la prima spontanea ammirazione per quelle “parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, comincia a ragionare con la propria testa, ponendosi delle domande: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». In effetti lo stacco è davvero grande: “E’ possibile che il Messia tanto atteso ce l’avevamo proprio qui in mezzo a noi e per trent’anni non ci siamo accorti di niente? Sarà vero che è proprio lui? Sembra così assurdo!”. In verità non è tanto questa la questione che più colpisce gli abitanti di Nazaret. Essi sono “invidiosi” del fatto che Gesù ha cominciato la sua missione messianica non nella sua città, ma in altre: “Perché ha cominciato a fare i miracoli a Cafarnao e non qui, tra noi? Questa cosa ci offende e ci procura una grande rabbia!”. Gesù non risponde direttamente a questi pensieri, ma cita due episodi della Scrittura di persone che sono state beneficiate dai profeti (una povera vedova e un lebbroso), sottolineando con molta chiarezza che entrambi non appartenevano al popolo d’Israele, ma erano due stranieri, giustificando così il suo atteggiamento “scandaloso” in patria. Questo perché Dio non si lascia chiudere nella cerchia dei legami di sangue o di quelli sociali. Egli è in cerca di uomini e donne che sono sinceramente aperti alla sua persona, indipendentemente dalla razza alla quale appartengono, dal luogo in cui vivono e dal ruolo sociale che ricoprono: Dio guarda unicamente al loro cuore e alla loro fede! “Vedendo” la chiusura dei cuori dei suoi concittadini e la loro mancanza di fede nei suoi confronti, Gesù non ha nessuna paura a far emergere la verità della situazione, sentenziando così: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria!». Una frase che diventerà un proverbio fino ai nostri giorni, che fa capire come i legami di sangue e quelli sociali, se non sono vissuti nella “libertà” e nella “gratuità”, possono trasformarsi in lacci schiavizzanti, capaci solo di provocare invidie, gelosie, pretese e rancori vari. Che cosa ci insegna allora questo episodio evangelico? Che i legami familiari e sociali devono mettere sempre al centro l’altro e non se stessi, perché senza libertà e gratuità non c’è un vero “legame” tra gli uomini, ma tutto diviene apparenza, convenienza e opportunismo. Quando infatti non si corrisponde più alle pretese degli altri questi legami, inevitabilmente, si “sciolgono”, oppure si trasformano in “lacci” opprimenti, che più o meno consapevolmente mirano ad “ucciderci”, a toglierci la vita. L’episodio di Nazaret ci insegna anche a tenere a bada i nostri pregiudizi “razionali”, che spesso ci portano a “squalificare” quelle persone che entrano nella nostra vita per comunicarci la volontà di Dio, ma che però non appartengono alla nostra tipologia di profeti, magari perché li conosciamo troppo bene e ci dà fastidio ammettere che sono più “sapienti” di noi…
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V domenica del Tempo Ordinario (Lc 5,1-11) Prendi il largo! «In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la Parola di Dio…». Comincia così il Vangelo di questa domenica, con l’immagine di quanto la gente “moriva” dalla voglia di ascoltare la parola di Gesù, certi che quella era la vera e pura Parola di Dio. Se avessimo anche noi, ogni domenica, lo stesso desiderio: andare a Messa “morendo” dalla voglia di ascoltare e accogliere la santa Parola di Dio, quella che può davvero cambiare la qualità della nostra vita! Ma torniamo al brano. Proprio per quella ressa che si sta facendo attorno a lui, Gesù deve escogitare qualcosa per sottrarsi dalla pressione della folla e, allo stesso tempo, non sottrarsi dalla sua missione di predicatore della parola divina. Ha bisogno d’aiuto. Si guarda attorno e chiede un favore a Simone (Pietro): prenderlo sulla sua barca e accompagnarlo per qualche metro sulle acque del lago di Galilea. Fermiamoci a contemplare l’umiltà di Gesù che, trovandosi in difficoltà, chiede aiuto: “Per favore, ho bisogno di aiuto: puoi mettermi a disposizione te e la tua barca per qualche ora?”. Per compiere il suo servizio evangelizzatore Gesù ha bisogno della nostra collaborazione, affinché la Parola di Dio possa riecheggiare nel mondo. Arriviamo al cuore dell’episodio. Pietro, mettendogli a disposizione la sua barca, ha già cominciato, inconsapevolmente, ad essere un collaboratore di Gesù. Ora Gesù vuole testare il “cuore” di Pietro, mettere alla prova la sua “fiducia”, vedere se la collaborazione può diventare totale e per tutta la vita: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Gesù chiede a Pietro una cosa “assurda”: gli dice di non pensare al fatto che già tutta la notte si era affatico con i suoi compagni nella pesca senza prendere neppure un misero pesciolino. La Parola di Gesù non si ferma al passato, qualunque esso sia, ma si rivolge al futuro, un futuro da costruire “insieme” a Dio. Pietro accetta la sfida, dà fiducia a Gesù, proprio sulla base della sua Parola: «sulla tua parola getterò le reti». Ed ecco che la Parola crea il “miracolo”: la meraviglia di una pesca non solo inaspettata ma oltremodo sovrabbondante (tanto che le barche rischiano di affondare per il troppo carico!). Vengono in mente le parole del Vangelo di Giovanni: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Quanta “abbondanza” il Signore è pronto a riversare nei nostri cuori, se solo ci fidassimo di lui e della sua Parola! A questo punto, di fronte allo stupore di quell’incredibile miracolo, Pietro sente che deve venir fuori per quello che è, togliendosi ogni maschera. Di fronte alla santità di Dio lui, come tutti gli uomini, non è altro che un povero peccatore: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». E qui avviene il secondo “miracolo”, esistenzialmente ben più importante del primo. A Gesù non importa nulla che sei un peccatore anzi, proprio perché sei conscio della tua miseria, della tua debolezza e della tua pochezza dinnanzi a Dio, hai tutte le carte in regola per poter diventare un serio e fedele “collaboratore” nel suo ministero di “salvatore di anime”: «Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Davvero un grande cambiamento: da pescatore di pesci a pescatore di uomini. Da
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prendere dei pesci “vivi” e lasciarli morire per diventare nutrimento materiale per gli uomini, a prendere degli uomini spiritualmente “morti” (lontani da Dio e schiavi del peccato), per offrire loro la Parola di Dio che li “risuscita” alla vita eterna. Questa prospettiva, appena intuita da Pietro e dai suoi compagni, li affascina così tanto che decidono liberamente e con grande gioia di cambiare “mestiere”: «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono». Gesù ha bisogno d’aiuto per “pescare” gli uomini immersi nelle acque del peccato, del male, del non senso e della morte. Egli ha bisogno della nostra collaborazione! La scusa di sentirsi indegni o inadeguati per una missione così grande non regge. Gesù non ha esaudito per nulla la preghiera di Pietro di allontanarsi da lui in quanto peccatore. Quella era infatti una preghiera che non veniva dallo Spirito Santo, ma da un orgoglio camuffato da umiltà, ignoranza e mancanza di speranza: “Io per come sono, non posso essere apprezzato da Dio, non potrò mai diventare un suo collaboratore!”. E invece Gesù sta chiamando proprio te, così come sei in questo momento della vita, senza pensare al tuo passato, invitandoti a guardare con fiducia al futuro: «Prendi il largo…»! I domenica di Quaresima (Lc 4,1-13) Attenti al diavolo! L’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto di Giuda si colloca subito dopo il battesimo ricevuto da Giovanni e l’attestazione “solenne” del Padre che quel Gesù è il suo Figlio unigenito, “l’amato”, nel quale ha posto il suo “compiacimento”. Lo Spirito Santo, disceso dal cielo per porre la sua stabile dimora nella persona di Gesù, come primo atto della sua presenza nel Figlio unigenito lo “conduce” nel deserto per incontrare il “nemico” eterno di Dio e degli uomini: il diavolo. Possiamo dire allora che il Padre e lo Spirito Santo “accompagnano” il Figlio Gesù nel deserto per “presentarlo” ufficialmente al diavolo e mostrargli che i suoi giorni sono ormai “contati”… Andiamo ora ad analizzare nel dettaglio le tre tentazioni subite da Gesù. Per prima cosa è interessante notare che l’azione tentatrice del diavolo comincia nel momento in cui Gesù si trova in una situazione oggettiva di “mancanza”: dopo quaranta giorni di digiuno ha fame e ha bisogno di mangiare. Questa diventa una porta aperta per il diavolo, poiché Gesù, davanti ai suoi occhi, non ha altro che pietre! Il diavolo allora si presenta a Gesù nei panni di un caro amico che si presta gentilmente ad aiutarlo nelle difficoltà: «Se tu sei Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane». Il diavolo sa benissimo che Gesù è il “Figlio di Dio”, ma vuole tentarlo nell’orgoglio, istigandolo a manifestare davanti ai suoi occhi la sua infinita potenza divina. Gesù capisce subito l’inganno e risponde con una citazione del libro del Deuteronomio, un discorso di Mosè che ricorda al popolo d’Israele con quali segni prodigiosi Dio li ha guidati nel deserto, offrendo come nutrimento quotidiano la “Manna” discesa dal cielo. La risposta di Gesù: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo», vuol significare che egli è conscio che il Padre suo non gli ha voltato le spalle,
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ma che al momento opportuno gli farà avere tutto ciò di cui ha bisogno. Non è quindi necessario fare di sua iniziativa un “miracolo”, così come suggerito dal diavolo. Per Gesù l’essere Figlio di Dio significa abbandonarsi completamente nelle mani del Padre, avere sempre piena fiducia in lui, in ogni momento, qualunque “prova” si stia vivendo. Passiamo ora alla seconda tentazione. Il diavolo tenta Gesù nella “superbia” e nei “sogni di gloria”, offrendogli il potere su tutti i regni della terra. Anche qui il diavolo sa benissimo che Gesù, in quanto Figlio di Dio, è il “re” di tutta la terra, solo vuole proporgli un altro tipo di “reggenza”. Quella centrata sul potere e sul dominio degli altri, dello stare in alto per comandare e ridurre gli altri a propri sudditi. Ma Gesù sa bene qual è il tipo di “regno” che è venuto ad instaurare nel mondo, il regno del “servizio”, del “dare la vita” per il bene degli altri: «il Figlio dell'uomo […] non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Arriviamo così alla terza e ultima tentazione. Qui il diavolo le tenta davvero tutte, arrivando a citare persino la Sacra Scrittura, due versetti del salmo 90. In questa tentazione diviene palese l’obiettivo del diavolo di “staccare” Gesù dalla sua relazione di piena “sottomissione” alla volontà del Padre. Lo istiga infatti a “provocare” l’intervento salvatore del Padre per mostrare come questi sia “sottomesso” a qualunque iniziativa del Figlio, anche al “capriccio” di buttarsi, senza motivo, dal pinnacolo del Tempio di Gerusalemme. Il diavolo sa bene che se Gesù si fosse gettato, il Padre gli avrebbe certamente mandato in soccorso degli angeli, ma così facendo Gesù si sarebbe dimostrato un figlio davvero poco responsabile, inaffidabile e oltremodo “orgoglioso”. Cosa centrano queste tre tentazioni subite da Gesù nel deserto con la nostra vita? Per cominciare ci viene ricordata l’identità e l’attività del nostro comune nemico pubblico “numero uno”: il diavolo. Egli, sulla scia delle tentazioni alle quali ha sottoposto Gesù, cerca di “erodere” il nostro rapporto di “fede” con Dio. Nei momenti di difficoltà il diavolo ci spinge ad allontanarci da Dio, a perdere ogni fiducia nei suoi confronti, insinuando che non è vero che egli ci ama e si preoccupa di noi, arrivando a suggerirci che, in realtà, non esiste alcun Dio buono! Oppure, ci sollecita a guardare gli altri uomini con occhi “superbi” e “pretenziosi”: gli altri mi devono “riverire”, devono darmi tutta la “gloria” che la mia persona si merita, altro che mettermi al loro servizio, sono loro che devono “prostrarsi” ai miei piedi! Infine, ci invita a voler “disporre” di Dio come di una sorta di lampada di Aladino, sempre a nostra disposizione, pronto ad obbedire a “qualunque” tipo di richiesta... II domenica di Quaresima ( Lc 9,28b-36) Tras-figurati! La versione dell’evangelista Luca dell’avvenimento della “trasfigurazione” di Gesù sul monte Tabor offre delle interessanti coloriture. Per prima cosa l’indicazione temporale degli «otto giorni dopo questi discorsi», che colloca l’episodio in una chiara cornice “pasquale” (l’ottavo giorno è infatti la “domenica”, il giorno in cui si fa memoria della risurrezione di Gesù). Anche le vesti “candide” e “sfolgoranti” di Gesù
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sono un richiamo alla condizione dei due misteriosi uomini incontrati dalle donne al sepolcro il giorno della risurrezione di Gesù (si presentarono loro infatti in «abito sfolgorante», Lc 24,4). Troviamo poi anche un’allusione all’episodio dell’annunciazione a Maria, quando appare la misteriosa nube che avvolge i tre discepoli: «li coprì con la sua ombra» (così disse l’angelo Gabriele a Maria: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra», Lc 1,35). Ancora l’evangelista Luca ci tiene a sottolineare che il mirabile cambiamento avvenuto in Gesù, la sua “trasfigurazione” (anche se egli, a differenza degli altri due sinottici, non utilizza quel termine) si verifica mentre egli era in preghiera. Infine, l’ultimo elemento proprio di Luca è il riferimento all’«esodo» come termine centrale del colloquio a tre tra Mosè, Elia e Gesù. Cerchiamo ora di approfondire tutti questi dati. E’ evidente che Gesù attraverso il suo misterioso cambiamento d’aspetto “trasfigurante” abbia voluto “indossare” in anticipo le vesti della “risurrezione”. Un’azione non era fine a se stessa ma serviva per far pregustare ai tre discepoli prescelti (Pietro, Giacomo e Giovanni) la bellezza e la gioia della Pasqua, come testimonia la candida ed estasiata osservazione di Pietro: «Maestro, è bello per noi essere qui». Come a dire che l’uomo è stato creato e chiamato da Dio per godere della beatitudine della Pasqua, dell’eterna contemplazione amorosa del volto di Dio, rivelato a noi da Gesù: «chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,45). In quest’ottica allora il cammino della Quaresima non è altro che un impegnarci ad eliminare dalla nostra vita tutti quegli ostacoli che non ci permettono di “vedere” e contemplare il volto di Dio. Siamo chiamati così a “purificare” i nostri sguardi, a non comunicare il “male” attraverso i nostri occhi, ma a valorizzare appieno e godere del bene che ci circonda, immagine di Dio. Andiamo ora al tema dell’esodo. Il termine letteralmente significa “uscita”. Viene infatti utilizzato per ricordare il cammino di “liberazione/uscita” del popolo d’Israele dalla schiavitù egiziana. In parallelo Gesù “uscirà” vittorioso da Gerusalemme, liberandosi dalle grinfie della morte e liberando così l’umanità dalla schiavitù del male, del peccato e della morte. E qui arriviamo al solenne annuncio del Padre, che fa sentire la sua voce all’interno di una misteriosa nube: «Questi è il Figlio mio, l’eletto: ascoltatelo!». Queste poche, ma significative parole, non sono rivolte solo a Pietro, Giacomo e Giovanni, ma a ciascuno di noi; esse sono una vera e propria annunciazione a tutta l’umanità. Il Padre invita ogni uomo e donna ad “accogliere” nella propria esistenza non solo il messaggio liberatore di Gesù, ma anche il suo stesso stile di vita “liberatore”: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,23-24). Sono queste le parole che Gesù aveva detto ai suoi discepoli prima di salire sul monte, ed è proprio a quelle che si riferisce il Padre nella nube. Parole che, a prima vista, possono “scandalizzare” l’uomo, ma che invece, lette alla luce dello Spirito Santo, diventano vere e proprie parole di vita eterna. Allora saliamo anche noi con Gesù sulla montagna per “elevare” il livello spirituale della nostra vita, mettiamoci in preghiera per lasciarci “trasfigurare” dalla potente
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azione dello Spirito Santo. Lasciamoci avvolgere ed “abbracciare” dalla nube del Padre, senza paura, seguendo l’esempio di Maria che, dicendo il suo “sì” a Dio, è stata avvolta dalla potenza dell’Altissimo, divenendo la madre di Dio e la madre del nostro cammino di “trasfigurazione”. III domenica di Quaresima (Lc 13,1-9) Tempo perso e tempo guadagnato «In quel tempo…». Ecco la formula classica con la quale viene introdotto il brano di Vangelo scelto per la liturgia domenicale. Se nella stragrande maggioranza dei casi la formula viene aggiunta al testo evangelico dal liturgista (vedi ad esempio il Vangelo di domenica prossima), questa volta la formula è propria dell’evangelista Luca. In entrambi i casi la formula ci invita ad entrare con tutto noi stessi nel “tempo” della narrazione evangelica, andando a leggere l’episodio che precede il Vangelo scelto per la domenica. Nel nostro caso Gesù parla dell’esigenza di riconoscere i “segni dei tempi”. Egli inizia facendo i complimenti alla folla capace di leggere i segni del tempo atmosferico: se arrivano le nuvole vuol dire che presto pioverà, se arriva lo scirocco ci sarà molto caldo. Poi li rimprovera della loro palese incapacità a leggere la qualità del tempo presente: una chiamata a prendere sulla loro pelle l’invito di Gesù alla conversione al regno di Dio. Appello accompagnato e significato dai numerosi segni miracolosi da lui operati. E’ in questo contesto che si inserisce il Vangelo di questa domenica. Un gruppo di persone chiede a Gesù la spiegazione di un brutto fatto di “cronaca nera” appena accaduto: un pluriomicidio ordinato da Pilato di gente che si era recata al tempio per offrire un sacrificio a Dio. Perché questo? Perché Dio non è intervenuto a fermare la mano di quel disgraziato di Pilato? Molto probabilmente erano queste le domande che albergavano nella testa della gente. Gesù si esime dal rispondere a quei quesiti, spostando l’attenzione dal destino crudele di quella povera gente al destino dei suoi interlocutori. La sua è una risposta “nuda” e “cruda”, difficile da digerire: «io vi dico: se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo». Perché questa risposta? A me sembra che Gesù voglia dirci di smetterla di perdere del tempo rompendoci il cervello sul perché dei destini della vita altrui, magari mossi da semplice curiosità oppure per mostrare la nostra presunta “saccenteria”, della serie: “Ma come non lo sai perché è successo quello? Te lo spiego io: è andata così e così, perché…”. Questi atteggiamenti assumono spesso una funzione “evasiva”, togliendo l’attenzione dalla “cosa” sulla quale abbiamo un’autentica e reale responsabilità “personale”: il nostro destino. Ogni evento, dice Gesù, deve essere letto come un “segno” e uno “stimolo” che spinge alla tua conversione personale, alla tua crescita umana e spirituale. E’ un invito a lasciarti continuamente plasmare dallo Spirito Santo, che vuole “modellarti” a immagine del Figlio Gesù, l’uomo perfetto. Il tempo è breve. Non puoi perderti in
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inutili digressioni generaliste filosoficheggianti sul destino degli uomini del nostro tempo. Dio chiede oggi la “tua” conversione: una risposta sempre più convinta e responsabile agli appelli quotidiani della vita. Questo non è mai tempo perso anzi, è sempre tempo “guadagnato”, che arricchisce e impreziosisce la nostra esistenza e, di conseguenza, anche quella degli altri. In questo senso possiamo allora leggere la parte conclusiva del Vangelo, quel bellissimo siparietto tra il padrone della vigna e il suo vignaiolo. Questa è la domanda “esistenziale” in gioco: “Perché una pianta di fichi che non porta frutto deve continuare a sfruttare le ricchezze del sottosuolo? La sola cosa giusta da fare sarebbe tagliarla!”. E’ evidente qui che il vignaiolo fa la parte del Padre buono che è sempre pronto a dare una nuova possibilità di “vita” ai suoi figli dall’esistenza “infruttuosa”. Anche se fino ad ora certi frutti non si sono ancora visti, oggi Gesù ci esorta ad aver fiducia in lui, negli altri e in noi stessi, credendo e sperando che prima o poi essi verranno. Basta essere disposti a lasciare al Padre-contadino le redini della “cura” della nostra vita-albero. Diamogli la possibilità di “smuovere” con energia la terra indurita dalle nostre testardaggini, dalla nostra pigrizia e dai nostri peccati. Lasciamoci rinnovare e rigenerare dall’esperienza della sua bontà e misericordia, aprendo il cuore ad accogliere quel “santo concime spirituale” capace di portare la nostra vita-albero a produrre dei bellissimi e buonissimi “fichi” spirituali.
IV domenica di Quaresima (Lc 15,1-3.11-32) Figli, non servi Se nel passato l’attenzione di questa parabola era posta sul figlio minore (soprannominato il “figliol prodigo”), che veniva presentato come modello di “conversione”, oggi l’attenzione è spostata sulla figura del padre (definito il “padre misericordioso”), immagine dell’infinita bontà e misericordia di Dio Padre. In realtà, nell’intenzione di Gesù, l’autore della parabola, l’attenzione è posta sul figlio maggiore. L’evangelista sottolinea infatti che Gesù racconta la parabola indirizzandola a quegli scribi e farisei che mormoravano perché egli «accoglie i peccatori e mangia con loro». La storia del figlio minore e la figura del padre buono servono ad introdurre l’ascoltatore alla terza e conclusiva parte della parabola, dove quegli scribi e farisei sono invitati da Gesù a riconoscersi nei tratti del figlio maggiore. Indossiamo allora anche noi i panni di questo figlio maggiore che si arrabbia violentemente, non comprendendo per nulla lo strano comportamento del padre nei confronti dei suoi due figli: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comandamento, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Il suo ragionamento credo che troverebbe ancora oggi diversi supporters: chi si
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comporta male deve essere punito e chi si comporta bene deve essere premiato! Questa è la vera giustizia, la norma (“normalità”) delle relazioni umane. Lasciamo perdere la giustizia “umana”, perché la parabola di Gesù mira a descrivere la giustizia “divina”, quella che regola i rapporti tra Dio e gli uomini. Che cosa interessa a Dio? Che ogni uomo possa vivere in comunione con lui, condividendo la sua stessa santa vita. Un versetto del libro di Ezechiele chiarisce il “giudizio” di Dio nei confronti dell’uomo peccatore: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio – oracolo del Signore – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?» (Ez 18,23). Di fronte all’uomo peccatore Dio prova un forte sentimento di dispiacere e di sofferenza perché quella sua creatura invece di scegliere il bene, si è resa schiava del male. Rimane allora in paziente attesa, aspettando che quella persona si renda conto del male fatto e decida di intraprendere la via del bene, che porta alla comunione con il prossimo e con Dio. E’ evidente allora che anche quelli che sono in comunione con Dio debbano pensarla alla stessa maniera, condividendo i suoi stessi sentimenti divini. In caso contrario vuol dire che questa comunione con Dio in realtà non esiste affatto, è solo una pia illusione e un’aperta menzogna. Il figlio maggiore infatti, sebbene abbia sempre obbedito al padre, non era in un’effettiva comunione con lui. Prova ne è il fatto che non aveva capito che poteva prendersi tutti i capretti che voleva, o qualsiasi altra cosa, senza chiedere il permesso al padre, perché quello che è del padre apparteneva anche a lui. Questo figlio primogenito era nominalmente figlio del padre, ma in realtà si sentiva un semplice servo alle dipendenze di un padrone, che ai suoi occhi “pervertiti” appariva un essere dispotico e tirchio, oltre che terribilmente ingiusto. Allora essere in comunione con il Padre significa vivere da veri figli che mettono in pratica i suoi comandamenti non per costrizione o per riceverne un contraccambio. Esempio: faccio questo sacrificio per te Dio, così tu in cambio mi dai quello di cui ho bisogno. Questo non è un rapporto figlio-Padre, ma un rapporto servo-padrone. L’essere figli del Padre, così come ce l’ha mostrato Gesù, il Figlio eterno unigenito, vuol dire condividere la stessa vita del Padre, ossia vivere in una continua dinamica di apertura/accoglienza/ricezione e donazione del suo amore. Se non si entra in questa gioiosa dinamica di amore libero e gratuito, la nostra figliolanza divina va a farsi benedire, scadendo in uno squallido servilismo o in un atteggiamento rivendicativo e pretenzioso nei confronti degli altri e di Dio stesso. Il figlio maggiore infatti è ormai schiavo di se stesso. Governato da un bieco egoismo non sa più riconoscere la grande bontà del Padre ed è assolutamente incapace di godere del ritorno del fratello che, ormai libero dal peccato, è tornato alla vera vita. Ma a lui (il figlio maggiore) non gliene importa nulla. Egli rimane fuori della sua casa in festa, tutto solo, a rodersi il fegato…
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V domenica di Quaresima (Gv 8,1-11) Peccato e misericordia Il Vangelo di questa domenica è il più “misterioso” di tutti i Vangeli. Sì, perché in tanti codici che trasmettono il Vangelo di Giovanni questo brano non è presente. Si trova invece in altri codici che trasmettono il Vangelo di Luca, inserito al capitolo ventuno. Di certo non appartiene allo stile di Giovanni, sembrando effettivamente più prossimo allo stile dell’evangelista Luca. Al di là dell’incertezza sulla sua provenienza, che non toglie nulla alla canonicità e all’ispirazione divina del testo, è un brano molto interessante e particolare. L’ambiente è il tempio di Gerusalemme dove Gesù insegna al popolo. Gli avversari di Gesù (scribi e farisei), non credendo affatto nella sua identità (considerano Gesù un imbonitore), le inventano tutte per ostacolarlo e trovare un pretesto per accusarlo davanti al sinedrio o al potere romano, eliminandolo così dal gioco. In questo contesto piuttosto “agguerrito” gli portano una donna colta in flagrante adulterio e, ponendosi sotto lo scudo della Legge di Mosé che condanna senza appello le donne adultere, chiedono a Gesù la sua opinione in merito: «Tu che ne dici?». Gesù intuisce subito la trappola. Egli non si schiera né con la Legge di Mosé e nemmeno contro di essa e, come spesso fa, ribalta la frittata, facendo verità nel cuore di coloro che lo vogliono ingannare: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Colpo di scena! La situazione viene subito ribaltata. Al centro dell’attenzione non c’è più il peccato di quella donna, ma il peccato di quelli che la vorrebbero condannare e uccidere. Con quelle parole Gesù veste i panni del vero e giusto giudice, l’unico che ha il potere di condannare gli uomini: Dio. Pian piano quegli uomini così sicuri di sé, con le loro pietre in mano pronte per diventare strumenti del giudizio divino, di fronte alle provocanti parole di Gesù, cominciano a gettare le pietre in terra, andandosene via, in mesto silenzio, cominciando da quelli più avanti negli anni (quelli che per motivi di tempo hanno avuto la possibilità di accumulare più peccati in vita). E’ bellissimo, perché essi non guardano più né la donna, né Gesù, che sta scrivendo chinato per terra. Il loro sguardo è rivolto solamente a loro stessi, alla loro realtà di poveri uomini peccatori. Giustizia è fatta! C’è poi un gesto che Gesù fa per ben due volte: scrivere con il dito per terra. I vari commentatori si sono scervellati per interpretare il senso di questa sua strana azione. Già diversi codici che trasmettono il nostro brano completano la frase «scriveva per terra» aggiungendo queste parole: “i peccati di ciascuno di loro”. Sulla base di questa aggiunta e in riferimento ad un versetto del libro del profeta Geremia: «quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva» (Ger 17,13), l’interpretazione più comune del gesto operato da Gesù, sostenuta da diversi padri della Chiesa (per es. S. Agostino), afferma che egli scriveva sulla terra i nomi di ciascuno dei presenti (tutti pronti a condannare la donna), insieme ai loro peccati. Un’interpretazione molto suggestiva… Dopo che tutti gli accusatori della donna se ne vanno, questa rimane sola con Gesù. Egli finalmente si alza da terra, contempla lo spazio vuoto creatosi attorno alla donna, la guarda negli occhi e le domanda con dolcezza e compiacenza: «Donna, dove sono?
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Nessuno ti ha condannata?». Siamo così giunti all’ultimo atto del processo. Colui che è rimasto, il Figlio di Dio, l’unico autorizzato ad emettere sentenze di condanna sull’operato degli uomini, comunica il suo verdetto: «Neanch’io ti condanno; va e d’ora in poi non peccare più». Gesù, l’uomo veramente e totalmente innocente, puro e integro, l’unico che, non avendo alcun peccato, avrebbe avuto il “diritto” di scagliare la pietra di condanna verso la donna, le offre invece l’abbraccio misericordioso di Dio, dandole la possibilità di ricominciare una nuova vita liberata dal male e dal peccato. Gesù invita a scagliare le “pietre” dei nostri giudizi non contro i corpi di coloro che commettono il peccato, ma contro il peccato stesso. E’ questa infatti la realtà da combattere con tutte le nostre forze sia nella nostra vita, sia in quella degli altri. L’atteggiamento da vivere nei confronti di colui o colei che commette il peccato è lo stesso di Gesù: amore, misericordia e perdono!
Domenica delle Palme (Lc 22,14-23,56 ) Una vita-per-gli-altri Nel racconto della passione redatto dall’evangelista Luca emerge la grande attenzione di Gesù verso gli altri. La vita di Gesù può essere definita come una vita pergli-altri. Già nel momento dell’ultima cena Gesù ci tiene a sottolineare che quel pane benedetto è segno del suo corpo dato ai suoi discepoli: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi». Lo stesso fa con il calice: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi». Dalla parte opposta stanno invece i discepoli di Gesù, in lotta per stabilire chi sia il più grande fra loro. Non si tratta di dare la vita agli altri ma, al contrario, di “prenderla”, utilizzando il potere di colui che sta più in alto. Gesù coglie l’occasione per spiegare con chiarezza il concetto della vita donata per-gli-altri: «io sto in mezzo a voi come colui che serve». Anche nei momenti concitati della sua cattura “risplende” l’attenzione di Gesù pergli-altri. Infatti, quando uno dei suoi discepoli, utilizzando il potere della spada, ferisce il servo del sommo sacerdote, Gesù con tanta delicatezza e misericordia gli tocca l’orecchio, sanando la sua ferita. Dove il discepolo tenta di togliere la vita al prossimo, Gesù interviene per ridargliela. Poi c’è il siparietto del triplice rinnegamento di Pietro, che poco prima aveva promesso a Gesù di essere pronto ad andare in prigione e persino a morire per lui. Di fronte alla paura di essere anche lui catturato e fare la stessa fine di Gesù, Pietro ha il “coraggio” di affermare che lui non è affatto uno dei suoi discepoli, confessando che non sa proprio chi sia Gesù! Anche qui, di fronte alla triplice rinnegazione della dinamica del dare la propria vita per-gli-altri, Gesù interviene con uno sguardo pieno di amore e misericordia, che spingerà Pietro a piangere amaramente, imboccando la via del pentimento. Ma è sulla croce dove la lotta tra il donare la vita per-gli-altri e il pensare a se stessi
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troverà il suo apice. I capi del popolo infatti, facendosi beffe di Gesù, lo invitano a salvare se stesso, scendendo dalla croce: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati romani si aggiungono al coro: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Gesù, anticipando quelle frasi beffarde di sfida, poco prima aveva espresso al Padre suo il desiderio di andare fino in fondo nella logica del dare la sua vita per-gli-altri, chiedendo il perdono per tutti: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Anche qui uno sguardo pieno di misericordia e comprensione. Gesù si sente di doverli scusare davanti al Padre per non essere ancora entrati nella bellezza della logica del dare la vita per-gli-altri. C’è però un uomo che sta condividendo le stesse pene e sofferenze di Gesù. Anche lui è crocifisso, nel suo caso “meritatamente” (secondo la legge), per essere andato contro la logica del donare la vita per-gli-altri, avendo commesso dei crimini. Quell’uomo però non ha il cuore indurito, a differenza del compagno che, come gli altri, insulta Gesù chiedendogli di scendere dalla croce e liberarli. Il crocifisso “pentito” ha capito che la vera liberazione non è scendere dalla croce, magari per continuare a comportarsi male come prima, ma è entrare nella santa dinamica del dare la propria vita per-gli-altri. E’ quello il suo desiderio e con grande speranza lo condivide con Gesù: «ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Di quale regno sta parlando? Del regno di coloro che hanno abbracciato la logica del donare la propria vita per-gli-altri, del quale anche lui presto farà parte: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Eccoci giunti all’atto finale, alla rivelazione della sorgente della vita donata per-glialtri: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Ecco svelato l’arcano segreto, la chiave di tutta la meravigliosa vita vissuta da Gesù nel donarla agli altri. Quella vita donata, non era la sua; egli l’aveva ricevuta da qualcun altro: da Dio Padre. Per questo l’ultimo atto compiuto da Gesù prima di morire è il restituire liberamente e gratuitamente quello che anch’egli aveva ricevuto liberamente e gratuitamente. E poiché il donare la propria vita per-gli-altri è un’esperienza che fa varcare le soglie del tempo, divenendo immortale, si capisce anche l’evento della risurrezione. Essa rappresenta il trionfo della logica del donare la vita per-gli-altri, l’unica forza che ha il potere di sconfiggere la morte... Veglia pasquale (Lc 24,1-12) W le donne! L’evangelista Luca è quello che maggiormente sottolinea il protagonismo delle donne nella vicenda di Gesù, in particolare nell’evento della sua risurrezione. Anche solo dal punto di vista numerico, se Matteo racconta che due donne si erano recare al sepolcro e Marco precisa che erano tre, Luca afferma che erano un gruppo più numeroso, anche se tre di esse assumono un ruolo di primo piano: «Maria Maddalena, Giovanna e Maria Madre di Giacomo». Le donne perciò sono state scelte da Dio per essere le grandi “testimoni” della risurrezione di Gesù. In realtà le donne sono state anche le grandi “testimoni” della nascita di Gesù, o
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meglio, dell’annuncio della sua incarnazione, in primis Maria e poi, indirettamente, Elisabetta. Non ci sembra azzardato allora fare un parallelo tra l’annunciazione della nascita di Gesù e quella della sua risurrezione. In entrambi i casi infatti ci troviamo di fronte a due apparizioni di creature angeliche, portatori di due messaggi divini a delle donne. Due annunci, uno più incredibile e sconvolgente dell’altro. Sia Maria, sia le donne alla tomba di Gesù, reagiscono con un sentimento di timore riconoscendo di trovarsi di fronte a degli angeli mandati da Dio, chiedendosi stupite il senso di quegli avvenimenti. Nel caso di Maria erano le parole rivoltele dall’angelo: «Rallegrati, piena di grazia» (Lc 1,29), nel caso delle donne il fatto di non trovare nella tomba il corpo di Gesù. Solo che la rivelazione della nascita del Figlio di Dio nella carne di Maria è un evento “intimo” da custodire gelosamente, mentre la rivelazione della sua risurrezione è un evento “pubblico”, che tutti devono sapere. In entrambi i casi però le donne sono chiamate ad essere, in maniera differente, “portatrici” di vita: Maria, cooperando alla nascita del Dio fatto uomo; le donne al sepolcro, annunciando che Gesù non è più morto, ma vivo: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?». Dall’altra parte ci stanno gli uomini. Continuando il parallelo con l’annunciazione della nascita di Gesù, troviamo Giuseppe che fa una certa fatica a comprendere quel mistero, anche se poi, da uomo giusto qual era, lo accetta, facendolo diventare suo. Sono soprattutto gli apostoli e gli altri discepoli che fanno una fatica enorme a credere all’evento della risurrezione. Essi infatti non credono alle parole delle “nuove” evangelizzatrici: «Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento». Emerge qui la differenza tra la “fede” manifestata dalle donne e la “non fede” manifestata dagli apostoli e dagli altri discepoli. Le donne infatti credono al messaggio degli angeli: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: “Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”». A queste parole le donne si ricordano e credono; alle stesse parole, da loro comunicate agli apostoli e agli altri discepoli, questi non si ricordano e non credono affatto. E’ bello allora riflettere sul fatto che sembra più facile alle donne credere all’invisibile e all’incredibile, senza bisogno di dover per forza toccare con mano, come ad esempio vorrà fare l’apostolo Tommaso. Esse intuiscono che la vita e l’amore non possono essere sconfitti dalla morte e non hanno bisogno di prove “scientifiche” che lo dimostrino. Le donne sono perciò arrivate “prime” alla risurrezione di Gesù. Anche perché sono loro che si sono svegliate al mattino presto per recarsi alla tomba con l’intento di ungere il corpo di Gesù, manifestando così un loro ultimo segno di vicinanza e di amore. E’ giusto allora che siano proprio loro a ricevere il primo annunzio della vita che sconfigge la morte. Sembra allora che le donne abbiano ricevuto da Dio una missione particolare: aiutare gli uomini a credere nell’incredibile. Come Maria, che dice il suo sì alla maternità divina (maternità confermata poi da un’altra donna, Elisabetta: «A che cosa devo che la madre del mio Signore vanga da me?» Lc 1,43), le donne al sepolcro dicono il loro sì all’accoglienza del mistero della risurrezione di Gesù e alla missione di testimoniare quell’annuncio al mondo intero, cominciando dagli uomini (gli apostoli e gli altri discepoli di Gesù). Lasciamoci “evangelizzare” dalla testimonianza di fede e di amore di tutte quelle donne che, in forme diverse, testimoniano ogni giorno il loro schierarsi dalla parte della
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vita e della risurrezione. II domenica di Pasqua (Gc 20,19-31) A Messa per incontrare Gesù risorto Dopo Giuda il “traditore” e Pietro il “rinnegatore” il Vangelo di Giovanni conclude la sua trilogia sugli apostoli “pecore nere” con Tommaso l’”incredulo”. Questi, assente alla prima apparizione di Gesù risorto al gruppo degli apostoli, non si fida di quello che gli raccontano gli altri, andando contro la tradizione giuridica ebraica che stabilisce la veridicità di una cosa sulla base della testimonianza concorde di due o tre persone. La testardaggine di Tommaso è ancora più grave, considerando che in questo caso non si tratta di tre, bensì di dieci persone, da lui, tra l’altro, ben conosciute, avendo condiviso con ciascuno di loro tre anni di vita comune. L’incredulità di Tommaso appare quindi “esagerata” e “ostinata”, tanto da essere diventata proverbiale con il detto: “Volerci mettere il dito come San Tommaso”. D’altra parte però la sua esperienza risulta essere preziosa per la nostra vita di cristiani, suggerendoci che, senza un’esperienza personale di Gesù risorto, non può nascere la fede. Non basta prestare attenzione e credere al racconto di altri che hanno detto di aver “visto” Gesù risorto. Questa testimonianza è insufficiente, rischierebbe di indurci a credere a un’idea (il fatto che Gesù Cristo sia risorto), più che a una persona. Manca infatti la relazione personale con Gesù risorto, l’averlo incontrato personalmente. Per cui, come Gesù appare personalmente a Maria Maddalena e poi ai dieci apostoli, allo stesso modo apparirà personalmente a Tommaso. Guarda caso sempre lo stesso giorno, il primo della settimana, il primo giorno dopo il sabato ebraico, quello che diventerà per noi il giorno di domenica, che letteralmente significa il “giorno del Signore (Dominus)”. La domenica si presenta allora come il giorno privilegiato per fare un incontro personale con il Signore risorto, perché ogni domenica Gesù risorto si fa presente in maniera “solenne” nella celebrazione eucaristica. Come infatti Gesù si introduce nel luogo dove si trovavano gli apostoli con il saluto «Pace a voi!» (l’equivalente dell’ebraico shalom), anche la Messa inizia con il saluto del sacerdote che invita i presenti a riconoscere la presenza di Gesù risorto lì in mezzo a loro: «Il Signore sia con voi!». Poi, come Gesù mostra agli apostoli le sue mani e il suo fianco, segnati dalla sua morte crocifissa, nella celebrazione eucaristica egli ci invita a recarci spiritualmente al cenacolo per celebrare in sua presenza l’ultima cena, mostrandoci e offrendoci il suo Corpo e il suo Sangue. E ancora, come Gesù ha comunicato agli apostoli lo Spirito Santo, soffiando verso di loro, nella celebrazione eucaristica egli ci dona lo stesso Spirito, attraverso la preghiera eucaristica pronunciata dal sacerdote a nome di tutti i presenti: «…dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito» (preghiera eucaristica III). Nella celebrazione eucaristica si avvera allora l’ultima beatitudine pronunciata da Gesù nella sua vita terrena: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Sì,
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Gesù stava parlando di noi, che nella celebrazione eucaristica crediamo alla sua presenza di risorto con gli occhi della fede e del cuore. Possiamo dire che la nostra visione (più “oscura” e meno nitida) di Gesù risorto presente nella celebrazione eucaristica ha più meriti di quella (più “chiara” e nitida) di Tommaso, che nel cenacolo vede Gesù in carne ed ossa davanti a lui: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto». Con questa beatitudine Gesù ci fa capire che per “credere” in lui non abbiamo bisogno di “vedere” come hanno veduto Tommaso e gli altri apostoli. E’ sufficiente percepire la sua presenza di risorto nella celebrazione eucaristica: nella sua Parola, nella comunità unita in preghiera, nella figura del sacerdote e soprattutto nel suo santo Corpo e Sangue. Il Gesù risorto presente nella chiesa dove celebriamo l’Eucaristica è lo stesso Gesù risorto apparso agli apostoli nel cenacolo. La gioia provata dagli apostoli nel vedere il Signore vivo in mezzo a loro non può che essere la nostra stessa gioia nel “vederlo” e sentirlo con gli occhi della fede e del cuore, lì in mezzo a noi, quando celebriamo l’Eucaristia. Si realizza così anche l’ultima parola del Vangelo odierno: «perché credendo, abbiate la vita nel suo nome». E’ proprio vero che l’incontro personale con Gesù risorto, vissuto nella celebrazione eucaristica, ci “rivitalizza”, così che con grande gioia e meraviglia possiamo esclamare come Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
III domenica di Pasqua (Gv 21,1-19) Amici di Gesù Sebbene Gesù fosse apparso già due volte agli apostoli non sembra che ciò avesse cambiato più di tanto il loro quotidiano. Li troviamo ritornati, infatti, al loro originario mestiere di pescatori. Senza però la luce luminosa di Gesù risorto la vita appare troppo buia e povera, infatti «quella notte non presero nulla». Ma Gesù non è indifferente alle nostre difficoltà di ogni giorno. Egli dalla riva osserva con molta attenzione la scena e, costatando la loro pesca assolutamente infruttuosa, offre la soluzione al problema: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Invita a riprovare, a fare un altro tentativo, non disperando delle loro capacità umane e soprattutto, dando fiducia alla sua Parola di salvezza. Il risultato infatti non si farà attendere: la barca diventa in poco tempo ricolma di grandi pesci. E’ solo a questo punto che Gesù viene riconosciuto dagli apostoli, dopo aver costatato che quel suo consiglio è stato davvero “miracoloso”. E’ quello che capita anche a noi, che riusciamo a renderci conto della presenza di Gesù al nostro fianco solo quando esaudisce le nostre preghiere o, comunque, quando le cose ci vanno bene. Per il resto, spesso regna l’indifferenza e, a volte, quando le cose non vanno secondo i nostri desideri, regna l’amara rivendicazione di non volerci ascoltare. In realtà Gesù non è venuto solo per esaudire le nostre richieste o per aiutarci a uscire dai nostri guai. Egli è venuto ad offrirci una vera e propria relazione di amicizia, intima e indissolubile. Dico questo sulla base della bellissima scena del Vangelo odierno, di Gesù che
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prepara il pasto ai sette apostoli pescatori, chiedendo a sua volta di assaggiare i pesci da loro pescati. E’ un invito ad un pasto condiviso: Gesù mette a disposizione il suo pane e il suo pesce e, allo stesso tempo, è desideroso di mangiare il pesce degli altri. Come non pensare al cibo spirituale del suo Corpo e del suo Sangue, che ci viene offerto ad ogni celebrazione eucaristica. Esso è il segno più eloquente del desiderio di Gesù di entrare a far parte della nostra vita con tutto se stesso, senza lasciare nulla per sé. Il cibarci di Gesù, del suo Corpo e del suo Sangue, non fa altro che alimentare e cementare la nostra amicizia con lui. Se il fare la “comunione” ci procura gioia, non immaginiamo quanta gioia procuri a Gesù, che si vede accolto nel nostro cuore, potendo riconoscere in ciascuno di noi un suo carissimo amico. Questa è però la prima parte dell’amicizia: l’accogliere l’altro nella propria esistenza. L’amicizia infatti consta di reciprocità: non basta ospitare l’altro nel nostro cuore, dobbiamo aprirci anche noi, per condividere con lui un po’ della nostra vita. Questo secondo movimento amicale è simboleggiato dalla richiesta di Gesù di voler mangiare un po’ dei pesci pescati dagli apostoli. Gesù è realmente interessato alla nostra persona. E’ vero che lui vede “tutto”, ma ha anche piacere che ne facciamo oggetto di espressa condivisione con lui, come si fa con un vero amico. Facendo così la relazione di amicizia crescerà sempre più: Gesù ci parla di sé, della sua vita e noi gli parliamo di noi, della nostra vita. Lui ci dona tutto se stesso e noi proviamo a dargli un po’ di noi stessi. L’amicizia si trasformerà così in un intimo e profondo “amore” reciproco. Per questo Gesù può rompere l’indugio, come fa con Pietro, chiedendogli apertamente se davvero lo ama: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Non so che cosa gli risponderemmo noi, se Gesù, guardandoci negli occhi, ci ponesse quella domanda. Una domanda che a Pietro viene ripetuta ben tre volte, in modo da compensare il triplice tradimento avvenuto qualche giorno prima, dopo che Gesù era stato catturato. Quella triplice domanda sull’amore serve a testimoniare il triplice perdono offertogli da Gesù, scrivendo indelebilmente nel cuore di Pietro la certezza che il perdono di Gesù può cancellare qualsiasi peccato commesso dagli uomini. Sì, perché Gesù è nostro amico e non ha problemi a perdonarci una, due, cento, mille volte. Non ha infatti alcun problema a donarsi totalmente a noi una, due, cento, mille volte. E noi, quanto siamo disposti a condividere con lui? Cosa aspettiamo ad offrirgli i frutti del nostro lavoro, a condividere con lui le nostre vittorie e le nostre sconfitte, i nostri desideri e i nostri progetti? Lui non aspetta altro che questo, perché dopo la sua amicizia intima e profonda con il Padre, la cosa più cara che ha è l’amicizia con ciascuno di noi.
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IV domenica di Pasqua (Gv 10,27-30) In viaggio verso il Padre Attraverso i pochi versetti del Vangelo di questa domenica Gesù ci invita ad utilizzare la nostra immaginazione per entrare nello spazio esistenziale dell’allegoria del pastore che guida un gregge di pecore. Gesù si presenta infatti nei panni di un pastore a cui è affidata la responsabilità della gestione di un particolare gregge di pecore, rappresentato dai suoi discepoli. Egli ci tiene subito a precisare che tali pecore non sono sue, ma gli sono state affidate da un altro. Chi è questo misterioso proprietario al quale appartengono le pecorediscepoli? Nientemeno che il Padre eterno: «Il Padre mio, che me le ha date [le pecore], è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre». Non so che effetto vi facciano queste parole. Esse esprimono una potenza incredibile, affermando la verità che noi apparteniamo a Dio. Siamo perciò nelle mani dell’essere più potente dell’universo, al cui confronto, la potenza degli uomini, anche quella dei più importanti, dei più ricchi e dotati, è valutabile a poco più di niente. Pensate, siamo nelle mani di Dio Padre, il creatore dell’universo, del mondo e dell’umanità! Non abbiamo proprio da temere niente e nessuno... Ma lasciamo la parola a Gesù, il buon pastore, che ci parla della sua relazione con le pecore-discepoli: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna». Scopriamo così l’incarico che il Padre ha dato al Figlio riguardo al gregge affidatogli: Gesù è chiamato ad indicare alle pecore la strada per arrivare al Padre, il loro legittimo proprietario. La nostra vita è perciò un andare a conoscere colui che ci ha creato, il Padre della nostra vita. In questo bellissimo percorso, che è la vita, abbiamo una guida davvero eccezionale: il suo Figlio unigenito fatto uomo. Egli sa benissimo dove portarci, perché lui stesso è venuto da lì, dal «seno del Padre» (Gv 1,18). E’ chiaro allora quel è il senso profondo della nostra vita su questa terra: noi siamo dei viaggiatori, dei pellegrini indirizzati a raggiungere la meta della visione e della comunione con il Padre eterno, colui al quale apparteniamo di diritto. Facendo il parallelo con un viaggio organizzato per raggiungere una meta mai visitata prima, normalmente non si parte alla cieca. Ci si prepara infatti acquisendo informazioni per conoscerla un po’ già in anticipo, per valorizzarne al meglio la visita. Oggi, tramite Internet e i satelliti, si può persino prendere già visione della meta, restando comodamente seduti a casa propria. Al tempo di Gesù queste possibilità non c’erano e poi stiamo parlando di un viaggio che non ha come meta la visita di un luogo, ma l’incontro di una persona (e che Persona!). E’ lo stesso viaggio intrapreso dagli apostoli. Uno di questi, Filippo, un giorno, sentendo parlare della meta di conoscere il Padre, esprime a Gesù il desiderio di volerlo vedere in anticipo. Gesù gli risponde con questa straordinaria rivelazione: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Allora la meta del nostro viaggio spirituale (l’andare a conoscere il Padre) non è un andare verso qualcosa che ci è completamente
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ignoto. Guardando infatti al nostro pastore, la guida del nostro pellegrinaggio, abbiamo la possibilità di intravedere la nostra meta già in anticipo. Poiché Gesù e il Padre sono «una cosa sola», guardando a lui possiamo scorgere i lineamenti spirituali del Padre. Avendo chiarito la meta del viaggio e l’identità della guida pronta ad accompagnarci, sorge spontanea la domanda: “Abbiamo davvero voglia di partire? Ci interessa veramente conoscere il Padre e ricevere il dono della vita eterna?”. Se la risposta è affermativa il primo passo da compiere è andare da Gesù (lo si trova nell’agenzia di viaggi chiamata Chiesa) per condividergli il nostro desiderio di cominciare il santo viaggio, disposti ad affidarci completamente alla sua plurisecolare esperienza di guida spirituale. Egli ci metterà in mano un libro da lui scritto, dove possiamo trovare tutte le informazioni necessarie per affrontare il viaggio: dettagli sulla meta da raggiungere, sugli itinerari da seguire, sulle cose importanti da portare per il viaggio, sulle difficoltà da affrontare, etc., oltre che sull’identità della guida. Questo libro si chiama: “Vangelo”. Senza la disponibilità all’ascolto di tutte le parole lì contenute non si può partire, così come ricorda la stessa guida: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono». Allora buon viaggio a tutte le pecore in cammino verso la vita eterna!
V domenica di Pasqua (Gv 13,31-33a.34-35) Amare come Gesù «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». Queste parole Gesù le pronuncia subito dopo la dipartita di Giuda dal cenacolo, consumando il suo drammatico “strappo” con il Maestro e la comunità. Proprio quando riceve nel cuore la stilettata del tradimento di Giuda, un chiaro esempio di non-amore, Gesù dona ai suoi discepoli l’eredità del comandamento dell’amore reciproco, un invito implicito a non seguire le orme del loro ormai ex-compagno Giuda Iscariota. Qual è la novità di questo comandamento? Non è certo nell’amarsi a vicenda, poiché già la Legge di Mosè indica chiaramente l’esigenza divina di amare il prossimo come se stessi. La novità è portata dalla persona di Gesù, dalla sua modalità di amare. Non sta quindi nel “chi” amare, ma nel “come” amare: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». Il punto di partenza di questo comandamento nuovo è allora l’esperienza che i discepoli hanno vissuto dell’amore ricevuto da Gesù. L’essere stati amati da Gesù, l’averlo sperimentato sulla propria pelle, è il punto di partenza del comandamento nuovo. Come potremmo infatti dare quello che non abbiamo ricevuto e non possediamo? E’ come se Gesù dicesse: “L’amore con il quale io ti amo, non è un qualcosa che deve rimanere tra me e te, ma deve essere trasmesso agli altri, ai tuoi fratelli”. Chiediamoci ora come i discepoli hanno scoperto di essere amati da Gesù. Gli episodi raccontati dai Vangeli sono tanti. Per prima cosa c’è la scelta che Gesù ha operato nei loro confronti, chiamandoli personalmente a seguirlo. Già questo è un segno
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di grande amore e predilezione. Poi l’amicizia personale che hanno vissuto con Gesù, fatta di tanti momenti ordinari e straordinari (vedi i diversi segni miracolosi ai quali hanno assistito). In particolare, Gesù ha condiviso con i discepoli tutta la sua ricchezza di Figlio di Dio, mostrando loro il volto del Padre e preparando i loro cuori all’accoglienza dello Spirito Santo, che li avrebbe trasformati interiormente in “figli adottivi” di Dio. Gesù non si è tenuto niente per sé, ha davvero dato ai discepoli tutto quello che era e possedeva: «La gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa» (Gv 17,22). Ma l’amore di Gesù per i suoi discepoli si è mostrato anche nel correggere i loro comportamenti sbagliati e le loro convinzioni antievangeliche (es. quando scacciano i bambini attorno a Gesù; quando vogliono impedire ad uno di usare il nome di Gesù per scacciare i demoni; quando litigano per decidere chi fosse tra loro il più importante…). Così facendo Gesù mostra che il suo amore non è fatto solo di condivisione di vita, ma comporta anche l’avere a cuore la “santità” del fratello amato, arrivando ad esercitare la correzione, quando necessaria. Non è quindi un amore “sdolcinato” o “annacquato”, ma è forte ed esigente, nel senso che richiede sempre il rispetto della verità e della giustizia evangelica. Infine, la testimonianza più eloquente dell’amore di Gesù i discepoli l’avranno dopo la sua risurrezione. Sì, perché Gesù non farà pesare loro il fatto di averlo abbandonato sulla croce, amandoli esattamente come prima. Questa esperienza di perdono “implicito” trasformerà il cuore dei discepoli, convincendoli che la misericordia di Dio è davvero infinita e gratuita, non commisurata ai presunti meriti umani. In sintesi, possiamo dire che amare “come” Gesù ci ama, significa condividere con i fratelli ciò che siamo e abbiamo, prenderci cura del loro cammino di santità ed essere sempre disposti ad usare nei loro confronti una grande misericordia. L’amare i fratelli come Gesù ci ama non solo “costruisce” la fraternità evangelica (la Chiesa), ma testimonia in maniera inequivocabile l’essere suoi autentici discepoli, mostrando di amare come lui stesso ama: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli». E’ chiaro allora che la “carta d’identità” del cristiano non è solo il professare la fede in Cristo, ma è soprattutto il vivere in conformità al “comandamento nuovo” lasciato da Gesù: amarci vicendevolmente come lui ci ama. In ultimo, l’amare come Gesù ci ama diventa un comandamento “nuovo” anche nel senso che rende “nuovi” sia colui che ama sia colui che è amato, ringiovanendo il nostro cuore, così spesso appesantito e invecchiato dal peso dell’egoismo, dell’indifferenza e della paura dell’altro. VI domenica di Pasqua (Gv 14,23-29) Siamo abitazione di Dio «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». E’ interessante guardare il contesto in cui si inserisce questa ricchissima frase di Gesù. Essa è la risposta ad una domanda rivoltagli
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dall’apostolo Giuda (non l’Iscariota, ma l’altro): «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?» (Gv 14,22). Gesù, come spesso fa, non risponde direttamente al quesito, ma offre una risposta “indiretta” che stimola il suo interlocutore ad approfondire l’argomento in questione. Il senso della domanda di Giuda è questo: “Perché non ti sei manifestato a tutti con un segno eclatante e inequivocabile, così che ognuno possa credere senza ombra di dubbio che sei veramente Dio?”. La risposta di Gesù sposta la questione dal piano “universale” a quello “personale”. Il segno che lui offre all’uomo e alla donna di ogni tempo è quello del suo amore. Un segno che non è “irresistibile”, nel senso che non costringe nessuno ad accettarlo per forza. E’ un amore che si offre alla libertà di tutti e che perciò può essere accolto o rifiutato. Chi accoglie questo segno è invitato a mettere in pratica il “nuovo” comandamento di amare i fratelli come Gesù ci ama. Per questo il vero “amante” di Gesù è colui che non solo si lascia amare da lui, ma è disposto ad amare i fratelli, condividendo con loro l’amore ricevuto da Gesù. Così facendo succede una cosa davvero “incredibile”. Amando gli altri, osservando quindi il comandamento nuovo di Gesù, non solo dimostreremo di amare profondamente Gesù (dato che mettiamo in pratica la sua parola), ma contemporaneamente riceveremo il sigillo del Padre, quella firma di autenticazione che certifica il nostro essere “veri” figli di Dio. Questo perché, comunicando l’amore di Gesù al di fuori di noi, entriamo nel circuito dell’amore divino, del Padre che eternamente ama il Figlio nello Spirito Santo. In altre parole: soltanto quando amiamo qualcuno come Gesù ama noi, possiamo avere la sicurezza che nel nostro cuore abita Dio. E’ proprio la presenza dell’amore divino che ci spinge a comunicarlo agli altri, perché Dio da sempre fa così. La sua essenza più profonda infatti – il suo essere Amore – lo porta a comunicarsi al di fuori di sé, amando l’uomo, la sua creatura preferita. Per cui il comandamento “nuovo” di amare gli altri come Gesù ama noi non è solo un precetto “morale” (dobbiamo fare così perché l’ha detto Gesù), ma è il naturale sviluppo dell’aver accolto nel nostro cuore l’amore di Gesù. Quell’amore ci trasferisce automaticamente nel cuore della Trinità e, allo stesso tempo, fa dimorare la Trinità nel nostro cuore: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Gesù è alla ricerca di questi “amanti” della Trinità, di uomini e donne che con grande umiltà sono pronti a spalancare le porte dei loro cuori per far “entrare” il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Al contrario, i “non amanti” sono coloro che si chiudono all’amore divino, non essendo disposti ad amare i loro fratelli: «Chi non mi ama, non osserva le mie parole». Questi trovano mille scuse: quello mi è antipatico, quello me ne ha fatte troppe, di quello non mi fido, quell’altro non si merita la mia attenzione, etc. A noi la scelta tra l’essere degli “amanti” o dei “non amanti” di Gesù. Gli “amanti” avranno la pace e la gioia nel cuore, perché ameranno liberamente senza pretendere nulla dagli altri. Il loro sarà infatti un amore gratuito e senza condizioni. I “non amanti” invece saranno sempre con il pallottoliere in mano a chiedersi se e quanto dare di sé al prossimo di turno. Saranno sul chi va là, inquieti e preoccupati, timorosi degli altri e sempre pronti a pesare, pretendere e recriminare. E’ qui che si gioca la nostra felicità, nella nostra capacità di lasciarci plasmare e guidare dall’amore di Dio. Chi ama infatti è nella gioia, chi non ama, invece, è nella tristezza.
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Siamo invitati allora a diventare sempre più “abitazione” di Dio, così che Gesù quando vorrà comunicare il suo amore a qualcuno che ancora non lo conosce, potrà dare a quella persona il nostro indirizzo, dicendogli: “Io abito lì, nel cuore di …” (ognuno metta il suo nome). Conoscendo noi e sperimentando l’amore che Gesù ha deposto nel nostro cuore, quella persona, guidata dallo Spirito Santo, potrà entrare anch’essa in comunione con Gesù. Questi potrà finalmente andare a prendere dimora nel suo cuore, seguito a ruota dal Padre. Nel mondo ci sarà così un “amante” di Dio in più…
Solennità dell’Ascensione del Signore (Lc 24,46-53) In missione con lo Spirito Santo Dopo le varie apparizioni da risorto il vangelo di Luca si chiude con l’ascensione al cielo di Gesù. Prima di questo “evento”, che segna il definitivo allontanamento “fisico” di Gesù dal mondo, egli lascia ai discepoli la sua ultima catechesi con la quale li “investe” ufficialmente della missione di continuatori dell’attività evangelizzatrice da lui sostenuta nei tre anni di vita pubblica: «Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati […] di questo voi siete testimoni». Andiamo a vedere nel dettaglio le caratteristiche di questa missione dei discepoli. Per prima cosa dobbiamo dire che Gesù qualifica i suoi discepoli come “testimoni” (mártures). Non devono quindi scervellarsi per preparare dei discorsi particolarmente eloquenti in modo da convincere i loro uditori, ma sono chiamati semplicemente a “testimoniare” quello che hanno visto con i loro occhi e udito con le loro orecchie. E’ evidente che comunicare ciò che gli altri non hanno visto di persona (nel loro caso l’evento inaudito e incredibile della risurrezione di Gesù, il crocifisso), comporti una fortissima dose di “coraggio”. Sono mandati proprio come delle pecore in mezzo ai lupi, che sono pronti a prenderli in giro e, in alcuni casi, a reagire con violenza alle loro “folli” parole. Dopo l’accenno alla testimonianza, Gesù spiega quali siano i benefici della loro attività di “testimoni” del mistero della morte e risurrezione di Gesù, ossia quale sia l’offerta di bene proposta ad ogni uomo e donna che incontreranno nel loro cammino: la conversione e la remissione dei peccati. Conversione e remissione dei peccati esprimono in sintesi la salvezza portata da Gesù: la guarigione e la liberazione dal male. Non si tratta però di una liberazione “magica”, passiva, che coinvolge d’un colpo automaticamente l’intera umanità. Non si tratta infatti della liberazione dell’intero male presente nel mondo, ma del “tuo” male e del “tuo” peccato. E’ quindi un’offerta personale che chiama in causa la tua libertà e il tuo desiderio di una vita santa, vicina al bene e lontana dal male. E’ evidente allora che i discepoli potranno anche testimoniare con grande coraggio e convinzione la loro fede in Gesù risorto ma, se davanti a loro hanno delle persone che si ritengono “giuste” davanti a Dio, incapaci di ammettere i propri peccati (magari quelli
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degli altri sì) e le proprie connivenze con il male, l’offerta di salvezza cadrà inesorabilmente nel vuoto. Si intuisce allora che l’attività dei discepoli di Gesù, chiamati a testimoniare un fatto “incredibile” e ad invitare il prossimo a riconoscere i propri lati oscuri e ammettere le proprie malefatte, non risulti particolarmente facile e nemmeno così tanto gradita alle persone stesse alle quali sono inviati. E’ per questo motivo che l’ultima catechesi di Gesù ai suoi discepoli termina con un annuncio fondamentale: prima di partire devono armarsi di santa pazienza e attendere l’arrivo del loro nuovo “capo”, di colui che prenderà le redini della costruzione e dello sviluppo della comunità dei discepoli (la Chiesa). Senza lo Spirito Santo infatti non c’è missione, non c’è testimonianza, non c’è conversione, non c’è perdono dei peccati, non c’è comunità: «Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso, ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Senza il potente “rivestimento” interiore operato dallo Spirito Santo è meglio che te ne stai a casa tua, se no combinerai soltanto dei danni: invece di edificare la Chiesa, l’andrai a distruggere con le tue parole insipienti e con i tuoi comportamenti “carnali” (altro che “spirituali”). Fai invece come i discepoli che, pieni di gioia per aver ricevuto l’investitura missionaria da parte di Gesù, sono andati subito al tempio, riempiendo il tempo dell’attesa dell’invio dello Spirito Santo, lodando e benedicendo Dio, che ha scelto proprio loro per diventare “testimoni” del suo desiderio di salvare tutti gli uomini, liberandoli dal peccato, dal male e dalla morte. Per questa stupenda e importantissima missione oggi Gesù sceglie “te”! Sì, proprio te. Così come sei, con i tuoi limiti e le tue debolezze. Ti dice di non aver paura e di invocare costantemente la presenza e la potenza dello Spirito Santo: sarà lui infatti a suggerirti dove andare, chi incontrare, cosa dire e cosa fare. Prima di ascendere al cielo Gesù si congeda dai suoi discepoli benedicendoli: «Alzate le mani, li benedisse». Oggi questa santa benedizione scende su di te!
Solennità di Pentecoste (Gv 14,15-16.23b-26) Consolatore della mente e del cuore La discesa dello Spirito Santo rientra nel grande progetto di salvezza orchestrato dal Dio Uno e Trino a favore degli uomini. Dopo aver mandato il Figlio nel mondo per prendere su di sé la natura umana e liberarla dal peccato e dalla morte, a missione compiuta il Padre richiama il Figlio alla sua destra, lasciando spazio libero al terzo protagonista divino: lo Spirito Santo. Egli ha il compito di trasformare dall’interno il cuore degli uomini, rendendoli “divini” attraverso la pratica del comandamento dell’amore: lasciarsi amare da Dio e offrire tale amore agli altri uomini. In particolare, la missione dello Spirito Santo è composta di un duplice servizio: «vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». Per prima cosa lo Spirito Santo assume la funzione di un supporto di memoria. Nel momento in cui non troviamo più nella nostra memoria le parole ascoltate da Gesù
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(dimenticanza? cancellazione fortuita? voluta?), lo Spirito Santo interviene richiamandole alla mente, rendendole vive, chiare e pronte per l’uso. Da quest’azione si capisce l’unione presente tra le tre persone divine, poiché lo Spirito Santo non ha da creare nuove “parole” o nuove rivelazioni, tutto quello che serve per la nostra salvezza ce l’ha già insegnato Gesù. Egli, a sua volta, non si è presentato al mondo come un “creatore” di parole, dicendo con grande umiltà che le parole da lui comunicateci non sono sue, ma appartengono al Padre suo (è suo il copyright): «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato». Per cui, nei momenti in cui ci sentiamo persi e disorientati non attardiamoci a chiedere aiuto allo Spirito Santo, accedendo al suo servizio di memoria suppletiva, così da ravvivare la nostra mente, illuminandola con le sagge parole create dal Padre e pronunciate da Gesù. La seconda funzione dello Spirito Santo è quella di insegnare. Quale materia insegna lo Spirito Santo? Gesù ci dice che lo Spirito Santo è in grado di insegnarci “tutto”, qualunque cosa. E’ chiaro che qui non si intende che lo Spirito Santo è venuto ad insegnarci la fisica, l’astronomia, la chimica, la storia, etc. (anche se queste cose le conosce bene). L’obiettivo del suo insegnamento è accompagnarci a fare le giuste scelte di vita per essere dei veri discepoli di Gesù e degli autentici figli del Padre. Nello specifico, lo Spirito Santo ha il compito di far calare le parole di Gesù nel concreto delle nostre situazioni esistenziali. Perciò, il “tutto” al quale si riferisce Gesù sta a significare in “tutte” le situazioni della vita. E’ vero che Gesù, avendo vissuto duemila anni fa, non ha potuto offrire un insegnamento a 360°, contemplando tutte le situazioni possibili e immaginabili nelle quali si sarebbero trovati gli uomini di tutti i tempi e di tutte le culture. Di fronte alle diverse situazioni cangianti della storia umana lo Spirito Santo è costretto a tenersi continuamente aggiornato per offrire agli uomini la luce necessaria per operare un “discernimento”, ossia per leggere e interpretare quelle nuove situazioni secondo la visuale divina, nell’ottica del nostro cammino di salvezza e santificazione: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per potere discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). In quest’azione di attualizzazione ed inculturazione del messaggio di Gesù nella storia umana, lo Spirito Santo agisce appellandosi alla nostra coscienza, attraverso la mediazione del Magistero della Chiesa. Egli soffia invisibilmente, suggerendo la risposta divina alla nostra particolare situazione di domanda. Ma per afferrare la voce dello Spirito Santo è necessario avere un cuore umile e semplice, desideroso di cercare e compiere la santa volontà di Dio. Impariamo ad avere una relazione quotidiana con lo Spirito Santo, che delle tre persone della Santa Trinità, è certamente quella più vicina a noi. Con il Battesimo infatti lo Spirito Santo si è “impastato” con la nostra natura umana. Egli è esterno a noi, ma è anche interno a noi. Il Paràclito, così come lo chiama Gesù, è sempre pronto ad offrirci la sua “consolazione”, che non è solo una dolce “carezza” al cuore, ma è anche una precisa parola divina capace di illuminare qualunque situazione stiamo vivendo. Egli è perciò il “consolatore” eterno della mente e del cuore.
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Solennità della Santissima Trinità (Gv 16,12-15) Un Dio dalle braccia aperte «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso». Credo che una di queste cose “difficili” da comprendere e da prendere su di sé, alle quali Gesù si riferisce, sia il mistero dell’identità di Dio. La grande novità della rivelazione cristiana sta proprio nella modalità con la quale si parla di Dio. Un solo Dio che ha però un volto ben preciso: è il mistero del Dio Uno e Trino, Padre e Figlio e Spirito Santo, che oggi la Chiesa solennemente festeggia. Se Gesù avesse “brutalmente” detto ai suoi discepoli che Dio è sì uno, ma allo stesso tempo “tripersonale”, questi sarebbero andati subito in “tilt”! Ci sono voluti infatti alcuni secoli di profonde riflessioni e di duri scontri “teologici” (vedi la convocazione di diversi concili) per arrivare ad “afferrare” l’identità profonda del Dio rivelatoci da Gesù. Pensate che l’invenzione del termine “Trinità” (Trinitas in latino) si deve a Tertulliano, che lo coniò nel 220 d.C.! Sono le parole di Gesù, riportate nel Vangelo di Giovanni, il punto di partenza per accedere al mistero dell’identità del Dio Uno e Trino, cominciando dalla relazione Padre-Figlio: «Tutto quello che il Padre possiede è mio». Questa frase è fondamentale per capire il mistero della Trinità. Gesù afferma candidamente che tutto quello che il Padre ha è stato messo nelle sue mani, per cui tutto quello che appartiene al Padre, appartiene contemporaneamente anche al Figlio: tutto è in comune, in “comproprietà”. Secondo passaggio, riguardante la relazione Figlio-Spirito Santo: «Egli mi glorificherà, perché prenderà quel che è mio e ve l’annuncerà». Quello che il Figlio ha in comproprietà con il Padre si scopre che è offerto in comproprietà anche ad un terzo soggetto: lo Spirito Santo. Ecco svelato il mistero: Padre, Figlio e Spirito Santo hanno in comune tra loro l’essenza divina. Per questo motivo il Figlio dirà che le parole da lui annunciate non sono sue, ma sono del Padre che l’ha inviato e, allo stesso modo, lo Spirito Santo «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito (dal Figlio)». Svelato il “segreto” del Dio Uno e Trino (la sua comune proprietà divina), occupiamoci ora di una seconda caratteristica che ci riguarda da vicino. Questa comune proprietà divina non rimane ad esclusivo “uso e consumo” del Dio tripersonale, ma viene offerta al di fuori di sé, come “regalo” agli uomini. In effetti, il cuore della rivelazione di Gesù è proprio il dono della vita divina, la possibilità di entrare in relazione d’amicizia con il Dio Uno e Trino. Infatti, nella sua preghiera d’intercessione al Padre prima della passione, Gesù chiede una sola cosa al Padre, che i discepoli possano entrare in comunione con il Dio Uno e Trino: «perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21). Qual è il grande sogno del Dio Uno e Trino? Che tutti gli uomini aprano i loro cuori per accogliere la grazia divina ed entrare in comunione perfetta con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e tra di loro. Il fatto che il Padre doni liberamente e gratuitamente tutto se stesso al Figlio e lo stesso faccia il Figlio nei confronti dello Spirito Santo mostra l’identità profonda del Dio Uno e Trino: un mistero di puro eterno amore. Non c’è in lui alcuna ombra di
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potere, pretesa, calcolo, paura, sfiducia, egoismo, orgoglio, superbia, invidia o gelosia. Tutto è comunione, fiducia, libertà e dono. Guardando all’identità del Dio Uno e Trino troviamo un preciso modello di comportamento e di stile di vita da abbracciare e imitare. E’ un dire sì al comandamento dell’amore, alla logica dell’accoglienza dell’altro per quello che è e al dono libero e gratuito di se stessi. Contemporaneamente è anche un dire di no alla logica dello sfruttamento egoista delle risorse dell’altro (fisiche, affettive, economiche…), per renderlo dipendente da noi, usandolo per soddisfare i nostri desideri. Ecco allora che la solennità della Santissima Trinità non è un qualcosa d’incomprensibile e di lontano dal nostro vissuto. E’ il contemplare la bellezza del volto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo che, stretti in un libero e gioioso abbraccio, godono della piena comunione presente tra loro. Ma, se guardiamo bene, quell’abbraccio non è chiuso. C’è infatti uno spazio aperto, che aspetta di essere occupato da ciascuno di noi. Ascolta la voce dello Spirito Santo che sussurra al cuore: “Vieni, lasciati abbracciare dalla Santa Trinità…”.
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Lc 9,11b-17) Una presenza che sazia Nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue del Signore Gesù la liturgia di quest’anno ci propone il Vangelo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Migliaia di persone si sono messe in marcia per incontrare Gesù, per ascoltare la sua parola e chiedere guarigione. Il luogo è deserto, nel senso che ci si trova in aperta campagna, lontano da centri abitati. Sta per sopraggiungere la sera e la gente, ancora a digiuno, cominciare a patire i morsi della fame. I discepoli di Gesù, rendendosi conto della situazione d’indigenza e di bisogno, si sentono in dovere di richiamare il loro Maestro alla sua responsabilità. Sì, perché quella gente è lì per lui, per cui se non hanno la possibilità di trovarsi qualcosa da mangiare è anche indirettamente “colpa” sua. Gesù prende sul serio la preoccupazione dei suoi discepoli e il richiamo che gli viene fatto, invitandoli però a non fare da “scaricabarile” con lui, ma a compiere un accurato esame di coscienza per vedere se loro stessi, con le risorse a loro disposizione, non siano in grado di sovvenire alle necessità della gente: «Voi stessi date loro da mangiare». I discepoli si mettono subito in azione e si rendono conto di avere a disposizione cinque pani e due pesci, a fronte di cinquemila uomini affamati (senza contare le donne e i bambini). La matematica non è un’opinione, perciò quei cinque pani e due pesci messi sulla bilancia del bisogno di tutta quella moltitudine sono poco più di niente. Stimolati da Gesù, i discepoli il passo l’hanno fatto. Si sono messi in movimento, sono pronti a mettere a disposizione quello che hanno, condividendolo con chi ha bisogno. Ma questo ai loro occhi risulta essere sufficiente, offrendosi per andare a fare loro la spesa per tutti. Gesù può ritenersi soddisfatto, perché i suoi discepoli si sono attivati con tutte le loro
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risorse: affettive, intellettive e volitive. Questo per lui è sufficiente. Questa è infatti la parte che l’uomo è chiamato a fare: aprirsi ai bisogni del suo prossimo, mettendogli a disposizione le proprie risorse di cuore, intelligenza e volontà. Anche se tutto ciò appare largamente insufficiente a sopperire al bisogno che si ha davanti agli occhi, non si deve disperare, perché dopo aver fatto la nostra parte, arriva il più bello: la parte di Dio. Gesù prende nelle sue mani il poco che gli viene messo a disposizione, ringrazia il Padre di tali doni, li benedice e li spezza per tutta quella gente affamata. Avviene il “miracolo”: «Tutti mangiarono a sazietà». Non solo, ma il pane e il pesce sono così sovrabbondanti che avanzeranno a iosa: «furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste». Che cosa ha da dire questo brano nella solennità odierna? Che quel cibo così sovrabbondante, capace di saziare tutti, è Gesù stesso: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). Non c’è fame o deserto che tengano. Gesù è il cibo spirituale capace di saziare tutti i nostri desideri più profondi: di bene, di amore, di pace, di letizia, di verità, di eternità. La sua presenza “nutriente” e “soddisfacente” è sempre a nostra disposizione, qualunque momento di “deserto” stiamo vivendo. Entrando in qualunque chiesa, Gesù è lì, pronto ad accoglierci, in quel segno “vitale” del pane consacrato. Partecipando a qualunque Messa, Gesù si rende presente in quel piccolo pezzo di pane, pronto a diventare il nutrimento della nostra anima. E tutto questo si realizza nella collaborazione umana. Per “saziare” la gente Gesù ha avuto bisogno della collaborazione dei discepoli, che gli hanno presentato i cinque pani e i due pesci e poi hanno distribuito il pane e il pesce super abbondante a tutti presenti. Allo stesso modo, per diventare nostro nutrimento spirituale, Gesù ha bisogno di collaborazione: qualcuno che faccia il pane e il vino, che glieli metta a disposizione nella Messa e che “agisca” al suo posto, dicendo le sue parole e compiendo i suoi gesti. E’ bello allora guardare il sacramento del Santissimo Corpo e Sangue di Gesù nell’ottica della collaborazione Dio/uomo: l’uomo fa la sua parte fornendo a Dio il materiale necessario e prestando la sua opera strumentale agendo al suo posto, così che Gesù possa compiere il “miracolo”, trasformando quel pane e quel vino “umani” in cibo e bevanda spirituale, i soli alimenti capaci di “saziare” il cuore degli uomini. Per essere sempre presente tra noi, Gesù ha bisogno di noi!
X domenica del Tempo Ordinario (Lc 7,11-17) La vita vince la morte Due cortei s’incrociano alle porte della città di Nain. Da una parte il corteo “gioioso” formato da Gesù, i suoi discepoli e una grande folla, testimoni dei tanti miracoli operati dal grande profeta di Nazaret, ultimo dei quali la guarigione del servo di un centurione (cfr. Lc 7,1-10). Dall’altra parte c’è invece un corteo “triste” formato dalla gente del
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paese riunita per accompagnare alla sepoltura il giovane figlio di una povera vedova. Davanti alle porte di Nain si incrociano la “morte” che esce dalla città e la “vita” che sta per entrarvi... Appena Gesù posa il suo sguardo sulla vedova che piange disperatamente, avverte nel cuore un sentimento di profonda commozione e compassione per lei. Quella donna si trova infatti in una situazione davvero insostenibile. Già aveva dovuto sostenere il lutto della morte del marito e ora anche quello dell’unico figlio che aveva. No, non è possibile tanta sofferenza. E’ davvero troppo! Il cuore di Gesù prende su di sé il peso di quell’enorme dolore, muovendolo ad intervenire. Il verbo usato dall’evangelista per esprimere lo stato d’animo di Gesù è il famoso splanchnízomai, che fa riferimento all’amore viscerale materno. E’ lo stesso verbo utilizzato dall’evangelista per esprimere il sentimento del padre misericordioso che vede tornare a casa il figlio minore e del samaritano che incontra per strada il povero disgraziato mezzo morto. E’ un verbo che traduce un sentimento “viscerale” che nasce dal profondo del cuore quando ci si lascia toccare dal dolore altrui. Un sentimento che spinge alla condivisione e al desiderio di fare qualcosa per alleviare la sofferenza dell'altro e, se possibile, estinguerla del tutto. E’ quello infatti che farà Gesù. Egli si avvicina alla donna annunciandole la buona novella della prossimità salvifica di Dio: «Non piangere!». E’ come se le dicesse: “Sorella, tu non lo sai, ma «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). Il Padre mi ha dato le chiavi degli inferi, tra breve infatti la morte sarà sconfitta per sempre, perché io risorgerò da essa”. A differenza del miracolo precedente, dove il centurione si muove mandando dei messaggeri per chiedere l’intervento di Gesù a favore del suo servo gravemente malato, in questo caso è Gesù che si muove. Questo perché quella donna molto probabilmente non conosce Gesù e poi non crede nemmeno che possa esistere qualcuno capace di ridare la vita al proprio figlio morto. Ella è priva di ogni speranza. Per cui Gesù, capendo la sua situazione, compie lui il primo passo verso di lei. Per dimostrare il suo potere sulla morte egli tocca la bara con la mano, come segno di condivisione piena della realtà umana con la quale vuole entrare in contatto (in questo caso la morte, in altri casi la lebbra, la cecità…). Poi pronuncia le “potenti” parole capaci di liberare il figlio della vedova dai lacci della morte: «Ragazzo, dico a te, alzati!». Faccio notare che il verbo egéirō viene utilizzato nei Vangeli per tradurre l’evento della risurrezione di Gesù (cfr. Lc 9,22). Esso infatti può essere tradotto, oltre che con alzarsi, con svegliarsi o risorgere. E’ chiaro allora come il grande miracolo di risvegliare dal sonno della morte il figlio della vedova diviene segno del meraviglioso evento della risurrezione di Gesù, nonché della risurrezione finale alla quale sono destinati tutti gli uomini. Qual è il messaggio che in questa domenica Gesù vuole comunicarci? Egli ci invita a “smettere di piangere”. Di fronte alle sofferenze e ai dolori della vita Gesù ci esorta a non perdere mai la speranza, qualunque cosa accada, promettendoci che, com’è venuto a “visitare” la povera vedova, verrà a visitare anche noi, attualizzando la profezia del profeta Geremia: «Cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni» (Ger 31,13). Una santa visita che, sebbene non sempre si tradurrà nella “restituzione” automatica di quello che abbiamo perduto (salute, affetti, persone care), produrrà sempre una
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profonda “consolazione” interiore che donerà serenità e pace al nostro cuore. Così avremmo la forza per andare avanti con fiducia, malgrado il “lutto” sperimentato, certi che il Signore non e mai indifferente a quello che proviamo. Se poi, a motivo del forte dolore vissuto, non avremo più la speranza per recarci da lui, sarà lui a venire incontro a noi, come fece quel giorno alle porte della città di Nain, per trasformare il nostro pianto in gioia.
XI domenica del Tempo Ordinario (Lc 7,36-8,3) Una lezione d’amore Che lezione dona questa “peccatrice” a Simone, il fariseo! Ella, ovviamente, è inconsapevole del fatto che il suo comportamento nei confronti di Gesù sarebbe diventato un modello d’agire cristiano. Lei sa soltanto che ha tanto peccato nella sua vita e vuole liberarsi dal peso di tutto quel passato d’ombra. Probabilmente avrà visto un giorno Gesù e ascoltato le sue parole di speranza e misericordia. Si informa timidamente su dove possa incontrare il profeta venuto da Nazaret. Gli dicono che si trova a mangiare in casa di un fariseo di nome Simone. “Che cosa faccio?” Si chiede la donna. “Vado o non vado? Come faccio io, una peccatrice pubblica, a varcare la soglia di casa di un fariseo? Ho paura che mi cacci via, insultandomi!”. La donna non si lascia vincere dal timore e con grande umiltà e dignità, facendo il possibile per non farsi notare dagli invitati, si avvicina a Gesù, coricato su un fianco per mangiare, e, prendendolo alle spalle, si butta sui suoi piedi, scoppiando in lacrime! Lei, ancora non lo sa, ma sta cominciando a vivere una delle beatitudini annunciate da Gesù: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati» (Mt 5,4). Quelle sono delle lacrime benedette, che sgorgano da un cuore pentito e umiliato: sono lacrime di dispiacere, ma anche di liberazione e speranza. Ella infatti non sta piangendo da sola, chiusa nella sua stanza, ma sta piangendo davanti a Gesù, gettata ai suoi piedi, completamente incurante del giudizio degli altri invitati. Che donna! Ma siamo solo all’inizio. Ora che si è “sfogata”, lasciando sui piedi di Gesù i suoi tanti peccati, si sente già libera, per cui può cominciare con tranquillità a rimediare al danno fatto (ha bagnato i piedi di Gesù), asciugandoli con i suoi lunghi capelli. La donna sta iniziando a manifestare pubblicamente il suo amore per Gesù. Ma non si ferma a questo. Dopo avere asciugato con estrema cura i suoi piedi, comincia a riempirli di baci! Che bella scena: la donna ama Gesù e Gesù si lascia amare da lei. Amore autentico, puro e profondo! Manca però ancora il tocco finale. I piedi di Gesù ora vengono cosparsi da un profumatissimo unguento. Gesto con il quale la donna “confessa” silenziosa la sua fede nella provenienza divina di Gesù: tu sei il mio Dio! Alla fine di questa “santa” messa in scena Gesù pone il suo suggello divino sentenziando con grande gioia la “risurrezione” spirituale che Dio dona alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». Stupendo!
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Gesù dona il perdono alla donna senza che la donna le abbia detto una sola parola. Quando si ama veramente e intensamente le parole sono davvero superflue! Ma, sebbene Gesù si trovi in piena sintonia con la donna, la stessa cosa non si può dire dei presenti, in particolare del padrone di casa, Simone, che era un fariseo. Egli è sorpreso e scandalizzato del fatto che Gesù si lasci ripetutamente toccare in pubblico da quella donna in maniera così esplicitamente “erotica”. Non solo, quella non è una donna come le altre, è una peccatrice, probabilmente un’adultera o una prostituta. Gesù non solo si lascia amare dalla donna, ma prende spunto dal suo amore per dare una santa lezione a Simone e a tutti quelli che la pensano come lui. “Tu che parli tanto: quanto mi hai amato da quando sono entrato in casa tua? Tu non mi hai dato l’acqua per lavarmi i piedi, non mi hai salutato con un bacio, non hai unto il mio capo con dell’olio, come segno d’onore… Guarda che davanti a Dio è l’amore che conta e l’amore ha il potere di cancellare tutti i peccati commessi: non ti ricordi cosa dice il libro dei Proverbi? «l’amore ricopre ogni colpa» (Pr 10,12). La Legge osservata senza amore ti fa forse apparire santo fra la gente, ma non ti rende santo davanti a Dio! Perché ti stupisce il fatto che io mi sono lasciato amare da quella donna, accettando, senza discutere, le sue modalità? Perché io ho visto che i suoi gesti partivano dal suo cuore, da un cuore umile, pentito e desideroso di riconciliarsi con Dio, con la verità e la bontà. Queste sono le condizioni per ricevere il perdono divino!”. “Simone”, continua Gesù, “io ti ringrazio per avermi invitato a pranzo a casa tua, ma dovresti ringraziare di più questa donna, che tu non avresti mai invitato perché giudicata incapace di insegnarti qualcosa di buono per la vita. Invece, ti sei sbagliato di grosso, lei ti ha dato una grande lezione di vita. Ti ha insegnato infatti la cosa più importante: come si fa ad amare Dio…
XII domenica del Tempo Ordinario (Lc 9,18-24) I “colori” del Messia E’ importante ogni tanto fermarsi per fare il punto della situazione. A questa necessità della vita non si sottrae nemmeno Gesù che, dopo un lungo momento di preghiera in solitudine, esce allo scoperto per chiedere ai suoi discepoli quale idea si sia fatta la gente della sua persona: «Le folle, che dicono che io sia?». Chi sono queste folle? Sono migliaia di persone che hanno ascoltato le sante parole di Gesù e, soprattutto, l’hanno visto compiere tanti segni miracolosi. La gente però, avendolo visto solo qualche volta, non può che dare una risposta superficiale e approssimativa sulla sua identità. Non riescono infatti a leggere la figura di Gesù se non rinnovando uno schema “passato”: è certamente uno degli antichi profeti che è tornato in vita. E i discepoli, che da tempo condividono con Gesù la sua stessa vita, sono in grado di dire qualcosa di più preciso? Pietro afferma che Gesù è «Il Cristo di Dio», il Messia (tradotto in greco Christós) atteso da Israele. Il problema è che la figura di Messia immaginata da Pietro e dagli altri non
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corrisponde affatto ai comportamenti che adotterà Gesù per liberare gli uomini dal peccato e dalla morte. Proprio per evitare questo possibile equivoco, Gesù “ordina” a Pietro di non andare in giro a dire che egli è il Messia. Anzi, coglie l’occasione per comunicare a lui e agli altri discepoli quale sarà il destino che il Messa dovrà presto affrontare: «Il figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». In altre parole, Gesù svela i “colori” delle vesti di Messia che egli indosserà a Gerusalemme: il rosso della sofferenza, il viola del rifiuto, il nero della morte, prima di arrivare al bianco della risurrezione. Poi continua, rivolgendosi a tutti coloro, presenti e futuri, che vorranno diventare suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua». E’ come se dicesse: “Chi vuole diventare mio discepolo deve indossare i miei stessi panni di Messia: color rosso sangue, viola rifiuto, nero morte e bianco risurrezione”. Questo variopinto abbigliamento messianico significa, in pratica, fare due cose: rinnegare se stessi e portare la propria croce al seguito di Gesù. Che cosa vuol dire Gesù con l’espressione “rinnegare se stessi”? Rinnegare significa letteralmente “dire no”. Allora “dire no a se stessi” significa far finta di non conoscersi, di non essere quello che siamo in realtà? No, vuol dire “mettersi in discussione”, o meglio essere disposti a lasciarsi mettere in discussione da Dio. Significa entrare in quella logica apparentemente strana e misteriosa di Gesù che dice: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Perdere la propria vita per Gesù è infatti la diretta conseguenza del rinnegare se stessi. Rinnegare se stessi significa dire “no” alla pretesa di voler vivere senza un vero e profondo legame con Gesù, chiusi nei propri schemi mentali e affettivi, che ci fanno vivere al minimo, spesso sulla difensiva, in continua tensione con noi stessi e con gli altri (a volte anche con Dio) per paura di perdere il “controllo” sulla nostra vita. Il contrario di rinnegare se stessi è infatti dire sempre “sì” al nostro io, facendo ruotare gli altri (Dio compreso) attorno a noi: “Tutto ruota intorno a me e in funzione di me, non importa il come, il dove il se…”. Questo processo di “decentramento”, una vera e propria rivoluzione copernicana esistenzial-spirituale, comporta il processo di morire a se stessi, per dare la nostra vita all’Altro e agli altri. Processo che si sviluppa indossando progressivamente i colori dell’abito messianico di Gesù: si comincia dal rosso della sofferenza per amore, per proseguire con il viola del rifiuto del nostro amore e il nero della morte del nostro io, per giungere poi al bianco della risurrezione, il colore della gioia di avere donato amore e vita agli altri. E’ questo processo di morte-risurrezione al quale allude Gesù con l’espressione “portare la propria croce” e seguirlo. Gesù infatti ha portato sul Calvario il peso del dolore, del rifiuto e della morte, per poi aprirsi al “miracolo” della risurrezione. Si tratta perciò di un soffrire per amore, di un perdere per ritrovare, di un morire per rivivere nella gioia dell’eternità.
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XIII domenica del Tempo Ordinario (Lc 9,51-62) Gesù fa il duro L’evangelista Luca è l’unico che dà grande rilevanza al mistero dell’ascensione di Gesù al cielo, ponendolo alla fine del suo Vangelo e all’inizio del libro degli Atti degli Apostoli. All’inizio del brano di Vangelo di questa domenica Luca ci tiene a sottolineare che l’evento dell’Ascensione è ben presente nella mente di Gesù, tanto da apparire come il fine ultimo della sua missione terrena: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». E’ interessante notare che quando Gesù parla ai discepoli di quello che gli accadrà a Gerusalemme (lo farà per ben tre volte), pone l’accento sul suo destino di sofferenza e morte, mentre quando egli pensa tra sé a tutti gli eventi che vivrà nella città santa, si ferma su quello dell’ascensione al cielo. Il messaggio mi sembra chiaro: Gesù sa benissimo che la passione e la morte che subirà sono solo un doloroso passaggio, architettato e voluto dagli uomini, mentre nel piano di Dio brilla l’evento meraviglioso della risurrezione e dell’ascensione al cielo nella gloria. Perciò, consapevole della drammaticità della passione che prossimamente affronterà, Gesù si prepara ad affrontarla a testa alta, sapendo che essa è il mezzo per liberare gli uomini dal peccato e dalla morte e aprire loro le vie del cielo. Alza allora lo sguardo in direzione di Gerusalemme e dice tra sé: “Eccomi, sono pronto! Per questo sono venuto! Forza e coraggio, affrontiamo con forza e decisione la dura battaglia che mi aspetta, certo della vittoria finale!”. La traduzione italiana «prese la ferma decisione», nella sua formazione letteraria greca suona così: “rese dura la faccia”. E’ davvero curiosa e interessante quest’immagine di Gesù che “rende dura la sua faccia”. Essa non significa “fare il broncio”, ma raccogliere e concentrare tutte le proprie energie fisiche, psichiche e spirituali verso un determinato scopo. In altre parole, possiamo dire che Gesù assume l’atteggiamento di un vero e proprio “duro”: fermo, forte e deciso. Ma Gesù è un duro “buono”. Egli infatti rigetta l’arma della violenza, anche per difendersi. A differenza dei suoi discepoli che, dopo avere incassato il netto rifiuto da parte di alcuni samaritani che non volevano accogliere Gesù nelle loro terre, visto che era diretto in pellegrinaggio a Gerusalemme (quella che per loro non era la vera città santa), vorrebbero subito vendicare l’affronto subìto, chiedendo la collaborazione divina: «vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Gesù non appena li sente si volta e li rimprovera duramente con lo sguardo e la parola. Ma il cammino del “duro-buono” Gesù verso Gerusalemme continua. Lungo la via incontra alcuni che vogliono unirsi a lui per condividere lo stesso viaggio. Il primo sembra quasi un “innamorato” (o forse più un “esaltato”?) dichiarando di essere disposto a seguirlo “dovunque” egli vada. Non sappiamo se effettivamente poi lo seguirà, sta di fatto che Gesù gli spiega bene che in questo viaggio l’unica cosa certa e sicura è la meta (Gerusalemme), per il resto egli è un “senza fissa dimora”, privo di protezione, più indifeso degli animali (quelli almeno una tana ce l’hanno).
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Altri due vengono chiamati esplicitamente da Gesù a seguirlo nel suo viaggio a Gerusalemme, ma entrambi, seppure apparentemente bene intenzionati, gli pongono una “condizione” legata ai loro impegni familiari che, di fatto, non li rende pronti ad iniziare il viaggio. Quante volte anche noi di fronte a delle ispirazioni/chiamate che provengono chiaramente da Gesù e che ci invitano a fare delle precise scelte di vita volte a definire in maniera sempre più forte e autentica la nostra identità di discepoli di Gesù, facciamo finta di non aver capito, continuando come se niente fosse, ripromettendoci magari in futuro (in una data consapevolmente non precisata) di ripensare alla cosa ed, eventualmente, prendere la decisione. Da una parte allora c’è Gesù che fa il “duro”, tutto proteso ad affrontare con decisione l’ultimo viaggio della sua vita, quello più importante per lui e soprattutto per noi. Dall’altra parte ci siamo noi che invece spesso facciamo i “molli”, procrastinando a data da destinarsi quello che sappiamo che possiamo e dovremmo fare oggi per noi e per lui...
XIV domenica del Tempo Ordinario (Lc 10,1-12.17-20) Rappresentanti del Vangelo L’evangelista Luca è l’unico che riporta, dopo quello dei dodici, un secondo invio di discepoli in missione. Questa volta i prescelti sono ben 72 (dodici per sei). Perché questo secondo invio? Perché Gesù si è reso conto che i dodici non bastano, poiché: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai». Allora invita altri discepoli a rendersi disponibili all’esigenza dell’annuncio del regno dei cieli, esortandoli a pregare Dio affinché mandi altri numerosi “operai” nella sua abbondante messe. Questi si mettono effettivamente a pregare, e cosa succede? Scherzi di Dio: la preghiera viene subito esaudita. Come? Chiamando alla missione proprio quelli che hanno pregato! Questo episodio contiene un insegnamento prezioso: non basta pregare e poi aspettare l’intervento di Dio, restando tranquilli in poltrona. Bisogna pregare e stare pronti in prima linea, disponibili a collaborare noi per primi per risolvere la questione sottoposta a Dio nella preghiera. Anche perché Dio, normalmente, interviene attraverso la collaborazione degli uomini. Vediamo ora le caratteristiche della missione alla quale i settantadue discepoli sono chiamati, proponendo un “simpatico” parallelo con il mestiere del “rappresentante”. Sia il rappresentante, sia discepoli non agiscono per conto proprio, ma sono mandati da qualcun altro con l’incarico di presentare e offrire un “nuovo” prodotto, concepito per risolvere qualche problema di vita quotidiana o per renderla comunque migliore. A differenza però del rappresentante che normalmente si presenta da solo (sono in due solo quando il secondo è nuovo e deve apprendere il mestiere), i discepoli vanno sempre in coppia. Se il rappresentante poi si presenta vestito bene, i discepoli invece si
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presentano come dei poveri (senza borsa, sacco e sandali). Se il rappresentante ha sostenuto dei corsi di formazione per la vendita del prodotto, i discepoli, al contrario, non hanno fatto nessun corso di preparazione specifica alla “missione”, ma vengono mandati allo sbaraglio, «come agnelli in mezzo ai lupi». Se il rappresentante è chiamato a convincere all’acquisto del prodotto attraverso la sua abilità retorica, i discepoli non hanno da fare lunghi discorsi, avendo solo una breve frase da annunciare: «E’ vicino a voi il regno di Dio». Se il rappresentante è chiamato ad “insistere” nel promuovere il suo prodotto, lo stesso non si può dire dei discepoli che, se non sono accolti, tranquillamente se ne vanno via. Prima del congedo però sono chiamati a rimarcare “pubblicamente” il rifiuto della benevolenza divina, attraverso il gesto dello scuotimento della polvere del luogo che non li ha accolti, a testimoniare la piena assunzione di responsabilità del rifiuto opposto dalla gente. L’ultimo atto sarà però il ribadire comunque la bellezza dell’annuncio di cui sono portatori: «Sappiate però che il regno di Dio è vicino». Come a dire: “Guardate che se cambiate idea, la proposta è sempre valida”. Un po’ come i rappresentanti che se rifiuti il loro prodotto ti fanno rimarcare che sei tu che ci perdi, lasciandoci comunque un depliant e il loro biglietto da visita nel caso di un ripensamento. Ma se il rappresentante ha un prodotto da vendere che più di tanto non andrà a cambiare il senso e la qualità spirituale della nostra vita, lo stesso non si può dire dell’annuncio portato dai discepoli. Essi sono infatti chiamati a preparare il cuore della gente all’accoglienza della persona di Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo per la salvezza degli uomini. Gesù li invia infatti «davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi». Noi sappiamo che non c’è luogo dove Gesù non voglia recarsi, per cui la missione è “ovunque”. Inoltre il numero di settantadue discepoli è simbolo della moltitudine dei discepoli che Gesù invia in ogni tempo ad annunciare la sua vicinanza “effettiva” ed “affettiva” ad ogni uomo. Questo per dire che la missione dei settantadue discepoli è la nostra stessa missione. In quel primitivo gruppo di evangelizzatori risplende il volto di ciascuno di noi... Da rimarcare infine il ritorno dei settantadue dalla missione: «tornarono pieni di gioia». La loro missione, pur nelle difficoltà e nei rifiuti incontrati, si è rivelata un “successo”. Essi hanno infatti sperimentato che la potenza di Dio, conferita loro da Gesù, ha agito prodigiosamente attraverso le loro semplici e povere persone, portando tra la gente incontrata tanti frutti di guarigione e salvezza. Bene, adesso tocca a noi. Passano i tempi, ma la costatazione che “la messe è abbondante e gli operai restano pochi” rimane sempre attuale. Allora “armiamoci e partiamo”! XV domenica del Tempo Ordinario (Lc 10,25-37) Diventare prossimi «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la
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tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Se è facile identificare il primo soggetto da amare (Dio), risulta un po’ più complicato delineare con precisione il volto del secondo soggetto da amare (il prossimo): «E chi è il mio prossimo?». La domanda che il dottore della Legge pone a Gesù non è per niente fuori luogo. Infatti, nella cultura ebraica, tradizionalmente, il prossimo poteva assumere diversi volti: innanzitutto quello dei propri familiari, poi quello degli appartenenti alla propria tribù (Beniamino, Manasse, Levi, etc.) e alla propria nazione (Israele) e, infine, quello del forestiero che abitava presso di loro. Alla categoria di “prossimi” non appartenevano di diritto gli empi, i pagani e i samaritani. Per rispondere al quesito sull’identità del prossimo Gesù racconta la famosa parabola del “buon” samaritano. Questi, imbattendosi per caso (era in viaggio) in una persona mezza morta giacente sul ciglio della strada, si lascia coinvolgere affettivamente dalla sua condizione di estremo bisogno: «ne ebbe compassione». Fermiamoci un attimo su questo “avere compassione”. Il verbo greco utilizzato dall’evangelista Luca fa riferimento all’amore viscerale materno, un sentimento particolarmente forte che ti spinge a dare tutta la tua vita per amore del figlio amato. Si tratta perciò di un sentimento che parte dal profondo del cuore e che spinge a dare la propria vita agli altri. In effetti, la formula “amare il prossimo come se stessi” non significa altro che prendersi cura dell’altro come ti prendi cura di te, di amare la sua vita come ami la tua, niente di meno. Questo “avere compassione” si presenta perciò come un amore che non conosce limiti. Infatti, il samaritano, dopo aver prestato al malcapitato le cure del “primo” soccorso (cura e fascia le ferite con olio e alcool), non lo lascia per strada, ma lo fa salire sul suo cavallo per portarlo in una locanda dove qualcuno possa continuare ad occuparsi di lui con il suo stesso amore (il samaritano infatti era in viaggio). E’ da contemplare la bellissima immagine del samaritano che cammina a piedi portando il suo cavallo con sopra il “prossimo” incontrato per strada. Segno eloquente dell’averlo messo al suo posto, amandolo come se stesso. Giunti alla locanda il samaritano paga l’albergatore affinché possa continuare ad amare il “prossimo” come se stesso, al posto suo. Sì, perché il samaritano ha promesso che alla fine del viaggio tornerà a controllare che il suo “prossimo” si sia pienamente ristabilito. Questo vuol dire “amare il prossimo come se stessi”! Fornirgli la stessa attenzione e la stessa cura che auspicheremmo per noi stessi se ci trovassimo a vivere una situazione simile: «E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fatelo a loro» (Lc 6,31). Terminato il racconto della parabola, Gesù ribalta la frittata. Se il dottore della Legge aveva chiesto lumi per chiarire l’identità del prossimo da amare, Gesù risponde mostrando l’identità del prossimo chiamato ad amare: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». La questione perciò non è comprendere quali siano i prossimi da amare, distinguendoli eventualmente da quelli che invece si è esentati da amare, come credeva il dottore della Legge, ma è diventare noi stessi “prossimi” di chiunque incontriamo per strada ed è nel bisogno, senza distinzione di condizione, razza, religione. Il problema è “farci” noi prossimi, “vicini”, solidali con gli altri. Questo lo capisce bene anche il dottore della Legge che risponde esattamente alla domanda di Gesù su chi si sia comportato da prossimo nei confronti del malcapitato:
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«Chi ha avuto compassione di lui». Il dottore della Legge dimostra di essere una persona intelligente, che ha capito il messaggio profondo della parabola, ma questo non basta per “ereditare la vita eterna”, questione iniziale che aveva posto a Gesù. Bisogna passare all’azione, Gesù infatti gli dirà: «Va’ e anche tu fa’ così». E noi? Quanto siamo “prossimi” degli altri? Quanto li amiamo come noi stessi? Il farsi prossimi e amare il prossimo come se stessi, come ha mostrato la parabola del “buon” samaritano, non è una questione “razionale”, ma una questione “affettiva” (di cuore), un lasciarsi coinvolgere dalle sofferenze altrui, sentendole come proprie.
XVI domenica del Tempo Ordinario (Lc 10,38-42) Maria sì, Marta no Le figure di Marta e Maria sono tradizionalmente diventate simbolo delle due dimensioni della vita religiosa: la vita attiva (Marta) e quella contemplativa (Maria). Come mai? Perché, essendoci nella Chiesa alcune donne che si consacravano a Dio offrendo principalmente un servizio di tipo “materiale” (assistenza ai malati, ai poveri, alle varie necessità ecclesiali) e altre che si dedicavano soprattutto alla vita di preghiera (abbracciavano la vita monastica), qualcuno ha riletto il brano odierno credendo di aver trovato una conferma evangelica di queste due realtà ecclesiali nelle figure delle due sorelle Marta e Maria. In realtà il messaggio del Vangelo è diverso: tutti i cristiani sono chiamati a seguire come modello Maria e non Marta, poiché se Maria è un modello positivo, lo stesso non si può dire di Marta. Appare chiaro infatti che Gesù loda l’atteggiamento di Maria, mentre riprende quello di Marta. Ma andiamo nel dettaglio. A Marta dobbiamo dare il plauso di aver preso l’iniziativa di invitare Gesù a pranzo a casa sua (compito che, a dire il vero, spettava a lei come sorella maggiore). Ma gli encomi a Marta si fermano qui. Primo perché ella si affanna troppo nella preparazione del pranzo a Gesù che, tra l’altro, da un punto di vista culinario, non ha alcuna pretesa. Poi perché critica duramente l’atteggiamento della sorella Maria, colpevole di perdere tempo ascoltando le parole di Gesù, non aiutandola ai fornelli. Infine, perché rimprovera lo stesso Gesù di non intervenire a suo favore, lasciando fare la sorella minore. Sembra che Marta abbia bisogno di attirare su di sé l’attenzione di Gesù. Questi, dal suo canto, sembra “snobbare” il grande dinamismo di Marta profuso per lui, compiacendosi invece dell’atteggiamento “statico” della sorella, seduta ai suoi piedi senza fare un tubo di niente. Non è difficile immaginare una sorta d’invidia che pervade Marta per la bella relazione instaurata da Gesù con Maria, che sembra metterla in ombra. Lei, che, in quanto sorella maggiore, è quella che meriterebbe il maggior riguardo. Forse Marta ha fatto questo pensiero: “Bello però questo Gesù! Io lo invito a pranzo, mi faccio in quattro (anzi in “otto”, facendo anche la parte di Maria) per preparargli un pasto coi fiocchi e quello che fa, dà tutte le sue attenzioni a quella là (Maria), che pende dalle sue labbra. E questa sarebbe la ricompensa per tutto quello che
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sto facendo per lui?”. Vi sembra un modello positivo questa Marta? Certamente, no. Lo sbaglio di Marta non è quello di voler preparare con cura il pranzo per Gesù, ma l’essersi confrontata con la sorella e averla giudicata male, perché non si è messa ad imitarla. E poi ha sbagliato nell’aver giudicato indirettamente anche Gesù che lascia fare Maria, infischiandosene delle tante fatiche profuse dalla sorella maggiore. Come risponde Gesù alla critica di Marta? Con dolcezza e chiarezza: «Marta, Marta tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta». Gesù “delude” le attese di Marta, schierandosi inequivocabilmente dalla parte di Maria, che ha scelto il solo atteggiamento giusto e necessario da vivere in quel momento. Ella ha scelto infatti l’atteggiamento del discepolo, che si mette ai piedi del Maestro per ascoltare con attenzione tutte le sue parole, parole divine che le dischiudono le vie del regno dei cieli e le fanno varcare le soglie dell’eternità (questa è la parte che «non le sarà tolta», perché è la stessa parte che vivrà in paradiso per sempre: godere della piena comunione con Gesù). Il fatto che Marta sia stata vista come il modello della vita attiva e Maria quello della vita contemplativa dipende anche da un “errore” di traduzione del testo. Nel testo greco c’è infatti l’aggettivo “buono” e non il comparativo “migliore”. Per cui Maria ha scelto la “parte buona”, sottintendendo che quella scelta da Marta è invece la parte “non buona”, quindi cattiva. Che cosa ha fatto Marta di “cattivo”? Ha messo al centro se stessa, il suo impegno, il suo “pranzo”, aspettandosi da Gesù una “ricompensa” proporzionata a tutto ciò. Come a dire, ha invitato Gesù a casa, ma non l’ha messo davvero al centro della sua vita. A differenza di Maria, che ha capito subito la ricchezza di poter stare ai piedi di Gesù per ascoltare con attenzione ogni sua parola, perché ha capito che le sue sono parole di vita eterna. Un pranzo, anche se lauto e ben preparato, non può cambiare il senso dell’esistenza, ma la comunione con Gesù, quella sì, vale la vita eterna…
XVII domenica del Tempo Ordinario (Lc 11,1-13) Padre! Lo stile di preghiera di Gesù deve aver affascinato molto i discepoli. Forse nella loro vita non avevano mai visto qualcuno pregare con quella profonda fedeltà e devozione. L’esempio di Gesù fa scuola. I suoi discepoli infatti gli chiedono subito di insegnar loro a pregare in quella stessa maniera. In effetti, compito primario dei maestri di spiritualità è insegnare ai propri discepoli l’arte della preghiera, ossia la giusta maniera di relazionarsi con Dio. Gesù comincia il suo insegnamento partendo dai contenuti della preghiera, cioè da quali cose chiedere a Dio. E’ la normale preghiera di domanda che, pur non essendo l’unica forma di preghiera (c’è infatti anche la preghiera di ringraziamento e di lode), rappresenta la forma classica di preghiera, quella originaria (gli uomini infatti hanno
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cominciato a rivolgersi agli dei per chiedere loro qualcosa: protezione, salute, bel tempo, raccolti abbondanti, vittorie in guerra, etc.). La novità principale della preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli non è rappresentata tanto dalle cose da chiedere a Dio, ma dall’appellativo con cui rivolgersi a lui: «Padre». Quando pregate, dice Gesù, dovete indossare i panni dei figli e rivolgervi al Padre vostro del cielo. Questa cosa non è di poco conto, poiché sta ad indicare che quando preghiamo non partiamo mai da zero, quasi a dover stabilire ogni volta una nuova connessione con la linea divina, perché la connessione esiste già. Infatti, noi siamo creature di Dio, è lui la nostra origine. Egli ci ha creati per amore e ci considera suoi figli prediletti, guardandoci con occhi di padre. Quindi per noi pregare significa schiacciare il tasto dello stand-by, per riappropriarci di quell’informazione eterna e indelebile che è già presente nel “disco rigido” della nostra essenza ed esistenza: noi siamo “figli” di Dio Padre! Perciò la prima parola della preghiera suggerita da Gesù risulta essere la più importante, quella che offre la cornice spirituale di tutto il resto del testo. Questa è la chiave della preghiera cristiana: prima di chiedere qualcosa a Dio, dobbiamo chiamarlo con il nome di Padre. Tante volte basterebbe pronunciare con amore il nome del Padre, senza aggiungere altro. Non sarebbe una preghiera “monca”, ma una preghiera “piena”, perché nella relazione con il Padre c’è tutto. Proviamo qualche volta a nominare il Padre e stare in silenzio. Non sarebbe un silenzio vuoto, ma un silenzio che “riempie”, comunicando amore, fiducia, mistero e adorazione. Gesù indica comunque alcune cose da chiedere al Padre (cinque): «Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati […] e non abbandonarci alla tentazione». Molti studiosi considerano questo testo la versione primitiva di quella che nel Vangelo di Matteo diventerà la preghiera del “Padre nostro” (là le invocazioni diventeranno sette, con alcune aggiunte: es. l’aggettivo “nostro” dopo l’appellativo “Padre”). Al di là delle cinque richieste, Gesù insiste molto nell’esortare i suoi discepoli a “chiedere” al Padre senza alcuna paura o remora: «Chiedete e vi sarà dato». Per rafforzare questo concetto scende nella concretezza della vita umana, facendo l’esempio della relazione tra due amici e tra padri e figli. Egli nota come gli esseri umani si fanno in quattro per sovvenire ai bisogni degli amici (anche quando questi sono particolarmente “molesti”) e lo stesso fanno i padri per offrire il meglio ai loro amati figli. E allora, sembra dire Gesù, come potete mettere in dubbio l’ascolto attento e premuroso del Padre eterno quando vi rivolgete a lui per le vostre necessità? Arriviamo alla rivelazione finale della catechesi di Gesù sulla preghiera di domanda. Il Padre non solo vi darà le cose necessarie alla vostra vita, ma è disposto a darvi molto di più, la sua stessa vita: «Darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!». Gesù ci invita a “convertire” il nostro modo di pregare, passando dal chiedere un certo numero di “cose” al chiedere una sola cosa, che in realtà è una persona: il dono dello Spirito Santo. Questa richiesta raccoglie infatti tutte le altre, poiché è lo Spirito Santo che permette la santificazione del nome del Padre e la venuta del suo regno; è lui che ci perdona e ci dà la forza, a nostra volta, di perdonare e a non cedere alla tentazione al male. Ecco allora il modello sintetico della preghiera cristiana: “Padre, nel nome del tuo Figlio Gesù, donami lo Spirito Santo. Amen!”.
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XVIII domenica del Tempo Ordinario (Lc 12,31-21) Un capitale da investire Mentre Gesù fa un discorso molto importante ai suoi discepoli, invitandoli a testimoniare con coraggio davanti a tutti la loro fede nel Figlio dell’uomo, confidando nella presenza amorevole del Padre e nell’assistenza illuminante dello Spirito Santo (cfr. Lc 12,1-12), dalla folla, un tale, prende la parola per gridare a Gesù un suo urgente bisogno: «Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità». La cosa fa sorridere. Quest’uomo dimostra di non essere assolutamente interessato alla catechesi di Gesù e al suo profondo insegnamento spirituale, avendo un problema di vitale importanza che lo assilla da tempo e che probabilmente non lo fa dormire la notte: egli è vittima dell’ingiustizia del fratello che non ha alcuna intenzione di spartire con lui l’eredità dei genitori. Di fronte alla richiesta di quest’uomo Gesù non riesce a nascondere una certa delusione e un evidente disagio: “Che centro io con i tuoi soldi? Mi hai preso per un giudice di pace? Vai a fare le tue rimostranze a chi è chiamato nella società civile ad occuparsi di queste cose. La mia missione è un’altra…”. Gesù però prende spunto dall’episodio per dare un insegnamento collettivo sul pericolo delle ricchezze attraverso una parabola, facendo capire che la ricerca della ricchezza come valore supremo della vita si pone in chiaro e netto antagonismo con la ricerca di Dio. L’uomo della parabola infatti, “accecato” dalla ricerca della ricchezza, del guadagno e di una vita agiata e spensierata, non si rende conto che il bene più prezioso che egli possiede (la sua vita) non è affatto in suo potere. Quest’uomo (un vero e proprio imprenditore ante litteram) va a dormire tutto contento, beandosi delle sue grandiose capacità progettuali e dell’avvenire tutto roseo che i suoi desideri gli hanno dipinto. Ha però fatto i conti “senza l’oste”, illudendosi di poter costruire una vita piacevole e felice contando solo sulle sue capacità imprenditoriali e sui beni da lui posseduti. Infatti, proprio su quel letto dove si trastulla con i suoi sogni di “gloria”, troverà l’improvviso e imprevisto abbraccio di sorella morte! Giunge così la “sentenza” di Gesù: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». All’uomo la scelta: arricchire il proprio conto (corrente), per proprio conto e tornaconto (scusate il gioco di parole), oppure, in alternativa, aprire un conto corrente celeste con Dio, lasciandogli l’iniziativa di gestire a sua discrezione le entrate e le uscite. L’errore dell’uomo della parabola, come anche quello del tale che chiede a Gesù di farsi paladino dei suoi soldi, è dì aver messo il denaro e la ricchezza al primo posto, quel posto che spetta d’onore a Dio, che è la vera ricchezza dell’uomo. Qui si inserisce quell’altra frase pronunciata da Gesù, che merita un’attenzione particolare: «Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». A me colpisce soprattutto la parte finale della frase. Gesù dice che la vita dell’uomo non dipende da quello che ha. Il messaggio è davvero “controcorrente”, poiché normalmente siamo abituati a valutare l’importanza di una persona sulla base di quello che possiede (soldi, case, ricchezze, titoli di studio conseguiti, successi vari, etc.). Ecco il messaggio liberante di Gesù: tu sei importante agli occhi di Dio non per quello che
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hai, ma per quello che sei (una creatura voluta e amata da lui). Inoltre, la “vita” alla quale si riferisce Gesù va al di là della vita “biologica” e terrena. La vera vita è infatti conoscere Dio e vivere in comunione con lui. La vera vita è “amare” Dio e il prossimo. La vera vita va al di là delle barriere dello spazio e del tempo. La vera vita è eterna... Questo vuol dire che la nostra capacità di amare e di essere in comunione con Dio e con gli altri non dipende dai beni materiali posseduti, poiché essa è una ricchezza “spirituale” che non c’entra nulla con i soldi, le proprietà e la posizione sociale. E’ l’amore la chiave per arricchire davanti a Dio. Nel conto corrente celeste divino, alle voci di dare e avere, c’è posto per un solo bene: l’ amore. Infatti, alla fine della vita terrena, saremo giudicati proprio su quanto avremo “amato” (speriamo che il conto non sarà in “rosso”). In questa settimana siamo invitati da Gesù a dare un’occhiata al nostro conto corrente celeste per verificare tutte le nostre “transazioni” (relazioni) d’amore. Ogni giorno Dio si preoccupa di arricchire il nostro capitale d’amore, ma noi quanto siamo capaci di un “santo” investimento?
XIX domenica del Tempo Ordinario (Lc 12,32-48) Distributori d’amore «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto, a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più». Questa domenica Gesù vuole “responsabilizzarci”, facendoci comprendere quanto abbiamo ricevuto da lui. Il regalo più bello che ci ha fatto (oltre il dono della vita) è l’averlo conosciuto, essere diventati suoi amici e aver ricevuto il dono della filiazione divina, entrando in comunione eterna con il Padre celeste, per mezzo dello Spirito Santo. Concretamente questo significa poter sperimentare ogni giorno la bellezza di ricevere e donare amore. Sì, non possiamo far finta di niente, come se questa realtà non fosse quella che più conta, che più contribuisce al nostro “stare bene” su questa terra. Senza amore infatti si muore. Magari si è anche ricchi di cose, conoscenze, capacità, ma se il cuore non ama e non è amato, tutto quello che possiedi non ha il potere di farti stare davvero bene, facendoti provare nell’intimo la profonda gioia di vivere. Gesù è venuto nel mondo per “amarci” e, amandoci, ci trasforma a nostra volta in “amanti”. In questo contesto possiamo leggere i discorsi di Gesù sul padrone che torna a casa all’improvviso, aspettando d’incontrare i suoi servi ben desti, fedeli nello svolgere il compito loro affidato e pronti ad accoglierlo. Qual è questo servizio? É il servizio dell’amore: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù, per dare la razione di cibo a tempo debito?». L’amore è questo cibo che siamo chiamati a condividere con le persone con cui viviamo ogni giorno. La vita diventa così una gara a condividere per primi quell’amore con il quale Gesù costantemente ci ama. É per questo che, quando questo servizio di distribuzione dell’amore si fa pesante, perché magari non trova la corrispondenza dell’altro oppure
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perché la nostra volontà non si trova così ben disposta ad amare, bisogna andare da Gesù a “ricaricarsi” spiritualmente in modo che, “ristorati” dal suo amore, possiamo riprendere il servizio della distribuzione amorosa. É proprio su questo servizio di distribuzione dell’amore ricevuto da Gesù che saremo giudicati: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli, in verità vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli». Il costatare la fedeltà dei suoi discepoli che, pur nelle fatiche di ogni giorno, continuano a distribuire il suo amore a destra e a sinistra, riempie di gioia il cuore di Gesù che vede in quei fedeli discepoli i suoi stessi lineamenti spirituali. Una gioia che lo porta a mettere se stesso nei panni del servo e i suoi discepoli nei panni del padrone, servendoli a tavola. Viene in mente il gesto della lavanda dei piedi, dove Gesù assume i panni del servo che si mette con umiltà e amore a lavare i piedi del suo padrone. Due immagini (la lavanda dei piedi e il servizio a tavola) che esprimono la stessa realtà: Gesù che si “abbassa” a servirci per “innalzarci” a vivere la vocazione di distributori del suo amore. Tutto ciò noi lo viviamo in maniera “reale” nella celebrazione eucaristica. Solo che in questo caso Gesù va oltre. Non solo si mette a servirci alla mensa, ma lui stesso diventa il “cibo” del nostro pasto. Sì, perché la via per diventare distributori d’amore è “alimentarsi” alla sorgente dell’amore che è Gesù stesso. Fare la comunione non vuol dire altro che lasciarsi nutrire dall’amore di Gesù. É per questo che “fare la comunione” con Gesù, ovvero alimentarsi del suo amore, comporta l’impegno al servizio di “fare la comunione” con i prossimi della nostra vita, diventando noi stessi distributori del cibo del suo amore. «Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche». Ecco che ritorna l’invito di Gesù alla “responsabilizzazione”: chi di noi può affermare di non essere amato da Gesù e di non essere a conoscenza della chiamata ad essere distributori del suo amore? Stiamo svegli, allora! Non assopiamoci, facendo finta che la vocazione ad amare non sia la cosa più importante della nostra vita. Non lasciamoci distrarre da altre cose che magari ci promettono una soddisfazione immediata e senza sforzo. Amare spesso costa, ma è il prezzo da pagare per vivere in comunione con Dio che è Amore e per attendere serenamente il ritorno di Gesù che premierà oltremisura tutti i nostri sforzi profusi nel servizio della santa distribuzione del suo amore. XX domenica del Tempo Ordinario (Lc 12,49-53) Un santa divisione «Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione». Ci sono dei messaggi pronunciati da Gesù che, ad un primo ascolto, non hanno l’aria di essere delle vere e proprie “buone novelle”. Ma come: “Io credevo che Gesù fosse venuto a portare nel mondo la pace, invece dice che è venuto a portare la divisione. Forse l’evangelista si è sbagliato, avrà capito fischi per fiaschi. E poi, visto
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che nel Vangeli ci sono altri brani molto più edificanti, questo lasciamolo perdere, non è in fondo così importante e per nulla interessante”. Superiamo la tentazione di farci prendere dalla piccineria, dalla paura o da pregiudizi scontati ma, da persone mature quali siamo, andiamo con coraggio a scoprire il senso di questo messaggio, apparentemente assurdo e controcorrente. Cominciamo col vedere il contesto in cui Gesù ha pronunciato quelle parole. Egli sta parlando ai suoi discepoli di un’importantissima esperienza che non vede l’ora di vivere. In quel momento Gesù non si sente di spiegarla nei dettagli, preferendo usare una duplice immagine molto evocativa: quella di un “fuoco” da accendere e di un “battesimo” (un’immersione) da compiere. In verità noi sappiamo bene a quale esperienza si stia riferendo Gesù: al mistero della sua passione-morte-risurrezione, prossima a consumarsi a Gerusalemme. E’ sul Calvario infatti che Gesù rivelerà in maniera inequivocabile la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo, accettando di lasciarsi uccidere come un agnello innocente da quei lupi che vogliono mettersi al posto di Dio. Sulla croce possiamo contemplare l’immersione di Gesù nel fuoco dell’amore, fatta di sacrificio, sofferenza, misericordia e perdono e, dall’altra parte, l’immersione di parte dell’umanità nell’odio, la superbia, l’arroganza, la cattiveria, l’ignoranza e la falsità. Guardando alla scena del calvario si è chiamati allora a fare una scelta: o con Gesù o contro Gesù, o con l’amore o con l’odio, o con la verità o con la falsità, o con l’umiltà o con la superbia, o con la bontà o con la cattiveria, o con il rancore o con la misericordia. E’ questa la “divisione” che Gesù ha portato sulla terra: il chiaro e netto discernimento tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. «D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre». Anche in questo caso non facciamo i superficiali e gli infantili, poiché questa frase, tolta dal suo contesto, potrebbe essere usata per “giustificare” i problemi relazionali all’interno della famiglia: tra marito e moglie, tra padri e figli, tra suocera e nuora. Es.: “Mia cara nuora, leggi il Vangelo: Gesù aveva già predetto duemila anni fa che ci sarebbero stati dei problemi tra noi due. Non ti stupire, è del tutto normale che io sia uno strumento di divisione!”. Gesù non sta parlando delle “normali” divergenze di opinioni che possono insorgere all’interno di una famiglia, ma si riferisce alla scelta di campo da adottare nelle relazioni familiari: scegliere come modello di comportamento Gesù o seguire gli atteggiamenti di quelli che si sono messi contro di lui. Certamente il primo riferimento storico alle parole di Gesù sulla divisione in famiglia riguarda coloro che (ebrei o pagani) si convertivano al cristianesimo, rompendo con i normali legami religiosi e sociali della propria famiglia. Queste conversioni creavano giocoforza forti tensioni all’interno delle famiglie e i familiari cristiani erano costretti a subire una vera e propria persecuzione (soprattutto all’interno dell’ambiente giudaico). La divisione di cui parla Gesù ha perciò a che fare con la scelta di campo di stare con lui o contro di lui. Ma anche all’interno di una famiglia “cristiana”, quando uno dei componenti desidera vivere in maniera più radicale il Vangelo di Gesù, possono nascere forti tensioni e contrasti. Basti pensare alla vicenda di Francesco e Chiara d’Assisi, considerati “pazzi” da diversi loro familiari per aver deciso di lasciare tutto e farsi poveri per seguire Gesù povero. Anche oggi può succedere che, ad esempio nell’ambito delle relazioni tra marito e moglie, uno dei coniugi faccia un’esperienza spirituale più profonda dell’altro, che non riesce magari a capire il desiderio/bisogno di andare a
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Messa ogni giorno (non basta quella della domenica?). Oppure possono sorgere tensioni e divisioni su come vivere la vita sessuale (secondo la morale cristiana o secondo i propri gusti?). La divisione di cui parla Gesù è il “discernimento” tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che è evangelico e ciò che non lo è. Una divisione necessaria per farci percorrere la via della santità.
XXI domenica del Tempo Ordinario (Lc 13,22-30) Chiamati alla lotta Non sappiamo che cosa abbia suscitato la domanda su quanti siano quelli che si salvano (qual è il loro numero? sono pochi o tanti?). Non sappiamo neanche se il tale che pone la questione a Gesù si consideri dalla parte degli eventuali pochi salvati o da quella dei tanti che si pensano esclusi dalla salvezza. Come spesso succede Gesù non risponde direttamente alla domanda postagli, allargando il discorso nel tentativo di coinvolgere esistenzialmente i suoi interlocutori: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta». Il verbo greco tradotto in italiano con “sforzarsi” è quello del combattimento (agōnizomai), lo stesso verbo utilizzato per descrivere la “lotta” vissuta da Gesù nel Getsèmani: «Entrato nella lotta (agōnia) pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra» (Lc 22,44). Non a caso la domanda sulla quantità dei salvati viene posta a Gesù proprio mentre si sta dirigendo con decisione verso Gerusalemme, perché là egli stesso “si sforzerà di entrare per la porta stretta”, morendo a se stesso per donare la vita divina a beneficio degli uomini. A questo punto possiamo già chiarire la risposta di Gesù: quelli che si salvano sono tutti coloro che scelgono di adottare come stile di vita la via del dono di sé, del prendersi cura degli altri, del sacrificio per amore, dell’offerta gratuita della propria persona. Per imboccare questa strada Gesù parla della necessità di uno sforzo, di una lotta, di un combattimento, di un impegno costante e radicale, non nascondendo la difficoltà dell’impresa: «Molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno». Chi sostiene che vivere il Vangelo di Gesù sia una “passeggiata” è un folle, molto probabilmente non ha capito bene di che cosa sta parlando… Basta guardare a Maria, la madre di Gesù che, pur essendo preservata per privilegio divino dal peccato, ha dovuto percorrere un lungo cammino di “discepolato” irto di difficoltà: il parto lontano da casa come una povera pellegrina, l’esilio egiziano, la misteriosa scomparsa di Gesù dodicenne a Gerusalemme, le aspre critiche del suo entourage familiare che considerano Gesù un “matto”, nonché il suo drammatico rifiuto da parte degli abitanti di Nazaret. Per non parlare poi delle continue minacce di morte che gravano sulla sorte del figlio, che lo porteranno alla violenta passione e ingiusta morte sulla croce. Torniamo alla risposta di Gesù sul quesito del numero dei salvati, poiché il discorso
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si approfondisce. Il combattimento di cui parla Gesù, quella lotta “interiore” che ciascuno di noi sperimenta quotidianamente, a volte in maniera altamente drammatica e dilaniante, tra lo “Spirito di Dio” e lo “spirito della carne” (come direbbe S. Paolo), tra il bene e il male, tra l’amore per l’altro e il proprio benessere, non ha niente a che vedere con l’aver condiviso esperienze di vicinanza “fisica” o “psicologica” con Gesù o con l’aver ascoltato le sue belle parole: «Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli vi dichiarerà: Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori d’ingiustizia!». Non si fa esperienza della salvezza con una generica presa di posizione in favore di Dio o di Gesù: “Io ci credo in Dio!”; “A me Gesù sta simpatico: dice delle cose interessanti!”. Come non pensare alla celebrazione eucaristica, al nostro essere in “presenza” di Gesù. Ciò che “salva” non è lo stare davanti a Gesù solo con il corpo e con la mente (mi concentro per noi distrarmi), ma è l’essere in “comunione” con lui, una comunione effettiva e affettiva. Una comunione di “volontà” che ci spinge a voler vivere, pur nelle difficoltà di ogni giorno, il suo stesso progetto di vita. Perché è solo vivendo uniti a lui nell’amore che possiamo dire di conoscerlo veramente: «Chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,7-8). Per questo motivo Gesù confesserà candidamente di non conoscere il “cuore” di quelle persone che bussano alla sua porta chiedendo di essere accolti nella comunità dei salvati. Sebbene questi lo abbiamo avuto più volte davanti agli occhi e abbiano ascoltato tante sue prediche, in realtà non hanno interiorizzato il suo messaggio e non hanno cambiato il loro stile di vita. Non si sono “sforzati di entrare per la porta stretta”, di combattere tutte le loro inclinazioni maligne, di portare il peso della croce della sofferenza per amore. In sintesi: non sono mai stati veri discepoli di Gesù! XXII domenica del Tempo Ordinario (Lc 14,1.7-14) Abbassa la cresta! Gesù è un grande osservatore, non gli sfugge nulla. Egli è soprattutto impegnato a scrutare i comportamenti umani, che spesso non condivide affatto, diventando spunto per qualche suo sapiente insegnamento. Invitato da un fariseo ad un banchetto ha da dire qualcosa sia agli invitati sia all’invitante. L’uomo può essere definito un “essere-in-competizione”, che occupa parte del suo tempo a gareggiare e confrontarsi con i suoi simili per mostrare e dimostrare di essere migliore degli altri. Forse è anche per questo motivo che le competizioni sportive riscuotono un grande successo (soprattutto tra i maschi), proiettandoci nell’arena a sostenere con il nostro tifo quel certo atleta o quella data squadra che rivaleggia alla ricerca dell’agognata vittoria. Gesù costata la presenza di questo spirito competitivo all’interno di un semplice banchetto. Nota infatti una vera e propria gara tra gli invitati ad accaparrarsi i primi posti (i più prestigiosi), quelli prossimi al seggio del padrone di casa. Per evitare
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possibili brutte figure Gesù invita a fare una gara inversa: non ad accaparrarsi il primo posto, bensì l’ultimo. Sì, perché non sei tu che hai il potere e il diritto di giudicare il grado della tua “dignità” e importanza rispetto agli altri (nell’ombra c’è sempre il rischio di sopravalutarsi o di farsi notare a tutti i costi). Questo compito spetta ai tuoi prossimi, in particolare, nel contesto del nostro banchetto, a colui che ti ha invitato a far parte del suo convito. Visto che lui ti ha invitato, lasciati “giudicare” da lui, accettando umilmente il suo verdetto: «Perché chiunque si esalta sarà umiliato; e chi si umilia sarà esaltato». Letteralmente sarebbe: chi si “innalza” sarà “abbassato” e chi si “abbassa” sarà “innalzato”. L’insegnamento di Gesù è molto profondo. Per prima cosa ci invita ad evitare il peccato di “superbia”, scavalcando gli altri col desiderio di stare-sopra, ai primi posti. La gara da fare non è nel convincere gli altri di quanto siamo bravi, oppure di fare carte false per superare chi sta in graduatoria davanti a noi, ma è quello di cercare di “eccellere” con le nostre virtù, le nostre qualità, la nostra sincerità e il nostro impegno. E se poi, come a volte capita, chi è chiamato a “scegliere” e “giudicare” non fa questo, non tenendo nella giusta considerazione i nostri sforzi e le nostre capacità, dobbiamo ricordarci che il nostro vero giudice è il Signore Gesù. Egli ci invita ad “abbassarci” con la promessa che a tempo debito ci “innalzerà” al giusto posto che ai suoi occhi ci compete. Gesù, dopo aver fatto la sua catechesi agli invitati, ha da dire qualcosa di importante anche all’invitante, avendo notato che nella lista degli invitati c’erano quasi esclusivamente parenti e amici (forse gli unici estranei erano Gesù e i suoi discepoli). Gesù vuole esortare il fariseo ad allargare i confini del suo “cuore”, varcando la soglia delle relazioni “economiche”. Un banchetto organizzato per soli familiari e amici, quale valore può avere agli occhi di Dio? Esso risponde alle normali e naturali relazioni “economiche” ben rappresentate da un jingle pubblicitario di qualche anno fa: “Se tu dai una cosa a me, io poi do una cosa a te!”. Spesso succede infatti che alle feste gli invitati si presentino con qualche omaggio per colui che li ha invitati, sentendosi in dovere di concretizzare subito una sorta di contraccambio. L’invitante magari fa finta che quell’omaggio non doveva essergli fatto, perché per lui il vero regalo è la vostra presenza (provate però a presentarvi ad un matrimonio senza un regalo per gli sposi, beh, credo che la cosa non farebbe loro molto piacere…). Invitare alla propria mensa «poveri, storpi, zoppi, ciechi», come suggerisce Gesù, significa andare oltre la dinamica delle semplici e naturali relazioni economiche (del dare per avere), chiuse nell’ambito dei legami familiari, amicali e sociali. Gesù ci esorta a donare i nostri beni a “fondo perduto”, senza la pretesa o la speranza di un “dovuto” contraccambio. Io ti do questa cosa o faccio questo perché tu nei hai bisogno e perché ho piacere di condividerla con te. Indipendentemente da quello che tu puoi o non puoi darmi in cambio, io sono contento del mio gesto. Gesù in persona poi, come si preoccuperà di elevarci agli onori quando ci facciamo piccoli di fronte agli altri, si preoccuperà anche di ricompensare personalmente tutti i nostri gesti d’amore “gratuito”: «Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
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XXIII domenica del Tempo Ordinario (Lc 14,25-33) Una questione di spazio Una cosa di cui non si può accusare Gesù è di non spiegare chiaramente quali siano le condizioni richieste per divenire suoi discepoli. Gesù non è un leader politico che vive con la preoccupazione di dover riscuotere il costante consenso dei suoi elettori. Egli pone sempre come obiettivo il guidare gli uomini a conoscere e abbracciare la “verità” di Dio, a costo di perdere audience, di farsi dei nemici e di pagare di persona per la sua integerrima sincerità e coerenza. Visto che tanta gente si è messa al suo seguito, colpita soprattutto dalla sua stupefacente potenza taumaturgica, Gesù sente che è venuto il momento di parlare “chiaro”, facendo capire ai suoi numerosi seguaci l’estrema “serietà” del mettersi a seguire le sue orme: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Un discorso molto “duro”, che la nuova traduzione della CEI ha un po’ addolcito, sostituendo all’indigesto verbo “odiare” (utilizzato nella traduzione precedente) la più accettabile parafrasi “ama più di quanto ami”. In realtà nel testo originale greco è presente proprio il verbo “odiare”, così che le parole pronunciate da Gesù dovevano risuonare oltremodo “forti” agli orecchi dei suoi uditori. A queste parole Gesù aggiunge poi due immagini tratte dall’esperienza “edile” e da quella “militare”. Due immagini non prese a caso. Mettersi al seguito di Gesù significa infatti alzare una costruzione verso il cielo, orientando la propria vita dritta, dritta verso Dio, superando tutti gli ostacoli che si possono inframmezzare nel progetto. Una sequela che comporta anche una dura e aspra battaglia contro tutte quelle forze di male che albergano all’interno di noi e fuori di noi, che ci spingono a non vivere con radicalità il comandamento divino dell’amore. Il discorso di Gesù termina poi con una breve frase che sintetizza quanto espresso in precedenza: «Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Di fronte a queste parole così “dure” ci verrebbe da dire: “Gesù, sei un po’ troppo esagerato. Mi obblighi ad assumere dei comportamenti di vita che non condivido affatto e che mi fanno paura. Quando parli così non ti capisco e non mi piaci neanche!”. Superiamo il momento di smarrimento e sdegno cercando di capire il perché di un linguaggio così duro ed esigente. E’ evidente che l’utilizzo del verbo “odiare” rivolto ai propri familiari, come alla propria stessa vita, serve a Gesù da “iperbole” per provocare un sano shock nei suoi uditori. Non sta infatti invitandoli a provare dei sentimenti di odio nei confronti dei loro parenti o della propria vita, i quali contrasterebbero con il comandamento di amare il prossimo come se stessi. Gesù vuole solo chiarire che se lo metti al centro della tua vita e del tuo cuore va da sé che il centro non possono più essere i tuoi familiari, i tuoi beni e nemmeno te stesso. Tutto deve “ruotare” attorno a lui, come dice il ritornello di un famoso canto: “Tutto ruota intorno a te e in funzione di te…”. Ciò significa che se i tuoi familiari, i tuoi beni o certe tue inclinazioni e desideri, si
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pongono in alternativa a Gesù, diventando un ostacolo per vivere il suo Vangelo (e quindi la sua sequela), devi “abbandonarli” o comunque contrastarli con estrema chiarezza e decisione. Facciamo qualche esempio. Io sento la chiamata a consacrarmi al Signore, ma i miei genitori sono totalmente contrari a ciò, mettendosi con tutte le loro forze contro. Cosa fare? Beh, se voglio seguire Gesù e compiere la sua volontà sarò “costretto” a lasciarli al loro destino. Continuerò ad amarli, ma non mi assoggetterò alle loro paure o alle loro idee. Oppure, scelgo di lavorare anche la domenica per guadagnare di più, non avendo così il tempo per partecipare alla Messa. E’ evidente che questa ricerca “assoluta” di ricchezza, mi fa automaticamente decadere dall’essere discepolo di Gesù, poiché si mette in netto contrasto con il comandamento di santificare le feste. Perché Gesù chiede questa radicalità? Perché lui vuole donarci tutto se stesso (i suoi affetti, la sua persona e tutti i suoi beni), ma per accoglierli nella loro pienezza bisogna fare il giusto spazio nel nostro cuore. Si tratta quindi di mettere le “cose” al posto giusto: al centro Gesù e il resto che ruota armonicamente attorno a lui, così che tutto riceve la giusta luce e niente può oscurare la sua grandezza e bellezza divina. XXIV domenica del Tempo Ordinario (Lc 15,1-32) La grande festa del perdono La cosiddetta parabola del “Padre misericordioso” è la terza parte di un’unica e grande parabola creata da Gesù per giustificare il suo comportamento estremamente accogliente e familiare con i pubblicani e i peccatori, comportamento considerato “scandaloso” dagli scribi e dai farisei. Tutte e tre le parti che compongono la grande parabola hanno una struttura comune: qualcuno perde qualcosa (o qualcuno) che gli appartiene che poi ritrova e poi pieno di gioia organizza una grande festa per commemorare il lieto evento. La terza parte della parabola rappresenta il culmine dell’insegnamento di Gesù e, all’interno di questa terza parabola, la sua terza parte (scusate il gioco di parole) è il vero clou del messaggio che Gesù rivolge agli scribi e ai farisei, nonché a tutti quelli che disprezzano gli altri per la loro vita peccaminosa e se la prendono con Dio, accusandolo di essere troppo benevolo nei loro confronti. Se da una parte c’è il padre che, appena vede tornare il figlio a casa, “prova compassione” per lui, non vedendo l’ora di riabbracciarlo e di fare festa, dall’altra parte ci sta il fratello (il figlio maggiore) che, non appena riceve notizia del ritorno del fratello e del lauto banchetto preparato dal padre in suo onore, si “adira” con tutte le sue forze, rifiutandosi di partecipare alla festa. Una festa che per lui ha l’amaro sapore della tristezza, dell’indignazione, della rabbia e della solenne presa in giro da parte del padre: «Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso».
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Come non dargli torto! Se facessimo un sondaggio d’opinione per vedere quanti sono i sostenitori della tesi del figlio maggiore, penso che la maggioranza dei votanti si schiererebbe con convinzione al suo fianco. Il padre infatti sembra fare oggettivamente delle ingiustificate preferenze, amando di più il figlio “cattivo” rispetto al “buono”, l’infedele rispetto al fedele, lo scansafatiche rispetto al grande lavoratore. E’ un padre non solo di parte, ma profondamente iniquo, al quale non sembra interessare molto la “giustizia”, poiché l’unico “premiato” della vicenda è il figlio “trasgressore”. Questo è ciò che appare in superficie, ma se andiamo in profondità, scopriamo che in realtà la “giustizia” del padre sta su un piano superiore. Non è che il padre sia contento del comportamento scriteriato e immorale del figlio minore, è solo contento del fatto che si sia reso conto del male compiuto e abbia deciso di tornare a casa per rivivere insieme a lui sotto lo stesso tetto. D’altra parte non è che egli non apprezzi la fedeltà e l’impegno del figlio maggiore, poiché ha condiviso con lui l’intero suo patrimonio (come competeva di norma al figlio maggiore): «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». Allora, dove sta il problema? Il problema è che il figlio maggiore, a motivo del suo “santo” comportamento, si considera “migliore” del fratello e desidera che il padre renda ufficiale e pubblico questa sua superiorità “morale” con un trattamento di particolare “onore”. Qual è il problema dei farisei e degli scribi, ai quali è rivolto l’insegnamento di Gesù? Che in virtù della loro fedele osservanza della Legge si ritenevano superiori a tutti quelli che invece erano infedeli (vedi i pubblicani e gli altri peccatori pubblici), degni perciò di grande “onore” da parte della gente e da parte anche di Dio. Ma se uno obbedisce a Dio per avere una “ricompensa”, allora vuol dire che non lo fa per “amore” libero e gratuito, ma per vile “interesse”! Il premio connesso all’osservanza della Legge di Dio sta nel fatto che hai scelto di osservarla, perché così facendo vivi il bene e compi ciò che è gradito a Dio. Senza dimenticare che tutto ciò è frutto non tanto delle tue capacità e virtù personali, ma della grazia di Dio... La grande gioia di Dio è che gli uomini ritornino a lui: «Vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Non è vero che il padre non ami i suoi figli “fedeli” (come pensa il figlio maggiore), ma è altresì vero che lui ha una particolare attenzione per gli ultimi, per quelli che, prendendo vie sbagliate, si allontanano dal bene e da lui, attendendoli con speranza, a braccia aperte! E’ questo l’atteggiamento “santo” che ciascuno di noi è chiamato ad imitare, pronti a partecipare con gioia alla festa del perdono e della misericordia, alla quale siamo tutti invitati.
XXV domenica del Tempo Ordinario (Lc 16,1-13) Onesti e fedeli La storia è “lastricata” da innumerevoli e spesso poco edificanti testimonianze di cosa gli uomini siano capaci di fare per il denaro. Anche Gesù non è insensibile alla
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questione, offrendo ai suoi discepoli una parabola non solo per invitarli ad avere un comportamento sociale onesto, ma per indurli a non attaccare il loro cuore al denaro, perdendo così la bellezza del loro rapporto di amicizia e fiducia con Dio: «Nessun servitore può servire a due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». Il primo messaggio che viene dalla parabola è la constatazione di come i “ladri” siano spesso dotati di grande furbizia e ingegno nel fregare il “prossimo”. Lo stesso ricco padrone della parabola, dopo essere stato “raggirato” più volte dal suo amministratore disonesto, non può far altro che “elogiare” il comportamento scorretto e disonesto di quest’ultimo che, per assicurarsi la benevolenza dei debitori del padrone, continua imperterrito a “rubare” dal suo patrimonio. In questo contesto si inserisce l’insegnamento di Gesù sul come utilizzare “evangelicamente” il denaro: «Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». Queste parole sottolineano il fatto che la “ricchezza” di un uomo è spesso frutto di tante ingiustizie da lui operate nei confronti di altri (frodi, soprusi, sfruttamento del sudore altrui, comportamenti illegali, etc.). Ancora Gesù ricorda che tutta la ricchezza di beni materiali che uno può avere (conti in banca, ville, oggetti di lusso, etc.) rimarrà comunque fuori dalla sua “bara”, destinata inesorabilmente a dissolversi nel tempo. Il consiglio allora è di utilizzare tutta la ricchezza di cui uno dispone per fare del bene agli altri perché, così facendo, nel giorno del giudizio tutte le persone da te beneficiate nella vita terrena si alzeranno a testimoniare davanti a Dio la carità avuta nei loro confronti quando si trovavano nel bisogno. Un concetto che Gesù aveva già espresso in precedenza: «Vendete quello che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma» (Lc 12,33). Passiamo ora alla seconda parte del discorso di Gesù che, dopo aver raccontato la parabola, continua richiamando al grande valore della “fedeltà”: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti, e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti». Un concetto che non ha bisogno di spiegazioni poiché è evidente che l’onestà di una persona riguarda la “qualità” morale della sua coscienza e non la “quantità” di cose che gli sono affidate in gestione, delle quali potrebbe approfittarsi per un vantaggio personale. E’ interessante l’applicazione che Gesù fa di questo principio “morale”, mettendolo in relazione con i beni “spirituali”: «Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?». Della serie: “Se sei un ladro, un approfittatore, un disonesto, uno che pensa solo a se stesso e non è disposto a condividere nulla con gli altri, come puoi pensare che io possa mettere i miei preziosi beni spirituali nelle tue “sporche” mani?”. Quindi la nostra “onestà” vissuta in relazione ai beni materiali diventa una prova del fatto che Dio si può fidare di noi, spingendolo ad affidarci in amministrazione i suoi preziosi beni spirituali. In questo caso però, oltre all’onestà, è necessaria anche la virtù dell’umiltà, ossia il riconoscimento che le capacità spirituali di cui disponiamo portano il trademark divino (sono “made in God”). Noi le abbiamo ricevute in gestione da Dio per contribuire ad edificare il suo “regno”, distribuendole e facendole fruttificare per il bene di tutti i suoi figli.
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E’ chiaro perciò che se uno è “egoista” e “superbo” in rapporto ai beni materiali lo sarà anche in relazione a quelli spirituali. I santi infatti non attribuivano mai a loro stessi i miracoli che avvenivano attraverso il loro operato e la loro intercessione, ma invitavano i beneficiati a rendere gloria a Dio, il vero “autore” del miracolo. Chiediamo allora allo Spirito Santo che ci faccia perseverare nell’onestà sia verso i beni materiali sia verso quelli spirituali, per essere persone “fedeli” agli occhi degli uomini e di Dio.
XXVI domenica del Tempo Ordinario (Lc 16,19-31) L’amore costoso Una parabola molto famosa, chiamata anche del ricco “epulone”, non perché quello fosse il nome proprio del ricco, ma perché nella traduzione latina il verbo banchettare si traduce con épulor (il ricco “epulone” = il ricco “banchettatore”). E’ interessante allora notare come nella parabola il ricco non abbia nome, a differenza del povero, che si chiama “Lazzaro”, un nome che è tutto un programma, poiché in ebraico il nome Eleàzar significa “Dio aiuta”. Della serie: ogni povero ha un’identità ben precisa agli occhi di Dio, che conosce bene il suo volto e il suo nome, mentre il ricco, che si trastulla allegramente con i suoi beni, è un personaggio così poco significativo agli occhi di Dio, tanto da non valere la pena di ricordarne il nome. Ma andiamo a vedere la parabola, che può essere considerata come un’esemplificazione di queste parole pronunciate da Gesù, riportate dal Vangelo di Luca: «Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete […] Ma guai a voi ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete» (Lc 6,20-25). In effetti, mentre in terra il ricco godeva e Lazzaro soffriva, dopo la loro morte, la situazione si ribalta completamente: il ricco soffre e Lazzaro gode. Gesù non spiega la motivazione di tale ribaltamento, anche se la possiamo intuire nel discorso finale sull’importanza di ascoltare e mettere in pratica il messaggio trasmesso da «Mosè e i Profeti». Qual è infatti il cuore della rivelazione biblica? E’ l’amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi. Per S. Paolo questa seconda parte del comandamento è considerato la “cifra” di tutta la Legge: «Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14). E’ evidente che il ricco sia stato trovato completamente mancante in questa esigenza di amare il prossimo. La scena inventata da Gesù è volutamente “esagerata”. Da una parte infatti c’è un uomo che vive nel lusso più sfrenato (vestiti “firmati” e pranzi e cene da ristorante di prima classe) e dall’altra, all’ingresso del suo palazzo, ci sta un povero disgraziato steso a terra, privo di forze, ricoperto di dolorosissime piaghe e in preda ai morsi della fame. Un particolare colora ancora più drammaticamente la scena. A quei tempi non si
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mangiava utilizzando le posate; dopo ogni portata ci si puliva le mani usando la mollica del pane che poi si gettava sotto il tavolo, diventando cibo per i cani. Bene, il povero Lazzaro si sarebbe volentieri accontentato di quelle molliche “usate”, ma nessuno gli dava niente. La vita di quell’uomo viene considerata meno importante di quella dei cani, che lo vanno pure a tormentare (involontariamente), andando a leccare le ferite... Di fronte a questa scena così terribile nasce subito in noi un sentimento di fortissima riprovazione (al limite della “violenza”) nei confronti di quel ricco e di tutti i suoi commensali: “Ma come fate ad essere così crudeli? Siete ricoperti di puro egoismo dalla testa ai piedi? Che cosa vi costa dare un po’ del vostro superabbondante cibo al povero Lazzaro che sta morendo di fame? Siete ignobili e “disumani”!”. Gli aggettivi si sprecano per inveire contro di loro. Adesso però lasciamo la parabola di Gesù per entrare nella realtà della nostra vita. Chiediamoci: “Non è che anche vicino a noi c’è qualche Lazzaro che si trova in situazione di bisogno e noi facciamo finta di non vederlo, tutti concentrati nel goderci i nostri molteplici beni?”. A volte il povero Lazzaro può assumere le sembianze di un nostro familiare, di un amico, di un collega di lavoro, di un vicino di casa, di uno sconosciuto che ha bisogno di noi, della nostra attenzione, del nostro tempo, del nostro affetto. Certo, Lazzaro può sembrare colui che viene a romperti le uova nel paniere poiché, buttandoti addosso le sue sofferenze e i suoi dolori, mette a repentaglio la tua tranquillità e il tuo stare bene. Non hai nessuna voglia di occuparti di lui. Ma se lo guardi bene, quel Lazzaro di turno che bussa alla tua porta, è un inviato di Gesù, che vuole stimolarti ad allargare le maglie del tuo cuore per donare un po’ d’amore “costoso”, quell’amore che ai suoi occhi è il più ricco e prezioso! XXVII domenica del Tempo Ordinario (Lc 17,5-10) Niente è impossibile Un giorno gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Qual è il contesto vitale nel quale ha origine quest’accorata richiesta? Siamo all’interno di un discorso di Gesù sulla necessità di essere misericordiosi nei confronti del fratello che, dopo aver peccato, pentito, viene a chiedere perdono. Di fronte a questa richiesta gli apostoli non fanno una grinza, capiscono la situazione e si dimostrano pronti a compiere il “santo” gesto richiamato da Gesù. Ma la questione non finisce qui. Gesù infatti continua specificando che il gesto del perdono dovrà essere ripetuto nel caso che il fratello commetta una colpa sette volte al giorno. Se infatti ogni volta si pente e viene a chiederti perdono, tu sei chiamato a perdonarlo “sempre”. Dopo queste parole il volto degli apostoli cambia d’espressione. Non ci sono più la serenità e la sicurezza di prima, segni della consapevolezza di poter compiere un gesto edificante, alla loro portata. Ora negli apostoli traspare un sentimento di stupore misto a tristezza e impotenza: “Questo è troppo”, pensano, “É al di fuori delle nostre possibilità umane”. Non rimane altro che chiedere aiuto a Gesù: «Accresci in noi la fede!». La risposta di Gesù, come spesso accade, è un po’ deludente, nel senso che non
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risponde subito nei modi che ci aspetteremmo. Infatti egli non dice: “Sì, ok. Non vi preoccupate. Adesso faccio un miracolo: vi butto nel cuore un’overdose di Spirito Santo così sarete in grado di perdonare tutti, sempre e senza sforzo!”. Risponde invece con uno dei suoi soliti discorsi “iperbolici”: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso:“Sradicati e vai a piantarti in mare”, ed esso vi obbedirebbe». Che cosa vuole dire? Gesù non sta vestendo i panni dell’illusionista che “gioca” con le cose, sfoggiando il suo potere “magico” per stupire il pubblico. Sta solo dicendo che basta davvero “poca fede” per compiere grandi cose nella vita. Siamo noi stessi infatti che “limitiamo” il raggio d’azione divino, perché non crediamo che in quella determinata situazione, particolarmente “difficile” e “onerosa”, il Signore possa operare grandi cose. Di fronte a certi ostacoli che incontriamo (dentro o fuori di noi), spesso ci consideriamo già “perdenti” in partenza, non credendo affatto che, riponendo fiducia in Dio, quell’ostacolo possa essere rimosso. In altre parole non crediamo che “quel grosso albero che sta davanti ai nostri occhi e che ci impedisce il cammino, possa essere sradicato e trasferito nel mare…”. Tornando al contesto iniziale, sembra che Gesù voglia far capire agli apostoli che perdonare più volte il prossimo non deve essere visto come un qualcosa al di fuori e al di sopra delle proprie possibilità. Dobbiamo infatti vederla come una cosa assolutamente “normale”. Tutti infatti sbagliamo e pecchiamo ogni giorno. Ma questo è solo il punto di partenza. Il punto di arrivo è che ci rendiamo conto di questo e con grande umiltà, ammettendo le nostre colpe e la nostra debolezza, ci impegniamo sinceramente a fare il possibile per non peccare più, chiedendo il perdono e una nuova possibilità. E’ quello che facciamo nei confronti di Dio. Spesso infatti confessiamo gli stessi peccati con il desiderio autentico di non commetterli più in avvenire, ma la nostra debolezza fa si che poi ci ricadiamo un’altra volta e poi un’altra volta ancora, così che per anni ripetiamo la stessa “confessione”, lo stesso pentimento e la stessa richiesta di perdono… Tutto ciò però non suscita alcun problema a Dio, poiché egli, in virtù dell’infinito amore che nutre per noi, è disposto a perdonarci “sempre”. Ogni volta poi che ci dona il suo perdono Dio si dimentica della confessione precedente, per cui per lui è come se fosse sempre la prima volta. E’ proprio questo che desidera che facciamo anche noi, chiedendogli ogni volta la forza di perdonare, dimenticando il torto subito precedentemente. In questo contesto leggiamo il discorso di Gesù sul servo che, chiamato a servire in tutto il suo padrone, non ha alcun diritto di pretendere da lui un attestato di gratitudine, motivato dalla fedeltà del suo servizio, avendo fatto solamente “quanto doveva fare”. Quindi se la tua fede in Dio ti permette di perdonare sempre non hai nulla da vantarti, avendo fatto solamente quello che Dio si aspetta da te. Così recita infatti un detto rabbinico attribuito a un maestro contemporaneo di Gesù: «Se avrai praticato la Torah, non vantartene, perché per questo sei stato creato». Allora, accresci in noi Signore non solo la fede, ma anche l’umiltà!
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XXVIII domenica del Tempo Ordinario (Lc 17,11-19) E’ la gratitudine che guarisce A volte gli esseri umani attuano dei comportamenti che agli occhi di Dio appaiono incomprensibili. E’ quello che ci racconta il Vangelo di questa domenica. Gesù guarisce dalla lebbra dieci persone, ma soltanto una torna indietro a ringraziarlo. Uno su dieci: una percentuale piuttosto triste e sconsolante. Gesù resta sorpreso e fa fatica a comprendere il perché di quell’abbondante mancanza di gratitudine... Vestiamo i panni di un giornalista e immaginiamo di andare a dire ai nove lebbrosi guariti che Gesù c’è rimasto male per il fatto di non essere tornarti indietro a ringraziarlo per la guarigione ottenuta. Questi avrebbero potuto giustificarsi così: “Ci dispiace, non sapevamo che dovevamo tornare a ringraziare. Lui ci aveva solo detto di andare a presentarci dai sacerdoti per attestare l’avvenuta guarigione e questo abbiamo fatto”. Obiezione: da che mondo è mondo la gratitudine non può essere un “obbligo” o un “dovere”. Nessuno ti fa un favore e poi subito dopo ti dice: “Ora però devi ringraziarmi!”. Il favore è fatto gratuitamente. Infatti Gesù ha operato quelle guarigioni liberamente e gratuitamente. Forse i nove ex-lebbrosi ce l’avevano con Dio per la “maledizione” della lebbra, che in quel tempo era vista come una punizione divina per i peccati. Allora, non riconoscendo le loro colpe, si consideravano vittime di un’ingiustizia divina: “Perché proprio a noi la lebbra? Non abbiamo alcuna colpa”. In questo caso la loro guarigione sarebbe un giusto e doveroso ristabilimento della giustizia. Altro che gratitudine: prima o poi Dio “doveva” guarirci e riparare al torto commesso! Focalizziamoci ora sul decimo lebbroso guarito, un Samaritano. Questi non appena si rende conto di essere guarito dalla lebbra prova un sentimento di grande commozione, quasi non credendo ai propri occhi. Non pensa di andare subito dai sacerdoti per ottenere il permesso ufficiale di ritornare a vivere nella comunità, senza più essere discriminato e abbandonato a se stesso. Nel suo cuore alberga un solo desiderio: tornare indietro a ringraziare Gesù, colui che lo ha guarito: «Tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo». Se prima egli, unito solidariamente agli altri nove compagni di sventura, aveva gridato a Gesù il suo dolore e la supplica di perdono e misericordia («Gesù, maestro, abbi pietà di noi!»), ora si “smarca” dagli altri, e mentre questi se ne vanno dai sacerdoti, lui da solo esprime pubblicamente tutta la sua gioia, rendendo gloria a Dio che ha avuto pietà di lui e lo ha guarito. Quest’uomo ora è finalmente libero, non solo dalla malattia della lebbra, ma anche da ogni pregiudizio o rancore nei confronti di Dio. Il Samaritano guarito viene posto da Gesù come modello per gli altri nove exlebbrosi: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?». Questa domanda è davvero “pesante”. Povero Gesù. Si aspettava che all’unisono tutti i dieci beneficiati avrebbero reso gloria a Dio davanti ai suoi occhi e, invece, solo uno di essi è tornato a rendere grazie per il dono della guarigione. Umanità ingrata! Chissà quante volte anche noi pecchiamo d’ingratitudine nei confronti di Dio, non riconoscendo gli innumerevoli doni e benefici che quotidianamente ci elargisce. Spesso
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quegli “altri nove” che non tornano a ringraziare siamo proprio noi... Ma andiamo ora a scoprire la grande rivelazione che Gesù fa al “buon” Samaritano: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Come a dire: dieci persone sono state miracolosamente guarite dal male fisico, ma soltanto una, a motivo del suo profondo senso di umiltà e gratitudine, ha ottenuto la “salvezza” di Dio. Non è perciò il miracolo della guarigione fisica che salva! Se questo beneficio divino, capace di modificare e purificare il corpo, non arriva a toccare l’anima, ovvero se il miracolo della guarigione fisica non fa nascere nel cuore un sentimento di umiltà, gratitudine e fiducia in Dio, la pienezza della salvezza non l’hai ancora sperimentata. Sei guarito esteriormente, ma interiormente sei rimasto quello di prima. Il solo cambiamento esteriore per Dio conta poco: a lui interessa il cambiamento del cuore. Infatti, ogni miracolo di guarigione fisica operato da Gesù ha come fine ultimo la guarigione spirituale del beneficiato, il suo “risorgere” anima e corpo alla vita eterna… XXIX domenica del tempo ordinario (Lc 18,1-8) Giustizia è fatta «Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai». E’ davvero commovente Gesù che, consapevole della debolezza e della fragilità umana, esorta i suoi discepoli a non perdere mai la fiducia in Dio, perseverando nella “preghiera”, anche nei momenti più difficili della vita. Egli non sta dicendo che bisogna passare tutta la giornata a formulare preghiere, superando l’inevitabile stanchezza del corpo e della mente. Non sta parlando infatti di una stanchezza di tipo fisico. Il suo è un discorso “spirituale”, che ha di mira i momenti di sconforto e di scoraggiamento che possono intaccare il nostro animo di fronte a quelle situazioni di grande difficoltà e palese “ingiustizia” che a volte ci tocca vivere... Non a caso la parabola raccontata da Gesù ha come protagonista una vedova, ossia una donna socialmente a rischio perché priva della protezione e del sostentamento del marito. Una donna perciò che è destinata a vivere in una situazione di estrema debolezza e precarietà. La nostra vedova è infatti vittima di un’ingiustizia perpetrata da un tipo che, approfittando della sua “debolezza” sociale, non si fa alcuno scrupolo, cercando di “fregarle” un po’ di soldi. La vedova però non si lascia sopraffare dalla prepotenza di quell’uomo, decide così di affidarsi alla “difesa” del giudice. Purtroppo però anche questo secondo soggetto si dimostra della stessa risma del primo, dato che: «Non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno». Possiamo proprio dire che la vedova cade “dalla padella alla brace”. Ma questa donna è tutta d’un pezzo e non si lascia abbattere nemmeno da questa seconda difficoltà. Ce la immaginiamo che, puntualmente, ogni giorno si presenta alla porta del giudice chiedendo di farle giustizia. Il giudice, al quale importa nulla della giustizia e tantomeno della causa della vedova che, essendo povera non poteva neanche offrirgli un bel guadagno economico, si lascia però vincere dalla sua invitta perseveranza nel chiedere “giustizia”. Gesù ci tiene a chiarire che il giudice non lo fa
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perché improvvisamente si converte al bene e alla giustizia, ma solo perché è tremendamente scocciato dalle continue visite della donna (un vero rompimento di scatole…). Gesù, terminata la parabola, può lanciare allora il suo insegnamento: “Se persino quel giudice disonesto, spinto dall’insistenza della vedova, si mette suo malgrado e controvoglia a farle giustizia, non credete che il buon Dio, per l’infinito amore che nutre per ciascuno di voi, non si preoccuperà delle situazioni d’ingiustizia di cui siete vittima?”. Le parole di Gesù in merito sono particolarmente chiare e rassicuranti: «Io vi dico che farà loro giustizia prontamente». Ecco allora il cuore del suo messaggio: “Quando siete vittima dell’ingiustizia umana, non potete e non dovete pensare che Dio sia insensibile alle vostre difficoltà e non possa fare nulla in merito”. L’invito è allora a non perdersi d’animo e ad affrontare tutte le difficoltà a testa alta, da uomini e donne “credenti” e “amanti” della verità, del bene e della giustizia, costi quel che costi. La fortezza d’animo e la perseveranza della vedova della parabola sono un esempio da seguire. Quindi, mai abbattersi, ma cercare e chiedere il sostegno e l’intervento divino con insistenza e grande fiducia: “giustizia” che, secondo le parole di Gesù, non si farà certo attendere... Gesù richiama la sua ultima venuta nel mondo in qualità di giudice universale, il solo che ha il potere di giudicare “infallibilmente” i comportamenti umani. Quello sarà il vero, ultimo e definitivo giudizio, capace di smascherare ogni ingiustizia perpetrata, ogni cattiveria, ogni falsità e ipocrisia: «Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode» (1Cor 4,5). Il discorso di Gesù però non è ancora terminato, egli ha ancora un’ultima cosa da dirci, ponendo una domanda: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Davvero una bella domanda, fatta a posta per spiazzarci… E’ come se Gesù dicesse: “Il problema non sta dalla parte di Dio. Egli è sempre vicino agli uomini: gioisce e soffre con loro, è sempre al loro fianco con il suo amore e la sua potenza divina. Il problema sta dalla parte dell’uomo. Egli spesso manca di perseveranza, abbattendosi alle prime difficoltà che incontra. Non sperando più nel sostegno e nell’intervento di Dio, chiude presto i ponti con lui…”. XXX domenica del tempo ordinario (Lc 18,9-14) Chi è il vero santo? Questa domenica ci viene presentata una delle parabole più conosciute del Vangelo di Luca: la parabola del fariseo e del pubblicano. Gesù la racconta indirizzandola a una ben precisa categoria di persone: «Alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Che razza di persone sono queste? Come sono arrivate a questa loro convinzione? Perché si mettono a disprezzare quelli che non sono come loro? A questi quesiti cercherà di dare risposta la parabola. Guardiamo subito la figura del “fariseo” che, confrontandosi con la Legge di Dio (la tavola dei dieci comandamenti), si scopre perfettamente osservante: non è ladro, non è
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ingiusto, non è adultero. Tanto di cappello! Egli poi va oltre l’osservanza della Legge poiché, per sua scelta personale, fa due digiuni a settimana e offre a Dio la decima parte di tutte le cose che possiede. Questo fariseo sembra essere un vero figlio d’Israele, un modello di santità. Almeno questo all’apparenza. Sappiamo però che, a volte, l’apparenza inganna. Non ci si può basare solamente sugli atti esteriori, bisogna andare a vedere che cosa c’è dietro i comportamenti, quali siano le vere motivazioni che li innescano. Nel nostro caso l’apparenza viene smascherata da un fatto: il fariseo prende spunto dalla sua irreprensibile fedeltà alla Legge divina per “disprezzare” tutti coloro che, al contrario, non rispettano i comandamenti. Questo atteggiamento “smonta” tutta la sua presunta e apparente “santità”. Il fariseo infatti si è messo di fronte a una serie di comandamenti dettati da Dio, ma non di fronte alla persona di Dio. Conosce cosa è bene e cosa è male agli occhi di Dio, ma non conosce per nulla il volto misericordioso di Dio e i sentimenti d’amore che albergano nel suo cuore. La Legge infatti non è stata data per condannare irrimediabilmente gli uomini, ma per mostrare loro la via della giustizia. Finché l’uomo vive sulla terra Dio non lo scruta con occhi di giudice spietato, che conta ad uno ad uno i suoi peccati, pronto a emettere la condanna e il castigo. Egli non aspetta altro che l’uomo si renda conto del male che fa, decida di cambiare vita, chiedendogli aiuto e perdono. Tutto questo il fariseo non lo sa, perché il vero volto di Dio lui non lo ha ancora conosciuto. Quindi se il fariseo non conosce Dio, non può neanche amarlo. Egli infatti ama un codice di leggi, non una persona. Non amando Dio, non ama nemmeno il prossimo che, peccando contro i comandamenti divini, deve essere “legittimamente” (dal suo punto di vista) disprezzato. Le opere “sante” compiute dal fariseo, in verità “sante” non sono. Essere fedeli ai dieci comandamenti è oggettivamente “bene”, ma non rende automaticamente santo chi li osserva. L’osservanza dei comandamenti deve essere sempre accompagnata dalla consapevolezza della debolezza propria (umiltà) e altrui (misericordia). Senza queste due condizioni l’osservanza alla norma può generare dei “mostri”: persone che hanno nel loro cuore «l’intima presunzione di essere giusti», accanto ad un sentimento di superiorità e disprezzo nei confronti di coloro che non compiono le loro stesse “sante” opere. Entra in gioco ora il secondo personaggio della parabola, il pubblicano, che fa da contro altare alla figura del fariseo. Egli infatti, al contrario del fariseo, agisce contro la legge di Dio, non è perciò un “santo” ma un “peccatore”. Se il fariseo aveva presentato a Dio la sua lunga lista di opere buone, il pubblicano non ha altro da mostrare che la lista dei suoi peccati. Se il fariseo è tutto “giulivo” della sua santa vita, il pubblicano è “triste” per la sua vita intaccata dal peccato. Se il fariseo getta lo sguardo sul pubblicano, disprezzandolo in cuor suo, considerandosi migliore di lui, il pubblicano guarda dritto a Dio, confrontandosi unicamente con lui. Battendosi il petto, riconosce con umiltà la sua situazione di disobbedienza alla volontà divina, appellandosi con grande fiducia alla sua misericordia: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Conclusione della parabola: Dio gradisce la preghiera del pubblicano, non gradendo affatto quella del fariseo. Questi nel suo intimo si era “esaltato” dinanzi a Dio. Facendo leva sulle sue “sante” osservanze si era innalzato così tanto da mettersi al posto stesso di Dio, giudicandosi un “santo”. In realtà il primo passo verso la santità l’ha compiuto il pubblicano che, avendo riconosciuto il suo peccato e chiesto perdono a Dio, spinto
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dall’esperienza della misericordia divina, può ora cominciare a osservare la Legge con umiltà, gioia, gratitudine e amore… XXXI domenica del tempo ordinario (Lc 19,1-10) Un piccolo, grande uomo Il Vangelo di questa domenica è uno dei più noti dell’evangelista Luca e anche uno dei più belli. Viene presentato il personaggio di Zaccheo: uomo ricco di soldi e di potere (era il capo dei pubblicani della sua città), ma povero, anzi poverissimo di stima da parte dei suoi cittadini, a motivo del suo mestiere di esattore delle tasse assoldato dai romani. Per questa sua connivenza con i dominatori, per il fatto di dover toccare denaro impuro e perché certamente si era arricchito alle spalle di tanti, Zaccheo apparteneva alla categoria dei peccatori pubblici, uomini da non frequentare, esclusi dagli atti di culto. Quando a Gerico si sparge la notizia che è arrivato Gesù, il profeta della Galilea di cui si dice un gran bene e che molti affermano essere il Messia d’Israele, nasce in Zaccheo il desiderio di vederlo con i suoi occhi. Subito però sorge un impedimento. La gente che fa ressa per vedere anch’essa Gesù è più alta di lui, così che Zaccheo non riesce a vedere un tubo di niente. Ma Zaccheo non si ferma al primo insuccesso, non demorde e da uomo “pratico” qual è aguzza l’ingegno alla ricerca di un modo per mettersi più in alto della folla per poter vedere Gesù. Corre in avanti, precedendo il cammino che avrebbe fatto Gesù e sale in fretta su un albero. Finalmente ha raggiunto il suo scopo, tra pochi istanti vedrà Gesù passare sotto i suoi occhi… Ma ora viene il bello. Gesù improvvisamente alza lo sguardo, vede Zaccheo e si “invita” a casa sua: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Questa notizia, che riempie di gioia il cuore di Zaccheo («lo accolse pieno di gioia»), trova però la protesta scandalizzata della gente: «E’ entrato in casa di un peccatore!». Sembra uno smacco per tutti i cittadini di Gerico: “Perché fra tutte le case di persone oneste, pie e buone Gesù si invita a casa di un peccatore? Questa cosa ci scandalizza e ci fa arrabbiare!”. Gesù risponde con calma e molta decisione: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto». E’ come se dicesse: “Perché vi stupite e vi scandalizzate tanto? Anche Zaccheo è figlio di Dio, esattamente come voi. Egli vive in una situazione di peccato: è proprio per questo che sono andato da lui. Dovreste rallegrarvi di questo, invece di fare gli offesi!”. Dopo l’incontro con Gesù Zaccheo cambierà radicalmente vita: «Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Cosa vuole dirci Gesù attraverso questo episodio? Per prima cosa che la nostra salvezza si gioca sull’ora, sull’oggi, sul presente, non sul domani, che ancora non c’è. Gesù ha fretta di incontrarci “ora”. Deve venire a casa nostra. Sì, perché per Gesù è un dovere. Egli sa bene che se non ci incontra la nostra vita pian piano perde di significato e di gusto, si stanca, si complica e si intristisce.
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Entrare nella casa di qualcuno significa entrare a far parte della sua vita. Gesù vuole proprio questo: prendere parte sempre di più alla nostra vita, alle nostre scelte, ai nostri desideri, ai nostri pensieri… Però, perché l’incontro con Gesù avvenga, non si può attendere senza far nulla. Bisogna mettersi in movimento come ha fatto Zaccheo, andando verso di lui con desiderio, perseveranza e intelligenza. Sì, perché di fronte al primo ostacolo Zaccheo non demorde, ma va avanti usando le risorse a sua disposizione (la sua intelligenza): si guarda intorno e si ingegna. Tutti noi sappiamo bene dove passa Gesù, dove possiamo incontrarlo: nella Sacra Scrittura, nei sacramenti, nella preghiera, nell’amore verso il prossimo. E’ lì che ci aspetta. Quando: ora! L’incontro con Gesù poi è autentico quando davvero cambia la nostra vita. Zaccheo infatti ha preso delle scelte concrete e piuttosto esigenti: dare metà dei suoi averi ai poveri e restituire con gli interessi a coloro ai quali aveva rubato. La cartina di tornasole che permette di verificare il reale incontro con Gesù è l’aumento della nostra capacità di amare gli altri (espressa con gesti concreti) e l’essere pronti a riparare al male di cui siamo responsabili. Quel giorno Zaccheo si sarebbe accontentato di vedere Gesù (magari da vicino) senza sperare di poter entrare in relazione con lui, non ritenendosi degno di andargli incontro e tantomeno di poterlo invitare a mangiare a casa sua. E’ bello allora notare come Gesù, sapendo tutto questo, ha preso lui l’iniziativa di andargli incontro per primo. Chiediamo allora al Signore di prendere sempre di queste iniziative con noi. Di invitarsi quando noi non abbiamo il coraggio di farlo o quando non ci sentiamo degni di accoglierlo, perché la gioia della sua presenza possa riempire sempre la nostra casa…
XXXII domenica del tempo ordinario (Lc 20,27-38) Il paradiso ci attende Nel variegato panorama religioso giudaico del tempo di Gesù c’era anche il gruppo dei sadducei. Questi erano dei “conservatori”, persone benestanti, appartenenti alla classe sacerdotale, amici del potere occupante romano. Ai loro occhi Gesù si presenta come un destabilizzatore dello status quo sociale, un nemico da combattere ed eliminare repentinamente. Ecco allora il tentativo di coglierlo in fallo nei suoi insegnamenti attraverso la paraboletta della donna data in moglie a sette uomini: «La donna dunque alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Prima di andare alla risposta di Gesù dobbiamo sapere che in quel tempo il pensiero della vita dopo la risurrezione era piuttosto “materiale”, nel senso che la si immaginava come un ritorno “potenziato” alla vita di prima: più ricchezza, più felicità, più benessere. In tale contesto si dava per scontato che dopo la risurrezione dalla morte si sarebbe ripreso a vivere con la propria moglie. I sadducei però, a differenza dei farisei, erano dei “materialisti” convinti e non credevano affatto alla possibilità di una vita dopo
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la morte. Hanno così buon gioco nel porre in ridicolo la credenza sulla risurrezione: “Allora, caro Gesù, che te la tiri da grande sapientone, tu che parli spesso della risurrezione, spiegaci un po’ con quale dei sette mariti quella donna tornerà a vivere? Farà forse a turno? Ah, ah, ah!”. Davvero dei gran simpaticoni questi sadducei… La risposta di Gesù apre gli occhi verso un nuovo modo di concepire la vita oltre la morte: non più un ritorno alla vita precedente, ma l’entrata in una dimensione assolutamente “nuova”: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dei morti, non prendono né moglie né marito; infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio». Qual è il succo del discorso di Gesù? Egli invita a entrare nella novità della vita eterna divina: gli uomini e le donne saranno infatti “trasfigurati” a immagine di Dio, diventando immortali come gli angeli. Ci sarà perciò un cambiamento di “matrimonio”: non più quello fra l’uomo e la donna in vista della procreazione e della continuazione della specie umana nel tempo, ma quello tra ogni uomo e ogni donna con Dio in persona, in vista dell’eterno presente del godimento della pienezza della vita divina. Siamo invitati anche noi a sintonizzarci con la rivelazione di Gesù sulla vita oltre la morte, staccandoci da quelle idee di paradisi “materiali” e mondani che circolano anche oggi. Magari possono sembrare delle costruzioni allettanti in quanto frutto di proiezioni e desideri umani (vivere su una terra dove finalmente non ci sarà più guerra, malattia, sofferenza, etc.), ma sono prive però di vera ispirazione divina (es. le amene visioni di paradiso “terrestre” proposte dai Testimoni di Geova, dove al centro non c’è Dio, ma ci siamo sempre noi…). Gesù vuole farci capire che con la risurrezione si fa un salto “radicale”, passando dal mondo dell’uomo al mondo di Dio. La risurrezione non è un tornare alla vita “terrena” di prima purificata dal male e dalla caducità, ma è varcare la soglia del mondo “celeste”, partecipando dell’essere stesso di Dio: è questo il vero paradiso. Un’operazione spirituale che è già cominciata su questa terra, dal momento del battesimo, e continua nella nostra ricerca quotidiana della comunione con Dio e con gli uomini. I sadducei prendono in giro Gesù e tutti quelli che come lui credono nella risurrezione e nella vita dopo la morte, facendo leva sulle loro ricchezze materiali e su quei testi della Scrittura che non parlano di risurrezione. Ma come si può ridurre la vita umana alla sola dimensione materiale? E come si può credere all’eterno amore di Dio per l’uomo, se poi dopo la morte lo abbandona nella tomba, dimenticandosi di lui? Ecco allora le ultime parole di Gesù rivolte ai sadducei, nel tentativo di illuminare la loro flagrante ignoranza teologica, nonché la loro “triste” mancanza di speranza nell’al di là: «Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui». Grazie Gesù, perché le tue parole divine sulla risurrezione aprono il cuore alla speranza e nutrono il desiderio di varcare le porte del vero “paradiso”…
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XXXIII domenica del tempo ordinario (Lc 21,5-19) Tutto passa… «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Di fronte all’ammirazione dei bellissimi e preziosi ornamenti del tempio di Gerusalemme, il luogo più significativo e importante degli israeliti, Gesù non ha alcuna paura a profetizzarne la futura distruzione (ad opera dei romani). Egli, però, si astiene dal precisare il come e il quando, rimanendo volutamente vago. Ciò che importa è riflettere sul fatto che un giorno tutto ciò che l’uomo ha costruito, anche le cose più belle e preziose, sarà completamente distrutto. Gesù ci invita a riconoscere e accettare con molta serenità che tutto ciò che ci circonda, sia quello che è stato prodotto dall’uomo sia quello che è stato creato da Dio, non essendo eterno, un giorno non ci sarà più... Perché questa domenica siamo invitati a pensare alla caducità di ciò che ci circonda? Non per impaurirci, disperarci o cadere in depressione, destabilizzati dalla notizia della provvisorietà della nostra esistenza. Gesù prende spunto dal discorso sulla bellezza del tempio di Gerusalemme e dalla notizia della sua prossima distruzione per concentrarci a gestire bene il tempo che ci è concesso: una vita vissuta per Gesù, con Gesù e in Gesù. Una vita perciò di grandi gioie, ma anche di grandi “lotte”, inseriti da protagonisti nella grande battaglia tra il bene e il male, tra il messaggio evangelico e lo spirito del mondo: «Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici e uccideranno alcuni di voi». Ebbene sì, la “buona battaglia della fede”, come la chiama S. Paolo (cfr. 1Tm 6,12), può avere come scenario l’ambito dei propri familiari e dei propri amici. Nel contesto del tempo in cui è stato scritto il Vangelo di Luca, il riferimento è a quegli ebrei o pagani che, convertendosi al cristianesimo, erano diventati un segno di contraddizione in famiglia e nella società, “rompendo” radicalmente con lo stile di vita precedente, quando si rivela non in sintonia con le esigenze del Vangelo di Gesù. Si capisce allora il discorso sui possibili tradimenti, sulle persecuzioni e le condanne a morte. Ma, se allarghiamo il discorso, c’è anche un altro tipo di tradimento e di assassinio che si può consumare in seno alla famiglia o alla cerchia degli amici. Quando alcuni di questi nostri “prossimi” si mettono contro impedendoci di esprimere e vivere in pienezza la nostra fede in Gesù. Non si parla tanto di violenza fisica (che a volte ci può anche essere), ma di violenza “psicologica”, sotto forma di disprezzo, prese in giro, ricatti, inviti a compromessi in direzione di ciò che è male e palesemente contro la fede e la morale cristiana. Il tradimento sta nel fatto che magari anche il tuo familiare o il tuo amico che ti contrasta si dichiara “cristiano”, ma di un cristianesimo piuttosto superficiale, più di facciata e di comodo, che espressione di una vera e autentica relazione con la persona di Gesù. Quindi non solo tradisce te, ma tradisce anche la sua vocazione cristiana e colui che di questa vocazione ne è l’autore (Gesù stesso). L’assassinio consta allora nel voler “uccidere” la tua vita spirituale, la parte più intima della tua persona, quella che ti lega eternamente a Dio.
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Gesù esorta a non aver paura di affrontare questi “tradimenti” e tentativi di “assassinio”, accettandoli e leggendoli come occasioni di “martirio”, ossia di testimonianza: «Avrete allora occasione di dare testimonianza». Una testimonianza fatta di coraggio, tenacia, perseveranza, fiducia in Dio, speranza nella conversione e amore nei confronti di quella o quelle persone che vogliono “tradirci” e “ucciderci”. Tutto questo nella consapevolezza di non essere soli ad affrontare tali battaglie, in quanto vissute unite intimamente a Gesù: «Io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere». Sarà lui stesso in persona, per mezzo dello Spirito Santo, a suggerirti in ogni occasione la strategia di difesa da adottare: tempi, modi e contenuti. E se poi lo stesso Gesù, durante la battaglia, ti chiamasse a vivere unito a lui la sua stessa “passione”, sappi che questo non è da leggere come una tua sconfitta personale, ma come una fruttuosa e preziosa esperienza di salvezza, vissuta nell’abbandono alla volontà santificante di Dio: «Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». Gesù re dell’universo (Lc 23,35-43) Uno strano re Certo che Gesù è davvero un re strano, così strano che non è in grado di racimolare un granché di sudditi. Anzi il Vangelo di questa domenica ce ne mostra uno solo. Eppure che Gesù sia il re dei giudei è scritto ufficialmente sopra la sua testa: «Sopra di lui c’era anche una scritta: Costui è il re dei giudei». Inoltre, se si fa attenzione, possono essere scorti alcuni elementi di regalità: una corona sulla sua testa (fatta però di spine), un trono che lo eleva dal resto della gente (è appeso a una croce). Ma questi segni non sono sufficienti. Il popolo infatti prende le distanze da quel re, stando a vedere ciò che accade più per curiosità che altro. Altri invece si schierano apertamente contro quello strano re crocifisso, sbeffeggiandolo senza ritegno: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». E’ qui infatti che sta il problema del mancato riconoscimento della sua regalità. Come ci si può fidare e affidare a un re debole e indifeso? Se scendesse dalla croce, facendo un potente miracolo, allora sì che potremmo credergli, ma se si lascia morire su quella croce come un povero disgraziato, beh, lui può anche credersi re, ma di un re così non ce ne facciamo un bel niente… É lo scandalo della croce che offre loro la “certezza” che Gesù non è l’atteso re e Messia d’Israele (il Cristo). È quella sua totale passività di fronte all’orribile male subito: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Questa è una terribile stilettata al cuore di Gesù. Una frase che mette in dubbio la sua provenienza divina, il suo essere in intima comunione col Padre celeste. Forse a Gesù saranno venute in mente le parole che il Padre, dall’alto dei cieli, gli aveva affettuosamente rivolto il giorno del suo battesimo nel Giordano: «Tu sei il figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Lc 3,22). Oppure il ricordo del giorno della trasfigurazione sul monte Tabor, dove di fronte alla sua persona sfolgorante di gloria, il Padre conferma ai discepoli che hanno visto giusto, quello è veramente il loro
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re scelto da Dio, di lui possono fidarsi ciecamente: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (Lc 9,35). Ora le cose sono radicalmente cambiate e Gesù sembra non aver molto da dire. Ma questo solo apparentemente. Egli infatti non ha niente da dire a coloro che, non credendo affatto alla sua regalità e provenienza divina, lo prendono in giro, umiliandolo con gusto. La sua riposta sarà la richiesta al Padre di perdonare la loro stolta ignoranza: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Anche a colui che pretende alacremente liberazione e salvezza, ma senza alcun pentimento della sua vita malvagia, Gesù raccoglie i suoi gratuiti insulti, non rivolgendogli alcuna parola. Solo uno si stacca da tutta questa gente superba, ignorante e maligna, una persona che ha il coraggio di andare controcorrente, capace di credere che quell’uomo crocifisso che sta al suo fianco è veramente il re d’Israele e il salvatore del mondo. Egli comincia il suo sapiente intervento rimproverando lo stolto compagno di crocifissione, ricordandogli che l’essere su quella croce è la logica conseguenza delle sue scelte di male operate verso Dio e verso il prossimo, per cui sarebbe meglio che stesse zitto e si facesse un bell’esame di coscienza. Lui, invece, l’esame di coscienza se lo è fatto, subito dopo aver fatto l’esame di coscienza a Gesù, riconoscendolo completamente innocente: «Noi […] riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni: egli invece non ha fatto nulla di male». Poi si rivolge a Gesù, al suo re crocifisso, chiamandolo per nome ed esprimendo tutta la sua fiducia in lui: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Ecco i “sudditi” dei quali va in cerca il re Gesù: persone umili, che riconoscono i loro peccati e i loro limiti, che non accampano scuse scaricando sugli altri i propri errori, ma hanno il coraggio di dirsi in faccia la verità. Persone che hanno il coraggio di guardare Gesù negli occhi, anche quando quegli occhi piangono il dolore feroce della crocifissione, della coronazione di spine e dell’umiliazione subita dagli uomini. Persone che non vorrebbero un re diverso: potente, spettacolare, vendicatore. Loro amano quel re che si è abbassato per condividere insieme a loro le brutture del peccato, del male e della violenza. Un re che accetta di morire ingiustamente per aprire ai suoi fedeli sudditi le porte della risurrezione e della felicità eterna. Ora sì che Gesù apre bocca, perché ha trovato uno che desidera ascoltarlo dal profondo del suo cuore: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
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ANNO A X domenica del Tempo Ordinario (Mt 9,9-13) Gesù ama e chiama i peccatori La chiamata di Matteo si colloca al secondo posto dopo quella dei primi quattro discepoli (Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni). In realtà, seguendo la narrazione evangelica, il gruppo dei discepoli si è progressivamente ampliato, anche se non ci vengono raccontati gli estremi delle altre successive chiamate. Risulta allora ben comprensibile il ricordo della chiamata di Matteo, dato che il soggetto in questione è lo stesso evangelista (in realtà, anche negli altri due vangeli sinottici è presente questa chiamata, con la differenza che lì il protagonista porta il nome ebraico di Levi). Se i primi quattro discepoli erano dei pescatori, il quinto discepolo esercita un mestiere particolare, per nulla ben visto dalla gente: l’esattore delle imposte per conto dei romani. Matteo appartiene perciò alla categoria dei “pubblicani”, persone considerate peccatori pubblici, infedeli alla legge d’Israele, traditori della patria, attaccati ai soldi e spesso anche ladri. Il fatto che Gesù abbia voluto nel gruppo dei suoi discepoli un personaggio del genere desta molto stupore, “spiazza”, parendo una scelta poco comprensibile e oltremodo “scandalosa”, in particolare per i farisei. Lo scandalo si amplifica quando Matteo, pieno di gioia per l’insperato e sorprendente incontro con Gesù che ha cambiato il corso e il senso della sua vita, invita a cena il suo nuovo Maestro con il gruppo dei suoi discepoli. Il fatto che Gesù non abbia alcun problema a condividere il pasto in casa di un peccatore pubblico provoca subito una duplice reazione: da una parte ci sono i farisei che, profondamente turbati e scandalizzati, si interrogano sul perché di quel comportamento inusuale e ingiustificato: “I giusti non devono mescolarsi con i peccatori, se no si contaminano e perdono la loro purezza davanti a Dio e agli uomini…”. Dall’altra parte ci stanno invece diversi altri pubblicani e peccatori pubblici (alcuni, forse amici dello stesso Matteo) che, anch’essi sorpresi dall’atteggiamento così aperto e benevolo di Gesù nei confronti di Matteo, si avvicinano a lui diventando anche loro commensali alla medesima tavola. Il quadro di questa cena raffigura bene l’immagine della Chiesa, che ha al suo centro Gesù, attorniato dai suoi discepoli e da tutti quelli che, consapevoli del loro peccato, sono alla ricerca della salvezza, quella salvezza che solo Gesù può dare. In questo clima di grande sorpresa, gioia, accoglienza, apertura, speranza, fiducia e desiderio di conversione, l’unica nota stonata è rappresentata dai farisei, che osservano la scena dal di fuori, increduli e irritati, rifiutandosi di entrare a far parte di quella strana, nuova e improvvisata comunità. Poi però non ce la fanno più: rompono gli indugi e forti della loro “autorità” e presunta sapienza teologica escono allo scoperto, chiedendo spiegazioni di quello che stanno vedendo. La risposta di Gesù non si fa attendere: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire; Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». Risposta chiara e “secca”! Perché Gesù si comporta così? Perché la sua missione è quella di avvicinare e
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riconciliare tutti gli uomini con il Padre, liberandoli dal male e dal peccato. Nessuno è escluso a priori da questa meravigliosa missione “salvatrice” e “liberatrice”. Gesù non si scandalizza di nessun “peccatore”, a ciascuno offre il suo sguardo ricco di speranza e misericordia: “Io sono venuto proprio per te, che ti senti un misero peccatore, condannato da Dio e disprezzato dagli uomini...”. Gesù ama essere attorniato dai peccatori perché, comunicando loro l’amore di Dio, spera che ognuno di loro possa cambiare vita e abbracciare un percorso di santità, divenendo, come Matteo, un amato discepolo… Gesù non è venuto a “chiamare i giusti” per separarli dai peccatori, perché il tempo della vita terrena è il tempo della conversione, della speranza e della misericordia. E poi, chi può considerarsi giusto davanti a Dio? Se un tale portasse nel cuore questa convinzione, sarebbe il più grande “disgraziato” della terra, credendo di essere meritevole della salvezza per le sue buone opere e i suoi sacrifici. Ma se tutte queste opere e sacrifici lo allontanano dalla misericordia verso i peccatori e dalla consapevolezza dell’essere anche lui un peccatore come loro, vuol dire che il vero Dio non lo ha ancora incontrato…
XI domenica del Tempo Ordinario (Mt 9,36-10,8) Collaboratori di Gesù Gesù percorre in lungo e in largo tutte le città e i villaggi della Galilea, annunciando la prossimità del regno di Dio con la sua illuminante parola e la potenza dei suoi miracoli. Ma, ad un certo punto, si rende conto che non può continuare così, operando da solo, perché la gente bisognosa sembra aumentare sempre più: «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Che bello questo sguardo di Gesù ricco di amore, misericordia e compassione! Quante volte Gesù ci ha guardato così! Proprio in quei momenti difficili, dove sembrava di non farcela più, dove la speranza era arrivata al limite della sopravvivenza: Gesù ci guardava con tenerezza, condividendo la nostra sofferenza e trasmettendoci il suo amore. Ma torniamo al nostro brano evangelico. Gesù, costatando la situazione “persa” di tanta gente, decide di fare qualcosa per loro. Che cosa fa? Chiama in causa i suoi discepoli, coloro che hanno lasciato tutto per mettersi al suo completo servizio, chiamandoli a condividere le sue ansie pastorali. Per prima cosa li esorta a pregare: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!». Con questa preghiera i discepoli sono invitati a diventare “collaboratori” del regno di Dio, facendo propri i desideri del Padre (il padrone della messe), desideri già condivisi dal Figlio. Ma la collaborazione dei discepoli non finisce qui. Ad essi non è richiesta solo la collaborazione attraverso la preghiera, ma un qualcosa di molto più coinvolgente e impegnativo, ossia la disponibilità ad andare nel mondo a fare le veci del loro Maestro: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi,
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risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni». Se ci fermiamo un attimo a riflettere, quello che fa Gesù è davvero incredibile. Egli, il Figlio di Dio, decide di rendere partecipi alcuni esseri umani (i suoi dodici discepoli preferiti) del suo stesso potere divino: «Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e infermità». In questo gesto di condivisione totale possiamo contemplare l’umiltà di Gesù, che non considera il suo potere divino come un qualcosa da tenere gelosamente custodito. Egli lo ha ricevuto dal Padre e senza alcun problema lo dona ai suoi discepoli, ricordando loro che devono considerare quel potere divino un “regalo” ricevuto gratuitamente da Dio, da offrire perciò gratuitamente agli uomini che incontreranno sul loro cammino: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Sulla base delle parole e del comportamento di Gesù possiamo trarre i lineamenti spirituali del suo volto, nonché di quello dei suoi discepoli. Il Figlio di Dio fatto uomo appare impegnato con tutte le sue forze ad andare incontro agli uomini per offrire loro le grazie della salvezza divina, mai mostrandosi indifferente alle diverse situazioni di bisogno che incontra. Lo stesso sono chiamati a fare i suoi discepoli, spendendosi totalmente nella missione di portare a tutti il lieto annuncio della vicinanza del regno di Dio, per mezzo della parola e dei segni della potenza divina trasmessa loro da Gesù. Questa piena disponibilità all’annuncio del regno di Dio e alla guarigione dei cuori umani deve essere accompagnata da una grande umiltà. Quella stessa di Gesù che, rendendosi conto della moltitudine di gente da raggiungere, cerca aiuto nei suoi discepoli, investendoli dei suoi stessi poteri divini. I discepoli perciò non devono mai dimenticarsi che quel potere divino loro affidato non è per renderli grandi tra la gente, ma semmai per rendere “grande” la gente, liberandola dalla schiavitù del male. Ecco allora l’invito di questa domenica: mettersi a disposizione di Gesù per diventare suoi fidati collaboratori del regno di Dio. Per prima cosa facendo nostro il suo sentimento di “compassione” per le sofferenze e le fatiche umane, portandolo nel nostro cuore attraverso la preghiera. Poi tenere le orecchie aperte, perché come frutto di questa sincera e sentita preghiera del cuore potremmo essere chiamati anche noi, come i suoi discepoli, a condividere il suo stesso potere e la sua stessa missione divina… XII domenica del Tempo Ordinario (Mt 10,26-33) Senza paura Il Vangelo di questa domenica fa parte del lungo discorso con il quale Gesù prepara i dodici apostoli alla loro prima missione evangelizzatrice. Egli non nasconde loro le grandi difficoltà che incontreranno: persecuzioni fisiche e verbali, congiure e tradimenti, arrivando poi a pronunciare una frase tanto lapidaria quanto “terribile”: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome». Questo non vuol dire che, “statisticamente” parlando, tutte le persone che incontreranno lungo il cammino li odieranno, ma che l’odio nei loro confronti potrà manifestarsi nel cuore di qualsiasi uomo o donna, anche tra i parenti e gli amici (o presunti tali).
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Nella pratica il discorso si riferisce al fatto che la testimonianza della fede cristiana, ovvero della relazione intima e totalizzante con la persona di Gesù Cristo, Signore della storia e Figlio eterno di Dio, comporta un profondo stacco con la cultura e la società in cui si è inseriti. Nella fattispecie dei primi discepoli era la cultura giudaica e la società pagana romana. Scegliere di seguire Cristo voleva dire gioco forza “rompere” con lo status quo, con il “si è sempre fatto così”, con il pensare comune della stragrande maggioranza delle persone che ti stanno accanto. Da lì allora discussioni, incomprensioni, prese in giro, persecuzioni e minacce di morte. Di fronte a tutto ciò Gesù invita i suoi discepoli a “non aver paura” di tutto questo, una frase che ripeterà per ben tre volte nel nostro testo. Il primo “non aver paura” riguarda il coraggio di testimoniare la verità della fede in Cristo, quando sappiamo che di fronte a noi ci sono persone che la pensano diversamente e magari sono anche pronte a controbattere, prenderci in giro e a perseguitarci sotto varie forme. Gesù ci invita ad essere sinceri e a testimoniare la luce della verità, perché sarà sulla base dell’accettazione o meno di quella verità che gli uomini saranno giudicati da Dio. Non testimoniare la verità divina è da considerarsi perciò un peccato di “omissione”. Il secondo “non aver paura” fa riferimento ad uno stadio successivo. Qualcuno si è così arrabbiato delle nostre parole e della nostra testimonianza convinta, che vorrebbe toglierci di mezzo (questo non succede da noi in Italia, ma in diversi altri paesi del mondo si verifica quotidianamente). In queste situazioni altamente drammatiche Gesù invita a guardare alla vita dopo la morte, a quella beatitudine eterna, di cui nessun uomo ha il potere di impedirne l’accesso: «E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima». Il terzo “non aver paura” è un richiamo alla provvidenziale supervisione divina sulla nostra vita. Dio non toglie mai il suo sguardo amorevole nei nostri confronti, nemmeno per un attimo. Non gli sfugge niente di ciò che viviamo. Egli è al corrente di tutto, non solo delle nostre azioni, ma anche dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri, e persino di ogni particolare del nostro corpo: «Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati». Con questa frase Gesù non vuole dire che non ci cadranno mai i capelli o che nessuno potrà mai torcerci un capello, perché il martirio di sangue è una reale possibilità per ogni cristiano. Per spiegarne il suo senso dobbiamo andare al paragone fatto da Gesù con la vita dei passeri, che stanno sotto lo sguardo amorevole del Padre: «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro». Ecco allora il suo significato: “Voi siete sempre sotto la protezione vigile del Padre, per cui non dovete mai aver paura dei vostri persecutori. Se il Padre vostro riterrà che siete pronti a subire quella prova, vi darà la forza per sostenerla, anche se fosse la prova del martirio di sangue”. Per cui anche il martirio non è frutto del caso o solo della cattiveria e della violenza degli uomini, ma è il nostro ultimo atto di testimonianza della nostra fede e del nostro amore a Gesù. E’ un invito ad un ultimo abbandono alla volontà del Padre, una morte quindi “benedetta” da Dio, che ci rende “uguali” al suo Figlio Gesù. “Non abbiamo paura” allora di testimoniare la nostra bellissima fede cristiana. Non siamo tiepidi, timidi, timorosi, titubanti nell’affermare la nostra appartenenza a Cristo. Così facendo commetteremo un peccato di omissione nei confronti della sua stessa persona, non riconoscendolo e quindi rinnegandolo «davanti agli uomini».
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XIII domenica del Tempo Ordinario (Mt 10,37-42) Accogli uno e prendi tre! Siamo alla fine del lungo discorso che Gesù tiene ai suoi dodici discepoli prima di inviarli per la prima volta in “missione”. Le sue ultime raccomandazioni hanno lo scopo di ricordare loro che la missione evangelizzatrice, da compiersi “nel nome di Gesù”, comporta il superamento dei legami di sangue a favore del legame spirituale che unisce intimamente il discepolo e il Maestro, l’inviato e l’Inviante: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio e figlia più di me, non è degno di me». Questo sta a significare che nessun legame familiare può impedire lo svolgimento della missione evangelica: se un tuo “caro” si frappone, diventando un ostacolo alla missione, magari perché non accetta i valori da te proclamati oppure non vuole riconoscere il tuo appartenere intimo a Cristo, sei chiamato a non condividere, ma a contrastare le sue provocazioni e i suoi giudizi antievangelici. Le successive parole di Gesù si fanno ancora più chiare e dure: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà». Il discepolo missionario deve essere disposto a dare tutta la sua vita (fino alla possibile esperienza del martirio di sangue) per amore di Gesù e del Vangelo annunciato. Chi di fronte alla prova della persecuzione e del martirio si tira indietro, decade immediatamente dalla qualifica di discepolo e di missionario, dimostrando che in realtà non è disposto a dare tutta la sua vita a Gesù. La tentazione di tenere per sé la vita per paura del dono totale e della morte darà l’illusione di essere rimasti “vivi” ma, in realtà, dal punto di vista spirituale, si è “morti”, avendo interrotto il legame intimo che ci legava con Gesù. Al contrario, l’avere affrontato con coraggio la morte per amore di Gesù, sebbene faccia perdere la vita corporea, ci permette di oltrepassare la mera vita terrestre, facendoci entrare nell’eternità di quella divina. L’attenzione di Gesù si sposta poi a coloro che si presentano come collaboratori della missione dei discepoli, facendo del bene agli inviati di Gesù: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Basta un solo piccolo gesto, come quello di dare un semplice bicchiere d’acqua ai discepoli missionari, riconosciuti come inviati di Gesù, che l’autore di quel gesto di carità avrà una lodevole ricompensa da parte di Dio. L’aver accolto nel proprio cuore uno di questi discepoli missionari fa entrare infatti nel cuore di Gesù e di Dio Padre, che ha inviato suo Figlio come primo missionario del Vangelo. E’ lo Spirito Santo che permette tutto ciò, accompagnando chi accoglie a credere fermamente che quel discepolo missionario bisognoso di aiuto stia agendo nel nome di Gesù, essendo in missione non per conto proprio, ma per conto di Dio. Che cosa può voler dire tutto ciò per noi? Gesù ci invita ad aprire gli occhi e a non perdere l’occasione di entrare in relazione con lui attraverso tutti i suoi discepoli missionari che ancora oggi manda lungo le vie del mondo. La sua presenza in loro va al di là della simpatia o meno che possono suscitare in noi. Si tratta infatti di una questione di “fede” in colui che li ha inviati in missione. Occupiamoci di loro, diamogli una mano,
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certi che, qualunque cosa faremo nei loro confronti, Gesù la considererà fatta a lui stesso. Per esempio, anche la semplice accoglienza gioiosa e cordiale del parroco che varca la soglia della nostra casa per l’annuale benedizione delle famiglie, è da leggere come la visita benedicente di Gesù per mezzo del suo discepolo-missionario-parroco… «Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto». E’ molto interessante questo parallelo fatto da Gesù. Se io accolgo un discepolo inviato da Gesù per parlarmi del suo Vangelo (vestendo così i panni del “profeta”) e, soprattutto, accolgo la parola divina di cui egli è mediatore, condividerò con lui la ricompensa di cui egli ha diritto per aver avuto il coraggio e la carità di annunciare a me il Vangelo. E qual è questa ricompensa? Il condividere insieme la stessa gioia di credere in Gesù e nella sua parola. Ecco allora che si dà forma alla Chiesa, la comunità dei fratelli e delle sorelle che si comunicano la parola di Dio, accogliendosi a vicenda con semplicità e familiarità, nell’umile e gioiosa consapevolezza di essere tutti dei “beneficiati” dalla grazia divina. Santa Famiglia (Mt 2,13-15.19-23) Le vie del Signore non sono le nostre vie Non si può proprio dire che la vita della Santa famiglia sia cominciata in maniera tranquilla. Subito dopo la misteriosa visita dei magi arriva la “terribile” notizia, recata da un angelo, che il re Erode vuole uccidere il neonato Gesù. Immaginiamo l’immenso stupore segnato nei volti di Maria e Giuseppe: “Non è possibile! Perché questa cosa terribile?”. Ma non c’è tempo da perdere, non è questo il momento di fare domande, bisogna scappare subito, in piena notte: direzione Egitto... L’evangelista Matteo però una risposta a noi la offre: si deve compiere una profezia: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio». Non è allora che Dio ha perso il controllo della storia, come poteva sembrare a Maria e Giuseppe, ma dietro c’è un progetto che ha a che fare con la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù egizia. L’opulente e opprimente faraone di allora prende oggi il volto del re Erode: stesso desiderio di potere assoluto, stessa durezza di cuore e violenza. Maria e Giuseppe non comprendono nulla di tutto questo, ma obbediscono alla volontà di Dio trasformandosi, loro malgrado, in fuggiaschi ed esuli. Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù vivono così un’esperienza di grande precarietà, debolezza, povertà e umiltà, di cui hanno già vissuto una sorta di “antipasto” nella grotta di Betlemme. Per alcuni anni Maria e Giuseppe saranno costretti a vivere lontano dai loro familiari e dalle loro radici, fuori dalla terra benedetta da Dio (Israele), per vivere in un paese pagano, a loro completamente sconosciuto, dove sono costretti a rimboccarsi le maniche e ricominciare da zero. Ogni giorno poi vivono nell’attesa di ricevere da Dio la notizia del loro prossimo destino. Maria e Giuseppe hanno capito che la loro vita è ormai totalmente nelle mani di Dio, a completa disposizione del suo sempre più misterioso progetto di salvezza, progetto che non sono ancora in grado ancora di afferrare...
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Visto che a quel tempo non c’erano ancora i giornali, viene mandato di nuovo un angelo per portare il lieto annuncio della fine dell’esilio in terra d’Egitto, perché la causa di ciò, il re Erode, è morto. Così la Santa famiglia si rimette in cammino, questa volta però un cammino vissuto nella gioia. Finalmente possono tornare nella loro patria e riabbracciare i loro cari. Ma ancora una volta “le vie del Signore non sono le vie della Santa famiglia”. Giuseppe infatti non si fida della nuova situazione politica, ha paura che Archelao, il figlio di Erode che ha ereditato dal padre il regno della Giudea, possa fare del male al piccolo Gesù, per cui non se la sente di ritornare a Betlemme. Giuseppe compie la scelta giusta, anche se per una motivazione non vera (non c’era più pericolo per Gesù). Scelta confermata dall’angelo che gli comunica che il piano divino non è, in effetti, di andare a vivere a Betlemme o in Giudea, ma in Galilea, nella città di Nazaret. Anche in questo caso la motivazione è profetica: «Sarà chiamato Nazareno». Guardando alle vicende della Santa famiglia nascono due sentimenti: uno di grande ammirazione per l’abbandono di Maria e Giuseppe alla “misteriosa” volontà di Dio. Ammirazione accompagnata anche da una fraterna “compassione” per tutte le fatiche e i travagli che hanno dovuto sopportare nell’esperienza dell’esilio in Egitto. Nei confronti di Dio però emerge un altro sentimento: la sensazione di essere davanti a un qualcuno d’inafferrabile, che ha una mente molto diversa dalla nostra, uno di cui è difficile capire i suoi progetti e le sue vie. Di fronte a lui ci si sente un po’ smarriti, in preda al “tutto è possibile”, ovvero “Dio ti può chiedere qualunque cosa, anche l’impensabile…”. Qui nasce l’affidamento alla Santa famiglia e la preghiera d’intercessione rivolta a Maria e Giuseppe, affinché ciascuno di noi possa crescere nella disponibilità a essere “usato” da Dio per compiere i suoi progetti di salvezza. Maria e Giuseppe hanno dato carta bianca a Dio affinché egli potesse scriverci sopra tutto ciò che voleva. Dio è in cerca di questi collaboratori, persone pienamente affidabili e pronte ad accogliere e mettere in pratica ogni suo desiderio. Non c’è detto niente di come Maria e Giuseppe vissero il loro esilio, ma sono sicuro che entrambi sarebbero pronti a testimoniare gli innumerevoli episodi nei quali hanno sperimentato la vicinanza e la continua provvidenza di Dio. Ci esorterebbero, perciò, a non aver paura di metterci a completa disposizione di Dio per collaborare al suo misterioso progetto universale di salvezza.
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ANNO B VIII domenica del Tempo Ordinario (Mc 2,18-22) Perché digiunare? Perché i discepoli di Giovanni e dei farisei digiunavano? In perfetta linea con il significato del digiuno e delle opere di penitenza della sana tradizione giudaica, essi digiunavano per chiedere a Dio il perdono dei propri peccati e di quelli di tutto il popolo d’Israele. Consapevoli della loro lontananza da Dio, con umiltà chiedono a Dio di farsi vicino alla loro vita e perdonare i loro peccati. Essi sono da ammirare per questa loro lodevole intenzione. Perché allora i discepoli di Gesù non partecipano a questa santa opera di penitenza? Perché invece di digiunare come gli altri pii fedeli “mangiano e bevono”, come se niente fosse? Interrogato sulla questione Gesù risponde facendo capire che i suoi discepoli non possono proprio digiunare. Non è che non vogliono, perché sono pigri o perché sono poco zelanti, il fatto è che a loro non è permesso digiunare, poiché si trovano in una situazione “particolare” che li rende impossibilitati a imitare quei loro santi colleghi. Gesù risponde alla domanda, ponendo a sua volta un’altra domanda, utilizzando l’immagine del normale comportamento adottato dagli invitati a nozze. Egli vuol far capire che, se i suoi discepoli oggi si mettessero a digiunare, si comporterebbero come quegli invitati al pranzo di nozze che, invece di gioire e far festa insieme allo sposo, si mettono a fare i musi lunghi, non avendo voglia di toccare alcun cibo. Questo atteggiamento non sarebbe assurdo e ridicolo, fa osservare Gesù? I suoi ascoltatori non possono non essere d’accordo con lui: è evidente che quello sarebbe un comportamento assurdo e totalmente inappropriato. Bene, prosegue Gesù: capite adesso perché i miei discepoli non possono digiunare? A questo punto le facce dei suoi interlocutori si fanno perplesse, poiché questo passaggio non pare loro molto chiaro… Ora vi spiego, continua Gesù: Perché voi fate digiuno? Per ottenere la vicinanza di Dio e il perdono dei peccati. Bene: Io sono colui che perdona i peccati e sono qui davanti a voi, quindi se mi credete dovreste smettere subito di digiunare, perché a questo punto il motivo per digiunare non sussiste più. I miei discepoli credono che Io sono il Dio vicino all’uomo, lo Sposo che li invita a condividere la sua gioia. Ecco il motivo per cui loro non possono digiunare. Se i discepoli di Gesù non possono digiunare, perché sono consapevoli della presenza dello Sposo in mezzo a loro è altrettanto vero che i discepoli dei farisei e quelli di Giovanni, non credendo in quella presenza, non solo potevano ma, potremmo dire, “dovevano” digiunare. Cosa può significare tutto questo per la nostra vita? Gesù ci vuole ricordare la sua chiamata a una vita contrassegnata dalla comunione gioiosa con lui. Piuttosto che fissare gli occhi sui nostri peccati e sulle nostre opere di penitenza, col rischio di farci perdere la vicinanza di Gesù (vedi i discepoli di Giovanni e dei farisei), siamo continuamente invitati a godere della sua dolce compagnia. Il discepolo di Gesù è contrassegnato, o almeno dovrebbe esserlo, da una profonda gioia interiore, che parte dalle fibre invisibili del cuore per riverberarsi, in superficie, fino a “toccare” i
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lineamenti del corpo. Quando però sperimentiamo la mancanza della comunione con Gesù, poiché a causa del nostro peccato facciamo fatica a riconoscerci invitati alla gioia delle nozze con lui, cosa possiamo fare? In quei momenti lo stesso Gesù ci consiglia di fare digiuno: “Verranno giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno”. Solo la scelta consapevole del peccato può farci perdere la comunione con lo Sposo, ma questa è una perdita temporanea, che dura fino a quando non chiediamo perdono allo Sposo, che prontamente ce lo concederà. Se quando Gesù è con noi non possiamo fare digiuno, è comunque possibile e assume grande valore agli occhi di Dio, fare digiuno non per noi stessi, ma per quelle persone che in quel dato momento non godono nel loro cuore della comunione con lo Sposo. Chiediamo allo Spirito Santo di farci sperimentare ad ogni Messa la gioia dell’intima comunione con il nostro Sposo Gesù.
IX domenica del Tempo Ordinario (Mc 2,23-3,6) Dal sabato alla domenica La cornice temporale che raccoglie i due episodi evangelici narrati è il giorno di sabato, lo shabbat, il giorno settimanale di festa degli ebrei, il giorno santo per eccellenza. Una cornice che non è solo temporale, ma anche profondamente teologica, in cui Gesù avrà l’occasione di manifestarsi come il “signore” del sabato: «Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato». Come manifesta Gesù la sua signoria sul sabato? Andiamo a vedere il primo episodio, che ha per protagonisti i suoi discepoli. Essi in preda alla fame si nutrono dei grani delle pannocchie di mais prelevate nei vicini campi biondeggianti. A questo improvvisato pic-nic assistono alcuni farisei che, profondamente “scandalizzati” da quel comportamento, chiedono subito spiegazioni a Gesù. I farisei non rimproverano ai discepoli di Gesù l’essersi accaparrati qualcosa che non appartiene a loro, “rubando” le pannocchie altrui, poiché la Legge di Mosè autorizza chiunque, in caso di bisogno, a nutrirsi dei frutti prodotti dal lavoro altrui: «Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne spighe con la mano, ma non potrai mettere la falce nella messe del tuo prossimo» (Dt 23,26). Qual è allora la grave colpa commessa? L’aver compiuto l’attività lavorativa dello strappare e sfregare con le mani le pannocchie prelevate dai campi, azioni che in giorno di sabato sono tassativamente proibite, poiché infrangono la prescrizione dell’assoluto riposo prescritto in quel santo giorno per tutti gli israeliti. La risposta di Gesù non si fa attendere. Egli, dopo aver citato l’esempio biblico di Davide e dei suoi compagni che, in una simile situazione di necessità, si nutrono di pani consacrati a Dio, che solo i sacerdoti potevano mangiare, sentenzia il suo pensiero sul sabato con la famosa frase: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!». Con queste parole Gesù vuole dire che ogni legge, anche quelle religiose, devono
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avere come scopo il bene dell’uomo. Per cui, in certe condizioni, quando entrano in gioco i bisogni vitali dell’essere umano (ad es. il bisogno di nutrirsi) è lecito violare la prescrizione della legge, poiché in quel caso, obbedendo alla legge, non si fa più il bene dell’uomo, ma il suo male. Passiamo ora al secondo episodio, ambientato in una sinagoga. Gesù continua il suo insegnamento sul sabato, compiendo volutamente in quel giorno un “lavoro”, un’azione benefica a favore di uomo dalla mano paralizzata. Gesù è pronto a donare la guarigione a quell’uomo posto lì nel mezzo con la mano paralizzata, a ridare la vita a una mano da tempo morta, a far trionfare il bene sul male. Che ne pensano i presenti? E’ una cosa che si può fare in giorno di sabato? Gesù lancia la sfida, ponendo questa domanda altamente provocatoria: «E’ lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o ucciderla?». Immaginiamoci i lunghi istanti di gelido e imbarazzato silenzio che regnano nella sinagoga. Gesù prova dei sentimenti di vera e propria indignazione e di profonda tristezza, poiché tutti stanno zitti, non rispondendo alla sua domanda. Nessuno ha il coraggio di mettersi dalla parte di Dio e del bene, difendendosi dietro lo schermo protettivo della legge: di sabato non si fa alcuna attività, anche il bene è vietato! Gesù li guarda uno ad uno negli occhi, scorgendo tanta indifferenza, in alcuni vede anche orgoglio e irritazione, in tutti costata una flagrante mancanza di carità verso il prossimo e di un’autentica relazione d’amore con Dio. Siamo arrivati all’assurdo. Anche Dio deve sottomettersi al riposo assoluto prescritto dalla legge del sabato, impedendogli così ogni attività salvifica a favore dell’uomo! Assistiamo a una vera e propria “perversione” del senso profondo del sabato che, nella tradizione biblica, non ha il solo riferimento al settimo giorno in cui Dio si riposa dal lavoro della creazione del mondo (cfr. Es 20,8-11), ma anche alla liberazione dalla schiavitù egizia, segno della potente opera salvifica di Dio a favore dell’uomo (cfr. Dt 5,15). Operando la guarigione in giorno di sabato Gesù vuole ricordare ai presenti che Dio è “signore” assoluto del sabato. Di sabato egli fa quello che vuole, continuando la sua “santa” opera degli altri giorni: amare gli uomini, agendo sempre in loro favore. Dio non riposa mai, perché per noi cristiani il sabato ha ceduto il passo alla “domenica”: il giorno della vittoria sul peccato, sul male e sulla morte… X domenica del Tempo Ordinario (Mc 3,20-35) E’ matto! L’improvviso e radicale cambiamento di stile di vita operato da Gesù deve aver sconcertato non poco i concittadini di Nazaret e, in particolare, i suoi parenti. Le voci si rincorrono. Si parla di numerosi miracoli da lui compiuti (indemoniati, lebbrosi e paralitici guariti), di grandi discorsi che fa alla gente, di aspre critiche ricevute da parte di farisei e scribi perché non disdegna la compagnia dei peccatori pubblici, non rispetta il giorno di sabato e non fa mai digiuno. Si racconta anche delle diverse centinaia di persone che, da tutto Israele e persino oltre confine, si mettono al suo seguito e del fatto
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che sia diventato il “maestro” di dodici uomini, che si proclamano suoi discepoli. Immaginiamo la gente di Nazaret e, soprattutto, i familiari di Gesù, stretti a Maria, sua madre, per chiedere spiegazioni in merito e se anche lei condivide quello che suo figlio sta combinando da mesi in giro per la Galilea. La goccia che fa traboccare il vaso è la notizia che Gesù, “assalito” dalla gente, spesso non ha neanche il tempo per mangiare. Questo è davvero troppo. Sta esagerando. Non può continuare così! Bisogna fare qualcosa per farlo ritornare in sé, perché rischia di rovinarsi la vita e morire di stenti. I familiari di Gesù sintetizzano il loro giudizio su Gesù con questa breve ma molto significativa frase: «É fuori di sé». In effetti, l’espressione calza a pennello per Gesù, non perché sia diventato “matto”, come pensano i suoi familiari, ma perché egli vive veramente “fuori di sé”, mettendosi a completa disposizione delle persone che si recano da lui per ricevere lumi e consolazione. A motivo del bene del figlio, o forse di più a difesa del buon nome della famiglia (visto che su Gesù se ne dicono di cotte e di crude), Maria viene convinta dai familiari a condurli da Gesù per costringerlo ad abbandonare quel suo folle progetto e ritornare a casa a continuare a fare il falegname e la consueta vita di prima. Mi immagino che Maria non avesse nessuna voglia di andare a fare la ramanzina a Gesù per riportarlo a casa. Primo perché egli ha ormai più di trent’anni e poi perché sa bene che il suo destino di uomo-Dio è misterioso e unico, rompendo qualunque tipo di schema mentale dettato dal solo buon senso “umano”. Però, forse per il fatto che i parenti la scocciavano giorno e notte, minacciando di andare comunque a recuperare il figlio impazzito, anche senza di lei, Maria si decide ad andare con loro, così da rendersi conto di persona della reale situazione del figlio ed essere al suo fianco, pronta a difenderlo dalle accuse dei parenti. La comitiva si mette così in viaggio alla ricerca del Gesù perduto. Egli viene trovato, guarda caso, attorniato da un mucchio di gente che pende dalle sue labbra. I familiari di Gesù non vogliono fare scenate, irrompendo con violenza nell’assemblea. Si accontentano di far arrivare a Gesù il messaggio che sono lì fuori e desiderano parlargli. La reazione di Gesù è “scioccante”. Comincia subito con una domanda: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?», facendo capire ai suoi parenti che le cose sono cambiate e che per lui non sono più i legami di sangue a contare. Infatti, guardando negli occhi coloro che gli sono attorno in atteggiamento di discepoli, svela i suoi nuovi legami “familiari”: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre». La curiosità ci spinge a chiederci quali sia stata la reazione avuta dagli ormai “ex” familiari di Gesù: se ne saranno andati via senza parlargli, convinti che non ci sia più nulla da fare? Non lo sappiamo, anche se questa sembra essere l’ipotesi più probabile. Fermiamoci invece sulla rivelazione di Gesù dei suoi “nuovi” legami familiari. I parenti di Gesù, ovvero le persone a lui più prossime, sono quelli che condividono il suo stesso stile di vita. Sono quelli che mettono al centro della loro esistenza il desiderio di conoscere e praticare la volontà di Dio. Da questo punto di vista Maria rimane la familiare di Gesù numero uno, non perché le ha donato la sua “carne”, ma perché si è resa docile all’azione dello Spirito Santo, permettendo la maternità divina. La frase di Gesù è “rivoluzionaria” poiché mette al primo posto i legami spirituali e non quelli di sangue. Questo significa che, se dal punto di vista del legame di sangue mia madre è mia madre, dal punto di vista del legame spirituale, creatosi per la comune
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fede in Gesù, ella diviene “sorella” di Gesù e quindi anche mia “sorella”, appartenendo entrambi alla grande famiglia dei figli di Dio.
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ANNO C Santa Famiglia (Lc 2,22-40) Una famiglia unita Il Vangelo di questa domenica, dedicata alla Santa famiglia, ci proietta nel tempio di Gerusalemme, quando Gesù è ancora poco più di un neonato. L’evangelista Luca sembra sovrapporre due riti prescritti dalla Legge di Mosè: la liberazione di Maria dall’impurità connessa al parto e l’offerta al Padre celeste del piccolo Gesù in obbedienza a ciò che Dio lasciò detto a Mosè a ricordo della liberazione dalla schiavitù egizia: «Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o animali appartiene a me» (Es 13,2). La presentazione/offerta di Gesù al tempio ha l’effetto di rafforzare in Maria e Giuseppe la consapevolezza che quel piccolo bambino che portano in braccio è prima di tutto figlio del Padre celeste e, poi, figlio loro. Inoltre, il fatto che abbiano offerto per il sacrificio due tortore (o due colombe), attesta la loro povertà materiale (la Legge infatti prescriveva il sacrificio di un agnello, ma per i meno abbienti andava bene anche la semplice coppia di uccelli). Ecco allora come Maria e Giuseppe si presentano, per la prima volta, al tempio di Gerusalemme in compagnia del loro neonato Gesù: nelle vesti di due povere e umili persone, pie e devote a Dio. Nel tempio poi Maria, Giuseppe e il bambino incontrano due persone inviate loro dallo Spirito Santo, due anziani “profeti”: Simeone e Anna. Con Simeone e Anna sembra essere finita l’epoca delle rivelazioni angeliche personali a Maria e Giuseppe: ora saranno degli uomini in carne ed ossa a parlare loro della missione salvatrice del figliolo divino. In particolare, Simeone pronuncerà un vero e proprio oracolo profetico sul bambino Gesù, rivolgendosi così a Maria: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». Dopo la rivelazione dei pastori, che aveva destato grande stupore in Maria e Giuseppe, le parole di Simeone si fanno ancora più stupefacenti e misteriose. Esse contengono in germe il destino di sofferenza e dolore che dovrà sopportare il Messia Gesù per compiere la sua missione di salvatore. Una passione dolorosa alla quale sarà misteriosamente associata anche sua madre, Maria, la cui anima verrà trafitta da una spada ben affilata. Emerge allora la comunanza di destino della Sacra famiglia, chiamata a condividere, in tutto e per tutto, il progetto salvifico architettato dal Padre: una famiglia unita nell’adempiere la volontà divina, qualunque essa sia, costi quel che costi. Un esempio di grande fedeltà e di grande amore che li lega indissolubilmente al Padre, ma anche indissolubilmente tra loro tre. Dopo l’esperienza altamente mistica di Simeone, che ringrazia e loda Dio per avergli fatto il tanto atteso regalo di poter vedere prima della morte il Messia, entra in scena Anna, la quale si adopera a far uscire dalle mura del tempio la grande notizia che il
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Messia è giunto in mezzo a loro. Maria e Giuseppe assistono con immenso stupore agli interventi profetici di Simeone e Anna, unendosi alla loro immensa gioia. Prende forma così un coro santissimo che loda all’unisono il Dio d’Israele che, per mezzo di quel piccolo neonato che hanno tra le mani, salverà il popolo d’Israele e l’umanità intera. Dopo l’eccitante ed esaltante esperienza di Gerusalemme, Maria e Giuseppe tornano a Nazaret, nell’intrepida attesa di vedere come e quando il loro Gesù avrebbe indossato i panni del Messia, figlio di Dio. Il tempo passa, ma non accade nulla di particolare: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era con lui». Come ogni bambino Gesù ha bisogno delle cure di Maria e Giuseppe per crescere. Le due figure genitoriali non sono dei semplici “accessori”: il Padre ha bisogno di tutte le loro belle qualità per educare il suo Figlio a diventare un uomo e un ebreo devoto. Parallelamente all’azione educatrice di Maria e Giuseppe, anche il Padre si adopera nell’infondere nella mente e nel cuore di Gesù la sapienza divina. Una misteriosa e feconda collaborazione divino-umana che brilla nella Santa Famiglia di Nazaret e che si offre come modello per le nostre famiglie. Chiediamo a Maria e Giuseppe che ogni nostra famiglia possa crescere e fortificarsi nella sapienza e nella grazia di Dio, per trasformarsi in santi focolari ricchi di fede, speranza e tanto amore.
VI domenica del Tempo Ordinario (Lc 6,17.20-26) Discepoli e non-discepoli Se l’evangelista Matteo propone il discorso della “montagna”, Luca presenta il discorso di Gesù dalla “pianura”. Esiste infatti un evidente parallelo di contenuti tra i due discorsi, sebbene il discorso della montagna sia molto più lungo di quello della pianura. Questa differente lunghezza s’incontra già all’inizio dei due discorsi, il cosiddetto Vangelo delle beatitudini. In Matteo infatti troviamo otto beatitudini, mentre in Luca solamente quattro. La formulazione delle beatitudini poi non è identica, inoltre Luca aggiunge la versione “negativa” dei «Guai a voi…». Vediamo allora questo inizio del discorso della pianura. Il testo dice che in quella pianura si erano radunati una «gran folla di discepoli e gran moltitudine di gente», proveniente da varie località giudee e pagane. Quando però Gesù comincia a predicare sembra volersi rivolgere soprattutto ai suoi discepoli: «Ed egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva…». Sta parlando a loro e di loro, di coloro che hanno deciso di mettersi seriamente al seguito di Gesù. Questi però non sanno ancora bene che cosa comporti tale scelta. Essa è infatti piuttosto onerosa, come lo stesso Gesù chiarirà bene in seguito: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Attraverso questo discorso in forma di “beatitudini” e “maledizioni”, Gesù comincia a offrire dei chiari criteri volti a illuminare l’identità del suo vero discepolo. Sia le quattro beatitudini sia le quattro maledizioni sono formulate alla seconda persona plurale (“Beati voi…; Guai a voi…”), in modo che ognuno dei presenti, discepoli (veri
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o presunti tali) e semplici simpatizzanti abbiano ben chiare in testa le condizioni che rendono un uomo e una donna degli autentici discepoli di Gesù. Gesù parla di coloro che in quell’esatto momento sono poveri, affamati, nel pianto e in situazione di grande persecuzione (essere odiati e messi al bando), a motivo della fede professata in lui. Questa fotografia della “carriera” del discepolo non appare granché affascinante e appetibile, anzi… Eppure Gesù illumina gli uditori con delle parole che infondono coraggio, fiducia, speranza e gioia, perché e proprio attraversando la porta della povertà che si può accedere al regno di Dio. Inoltre dopo la fame ci sarà la sazietà e dopo il pianto ci saranno gioia e risa. E’ chiaro che qui Gesù sta alludendo all’esperienza della beatitudine eterna del paradiso, ma anche a tutte quelle esperienze di provvidenza divina che il discepolo sperimenterà più volte nella sua vita terrena. Gesù ci tiene poi a sottolineare che questa vita povera, affamata, sofferente e perseguitata è la stessa identica vita percorsa da tutti gli antichi “profeti” che, mettendo al centro della loro esistenza i comandamenti di Dio, si sono dovuti scontrare con tutte le forze maligne operanti nel mondo, che sono contrarie alla realizzazione della volontà divina. Il discorso di Gesù però non finisce qui. Se le quattro beatitudini tratteggiano l’esperienza spirituale vissuta dal discepolo, le quattro maledizioni, al contrario, tratteggiano la vita di chi forse crede di essere un discepolo, ma, di fatto, ne è l’esatto contrario. Le quattro maledizioni, introdotte dall’espressione “Guai a voi”, sono infatti il “negativo” speculare del “positivo” delle beatitudini: «Guai a voi ricchi […] che ora siete sazi […] che ora ridete…». Se il presente di queste persone appare particolarmente bello e gratificante, il futuro si preannuncia invece particolarmente doloroso, comportando lo stravolgimento totale di ciò che ora stanno vivendo: «Avrete fame […] sarete nel dolore e piangerete…». Se la vita del discepolo è una vita “profetica” che parla di Dio agli uomini, esortandoli alla conversione e all’adesione ai comandamenti divini, quella dei “non discepoli” è una vita comoda e assolutamente conformista, egoisticamente ripiegata su se stessi, nella costante paura di perdere ciò che si ritiene la fonte della propria felicità: soldi, potere, fama, comodità, piaceri e gioie mondane… Abbiamo così davanti a noi la “fotografia” della vita del discepolo, una vita certamente esigente e dura ma promossa e vissuta dallo stesso Gesù, benedetta dal Padre celeste e sostenuta e accompagnata dallo Spirito Santo. Dall’altra parte abbiamo invece il “negativo” della vita del non-discepolo, una vita certamente più facile, apparentemente più ricca di piaceri e di soddisfazioni terrene, ma che agli occhi di Dio non ha alcun valore, una vita che porta dritti, dritti all’inferno…
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VII domenica del Tempo Ordinario (Lc 6,27-38) Amare i nemici «Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male». Siamo al cuore del messaggio evangelico di Gesù, la rivelazione dell’altissima vocazione alla quale l’uomo è chiamato da Dio: amare come lui ama, alla maniera divina. E’ Dio infatti il modello d’amore da seguire, colui che ama tutti: belli e brutti, amici e nemici, buoni e cattivi. Gesù è venuto a smascherare ogni nostro presunto attestato di santità, attribuibile all’aver fatto del bene ai nostri cari, ai nostri amici e a qualche altro conoscente. Tutto questo è cosa buona, certo, ma non dice automaticamente il nostro essere discepoli di Gesù e figli dell’Altissimo, che «è benevolo verso gli ingrati e i malvagi». Con molta lucidità e chiarezza Gesù afferma che amare solo chi ti ama e fare del bene solamente a chi ti fa del bene non è niente di speciale, rappresentando infatti la normalità delle relazioni umane. Esso è da vedersi come l’esperienza embrionale dell’amore, non certo il suo punto di arrivo, il vertice della sua piena espressione ed espansione. Il punto finale infatti è arrivare a spegnere il desiderio di vendetta o di odio e di rancore che nutri verso chi non ti ama affatto e che ti ha trattato male per rispondere al male ricevuto con il bene donato, pregando a favore di chi ti ha odiato o ancora ti odia. Questo è il livello dell’amore divino, che non oscilla sulla base della quantità e qualità del ritorno umano, ma che viene offerto sempre a tutti, “nemici” compresi. E’ evidente che il cammino dell’amare alla maniera divina comincia proprio dal contraccambiare l’amore ricevuto. Come potrei infatti amare chi mi odia se non riesco ad amare nemmeno chi mi ama? Per cui va bene iniziare nell’ambito della famiglia e degli amici, ma poi si deve uscire da questo cerchio ovattato, per percorrere gli avventurosi sentieri dell’amore verso gli estranei e i nemici. Ma perché avventurarsi in questa strada così dolorosa e irta di spine? Semplice: perché il Signore ti ha chiamato ed elevato ad amare come ama lui. Egli sa infatti che amando alla maniera divina, tu ti trasfiguri, diventando un essere divino, traboccante di amore e di misericordia. Dio sa che proprio lì sta la tua vera felicità e la pienezza della vita: un amore libero, gratuito e universale. Si tratta di mettere il tuo piccolo cuore nell’immenso cuore di Dio, lasciandoti “bruciare” dal suo infinito amore perdonante. Francesco d’Assisi, in un’ammonizione rivolta ai suoi frati a commento dell’esortazione di Gesù di amare i propri nemici, così si esprimeva: «Ama veramente il suo nemico colui che non si duole dell’ingiuria che l’altro gli fa, ma spinto dall’amore di Dio brucia a motivo del peccato dell’anima di lui. E gli mostri con le opere il suo amore» (Ammonizione IX). Solo l’amore di Dio può spingerci ad amare i nostri nemici. Quello stesso amore che Dio ci comunica quando noi stessi diventiamo attori del male nei suoi confronti o nei confronti dei nostri prossimi. E’ proprio quest’amore, sovrabbondante e immeritato, che Dio ci elargisce dopo che ci siamo macchiati del male, amore che siamo chiamati a distribuire, a nostra volta, a beneficio dei nostri nemici. Chissà poi che sperimentando, a
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loro volta, il nostro amore immeritato e gratuito, il loro cuore non si sciolga al pentimento e alla conversione? Questo miracolo si verifica più spesso di quanto uno possa credere… Quali passi intraprendere per arrivare ad amare i propri nemici? Per prima cosa, come dicevo prima, abituarsi ad uscire sempre di più da se stessi per amare coloro che per legame di sangue o di amicizia ci vogliono bene. Poi cominciare a prendere l’iniziativa di fare del bene anche a quelli che ancora non ci hanno fatto alcun bene, magari per indifferenza o per naturale “antipatia”. Nel frattempo esprimere frequentemente a Dio il desiderio di amare come ama lui, in maniera universale. Nel caso poi che qualcuno prenda l’iniziativa di comportarsi male nei nostri confronti, prima di reagire malamente, pensare a tutte le volte che Gesù ci ha fatto del bene in cambio del male che gli avevamo fatto noi. Se questo non bastasse, mettersi davanti a Gesù crocifisso, pensando alla sua preghiera d’intercessione rivolta al Padre a favore di tutti i suoi “nemici” che l’hanno portato alla morte…
VIII domenica del Tempo Ordinario (Lc 6,39-45) Prendila bassa!
Le parole di Gesù di questa domenica conducono ad una profonda revisione interiore, aiutandoci a far “verità” sul nostro consueto modo di pensare e agire. Gesù comincia il suo insegnamento invitando i suoi uditori all’umiltà, citando un proverbio sull’assurdità che una persona non vedente possa proporsi come guida di un’altra persona altrettanto non vedente: «Può forse un cieco guidare un altro cieco?». E’ una cosa fuori da ogni logica, oltre che molto pericolosa per entrambi: «Non cadranno tutti e due in un fosso?». Gesù vuole metterci in guardia dalla tentazione di andare oltre i nostri limiti, ad atteggiarci a supereroi, quando non lo siamo affatto. Il discorso sull’umiltà continua trasferendosi nell’ambito della relazione discepolomaestro. Come può un discepolo pretendere di arrivare a saperne di più del suo maestro? Una chiara esortazione allo stare al proprio posto, a non varcare i limiti della realtà, ponendosi obiettivi irrealizzabili. Dobbiamo considerare che nel contesto di allora l’apprendimento era costituito dall’imparare a memoria quello che ripeteva il maestro, per cui, essendo il maestro l’unica fonte del sapere (non c’erano ancora i libri e tantomeno Internet), il massimo al quale poteva tendere il discepolo era l’uguaglianza di conoscenza raggiunta dal suo maestro. Passiamo ora al discorso che più interessa a Gesù, quello delle relazioni fraterne, dove spesso regna il peccato di “giudicare”. Riecheggia ancora una volta l’esortazione ad un atteggiamento umile: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?». Gesù spiega che il servizio caritatevole di togliere la piccola pagliuzza presente nell’occhio del fratello si può fare solo dopo aver tolto la grande trave che si trova nel tuo. Che significa tutto ciò? Che
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prima di far emergere alla consapevolezza del fratello il suo “peccato” bisogna prima essere consci della realtà e della consistenza del proprio peccato. E’ infatti questa consapevolezza che genera in noi quel senso di piccolezza, limitatezza e umiltà, che non ci fa apparire agli altri come degli ipocriti o come degli implacabili giustizieri. E’ poi anche vero che se uno si rende conto della grandezza del proprio peccato (pesante come una trave), ci penserà due volte a far evidenziare la piccola mancanza (leggera come una pagliuzza) del fratello. Ma il discorso di Gesù non finisce qui, offrendoci un’interessante riflessione sulla radice del comportamento umano. Da dove provengono il bene e il male concepiti dall’uomo, spesso veicolati dall’uso della lingua e della parola? Tutto proviene dal cuore di quell’uomo: «L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male». Non è perciò il peccato dell’altro che mi provoca ira e turbamento, che mi fa gridare allo scandalo e mi porta a rivolgergli dure parole di giudizio e di rimprovero, poiché tutta questa “energia” negativa viene dal mio cuore: è roba mia. L’altro non può essere in nessun modo ritenuto responsabile della mia reazione. Una verità su cui meditare profondamente. Ricordo un tale che un giorno mi disse di considerarsi un uomo tranquillo e pacifico, però se qualcuno gli faceva qualcosa lui reagiva malamente, attribuendo la sua cattiva reazione all’altro, colpevole di avergli indotto, con il suo atteggiamento indisponente, la sua reazione violenta. Anche qui ancora una volta “umiltà”. Abituiamoci ad assumerci le nostre responsabilità, riconoscendo che i sentimenti negativi che affiorano nel nostro cuore non sono imputabili ai comportamenti degli altri, ma alla nostra cattiveria... Gesù conclude il suo discorso con un’ultima frase particolarmente illuminante, affermando che la bocca dell’uomo «esprime ciò che dal suo cuore sovrabbonda». Se incontriamo una persona che ci investe di parole buone ed edificanti vuol dire che il suo cuore è pieno di bontà, gioia e serenità. Se, al contrario, uno ci investe di cattiverie vuol dire che il suo cuore è zeppo di risentimento, ira e tristezza. Il nostro modo di parlare (buono o cattivo) lo possiamo vedere come la punta dell’iceberg, quella superficie che permette di identificare ciò che è presente nel profondo del mare. Per cui se vogliamo “convertire” i nostri atteggiamenti non dobbiamo concentrare gli sforzi su ciò che è presente in superficie (da oggi non dirò più le parolacce!), ma andare a scandagliare le profondità del nostro cuore (perché mi arrabbio di fronte a certe situazioni?).
IX domenica del Tempo Ordinario (Lc 7,1-10) Che fede! Davvero una gran bella figura quella del centurione di Cafarnao: una persona “amante” e “amabile”. Pur essendo uno straniero pagano, nonché rappresentante bellico della potenza imperiale romana che occupa militarmente il suolo d’Israele, dimostra di essere una persona umile, pacifica e solidale. Egli appare particolarmente rispettoso e interessato al culto del Dio d’Israele, tanto da prendersi a cuore l’impresa della
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costruzione della sinagoga di Cafarnao, in modo che i suoi amici ebrei possano avere un degno luogo per offrire il loro culto a Dio. Questo avere a cuore il bene degli altri si rivela anche quando il servo del centurione si ammala gravemente, rendendosi ormai prossimo alla morte. Il centurione, sensibile al fatto religioso ebraico, si ricorda di aver sentito parlare di un certo Gesù, un profeta proveniente dalla Galilea di cui si dice un gran bene e che ha compiuto tanti prodigi fra la gente. Per amore del suo servo decide di muoversi per chiedere il suo aiuto. Egli però, in quanto pagano, non si sente degno di andare a parlare personalmente con il santo profeta di Nazaret, per cui chiede umilmente aiuto ai suoi amici ebrei che, memori di tutto il bene fatto loro dal centurione, sono ben contenti di avere un’occasione per fare qualcosa per lui e, in parte, contraccambiare. Si mettono così alla ricerca di Gesù e, trovatolo, intercedono con grande insistenza per il centurione e il suo servo. Gesù li ascolta e si mette subito in marcia, in direzione di Cafarnao. Succede però che la voce che Gesù sta per entrare a Cafarnao giunge alla casa del centurione prima della persona di Gesù. Il centurione allora, pienamente rispettoso delle usanze ebraiche, comincia a preoccuparsi, perché un pio ebreo non poteva entrare in casa di un pagano, pena incorrere in un’impurità rituale. Che coscienza fine! Anche in questo caso il centurione si mette nei panni dell’altro e, guardando al suo bene, si premura di impedire a Gesù di varcare la soglia della sua casa, mandando in fretta degli amici perché gli sbarrino la strada: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito». Qui non c’è solo grande umiltà, ma anche una grandissima fede! Il centurione è infatti sicuro che non è necessario un contatto fisico per guarire il suo servo: il potere di Gesù è così grande che può fare chilometri e chilometri. É convinto che basti una sola parola pronunciata da Gesù e il suo servo ne avrà subito beneficio. Questa incredibile fiducia sorprende lo stesso Gesù che, pieno di meraviglia, mostra a tutta la gente che lo seguiva l’esempio dell’anonimo centurione pagano: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». Il centurione romano diviene così “modello” di fede per tutto il popolo d’Israele. Forse Gesù sarà riandato col pensiero alla mancata accoglienza ricevuta a Nazaret (volevano ucciderlo!), dove in sinagoga aveva richiamato la vicinanza benevolente di Dio nei confronti di due pagani (la vedova di Sarepta di Sidone e Naaman il Siro). Due esperienze altrettanto sorprendenti: da una parte l’inaspettata mancanza di fede delle persone a lui apparentemente più vicine (gli abitanti di Nazaret), dall’altra l’inaspettata fede di una persona apparentemente più lontana (il centurione di Cafarnao). Che cosa cogliere da questo episodio evangelico? Il centurione romano si presenta davvero come un modello di virtù. Egli dimostra che, qualunque ruolo si ha nella società (nel suo caso essere uno “scomodo” capo militare dell’esercito occupante), si può fare tanto bene. Basta essere aperti agli altri, rispettare le loro idee e le loro usanze, non nutrendo sentimenti di superiorità, ma ponendosi sempre alla pari con tutti. Il centurione ci insegna a “volere” sempre il bene delle persone che vivono attorno a noi, “vestendo” con umiltà i loro panni e prendendo iniziative a loro favore, senza aspettare che siano sempre gli altri a doversi muovere per primi. Infine, il centurione ci invita a relazionarci con Gesù non come ad un idolo che deve essere disposto a far sempre quello che gli diciamo, secondi i tempi e le modalità che a
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noi si confanno. E’ sufficiente chiedere con umiltà il suo aiuto e manifestargli una fiducia “illimitata”…
Domenica di Pasqua (Gv 20,1-9) Vedere e credere Per farci entrare nel mistero della risurrezione di Gesù, l’evangelista Giovanni ci invita a “correre”. In effetti, tutti e tre i protagonisti del Vangelo della domenica di Pasqua, Maria Maddalena, Pietro e il discepolo che Gesù amava (l’apostolo Giovanni), hanno passato quel «primo giorno della settimana» soprattutto a correre. Corre Maria Maddalena, dal sepolcro al luogo dove si trovavano gli apostoli, e corrono poi, in direzione opposta, Pietro e Giovanni, dirigendosi in fretta al sepolcro. Ma, oltre al cammino fisico, Maria Maddalena e i due apostoli hanno compiuto anche un altro “cammino”, di tipo spirituale, in relazione a ciò che hanno veduto nel sepolcro. Tutti e tre infatti hanno visto il sepolcro vuoto, ma ognuno di loro ha veduto in modo diverso. Una triplice visione sottesa dall’uso di tre verbi diversi, che in italiano possono essere tranquillamente tradotti con “vedere”, ma che in greco assumono tre differenti coloriture. Cominciamo da Maria Maddalena. Ella non entra nemmeno dentro al sepolcro, fermandosi a costatare il fatto che «la pietra era stata tolta dal sepolcro». Il suo vedere è di tipo “materiale”, una semplice percezione fisica di quello che ha davanti agli occhi. Una “visione” che le fa pensare che qualcuno sia entrato nel sepolcro per trafugare il corpo di Gesù. Preoccupata per questo esecrabile furto, corre subito dagli apostoli per raccontare il tutto. Ora Maria Maddalena può riposarsi, passando il “testimone” a Pietro e Giovanni, che vanno di filato al sepolcro. Giovanni arriva per primo e, guardando dentro il sepolcro, vede i teli che avvolgevano il corpo di Gesù afflosciati a terra, senza più il corpo di Gesù. Anche in questo caso l’evangelista Giovanni utilizza lo stesso verbo di prima, quello del vedere “fisico”. Poi arriva Pietro ed entra per primo all’interno del sepolcro. Anche lui vede le stesse cose viste da Giovanni, ma questo vedere di Pietro va oltre il puro vedere fisico. L’evangelista infatti utilizza un altro verbo, il verbo theōreō, che esprime un vedere “intellettuale”, che cerca di capire il senso di ciò che ha davanti agli occhi. Pietro cerca quindi di “teorizzare” su quella scena, senza però arrivare a comprendere “razionalmente” il suo significato. A questo punto entra nel sepolcro anche Giovanni, il quale, finalmente «vide e credette». Per descrivere questo terzo tipo di sguardo, l’evangelista usa un verbo che indica il vedere con il “cuore”, un vedere guidato dall’amore e dalla fede. Non è un caso che sia proprio lui, il discepolo che Gesù amava, colui che per primo “crede” alla sua risurrezione, anche senza averlo ancora visto “risorto”. Ecco allora il messaggio per noi che, a differenza degli apostoli e di Maria Maddalena, non abbiamo avuto la possibilità di vedere Gesù “risorto”. La nostra
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esperienza è simile alla loro di fronte al sepolcro vuoto. Ancora oggi se andiamo a Gerusalemme possiamo entrare a vedere il luogo dove Gesù era stato sepolto, e anche per noi è possibile, come successe a Giovanni, di “vedere e credere”. Il “vedere e credere” infatti non dipende da ciò che vediamo, ma di “come” lo vediamo. In effetti, la gente guardava Gesù in carne ed ossa, vedendo in lui un uomo come loro. Alcuni poi lo osservavano con uno sguardo più “intellettuale”, cercando di comprendere la sua vera identità, non riuscendo però ad afferrarla. Altri infine lo guardavano con occhi umili, pieni di amore e fiducia in lui, arrivando a riconoscerlo come il Figlio di Dio e il Signore della loro vita. La fede nella risurrezione di Gesù è il fondamento del credo e della vita cristiana. Essa non è un semplice ritornare in vita, come fu l’esperienza di Lazzaro, ma è un varcare le soglie dell’invisibile, della dimensione ultraspaziale e ultratemporale, in una parola è entrare nell’eternità della vita divina. Lazzaro, infatti, tornerà in vita camminando come una mummia, avendo bisogno di qualcuno che gli slegasse le tele che gli avvolgevano il corpo, ma poi anche Lazzaro morì. Gesù, invece, lascia con potenza la sua tomba, senza il bisogno dell’aiuto di nessuno. Il suo corpo lascia la condizione terrena per abbracciare quella ultraterrena. Ora il suo corpo glorioso è abbracciato eternamente al Padre e in quel corpo “umano-divino” ci siamo potenzialmente anche noi: la sua risurrezione è infatti l’anticipo e il preludio della nostra risurrezione.
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