Anno b

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Raffaele Ruffo

Riflessioni al Vangelo della domenica Anno B


ANNO B Prima domenica di Avvento (Mc 13,33-37) “Vegliate e non dormite!” Eccoci arrivati ad un nuovo anno liturgico che inizia, come sempre, con il periodo d’Avvento. Sappiamo come l’Avvento non sia soltanto il tempo che precede e prepara il tempo di Natale, ma pone uno sguardo “triplice” sulla persona di Gesù che “viene”, inglobando passato, presente e futuro: la prima venuta di Gesù nella storia dell’umanità (la sua natività); la venuta quotidiana nella nostra vita; la venuta ultima e definitiva per instaurare il suo regno glorioso. Il Vangelo di questa domenica, che apre il tempo liturgico di Avvento, non ci parla, infatti, della nascita di Gesù (il suo “primo” avvento), ma della sua venuta finale (il suo “ultimo” avvento). In effetti, la festa liturgica della nascita di Gesù ha senso e diventa significativa per la nostra esistenza solamente se è capace di illuminare la nostra relazione quotidiana con lui e di aprirci alla speranza dell’incontro ultimo e definitivo. In altre parole, la festa liturgica del Natale non si esaurisce nel dare uno sguardo al passato, alla nascita del Figlio di Dio, come un ricordo, magari anche sentito e commosso e rimanere fermi in quell’accadimento avvenuto duemila anni fa. Per festeggiare veramente e profondamente il Natale non basta contemplare il “presepe”, ma è necessaria la nostra partecipazione sentita, viva e consapevole alla sua celebrazione liturgica, la sola capace di farci fare il duplice salto dal passato al presente e al futuro. Dopo questa premessa andiamo al Vangelo di questa domenica, che si può sintetizzare da quel verbo “centrale” che Gesù utilizza ben tre volte: «Vegliate!». Egli vuole parlare della sua venuta finale, facendo l’esempio di un padrone di casa che parte e lascia ai suoi servi il compito di badare agli affari di casa, senza dire quando tornerà. Proprio per questo motivo, per non sapere quando il padrone verrà, i servi devono stare sempre “svegli”, cioè vivere fedelmente il compito ricevuto dal padrone, nell’attesa continua del suo ritorno. Cosa può volere dire per noi lo “stare svegli” e il “non addormentarsi”? Naturalmente si tratta di un linguaggio figurato. Gesù non parla, infatti, del sonno fisico del corpo, ma di quello spirituale, della nostra anima. Dobbiamo fare il possibile per tenere sempre sveglia la nostra anima, stare attenti a non farla addormentare, ossia a tenere sempre vivo il gusto delle cose spirituali e dell’incontro quotidiano e definitivo con Gesù. In altre parole, siamo chiamati ad alimentare la vita divina che ci è stata donata nel Battesimo, quella vita nutrita dalla fede, dalla speranza e dalla carità, che danno forma e senso profondo agli attimi della vita di ogni giorno. Una vita “addormentata” o “smorta”, non è altro che una vita priva di fiducia, di speranza e d’amore. Ravviviamo allora la nostra fede! Apriamo sempre di più le porte del nostro cuore a Dio, condividiamo i nostri desideri con lui e cerchiamo di scoprire e mettere in pratica i suoi progetti per noi. Mettiamo con fiducia il “timone” della nostra vita nelle mani del Padre, lasciamoci guidare dagli impulsi dello Spirito Santo, dalla sua voce interiore e dagli incontri e accadimenti quotidiani, attraverso i quali la parola di Gesù si rivela alla

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nostra esistenza. Ravviviamo la nostra speranza! Non lasciamoci abbattere dai nostri limiti, dalle nostre debolezze, dai nostri errori, dai nostri peccati, ma pensiamo “alla grande”, alle cose meravigliose che la grazia di Dio può realizzare nella nostra persona e attraverso la nostra persona, se solo continuiamo a mettere a sua disposizione tutto il nostro essere. Ravviviamo la nostra carità! Non accontentiamoci di fare del bene solamente a quelli che ci fanno del bene, ma proviamo a compiere dei gesti d’amore anche verso quelle persone che ci sono “scomode”, che preferiremmo evitare, ma che sono parte comunque della nostra vita. Ricordiamoci che Gesù è nato per tutti e ci invita a tessere legami di bontà con tutti, anche con quelli che ci appaiono “antipatici” e indisponenti, spesso sono proprio loro quelli che hanno più bisogno d’affetto. Ecco allora il senso dell’Avvento: aprire il nostro cuore all’incontro con Gesù che viene per legarsi intimamente con ciascuno di noi per donarci la cittadinanza divina ed aprirci le porte dell’amore eterno. Se vivremo l’Avvento con il desiderio di “consumare” questo bellissimo incontro personale con Gesù, allora saremmo “svegli” e pronti a festeggiare in profondità la festa del Natale, che non si ridurrà solamente a commemorare la nascita di Gesù, ma sarà un “rinascere” insieme con lui, nell’interiorità del proprio cuore, in una vita ricca di fede, speranza e amore. Seconda domenica di Avvento (Mc 1,1-8) “Bisogna preparare la via al Signore” Il Vangelo di domenica scorsa ci invitava a fare memoria dell’evento della venuta ultima di Gesù, il Signore dell’universo, un evento che siamo chiamati ad aspettare nella vigilanza, come se fosse ormai prossimo, sebbene non ne conosciamo il giorno. Questa domenica, invece, l’attenzione è spostata sulla prima venuta di Gesù e su quella di ogni giorno, focalizzando l’attenzione su quello che bisogna fare per poterlo riconoscere ed incontrare: «Preparate la via del Signore». Se la venuta di Gesù, che sia la prima, quella di ogni giorno o l’ultima, non dipende dalla nostra volontà, ma dal suo desiderio di manifestarsi e venire incontro a noi, il fatto di andare noi incontro a lui dipende dalla nostra volontà, dalla presenza o meno del desiderio di accoglierlo nella nostra vita: l’incontro con Gesù che viene deve essere perciò voluto e preparato. Proprio per questo motivo Dio ha inviato un uomo, un profeta, Giovanni, con l’incarico di indicare al popolo d’Israele gli atteggiamenti necessari per “preparare la via” del Figlio di Dio che si è fatto uomo, in modo da poterlo incontrare ed entrare in relazione di comunione con lui. Questo comportamento di Dio, di scegliere degli esseri umani (uomini e donne) particolarmente a lui “vicini” che, proprio a motivo di questa loro amicizia divina, possono aiutare altri uomini e donne a diventare a loro volta amici di Dio, rappresenta la via “ordinaria” che utilizza per comunicarsi al mondo. In effetti, la Scrittura mostra come Dio molto raramente si rivela direttamente agli uomini in tutta la sua gloria (es. a Mosè nel roveto ardente). E altrettanto raramente comunica la sua volontà attraverso delle creature angeliche (es. l’annunciazione

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dell’angelo Gabriele a Maria). Normalmente egli si serve della collaborazione/mediazione di persone umane, come Giovanni. Per cui, in questo Avvento non aspettiamoci un’apparizione di Dio o di un angelo, ma stiamo attenti alle nostre relazioni “umane”, soprattutto con quelle persone particolarmente illuminate e sagge (amiche di Dio) che possono divenire strumenti privilegiati per preparare il nostro personale incontro con il Signore che viene. Qual è il “servizio profetico” offerto al popolo da Giovanni? Per prima cosa il suo esempio di vita. Giovanni è una persona super austera nel vestire e nel mangiare: «era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico». Una persona essenziale, povera, non centrata su di sé, sul desiderio di apparire o di essere alla moda. Una persona che ha deciso di vivere nel deserto, una scelta che non vuol manifestare il rifiuto della convivenza sociale, ma il bisogno di un raccoglimento estremo di tutte le proprie forze ed energie, per concentrarsi su ciò che maggiormente conta nella vita: la relazione personale con Dio. Giovanni si presenta così come un uomo che ha messo al centro della sua vita la ricerca del volto di Dio e di una relazione di profonda amicizia e comunione con lui. Poi Giovanni parla, comunicando a tutti il lieto messaggio (il “Vangelo”, la “Buona Novella”) che Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth. Questi è colui che viene a rivelare al mondo la grandezza, la bellezza e la pienezza dell’amore di Dio, che apre il cuore della Trinità ad ogni creatura umana, invitata a diventare anch’essa divina per mezzo del dono dello Spirito di Dio: «egli vi battezzerà in Spirito Santo». Giovanni offre il suo esempio di cercatore “innamorato” di Dio, annuncia la sua venuta prossima e invita i suoi uditori a prepararsi ad accogliere nei loro cuori il Dio fatto uomo. Propone loro un duplice “umile” gesto: riconoscere e confessare i propri peccati ed immergersi nelle acque del fiume Giordano. Confessare i propri peccati vuol dire guardarsi con sincerità e riconoscere la presenza del male nella propria “carne”, tutti quei germi di egoismo che non ci permettono di vivere radicati nell’amore. L’immergersi nelle acque (il “battesimo”) è segno della volontà di cambiare, di essere purificati, di rinascere a vita nuova, di essere liberati dal male e dal peccato. Ecco, allora, l’eredità sempre attuale che ci lascia Giovanni il Battista: l’umiltà di riconoscere i germi di male presenti nei nostri cuori e il desiderio di volerli eliminare. Queste sono le due condizioni necessarie per preparare la via all’incontro con il Signore, il solo che può effettivamente liberarci dal male e farci brillare della sua santità: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Terza domenica di Avvento (Gv 1,6-8.19-28) “Testimoni della luce” «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce». Il Vangelo di questa domenica pone al centro la missione di Giovanni il Battista, chiamato da Dio per preparare il popolo d’Israele ad incontrare la luce di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio fatto uomo.

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Può sembrare strano il fatto che, essendo Gesù «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), sia necessaria la mediazione di qualcuno, di un uomo, nel nostro caso di Giovanni il Battista, con lo scopo di indirizzare il popolo verso quella luce che è sorta nel mondo. E’ come se, non avendo mai fatto l’esperienza dello stare al sole, qualcuno ci venisse a dire che, mettendoci sotto i suoi raggi, riceveremo tanto calore. Se non ci fidiamo di quella rivelazione e non ci buttiamo sotto i raggi del sole, anche se il sole sorge comunque ogni giorno, non potremo mai sperimentare l’effetto del suo calore, pur vedendo “fisicamente” il sole, non potremmo beneficiare del suo calore. Il sole rimarrebbe per noi uno sconosciuto. Gesù è il vero sole, quello che illumina la mente e scalda il cuore di ogni uomo sulla terra, ma per sperimentare i suoi effetti salutari bisogna andargli incontro, mettersi sotto il suo raggio d’azione. In realtà, quando Gesù è apparso sulla terra non si è manifestato con la potenza e la grandiosità del sole che si innalza nel cielo. Egli è nato in un piccolo villaggio della Giudea, in una maniera molto povera, umile, quasi anonima. Allo stesso modo, quando egli comincia la sua missione pubblica, si presenta come un uomo uguale agli altri, che si sottomette anche lui al rito del battesimo suggerito da Giovanni. In effetti, sarà proprio Giovanni l’unico a riconosce la sua vera identità, dicendo al popolo che egli è il «Figlio di Dio» (Gv 1,34), «colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Giovanni per il suo stile di vita “profetico”, povero, radicale, estremamente illuminato e incisivo nel parlare al popolo di Dio, corre il rischio di essere considerato lui stesso la luce, il Messia atteso dal popolo, tanto che alla domanda sulla sua identità, subito risponde: «Io non sono il Cristo». Giovanni conosce bene la differenza tra essere la luce e dare testimonianza alla luce, come anche tra l’essere la parola e dare voce alla parola: «Io sono voce di uno che grida nel deserto…». Giovanni ci mostra lo splendore della virtù dell’umiltà, ossia dello stare nella giusta relazione davanti a Dio, senza cercare di prendere il suo posto. Giovanni, infatti, è contento del ruolo che ha, non ambisce ad altro, la sua vita è completamente donata alla missione di avvicinare il popolo alla luce che illumina ogni uomo. Così che quando gli comunicheranno che ormai la gente segue più Gesù che lui, egli dirà che è ben felice di questo, perché ciò vuol dire che la sua missione si è realizzata, affermando candidamente: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,30). Cosa ci vuole comunicare Gesù attraverso la figura e la missione di Giovanni il Battista? Per prima cosa ci invita a vivere sempre nell’umiltà, a non crederci o sentirci mai delle persone arrivate, ma sempre uomini e donne in continua ricerca: in ricerca della sua luce, la sola che può illuminare e scaldare in pienezza le profondità dei nostri cuori. Concretamente, significa entrare in relazione con Dio in sincerità, partendo da quello che siamo in realtà e non da quello che vorremmo essere, mostrandogli con serenità e lucidità tutti i chiaro/scuri della nostra vita: ringraziandolo per il bene che compiamo e chiedendogli perdono per il male che facciamo (o anche per quel bene che potremmo fare, ma che non facciamo ancora). Poi nelle nostre relazioni con i “prossimi” che incontriamo ogni giorno (familiari ed estranei, amici e nemici…) significa non togliere mai tra noi e loro la persona di Gesù, in modo da guardarli con i suoi occhi e lasciarci guardare, a nostra volta, dai suoi occhi, così che l’amore di Gesù possa essere al “centro” di ogni nostra relazione. In secondo luogo siamo invitati a prendere sul serio la missione che Giovanni Battista ha vissuto in pienezza, quella di testimoniare al mondo che Gesù è la “luce vera

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che illumina ogni uomo”, invitando gli uomini a sperimentare un po’ del calore che emettono i raggi del suo amore, poiché come già osservava S. Paolo: “Come può la gente invocare Gesù, se prima non crede in lui, e come può credere, senza averne prima sentito parlare. Ma come potrà sentirne parlare senza qualcuno che lo annunci?” (cfr. Rm 10,14-15). Oggi, Giovanni Battista è come se ci lasciasse il suo “testimone” nelle nostre mani: io ho fatto la mia parte, ho dato testimonianza della presenza di Gesù nel mondo, ora tocca a voi… Quarta domenica di Avvento (Lc 1,26-38) “Anche noi come Maria” Eccoci di fronte alla bellissima pagina dell’annunciazione dell’angelo a Maria, una pagina che ha ispirato nei secoli innumerevoli dipinti, commenti, canti e preghiere. Il colloquio tra l’angelo Gabriele e la giovane Maria di Nàzaret è il modello del colloquio tra Dio e l’anima santa, pura, non contaminata dal peccato, pronta a mettersi a completo servizio del progetto divino su di lei. Già le parole «Entrando da lei» non fanno tanto riferimento all’entrata nel luogo dove si trovava Maria (una stanza della casa?), ma al “luogo” del suo cuore. L’angelo Gabriele non deve forzare nessuna porta, perché la trova già aperta: la grazia di Dio, infatti, abita già nel cuore di Maria, sin dal suo concepimento. Al particolare saluto dell’angelo: «Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te», Maria reagisce con stupore, turbamento ed emozione, nonché con il desiderio di capire il senso di tali parole. Chiede subito spiegazioni all’angelo, perché nella sua grande semplicità e umiltà, non sapeva di essere stata concepita senza macchia di peccato e di essere quindi “piena di grazia”. L’angelo spiega allora il contenuto del messaggio divino, l’annuncio straordinario della nascita del Figlio dell’Altissimo, attraverso la collaborazione di quella giovane ragazza del piccolo villaggio di Nàzaret. Maria ascolta con estrema attenzione l’annuncio della sua futura gravidanza e maternità così improvvisa e speciale, ed è davvero contenta di essere stata prescelta da Dio per essere la madre del Messia (il figlio di Davide), la grazia più grande che ogni donna d’Israele potesse desiderare. Ma Maria ha i piedi per terra e si domanda come questo sia possibile, dato che non è ancora andata a vivere con Giuseppe. Ella non sospetta assolutamente la straordinaria rivelazione che le farà l’angelo, il fatto che in quella nascita non ci sarà nessun concorso di uomo, ma sarà soltanto un rapporto tra Maria e lo Spirito Santo, che la avvolgerà con la sua grazia feconda: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra». Poi l’angelo per sostenere lo stupore meravigliato di Maria, unito alla difficoltà a comprendere una cosa così unica e incredibile, le ricorda che per Dio tutto è possibile: deve solo affidarsi al suo progetto. Ora Maria non ha più nulla da chiedere, ha capito che deve fidarsi ciecamente dell’iniziativa divina e non fa nessuna obiezione, è pronta a dare il suo libero e gioioso assenso: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me

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secondo la tua parola». A queste parole, la missione dell’angelo Gabriele si compie: il Figlio di Dio si farà uomo per mezzo del cuore e della carne della giovane vergine di Nàzaret. A questo punto, dopo avere ammirato dall’esterno lo stupendo “quadro” dell’annunciazione, proviamo ad entrarci dentro, perché in quella giovane vergine di Nàzaret possiamo rispecchiarci anche noi. Sì, perché lei è un essere umano come noi. Con lei condividiamo la stessa natura umana, la stessa “benedizione” divina e la stessa missione: essere collaboratori della continua incarnazione del Figlio di Dio nella nostra vita e nel mondo. Come Maria ha dato il suo cuore e la sua carne affinché lo Spirito Santo possa scolpire il volto del Figlio di Dio fatto uomo, allo stesso modo, lo Spirito Santo ha già iniziato, dal giorno del nostro Battesimo, a scolpire il volto spirituale di Gesù su di noi. Un’opera di “chirurgia spirituale” ancora in corso, che terminerà con il nostro passaggio all’eternità. La sola differenza tra noi e Maria è che lei è stata esentata, per singolare privilegio, dall’esperienza del peccato, per cui per lei è “spontaneo” abbandonare tutta la sua persona al servizio di Dio nel compimento della sua volontà, mentre per noi l’affidarsi a Dio è frutto di una vittoria sul nostro io, che non sempre si fida di lui. A volte, infatti, abbiamo paura che Dio possa toglierci di mano lo scettro di padroni “assoluti” della nostra esistenza e del nostro destino, chiudendoci in noi stessi. Ma, contemplando Maria, possiamo guardare ciascuno il proprio volto, come in uno specchio, per vedere come saremmo se avessimo anche noi una fiducia totale nel Padre. Se riconoscessimo anche noi, con lucida umiltà, di essere uomini e donne votati al suo servizio, chiamati a prestare il nostro cuore, la nostra mente e le nostre forze affinché, attraverso l’azione plasmatrice dello Spirito Santo, Gesù, il Figlio di Dio venuto a prendere dimora in noi il giorno del Battesimo, possa crescere, svilupparsi e diventare adulto. Allora la nostra fede, la nostra speranza e la nostra carità saranno adulte, e saranno queste forze “spirituali” a guidare le nostre scelte di ogni giorno, che diventeranno testimonianza del nostro essere diventati veramente “cristiani”, perché Gesù stesso ci avrà trasformati in lui! Messa dell’Aurora di Natale (Lc 2,15-20) “Andiamo a Betlemme!” Dopo l’apparizione angelica e il messaggio della nascita nella città di Davide del Salvatore, i pastori non perdono tempo. Sanno che la città di Davide è Betlemme, la quale dista solo pochi chilometri da dove si trovano loro. Per cui con fare risoluto, accompagnato da un sentimento di grande meraviglia, si mettono subito in marcia, desiderosi di vedere il segno di quel neonato così speciale, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Questi pastori si rivelano delle persone molto semplici ma, forse proprio per questo, sono pieni di fiducia in Dio, non mettendo assolutamente in dubbio l’apparizione

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angelica e la parola udita, mostrando, anzi, di sentirsi “onorati” di essere stati prescelti da Dio per un annuncio così grande e meraviglioso. Arrivati a Betlemme trovano la mangiatoia con Maria, Giuseppe e il bambino appena nato, proprio come aveva detto l’angelo e con molta spontaneità e gioia comunicano a tutte le persone lì presenti la visione angelica e il messaggio divino ascoltato. Sì, perché l’angelo aveva detto che il messaggio era rivolto a tutto il popolo: «oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore». I pastori diventano, così, i primi annunciatori del Vangelo, della “buona notizia” della nascita di Gesù, il Salvatore non solo del popolo d’Israele, ma di tutta l’umanità. Quei pochi e semplici pastori, in quella notte diventano, senza neanche credo esserne coscienti, i primi “predicatori” del Vangelo di Gesù della storia della Chiesa. Voglio fare notare che il messaggio di questa prima “predica” verte completamente sull’annuncio dell’identità misteriosa di quel bambino appena nato e della sua missione di salvatore: «riferirono ciò che del bambino era stato detto loro». I pastori non mettono al centro loro stessi, il fatto di essere stati prescelti da Dio per avere avuto una visione di angeli; non si vantano di avere avuto fede e di essersi subito messi in cammino (potevano anche farlo). Essi si sono comportati da autentici “evangelizzatori”, che mettono al centro non loro stessi, ma la persona di Gesù, non la loro opera, ma quella di Dio. Inoltre, colpisce la loro spontanea condivisione dell’evento miracoloso vissuto. Infatti, non lo tengono gelosamente per loro, ma lo condividono con gli altri, donando quello che essi stessi hanno ricevuto gratuitamente da Dio. Tutti i presenti manifestano un evidente e ben giustificato stupore per le parole dei pastori (lo stesso stupore che i pastori hanno avuto ascoltando le parole dell’angelo). Immaginiamo che i pastori furono tempestati da tante curiose domande per avere ulteriori delucidazioni e dettagli sulla visione ed il messaggio udito. In questo clima di grande “inchiesta” meravigliata, si stacca una figura, quella di Maria, che dice il testo: «da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Può sembrare strano che, di fronte alle domande della gente sull’identità di quel suo figlio primogenito appena nato, la risposta di Maria sia il “silenzio”. Lei ascolta tutto con attenzione, ma non proferisce parola, accoglie quelle parole e le mette al sicuro nella cella del suo cuore. Eppure lei era, tra le persone presenti, quella che sapeva di più sull’identità di quel neonato. La scena evangelica si conclude poi con il viaggio di ritorno dei pastori verso il luogo da dove erano partiti (il luogo dell’apparizione angelica). Ma non sono più gli stessi di prima, perché «se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto». E’ interessante la duplice trasformazione subita dai pastori: prima diventano annunciatori del Vangelo e poi uomini che rendono lode a Dio, proprio come l’angelo che era apparso loro e la moltitudine angelica che lodava Dio: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli…». Come a dire che i pastori ora hanno preso la parte degli “angeli”! Ecco allora il messaggio di questo Natale: diventare anche noi degli angeli, ovvero dei messaggeri del Vangelo che non hanno paura o vergogna di parlare agli altri di Gesù, di condividere la propria esperienza di fede, con umiltà, semplicità e gioia. In questa missione “angelica”, chiediamo a Maria di aiutarci a capire quando è il momento giusto per parlare e quello di stare in silenzio. Un silenzio che però non vuole

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coprire sentimenti di paura o di indifferenza, ma che serve per far maturare, approfondire, custodire e contemplare il prezioso tesoro di fede e amore che abbiamo ricevuto da Dio. E, infine, essere generosi nella lode a lui, per tutte le cose belle e meravigliose che ci fa vivere ogni giorno… Maria Santissima Madre di Dio (Lc 2,16-21) “Maria meditava nel suo cuore” Il primo giorno dell'anno è la solennità di Maria Santissima Madre di Dio, che nella liturgia presenta lo stesso Vangelo della Messa dell'Aurora del giorno di Natale, invitandoci a leggerlo, questa volta, con gli occhi di Maria. Poco dopo la nascita di Gesù arrivano dei pastori che hanno fatto un viaggio di qualche chilometro per andare a vedere il “segno” di quel bambino appena nato annunciato dall'angelo come il Salvatore d'Israele. Arrivati a Betlemme essi vedono, in effetti, un bambino appena nato avvolto in fasce che giace in una mangiatoia con accanto i suoi giovani genitori. Sono di fronte ad una scena di una semplicità estrema: due persone “povere”, “straniere”, affaticate dal viaggio (venivano da Nazaret), contente per la nascita del loro figlio primogenito. I pastori si mettono subito a raccontare con grande gioia e meraviglia l'apparizione dell'angelo e il suo messaggio che parla del destino straordinario di quel bambino che hanno sotto gli occhi, tanto che tutti i presenti (probabilmente oltre a Maria e Giuseppe c'era anche qualche betlemmita che si era appena svegliato) restano a bocca aperta, ascoltando quelle parole: «Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori». L'evangelista Luca ci tiene a sottolineare che in quel gruppo di persone stupite ce n'è una che si distingue, assumendo un atteggiamento particolare: Maria, che da parte sua «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». E' interessante notare che, mentre i pastori raccontano trepidanti il messaggio dell'angelo e gli altri presenti, a loro volta, fanno i loro commenti di meraviglia, ponendo domande sul “destino” di quel bambino appena nato, Maria se ne sta in silenzio. Eppure era proprio lei la persona che, più di tutti i presenti, era a conoscenza del mistero del bambino. Maria non parla, ma ascolta tutto con attenzione, non perdendosi nulla delle parole dei pastori. Dall'alto della sua umiltà non vuole assolutamente che la gente sappia del concepimento miracoloso del figlio, poiché sa bene che quella cosa è un'“opera di Dio” che non è lei a dover svelare. A lei il compito di “custodirla” e portarla nel cuore. Sarà Dio stesso, infatti, che quando lo riterrà opportuno svelerà quel “segreto”. Saranno Gesù, prima, e lo Spirito Santo, poi, che illumineranno progressivamente gli apostoli e gli altri discepoli a penetrare nel profondo il mistero del Dio che si è fatto uomo. Meditiamo allora questa purezza e umiltà di Maria, che veste i panni della “serva del Signore”, ponendo tutta se stessa, corpo e anima, all'opera di Dio, senza intromettersi nel piano divino. Ella non si mette al posto di Dio per dettare i tempi e i modi dello svelamento del suo mistero, col rischio poi che le persone, venendo a conoscenza di quel concepimento così straordinario, possano arrivare ad “idolatrarla”, credendola una

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“semi dea”. Maria si è proclamata “piccola” di fronte alla grandezza di Dio e tale vuole restare. Poi dobbiamo anche aggiungere che Maria non aveva ben chiaro nella sua mente l'interezza del progetto divino. Infatti le parole rivelategli dall'angelo Gabriele, come quelle riferitegli da Giuseppe sul suo sogno “miracoloso” e le stesse dei pastori, sebbene parlino del Figlio di Dio, del Messia e Signore del popolo d'Israele, non spiegano affatto del come egli eserciterà la sua missione di Salvatore. Maria non poteva immaginare il mistero della sua passione-morte-risurrezione! Per cui, anche nella sua mente sorgevano delle domande, domande che però non nascevano da una mancanza di fede o da una semplice curiosità di come andrà a finire, ma dal desiderio di vivere in pienezza e fedeltà la sua “singolare” missione di Madre di Dio. Sì, perché Maria di Nazaret, avendo portato in grembo e generato il Figlio dell'Altissimo, la seconda persona della Santa Trinità, è diventata la Madre di Dio. E' per questo che Maria, di fronte alle parole dei pastori, sceglie la via del silenzio, perché di fronte ad un mistero e ad una grazia così grandi, le parole sono decisamente limitate ed insufficienti… Maria ci insegna così la via della meditazione, ossia di un approccio “umile” e rispettoso nei confronti dell'opera di Dio nel mondo e in noi, lasciando perdere la semplice curiosità di sapere cosa ci aspetta nel futuro, oppure, ancor peggio, la “pretesa” di avere il nostro “destino” sempre sotto controllo, trasformando Dio in un “oracolo” o in un'entità assoldata al nostro servizio. Maria ci invita ad indossare i panni dei “servi” del Signore, offrendoci nella gioia al suo santo servizio, così che il Signore possa continuare a fare grandi cose attraverso le nostre umili persone. Parola di Maria, la Madre di Dio… Il Battesimo di Gesù (Mc 1,7-11) “Perché Gesù viene battezzato?” Per preparare il popolo d'Israele all'incontro con il Messia ormai pronto alla sua manifestazione pubblica, Giovanni non si limita ad annunciare con la sola parola la sua venuta, ma “inventa” anche un'azione da compiere, un immergersi nelle acque del fiume Giordano come segno del desiderio e del bisogno di purificazione del cuore. Un segno che rimanda poi ad un altra immersione, quella che proporrà Gesù: l'immersione nello Spirito Santo. Non ho utilizzato, volutamente, il termine “battesimo”, ma quello di “immersione”, che è il suo significato letterale, perché ci permette di comprendere meglio il senso profondo del sacramento del Battesimo. In effetti, con quel sacramento noi siamo stati letteralmente “immersi” nella vita di Dio, in quella relazione eterna d'amore che lega indissolubilmente il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. La poca acqua benedetta che ha bagnato il nostro capo di neonati non è in grado di significare “visivamente” l'immersione totale nella vita di Dio, a differenza del gesto proposto da Giovanni o del rito del Battesimo degli adulti vissuto nei primi secoli della Chiesa, quando i battezzandi scendevano in una vasca (il Battistero) per immergersi interamente

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nell'acqua. Perché vi sto dicendo questo? Per recuperare la nostra dimensione di “immersi” nello Spirito di Dio. Noi non dobbiamo considerarci delle persone “sfiorate” dalla grazia divina, ma uomini e donne letteralmente “immerse” in Dio. Delle persone “divinizzate”, che vivono sulla terra, ma hanno il pensiero al cielo, vivono nel tempo, ma hanno un’anima immortale. Ma andiamo avanti, perché il Vangelo di oggi, oltre a ricordarci la nostra “immersione” in Dio, ci parla anche di un fatto strano e misterioso: il battesimo di Gesù. La domanda sorge spontanea: perché Gesù si è fatto battezzare da Giovanni? Se il battesimo era per prepararsi ad accogliere il Messia, che senso poteva avere per Gesù? Prepararsi ad accogliere se stesso? E poi, al centro di quel battesimo c'era il riconoscimento dei propri peccati, e Gesù, da quel punto di vita, non aveva assolutamente niente da dichiarare. La risposta alla nostra domanda viene da quello che succede nel momento in cui Gesù esce dalle acque del Giordano: «E, subito, uscendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba». Il gesto del battesimo di Gesù ha letteralmente sconvolto i cieli: lo Spirito Santo subito “vola” verso di lui e il Padre fa udire la sua voce dall'alto, esprimendo la sua incredibile gioia di fronte al gesto del Figlio: «E venne una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento». Cosa significa questo “incredibile” movimento divino? Perché è così importante il battesimo di Gesù? Qual è il suo significato profondo? La mia interpretazione è che quell'immersione di Gesù nelle acque del Giordano vuole significare la sua piena condivisione della condizione umana, fragile e peccatrice. Quel gesto di Gesù “profetizza” quegli altri gesti “miracolosi” attraverso i quali libererà gli uomini dai loro mali e dai loro peccati. E' un gesto di “umiltà”, ovvero di svelamento del cuore di Dio, che, incarnandosi in Gesù di Nazaret, è venuto a farsi “uno” con la natura umana. Capiamo allora come il battesimo di Gesù sia l'ultimo anello che ci aiuta a comprendere il senso profondo della solennità del Natale, la festa dell'incarnazione di Dio, del suo matrimonio con la natura umana. Ma perché tutta quella gioia del Padre? Perché il Padre, guardando Gesù, per la prima volta nella storia dell'umanità può finalmente specchiarsi pienamente e totalmente in un essere umano: guardando Gesù il Padre vede se stesso! Gesù infatti non è come Abramo, Mosè o Davide, grandi uomini divenuti “amici” di Dio, ma pur sempre “peccatori” (ognuno di loro, infatti, ne ha combinate diverse). Guardando Gesù, finalmente, il Padre può dire: “Ecco quello lì, è il mio Figlio!”. Quel Figlio che nel segno del battesimo di Giovanni ha testimoniato il suo “umile” mettersi al servizio della salvezza degli uomini, ponendosi al loro stesso livello, come uno di loro. Allora, il battesimo di Gesù vuole significare “l'immergersi” di Dio nella condizione umana, un coinvolgimento che trova il pieno gradimento del Dio Uno e Trino attraverso le solenni testimonianze dello Spirito Santo e del Padre. Capiamo allora il dono grande che abbiamo ricevuto nel nostro Battesimo: la grazia dell'immersione totale nella vita di Dio, il compimento di quella volontà di salvezza, figurata dal gesto del battesimo di Gesù, che sarà realizzata con il mistero della sua morte e risurrezione. Se il Battesimo in Gesù, immergendoci nella vita divina, ci ha resi anche noi “figli di Dio”, cerchiamo di vivere realmente immersi in Dio, così che il Padre, guardando ciascuno di noi possa esclamare con gioia: “Tu sei figlio mio, amato:

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in te ho posto il mio compiacimento!”. II domenica del Tempo ordinario (Gv 1,35-42) “Che cosa cerchiamo?” Giovanni Battista dopo avere “fissato” lo sguardo su Gesù che passava (uno sguardo attento, profondo, umile e contemplativo) riesce a “cogliere” la sua identità misteriosa: egli è l'“agnello mandato da Dio per togliere il peccato del mondo”. I suoi due discepoli che non possiedono in quel momento la stessa profondità di sguardo del loro maestro, si fidano della rivelazione di Giovanni e si mettono al seguito di Gesù. Questi, appena si rende conto di essere seguito, si volta indietro e pone ai due “inseguitori” una domanda breve, sintetica, ma molto importante: «Che cosa cercate?». Questa è una domanda che Gesù potrebbe fare ogni giorno a ciascuno di noi, perché serve a fare verità sulla qualità della nostra relazione con lui. Possiamo tradurla così: “Perché mi state seguendo?”; “Perché volete diventare miei discepoli?”; “Cosa vi aspettate da me?”; “Cosa pensate che io possa fare per voi?”, etc. Una domanda molto semplice e, allo stesso tempo, molto seria, fondamentale per entrare in un rapporto sincero, autentico e profondo con Gesù. Sì, perché tante volte (Gesù lo sa bene) noi non cerchiamo tanto di stringere una relazione intima e profonda con lui, ma ci rivolgiamo a lui per chiedergli “qualcosa” di cui abbiamo bisogno, che pensiamo e speriamo che lui possa darci. Facciamo qualche esempio: “Gesù, ho paura del futuro! Dammi un po' di sicurezza! (magari economica)”; “Gesù, mi sento solo! Dammi un po' di compagnia! (magari una compagna/o)”; “Gesù ho il cuore tribolato! Dammi un po' di pace!” (magari eliminando quella persona con cui ho difficoltà di relazione). Al centro di queste richieste c'è la ricerca di una relazione più vera e profonda con Gesù o c'è, invece, l'esaudimento di un nostro bisogno? Se cercassimo la relazione intima e profonda con Gesù le nostre richieste cambierebbero, poiché sarebbero centrate su Gesù, scoprendo che è lui la nostra maggiore sicurezza, la nostra migliore compagnia e la fonte della nostra pace. Questo non toglie che possiamo anche fargli presenti i nostri bisogni e desideri, ma non più con un tono “disperato”, “affannato”, al limite della pretesa, ma con la fiducia di volere comunque abbandonarsi alla sua santa e provvidente volontà... Ma andiamo avanti. Alla domanda di Gesù sul “cosa cercate” i due aspiranti discepoli dimostrano il loro vivo interesse alla persona di Gesù, chiedendogli “dove dimora”. Questa loro “contro domanda” non esprime solo una richiesta di “indirizzo” per andarlo a trovare, ma il desiderio di entrare in relazione con lui, in modo da poter conoscere i suoi pensieri, le sue idee, i principi e i valori sui quali basa la sua vita. Sì, perché è questa la vera molla che può spingere a diventare degli autentici discepoli di Gesù, non il soddisfacimento dei nostri bisogni o desideri, ma il condividere i suoi stessi ideali e la sua stessa vita. Gesù risponde a quella domanda con un caldo invito: «Venite e vedrete», dimostrandosi subito desideroso e disponibile ad aprire loro le porte del suo cuore. Egli

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non ha segreti da nascondere, anzi è venuto nel mondo proprio per rivelare la verità di Dio e per donare a tutti gli uomini le “chiavi” per entrare nel suo Regno e poter sperimentare così la pienezza della vita divina. Se voi “venite” a me (direbbe Gesù) con l'intento di scoprire chi sono e diventare veramente miei discepoli, allora vi assicuro che “vedrete” in me il Figlio di Dio, colui che attraverso il suo mistero pasquale vi farà sperimentare la grandezza e la bellezza dell'amore del Padre. Lo Spirito Santo verrà a prendere dimora nei vostri cuori e sarete trasformati anche voi in figli di Dio, condividendo quello stesso amore divino che lega dall'eternità il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Se, invece, venite a me con l'intento di “usarmi” per i vostri bisogni e desideri, allora, vi avverto, resterete delusi, perché io non mi presto per essere un “idolo” fatto a vostra immagine ma, al contrario, sono venuto a farvi scoprire il vostro essere fatti a immagine di Dio e a vivere conformemente a questa santa immagine. Restando con Gesù per tutto il pomeriggio i due aspiranti discepoli riescono ad avere lo stesso sguardo attendo, profondo, umile e contemplativo del loro ex-maestro (Giovanni il Battista), così che anch'essi possono fare la loro professione di fede: «Abbiamo trovato il Messia». Poi, senza neanche rendersene conto, dopo essere diventati discepoli si sono subito trasformati in “missionari”. Andrea, infatti, uno dei due, appena incontra suo fratello Simone lo invita ad andare anche lui a conoscere Gesù. Questi, guardando Simone con quello stesso sguardo “fisso” con cui Giovanni Battista aveva in precedenza guardato Gesù, gli rivela: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa, che significa Pietro». Il discepolo allora non è solo colui che “guarda profondamente” il suo maestro alla ricerca della sua vera identità, ma è anche colui che si lascia guardare profondamente dal maestro, lasciando che sia lui a svelargli la sua identità profonda. III domenica del Tempo ordinario (Mc 1,14-20) “E’ iniziato il tempo pieno” Dopo aver ricevuto il battesimo di Giovanni e l'investitura “ufficiale” da parte del Padre come Figlio amato, Gesù è ormai pronto ad adempiere la sua missione di Salvatore del mondo. E' interessante notare come la causa scatenante dell'inizio di questa missione sia un fatto di “cronaca”, ovvero l'arresto da parte di Erode di Giovanni il Battista, che si era permesso di criticare pubblicamente e duramente il re per il suo comportamento immorale, contrario alla Legge di Dio (cfr. Mc 6,17-18). Gesù, visto che Giovanni è ormai uscito “drammaticamente” dalla scena, legge questo triste avvenimento come un segnale per lui: la missione di Giovanni è finita, ora tocca a me! Questo per dire che le difficoltà che possiamo incontrare nell'impegno ad essere testimoni della verità e dell’amore di Dio non devono mai abbatterci e impedirci di restare fedeli al Signore. Anzi, quelle difficoltà devono essere lette come uno stimolo alla perseveranza e ad una coerenza di vita sempre maggiore. Ma andiamo ora a vedere come inizia la missione di Gesù. Essa consta di un preciso “messaggio” comunicato alla gente e di una particolare azione compiuta.

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Il messaggio è fatto di poche parole, due semplici frasi, molto dense di significato: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio e vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». La prima farse è il “solenne” annuncio di un avvenimento “epocale”, si parla infatti di un “compimento” (letteralmente di una “pienezza”) che finalmente si è realizzato nella storia del mondo. Faccio notare che la parola greca tradotta in italiano con “tempo” (krònos) non sta a significare il tempo fisico e “quantitativo” (le ore, i minuti, i secondi, etc.), ma il tempo “qualitativo” (kairòs), nella sua dimensione di opportunità e occasione favorevole. Momento propizio che l'uomo è chiamato a cogliere lungo il tempo fisico, affinché attraverso le proprie scelte di vita il tempo fisico si trasformi in un tempo vissuto, appropriato, abitato dall'uomo, per diventare così il “nostro” tempo, quello che riempie e da senso alla nostra esistenza. Che cos'è allora questo grande evento che ha “riempito” il tempo degli uomini? Non è altro che l'avvenimento dell'incarnazione di Dio: è lui, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto uomo, che manifestandosi nel mondo, apre la stagione del “tempo pieno”. Sì, perché accogliendo Gesù nella nostra vita terrena, egli ci trasferisce nella sua vita divina, così che il nostro tempo terreno si trasforma in un tempo eterno, abitato da Dio. L'inaugurazione della stagione del “tempo pieno”, cioè della presenza nel mondo del Dio fatto uomo, è l'oggetto del “Vangelo”, quella “buona e lieta notizia” che Gesù comunica con gioia a tutta l'umanità. La prima predicazione di Gesù è allora la comunicazione di una “splendida notizia”, di una novità assoluta, inaudita e inaspettata, il fatto che Dio, da ora in poi, lo si può incontrare in tutta la sua pienezza in una persona umana: Gesù di Nazaret. Questa è effettivamente una notizia così “originale” e incredibile, che non è di facile accoglienza da parte degli uomini, di qui la necessita della “conversione”: «convertitevi e credete nel Vangelo». Che cos'è questa “conversione” di cui parla Gesù? Letteralmente sta a significare un cambiamento di opinione, di mentalità, di metro di giudizio. Gesù ci invita “semplicemente” a credere e ad accogliere nel nostro cuore quella bellissima notizia che è venuto ad annunciarci: credere che da quando Dio si è fatto uomo, il tempo umano si è fatto “pieno” e desiderare di entrare con tutto noi stessi ad abitare quel “tempo”. In altre parole, Gesù ci invita a credere che, seguendolo e divenendo suoi discepoli, la nostra vita possa diventare una vita “piena”: bella, ricca, gioiosa, realizzata e felice. Qui si collega l’azione che Gesù compie dopo aver annunciato la “bella notizia”: chiamare al suo seguito degli uomini, chiedendo loro di “convertirsi”, cambiando non solo la loro mentalità, ma anche il loro stile di vita, lasciando famiglia e lavoro, per diventare dei «pescatori di uomini». Sì, perché la notizia (il Vangelo) che Gesù è venuto a portare nel mondo è così bella e importante per la vita di ogni essere umano, che tutti devono poterla conoscere. Per questo Gesù ha bisogno della collaborazione di alcune persone (uomini e donne), che si dedichino con tutte le loro capacità e qualità al servizio dell'annuncio di questa “bella notizia”, in modo da poter risuonare continuamente in tutta la terra. Gesù è sempre alla ricerca di collaboratori, anche a tempo parziale, e oggi la richiesta la fa proprio a noi: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini»...

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IV domenica del Tempo ordinario (Mc 1,21-28) “Anche i demoni credono!” Gesù come ogni pio israelita partecipa al culto sinagogale del sabato, rivestendo i panni di un maestro delle Sacre Scritture, ma i suoi uditori si accorgono che il suo insegnamento è di un altro livello rispetto a quello dei soliti scribi. Il suo modo di insegnare è più autorevole, più convincente, più profondo, più autentico, si nota che in lui c'è una forte e particolare presenza dello Spirito di Dio. Le sue parole sono così “luminose” e “forti” che arrivano a toccare il profondo delle coscienze, svelando cosa c'è veramente nel cuore degli uomini. Allora, improvvisamente, uno spirito impuro (un demone) si sente colpito duramente da quelle parole, da non poter più restare nascosto nel corpo dell'uomo che possedeva, mettendosi a gridare apertamente tutto il suo malore: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». Bene, questa è la prima professione di fede che troviamo nel Vangelo di Marco. Infatti, i primi che riconoscono la vera identità di Gesù non sono gli uomini, ma i demoni! Professione di fede che non significa adesione al messaggio e alla persona di Gesù, ma credere che lui sia Dio che ha preso dimora in un essere umano. Questa cosa è molto interessante. Perché i demoni riescono ad avvertire prima e meglio degli uomini la presenza divina? Beh, perché Dio è il loro eterno nemico e, sapendo che è molto più potente di loro, cercano di starne alla larga; essi hanno paura di lui e non possono assolutamente sopportare la sua presenza. La frase “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno?”, letteralmente sarebbe da tradurre: “Che c'è fra noi e te, Gesù Nazareno?”, a significare che non esiste proprio niente in comune tra Dio e satana, tra il bene ed il male, essendo due realtà che stanno sempre in opposizione. Capiamo allora perché lo spirito impuro si mette ad urlare, perché dopo aver ascoltato quelle sante parole divine, che parlano di amore, di verità e di bene, non ce la fa a stare zitto, avrebbe voluto tapparsi le orecchie, perché lui vive soltanto di odio, falsità e male. Quella luce emanata dalle sante parole di Gesù, il Figlio di Dio, sono dei dardi infuocati che penetrano le tenebre dello spirito impuro, che si sente attaccato “violentemente”, provocando così la sua ira. Andiamo ora alla reazione degli altri uditori di Gesù, che sono meravigliati dal fatto che quel maestro di Scritture proveniente da Nazaret abbia un potere incredibile, tanto da “comandare” a quello spirito impuro di smetterla di gridare e di lasciare in pace quel povero uomo che possedeva, cosa che egli farà immediatamente! Possiamo allora dire che il miracolo di Gesù è duplice. Nel senso che ne beneficia sia l'uomo posseduto, che viene liberato dal male, sia lo stesso spirito impuro, che in quella sinagoga, abitata dalla luce immensa del Figlio di Dio, non ci voleva e non ci poteva più stare. Che cosa può dire a noi questo episodio così singolare? Da una parte ci ricorda la “buona notizia” che “il regno di Dio è vicino”, ossia che Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, è venuto a liberarci dalla schiavitù più terribile e opprimente, quella che ci impedisce di scegliere l'amore, il vero e il bene, da quel peccato che a volte ci “possiede”, facendoci abitare nelle tenebre dell'odio, della falsità e del male.

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Questa profonda liberazione del cuore avviene tramite la potenza della sua Parola, una parola che, attraverso l'azione dello Spirito Santo, “illumina” il nostro cuore, smascherando il male e il falso bene che a volte perseguiamo. Poi lo “purifica”, eliminando la coltre del peccato in esso presente, rigenerandoci spiritualmente e rendendoci liberi e capaci di scegliere la via del bene. Infine lo “scalda”, facendoci sperimentare l'amore infinito che il Padre ha per i suoi figli, che vuole tutti “santi” a “somiglianza” del suo Figlio unigenito. Ma qui viene il problema. Se gli spiriti impuri non possono sopportare quelle sante parole che illuminano, trasformano e scaldano, perché a noi, quelle stesse parole, spesso non fanno nessun effetto, come se non le avessimo ascoltate? Perché l'essere umano non essendo né un angelo né un demone, non ha quell'attrazione o repulsione immediata alla parola di Dio, per cui a volte l'accoglie, a volte la rifiuta, altre volte non è per nulla interessato ad ascoltarla: questo è il dramma dell'uomo! Allora credo che possiamo prendere esempio da quello spirito impuro, ossessionato dalle parole di Gesù, suo acerrimo nemico, per lasciarci, al contrario di lui, affascinare e avvolgere da quelle belle e sante parole, che ci invitano a non avere compromessi con il male, ma a scegliere con coraggio e decisione la via dell'amore, del vero e del bene. Con la certezza che la Parola di Gesù se trova un'accoglienza sincera nei nostri cuori ha il potere di trasformarci in autentici uomini e donne di Dio, perché le sue parole sono «spirito e vita» (Gv 6,63). V domenica del Tempo ordinario (Mc 1,29-39) “Una tipica giornata di Gesù” Il brano di Vangelo della liturgia di questa domenica ci offre l'esempio di una “giornata tipo” di Gesù. Essa comincia in mattinata con il culto divino nella sinagoga (vedi il Vangelo di domenica scorsa), per proseguire con l'assaporare la bellezza della vita familiare nella casa di Simone (Pietro), condividendone il momento del pranzo ed il pomeriggio. Entrato in quella casa, Gesù si mostra particolarmente sensibile alle sofferenze degli altri, infatti, non appena gli fanno presente che c'è una persona che non sta bene (ha una brutta febbre che la paralizza a letto), egli si “approssima” a lei (si fa suo prossimo) e la invita ad alzarsi, prendendola per mano. Questa “guarigione” diviene simbolo della liberazione dal male, ovvero da tutti quei blocchi fisici, mentali e spirituali, che il peccato opera nella nostra vita, “buttandoci a terra” e impedendoci di vivere “in piedi”, a testa alta, mettendo la nostra bella vita e i nostri bei talenti al servizio degli altri. Infatti, la suocera di Pietro, appena rialzata, piena di nuove energie si mette subito al servizio dei suoi ospiti, facendosi loro “diaconessa”. Al tramonto del sole gli abitanti di Cafarnao dopo aver assistito al miracolo compiuto nella sinagoga si riversano nella casa di Simone, portandogli tutti i loro parenti ed amici, che, sotto varie forme, vivono paralizzati dal male, per chiedere a Gesù la loro liberazione e guarigione. E Gesù, dimostrando sempre una grande disponibilità, passa la serata ad incontrare, ascoltare, annunciare, pregare e guarire. Poi, finito il suo servizio di “terapeuta-liberatore”, va a dormire, ma solo per poche ore, perché anticipando l'aurora,

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esce in silenzio da casa per recarsi fuori città, in un luogo isolato per pregare. A questo punto, la giornata tipo di Gesù è finita, così che possiamo tirare le somme di quello che ha vissuto. In sintesi, possiamo dire che egli ha speso tutte le sue energie e i suoi talenti per dare gloria a Dio e liberare dai lacci del male le persone incontrate, vivendo in un totale servizio a Dio e agli uomini. Un servizio che non gli crea alcuna divisione interiore, perché egli è sempre stato “tutto di Dio” e “tutto dell'uomo”, Figlio del Padre e, allo stesso tempo, fratello degli uomini. C'è però un problema. Gli abitanti di Cafarnao, vedendo tutti quei segni prodigiosi operati, cominciano a farsi un'idea “sbagliata” di lui, identificandolo con la figura di quel Messia tanto atteso che avrebbe ristabilito l'antica gloria del regno d'Israele, liberandolo dalla schiavitù dei romani e castigando severamente tutti gli operatori di male. E' proprio per evitare questi pensieri che Gesù intima ai demoni di non rivelare la sua identità: «non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano». In questo contesto, capiamo perché, non appena Simone e gli altri si accorgono che Gesù è “scappato” di casa e dal paese per andare a pregare nel deserto, vanno subito alla sua ricerca, non volendo assolutamente che se ne vada a vivere da un'altra parte: «Tutti ti cercano!». Ma Gesù forte della sua intima, profonda e continua unione con il Padre, rinnovata da quelle prolungate ore di preghiera notturna in solitudine, non si lascia tentare da alcun sogno di gloria “personale”. Egli, infatti, non mette al centro delle sue scelte quotidiane le aspettative della gente, ma il progetto di salvezza del Padre; progetto sposato con tutte le fibre della mente e del cuore: «Egli disse loro: Andiamocene altrove nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». Ecco il segreto della libertà di Gesù e dell'unità della sua persona, di quella sapienza che gli fa scegliere sempre la cosa “giusta” al momento giusto; ecco il segreto delle sue lunghe ore passate nel servizio degli uomini e nell'orazione solitaria con il Padre suo. Sono i due “poli” della vita di Gesù: la sua relazione d'amore con il Padre e con il prossimo. Sono due poli che non stanno uno di fronte all'altro, ma uno “dentro” l'altro: quando Gesù si mette a disposizione dei fratelli lo fa amando il Padre; quando prega nella solitudine il Padre, lo fa nell'amore per i fratelli che è chiamato a liberare dal male. Così Gesù ci rivela ciò che può fare veramente unità nella nostra vita: l'amore verso Dio e verso il prossimo, in qualunque luogo ci troviamo e qualunque cosa facciamo. Quando il nostro servizio o la nostra preghiera diventano pesanti, non è colpa degli altri (il prossimo o Dio), è solo segno che la nostra vita si è “svuotata” d'amore. In quei momenti non ci resta che fare una cosa, riconoscere la nostra malattia spirituale, quella sorta di “febbre” del cuore che ci paralizza, rendendoci incapaci di aprirci agli altri, e chiedere umilmente a Gesù di “prenderci per mano”, come la suocera di Pietro, per risollevarci e tornare alla gioia dell'amore di Dio e del prossimo. VI domenica del Tempo ordinario (Mc 1,40-45) “Vuoi essere purificato?” La riflessione di questa domenica ruota attorno a tre “movimenti”, che hanno come

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protagonisti il lebbroso, Gesù e la lebbra. Il primo è quello dell'uomo colpito dalla lebbra, che va a cercare Gesù per essere guarito. Un “movimento” destinato a diventare “esemplare” per i cristiani di tutti i tempi, in quanto mostra gli atteggiamenti fondamentali che deve avere una preghiera per poter essere definita veramente “cristiana”. Il primo atteggiamento è quello dell'umiltà, espresso dal gesto di mettersi in ginocchio davanti a Gesù, un segno che vuole esprimere la consapevolezza dell'estrema povertà e piccolezza dell'uomo di fronte alla grandezza di Dio. Il secondo è quello della fiducia, che l'uomo lebbroso mostra di avere nei confronti di Gesù, espresso dal «puoi purificarmi». Questa frase esprime la certezza che Gesù ha veramente il potere “divino” di trasformarlo radicalmente, eliminando dal suo corpo la lebbra, facendolo ritornare ad essere un uomo “normale”, puro e sano. Il terzo atteggiamento è quello dell'affidamento, espresso dal «Se vuoi». Atteggiamento di abbandono alla libera volontà di Gesù, che non deve sentire la richiesta di guarigione dell'uomo lebbroso come un “imperativo” moralmente obbligante (“mi devi assolutamente guarire!”), ma che gli lascia la piena libertà nel decidere se esaudire o meno la sua preghiera. Ecco le tre condizioni, indispensabili, che rendono “cristiana” una preghiera rivolta a Gesù: l'umiltà nella richiesta, la fiducia nel suo potere di esaudimento e l'affidamento alla sua insindacabile volontà. Queste tre condizioni poi sono precedute dal forte desiderio di essere liberati dal male e dal peccato, simboleggiato dalla lebbra, che veniva spesso vista come una punizione divina per una grave colpa commessa (es. la punizione di Myriam, la sorella di Mosé, cfr. Nm 12,10-12). Ma andiamo al secondo movimento, quello di Gesù che, di fronte all'avvicinamento e alla richiesta del lebbroso, prova nel suo cuore un forte moto di amore verso di lui («Ne ebbe compassione»), che lo porta a farsi suo “prossimo”, stabilendo un contatto “spirituale” e anche “fisico” con lui, significato dal gesto di toccare il suo corpo malato: «tese la mano, lo toccò». Questo gesto non è “scontato”, nel senso che Gesù poteva tranquillamente guarire il lebbroso senza ricorrere al contatto fisico, ma sembra che Gesù ci tenga particolarmente a toccare con la sua mano quel corpo rovinato dalla lebbra. Perché? Per diverse ragioni. Per prima cosa vuole mostrare che non ha paura del contagio e che nemmeno gli faccia “schifo” toccare un corpo martoriato dalla lebbra, ma, soprattutto, vuole manifestare anche “visivamente” la sua missione di Dio fatto uomo per salvare gli uomini, prendendo su di sé il loro male e il loro peccato. Anche la sua frase «Lo voglio, sii purificato!», risulta essere particolarmente significativa, perché mostra il profondo desiderio di Gesù di renderci liberi dai lacci dal male e dal peccato. Egli ci vuole “puri”, “santi”, nel corpo e nello spirito, immersi nella luce dell'amore di Dio, senza compromessi con le oscure ombre dell'egoismo e di ogni sorta di male, che hanno il potere di macchiare e deturpare la nostra “somiglianza” divina. Passiamo ora al terzo movimento, quello della lebbra, che dopo il contatto con il corpo santo di Gesù e le sue parole divine, subito, istantaneamente, abbandona il corpo di quell'uomo, sparendo per sempre. Questo è l'effetto dell'intervento divino, che ha il potere di “distruggere” completamente il male e il peccato, che da quel momento non esiste più nella vita di quella persona. Pensiamo all'effetto del perdono di Dio tramite il sacramento della riconciliazione, che ha il potere di cancellare definitivamente la colpa commessa, qualunque essa sia. Come non pensare, poi, al potere infinito che ha il

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“corpo e sangue di Cristo” con il quale veniamo in contatto in ogni celebrazione eucaristica? In quel santissimo sacramento è presente quello stesso Gesù che ha “toccato” e guarito il lebbroso, a suggerirci che se lo accogliamo nel nostro cuore con lo stesso desiderio di essere purificati dal nostro male, con la stessa umiltà, con la stessa fiducia ed abbandono alla sua volontà, espressi da quell'uomo lebbroso, Gesù è pronto a “purificarci” e renderci “nuovi”. Egli vuole liberarci dal male e dai nostri peccati per farci entrare nel regno eterno dell'amore, vivendo la comunione non solo con gli altri uomini, ma con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. E allora questa domenica siamo invitati anche noi, come il nostro amico lebbroso, a dire a Gesù dal più profondo del cuore: «Se vuoi, puoi purificarmi!». VII domenica del Tempo ordinario (Mc 2,1-12) “Un bell’esempio d’intercessione” Il Vangelo di questa domenica ci narra di un episodio molto interessante e commovente. Ci sono quattro persone che vogliono portare un paralitico davanti a Gesù, molto probabilmente per chiederne la guarigione. Solo che la casa dove in quel momento si trova Gesù è così stipata di gente, che entrarvi è praticamente impossibile. I quattro però non si abbattono per l'ostacolo che hanno di fronte, ma sospinti dall'amore che hanno per il paralitico (molto probabilmente un loro amico o parente) cercano di ingegnarsi per trovare una via alternativa per entrare nella casa. Decidono così di passare dall'alto, scoperchiandone il tetto, facendo una sorta di “santa” violazione di domicilio. L'operazione non si presentava impossibile, per il fatto le case del tempo erano basse, normalmente a un piano e con un tetto in paglia. Ma lo sforzo necessario richiesto era comunque notevole, in quanto dovevano lavorare con delle corde per alzare il lettuccio del paralitico di diversi metri e calarlo, poi, all'interno dell'abitazione. I quattro si industriano e riescono nel loro intento, riuscendo a far calare il paralitico proprio davanti a Gesù, che avrà sicuramente seguito tutta la scena, dato che lo scoperchiare il tetto e il far calare dall'alto il lettuccio con li paralitico non è un'azione che possa passare inosservata (avranno certamente fatto un po' di rumore). Gesù rimane ammirato per la perseveranza e la decisione dei quattro, davvero fuori dal comune, leggendo nei loro cuori, oltre la fede nel suo potere di “guarigione”, un grande “affetto” per il povero paralitico, accompagnato dalla speranza di vederlo guarito. Voglio far notare che i quattro non chiedono apertamente il miracolo (e nemmeno il paralitico), limitandosi a portare davanti a Gesù la situazione “malata” del loro amico, ma quest'azione di “intercessione” è sufficiente per spingere Gesù ad intervenire, compiendo il miracolo in due tempi: il perdono dei suoi peccati e la guarigione fisica: «Figlio ti sono perdonati i tuoi peccati […] alzati, prendi la tua barella e va a casa tua». Dobbiamo riflettere un po' su questo duplice intervento e sulla relazione tra perdono dei peccati e guarigione fisica. Per prima cosa notiamo che il perdono dei peccati

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precede la guarigione fisica, questo perché nella concezione del tempo le malattie, soprattutto quelle gravi (es. lebbra, paralisi, mutismo, cecità) erano considerate delle “punizioni” divine a causa di gravi peccati commessi. Esse erano lette come una “forte” azione pedagogica di Dio, affinché il soggetto in questione potesse rendersi conto della situazione peccaminosa nella quale si era messo. Per cui la missione di Gesù, fondamentalmente, è il dono della riconciliazione con Dio, che si manifesta nel perdono dei peccati commessi. In questo contesto capiamo allora perché prima viene la guarigione interiore e poi quella fisica, perché è la prima che conduce alla seconda, nel senso che la guarigione fisica diviene il segno esteriore di quello che Dio ha operato all'interno del cuore dell'uomo, cancellando il suo peccato. Comprendiamo così che Gesù non è venuto a fare la parte del “dottore”, colui che si impegna con la sua scienza a riportare l'uomo alla salute “fisica”, e nemmeno dello “psicologo”, chiamato ad accompagnare l'uomo a ritrovare il suo equilibrio “mentale”. Gesù guarisce nel cuore, il “luogo” dove si prendono le scelte “morali”, dove la nostra libertà è chiamata a decidere il proprio destino di fronte a Dio e al prossimo, scegliendo tra il bene e il male. Per cui i miracoli di guarigione “fisica” operati da Gesù non sono mai fine a se stessi, indirizzati cioè a ridare la sola salute fisica alle persone che l'hanno perduta, ma a perdonare i loro peccati per rimetterli in cammino sulla via dell'amore. Cerchiamo ora di attualizzare il messaggio di questo Vangelo. Gesù ci invita, offrendoci come modello i quattro amici del paralitico, a vivere con intensità la dimensione della preghiera d'”intercessione”. Ci esorta a guardarci intorno per scovare qualcuno che sta vivendo una situazione di forte “paralisi” interiore, che gli impedisce di recarsi da solo da Gesù per chiedergli il perdono e la guarigione spirituale. Portiamolo con noi, nel nostro cuore, facciamogli fare un viaggio spirituale per metterlo “davanti a Gesù”, in modo che lui, guardando alla nostra fede, alla nostra speranza e alla nostra carità, possa penetrare nel profondo del suo cuore per riconciliarlo con Dio, con il prossimo e con se stesso. XI domenica del Tempo ordinario (Mc 4,26-34) “Impariamo a stupirci” Lo stile “parabolico” che contraddistingue buona parte dei discorsi che Gesù rivolgeva alla gente non è affatto una sua invenzione, essendo una modalità consueta d'insegnamento delle “cose di Dio”, appartenente alla tradizione rabbinica d'Israele. Le parabole non sono altro che dei racconti inventati, che presentano come “protagonisti” persone, cose, animali, modalità di vita ben note agli interlocutori, appartenenti al loro “normale” vissuto quotidiano. La “novità” della parabola sta nello sviluppo della storia di quei protagonisti, che prende spesso una piega inusuale, arrivando poi a presentare un finale davvero inaspettato e sorprendente! Normalmente, poi, chi racconta le parabole si premura di spiegare il loro significato, il messaggio “teologico” che vogliono veicolare. Spesso però Gesù non lo fa, come nel caso delle due brevi parabole di questa domenica, vediamo perché. Mi fermo solo sulla seconda parabola, quella del granello di senape gettato nel

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terreno. Nel mio ultimo pellegrinaggio in Terra Santa, camminando nella zona del deserto di Giuda, ho avuto la possibilità di vedere tanti alberi di senape e di prendere in mano diversi granelli del suo seme. Se uno non l'ha visto, stenterebbe a crederci, ma un seme di senape è veramente minuscolo, esso è poco più grande di un granello di polvere: ci vorrebbe una lente d'ingrandimento per vederlo bene! Eppure, questo semino di senape, “quasi invisibile”, ha in sé un potere davvero straordinario, dato che produce degli alberi alti diversi metri, ricchi di rami e di fronde belle rigogliose. Gesù prende a prestito questa sorta di “miracolo della natura” per parlare del “regno di Dio”: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?». In realtà, però, dopo aver raccontato la vicenda del granello di senape che dal più piccolo di tutti i semi diventa la pianta più grande dell'orto, Gesù si esime dall'offrire l'interpretazione “teologica” della vicenda. Perché Gesù non ci vuole spiegare la parabola? Perché per prima cosa egli vuole richiamare la nostra attenzione, suscitando il nostro interesse. E come se dicesse: “Ti interessa veramente conoscere Dio, entrare in una relazione sempre più profonda con lui e divenire costruttore del suo regno?”. Oggigiorno siamo così presi dal nostro tran tran quotidiano spesso “ipercinetico”, che il pensiero di staccare temporaneamente la spina, per fermarci un attimo ed aprirci ad un altro mondo che non ha come centro il nostro agire, sembra un qualcosa di inconcepibile e senza alcuna utilità. Poi nella nostra mentalità “scientifica” e del “tempo reale”, ascoltare uno che ti racconta una specie di “favoletta” che non trova un'immediata ricaduta esistenziale nella vita di ogni giorno, sembra proprio una gran perdita di tempo. Allora questa domenica evitiamo di cercare subito una spiegazione sul significato della parabola, ma lasciamoci meravigliare dal fatto che Gesù si rivolge a noi per stupirci con una storia “naturale” che noi non conoscevamo. Diventiamo un po' bambini anche noi, perché per entrare nel regno di Dio, come dice Gesù stesso, bisogna farsi bambini, apprendendo la loro arte di “stupirsi” della realtà meravigliosa che li circonda. In verità è molto più giovane un vecchio che ha ancora mantenuto la capacità di stupirsi che un bambino che ormai non si meraviglia più di niente. Il messaggio di questa domenica è allora duplice. Come dicevo, la prima cosa che Gesù vuole suscitare in noi con il racconto della straordinaria storia del seme di senape, è l'invito allo “stupore” e alla “meraviglia”, a non dare mai nulla per scontato. Ad esercitare quella bellissima caratteristica della natura umana che spinge all'investigazione profonda della realtà, alla scoperta di ciò che è ancora ignoto, al cercare di capire ciò che, a priva vista, sembra incomprensibile. L'invito ad esercitare l'arte dello “stupirsi” e del “meravigliarsi” vale soprattutto di fronte alla grandezza e alla bellezza di Dio, di tutto quello che egli ha creato e crea, ad ogni istante, nel mondo. Proprio in relazione a questo, Gesù ci invita a rafforzare la nostra speranza, perché il regno di Dio, che ancora oggi sembra apparentemente un piccolo seme “debole” e spesso “impotente” di fronte ai molteplici mali presenti nel mondo, è ancora nella fase del suo sviluppo. La sua maturazione arriverà alla fine dei tempi, quando si mostrerà in tutta la sua grandezza e splendore!

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XII domenica del Tempo ordinario (Mc 4,35-41) “Il Signore non dorme mai” Il Vangelo di questa domenica ci presenta uno dei momenti più difficili che gli apostoli hanno vissuto insieme a Gesù. In barca, sul lago di Galilea, si imbattono in una tempesta di vento particolarmente impetuosa, tanto da riempire d’acqua la loro barca. In questa situazione, altamente drammatica, dove gli apostoli si rendono conto che la loro vita è appesa ad un filo, l'atteggiamento di Gesù appare “assurdo” e “incredibile”. Mentre gli apostoli sono tutti impegnati alacremente a ricacciare l'acqua imbarcata nel lago (uno sforzo pressoché inutile, perché è sempre di più l'acqua che entra nella barca di quella che esce), Gesù, dal canto suo, dorme beato e tranquillo tenendosi stretto al suo cuscino! Immaginiamoci la scena. Gli apostoli in preda alla disperazione, la barca che sta per affondare, tutti rivolgono il loro sguardo a Gesù, chiamandolo a voce alta, e lui, niente, sembra che non si renda conto di nulla, continuando il suo sonno. Gli apostoli restano, a dir poco, sbigottiti del suo atteggiamento, tanto che ad un certo punto, vista la situazione che precipita, rompono gli indugi e lo svegliano, rimproverandolo per il suo “menefreghismo” conclamato: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?». Gesù si sveglia e subito interviene come solo lui può fare, invitando il vento e il mare a calmarsi, cosa che si verifica istantaneamente. Poi si mette lui a rimproverare gli apostoli, stigmatizzando la loro evidente mancanza di fede: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Se la domanda posta dagli apostoli a Gesù voleva far ricadere su di lui la situazione di grave pericolo che stavano vivendo (“Se non intervieni è perché non ci vuoi bene, non ti importa nulla di noi!”), le due domande poste a loro da Gesù fanno capire che quell'atteggiamento di “disperazione” è attribuibile solamente alla loro mancanza di fiducia in lui. Ma chiediamoci: “E possibile che Gesù continui a dormire beato, senza accorgersi di nulla, quando la barca è quasi sommersa dall'acqua?”. Qui, ci deve stare sotto qualcos'altro. E se Gesù facesse finta di continuare a dormire per mettere alla prova gli apostoli, per vedere le loro reazioni di fronte a quella situazione di pericolo e verificare così la qualità (in questo caso la “quantità”) della loro fiducia in lui? Questa interpretazione è in linea con un salmo che presenta diversi tratti in comune con il nostro episodio del Vangelo: «Egli (Dio) parlò e scatenò un vento burrascoso, che fece alzare le onde: salivano fino al cielo, scendevano negli abissi; si sentivano venir meno nel pericolo. Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi […] Nell'angustia gridarono al Signore ed egli li fece uscire dalle loro angosce. La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare. Al vedere la bonaccia essi gioirono, ed egli li condusse al porto sospirato» (Sal 106). Sulla base di questo salmo non possiamo allora escludere, che sia stato Gesù stesso a “provocare” quella tempesta, per “pro-vocare” (letteralmente “chiamare fuori”) la fede degli apostoli. Quante volte nella nostra vita ci siamo sentiti “persi” come gli apostoli sulla barca che sta per affondare! Ci siamo sentiti “abbandonati” da Dio, meravigliandoci del suo “non intervento”! Come gli apostoli e diversi salmisti, anche noi lo abbiamo accusato di “dormire” inopportunamente: «Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come

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pecore da macello. Svegliati! Perché dormi, Signore? […] Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?» (Sal 43). Qual é allora la buona novella di questa domenica? Che le “prove” permesse da Gesù hanno un profondo valore salvifico, perché permettono di far “verità” sulla solidità della nostra relazione con lui, facendoci “conoscere” la vera entità della nostra fiducia in lui! Poi, che la via da imboccare per ”uscire” dalla prova sta nel chiedere subito aiuto a Gesù, che di fronte ad un cuore umile, fiducioso e pieno di speranza, interverrà al momento opportuno! Evitiamo allora di “rimproverare” Gesù che “dorme”, perché quelle che noi definiamo sue “dormite” inopportune, non sono altro che momenti preziosi attraverso i quali vuole farci crescere nel cammino del discepolato, perché, in verità, come afferma un altro salmo, il Signore è sempre “sveglio” e non dorme mai: «Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d'Israele. Il Signore è il tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra» (Sal 120). XIII domenica del Tempo ordinario (Mc 5,21-43) “Un “tocco” miracoloso” Gesù è attorniato da una folla molto numerosa, composta da gente di tutti i tipi: persone sinceramente devote, curiosi, increduli. All'interno di questa folla anonima, e oltremodo variegata, si stacca una donna che porta con sé una grande sofferenza, unita ad una grande fede. Una donna “impura” a motivo delle sue continue perdite di sangue (da ben dodici anni!), esclusa perciò dalla pratica religiosa pubblica (per esempio: a causa di quella malattia non poteva sposarsi). Una donna sfinita psicologicamente per aver girato tanti medici, che, oltre ad averla spogliata di tutti i suoi averi, non erano riusciti a curare il suo male, anzi i loro “rimedi” avevano solo peggiorato la situazione. In sintesi: una donna malata, sola, umiliata e povera. Una donna però che porta con sé una speranza, poter incontrare Gesù, del quale si dice un gran bene: un uomo mandato da Dio, che ha il potere di guarire i mali degli uomini. Si mette, allora, in cammino e va a cercare Gesù, trovandolo attorniato da un mucchio di gente che gli fa ressa da tutte le parti. Di fronte a quella scena la donna non si perde d'animo, anzi non avendo il coraggio di porsi davanti a Gesù per chiederli “a tu per tu” il dono della guarigione, non sentendosi affatto degna di ciò, a motivo della sua condizione di donna “impura”, si intrufola tra la folla con la certezza che è sufficiente stabilire un semplice contatto fisico con lui per ottenere la guarigione: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». La guarigione fisica è immediata: «E subito si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male». Il fatto è davvero incredibile, perché normalmente Gesù guarisce attraverso un dialogo con la persona che chiede il suo aiuto, mentre in questo caso egli appare completamente “passivo”: la fede di quella donna è come una chiave che ha aperto il cuore di Gesù, indipendentemente dalla sua volontà, quasi che il miracolo sia stato “rubato” a Gesù. In realtà Gesù si rende conto di quella improvvisa fuoriuscita di grazia sanante dalla sua persona e vuole entrare in relazione

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“consapevole” con quella donna: «Chi ha toccato le mie vesti?». Questa domanda non è fatta con un tono di rimprovero, ma con un misto di sorpresa e di desiderio di conoscere quella donna così straordinariamente ricca di fede. La donna preferirebbe restare anonima, ma di fronte alla richiesta insistente di Gesù, spinta credo anche da un profondo senso di gratitudine nei suoi confronti, vince la sua paura ed esce allo scoperto, raccontando per filo e per segno tutta la sua storia. Gesù con grande gioia, ammirazione e compiacimento le comunica ufficialmente che la sua guarigione è autentica e definitiva: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va in pace e sii guarita dal tuo male». Cosa trarre da questo bellissimo episodio? Per prima cosa che la fede in Gesù è davvero la ricchezza più grande della nostra vita, più preziosa dell'oro, ma anche della stessa nostra salute fisica e psichica. Anche quando tutto sembra perduto, se questa fede resta viva ha la capacità di sostenere la nostra speranza, guidandoci all'incontro con lui, chiedendo umilmente di sperimentare la potenza del suo amore. Nell'altro episodio del Vangelo odierno Gesù, di fronte alla notizia della morte della figlioletta, invita il padre a mantenere sempre viva la fiamma della fede: «Non temere, soltanto abbi fede!». E la figlioletta tornerà miracolosamente in vita… Ci si potrebbe chiedere: come mai, in quel giorno, un mucchio di persone avevano toccato Gesù e soltanto il “tocco” di quella donna ha prodotto il miracolo della guarigione? Perché quel “tocco” era guidato dalla fede, mentre il contatto fisico stabilito dagli altri, era un contatto superficiale, distratto, senza l'intenzione di arrivare al “cuore” di Gesù. Quante volte anche noi ci accostiamo a Gesù in maniera distratta, superficiale, senza un vero coinvolgimento della nostra persona, arrabbiandoci poi se egli non esaudisce prontamente le nostre richieste! La seconda lezione di questo episodio è che le grandi grazie elargite da Dio nella nostra vita non devono essere considerate un fatto privato, ma devono essere rese pubbliche, perché tutti devono sapere quanto è buono e grande il Signore, così che la nostra testimonianza di fede possa divenire stimolo per altri fratelli e sorelle che si trovano in situazioni di difficoltà: «Benedite Dio e proclamate davanti a tutti i viventi il bene che vi ha fatto, perché sia benedetto e celebrato il suo nome» (Tb 12,6). XIV domenica del Tempo ordinario (Mc 6,1-6) “Profeti di casa” L'episodio di oggi fa da netto contraltare a quello di domenica scorsa: alla fede davvero “incredibile” di quella povera donna malata di perdite di sangue si contrappone la mancanza di fede, altrettanto “incredibile” degli abitanti di Nazaret. Dopo aver girato per diverse città e paesi della Galilea, compiendo ovunque segni prodigiosi che testimoniano la potenza e la benevolenza divina nei confronti degli uomini, Gesù torna nel suo paese d'origine. Ritrova così i suoi famigliari, gli amici e tutti i suoi concittadini. Dal racconto di ciò che avverrà in sinagoga nel giorno di sabato constatiamo che non ci fu una grande accoglienza da parte dei nazaretani. Immaginiamo Gesù che gira per le vie di Nazaret e la gente che lo guarda, non gli dice niente, e

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appena gira l'angolo cominciano a parlargli alle spalle, facendo del “gossip”: “Ma è proprio vero quello che si dice di lui? Dei grandi segni che compie? Proprio lui, Gesù, il figlio di Maria e Giuseppe? L'abbiamo conosciuto bene fin da piccolo, sì, era un bravo giovane, come anche altri nel villaggio, ma non aveva mai dato segno di essere un “profeta” di Dio!”. Queste le domande e le considerazioni che si ponevano i concittadini di Gesù. In realtà, l'evangelista Marco ci aveva già ricordato le forti perplessità suscitate ai famigliari di Gesù dal suo operato, tanto da mettersi in marcia per riportarlo a casa, convinti che sia diventato “matto”: «Entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo: dicevano infatti: “E' fuori di sé”» (Mc 3,20-21). Ma torniamo a Nazaret. Arrivato il sabato Gesù si mette ad insegnare nella sinagoga, spiegando la Parola di Dio. Tutti i presenti restano grandemente meravigliati dallo stile e dai contenuti del suo insegnamento, mostrando una “sapienza” davvero fuori dal comune. Se fino ad allora Gesù, a fronte della meraviglia suscitata dalle sue parole, aveva constatato la nascita della fede in molte persone, in questo caso, alla meraviglia fa seguito l'incredulità. Infatti, di fronte alla manifestazione pubblica della sua investitura “profetica”, i nazaretani escono allo scoperto, cominciando a contestarlo apertamente. Essi non pongono un'accusa particolare (in effetti Gesù non ha nessuna colpa), solo riconoscono che quella figura di loro compaesano, improvvisamente “famoso”, è diventata oltremodo “irritante” e “fastidiosa”: «Ed era per loro motivo di scandalo». Da dove nasce questo “scandalo”? E' tutta una loro costruzione mentale. Gesù prima era considerato uno di loro e non c'era alcun problema di relazione con lui, ma ora che, atteggiandosi grande profeta, si pone in una posizione di superiorità rispetto agli altri suoi compaesani, beh, questo i nazaretani non riescono proprio ad accettarlo: “Ragazzo mio, hai alzato troppo la cresta! Noi ti conosciamo bene! Non crederti superiore a noi!”. Poi, senza dubbio, tra gli abitanti di Nazaret pesava anche il fatto, riportato dall'evangelista Luca, che Gesù non aveva cominciato a fare i suoi miracoli nel suo paese, come era naturale che fosse, ma nei paesi vicini, suscitando una forte rabbia di stampo campanilistico: «Quanto abbiamo udito che accadde in Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria» (Lc 4,23). Di fronte a questo così esplicito rifiuto, che suscita una grande meraviglia ai suoi occhi, Gesù risponde con una sentenza molto chiara: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». Appartiene all’esperienza comune ne delle diverse culture il fatto che se una delle persone che tu conosci fa “carriera”, elevandosi dalla media e diventando un “qualcuno”, è facile che questa cosa possa darci fastidio, suscitando magari anche un po’ d’invidia: “Ma proprio quello lì, che a scuola non capiva nulla!”. Naturalmente, se poi chi si “eleva” viene a parlarci di come dobbiamo comportaci nella nostra vita, allora la rabbia ed il fastidio diventano ancora più grandi. E' proprio quello che hanno provato gli abitanti di Nazaret, quel sabato in sinagoga. Chiediamo allora allo Spirito Santo che ci aiuti a non disprezzare quei profeti “casalinghi” (famigliari, amici, conoscenti) che il Signore mette nel nostro cammino, non lasciandoci condizionare da quello che pensiamo di loro, ma solo dalla “sapienza” delle loro parole, che possono effettivamente veicolare la “parola di Dio”.

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XV domenica del Tempo ordinario (Mc 6,7-13) “E ora tutti in missione!” Gesù aveva già costituito il gruppo dei dodici, dando loro il nome di “apostoli” (inviati), chiamandoli alla sua scuola per prepararli un giorno ad andare in “missione” (cfr. Mc 3,13-19). E quel giorno arrivò: «Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro il potere sugli spiriti impuri». Gesù si mette per un attimo da parte e “manda”, per la prima volta, i suoi dodici discepoli preferiti in “missione”, a fare quello che lui stesso aveva fatto fino ad allora: predicare la vicinanza del regno dei cieli e la conversione, liberando gli uomini dai lacci del Maligno. E' bello constatare questa assoluta mancanza di “gelosia” da parte di Gesù, che non fa nessuno sforzo per conferire a quei dodici poveri e semplici uomini, gli stessi suoi poteri divini. E' una sorta di anticipazione del “potere” che il Signore risorto darà alla sua Chiesa. Vediamo allora le caratteristiche di questa prima missione apostolica della storia. Per prima cosa gli apostoli non vengono mandati da soli, ma in coppia. I motivi di questa scelta sono diversi: il sostegno umano; il fatto che, secondo la cultura del tempo, una cosa era considerata “vera” se veniva testimoniata da almeno due persone; la testimonianza della carità reciproca. E' interessante notare il fatto che Gesù non guarda la missione con degli occhi “aziendali” di ottenimento di un maggior “profitto”. Se l'obiettivo, infatti, fosse stato quello di raggiungere più persone possibili, egli li avrebbe potuti mandare da soli, così avrebbero potuto toccare il doppio di località. Il fatto di andare in coppia è invece una dimensione imprescindibile della missione, essendo parte costitutiva dell'annuncio evangelico stesso: il comandamento della carità fraterna. Seconda caratteristica della missione apostolica è lo stile estremamente povero, tendente all'indigenza, che accompagna i dodici: «E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient'altro che un bastone, né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche». Gesù “butta” i dodici nel mondo privi di ogni minima sicurezza di vita: nessun cibo per il viaggio e nemmeno una bisaccia per raccogliere l'acqua, nel caso incontrassero una fonte. Essi si presentano così come dei poveri pellegrini, gente che vive alla giornata, debole, costretta per la sua sopravvivenza a dipendere dal buon cuore delle persone che incontreranno lungo il cammino. Effettivamente sono delle condizioni particolarmente “esigenti”, che forse farebbero desistere parecchi di noi. Ma la spiegazione di questo stile indigente sta nel fatto che Gesù vuole che i suoi apostoli confidino totalmente nella provvidenza divina, eliminando, già in partenza, la tentazione di confidare in loro stessi, sui propri beni e sulle proprie sicurezze. Quando gli apostoli utilizzano tutte le loro energie per “cercare il regno di Dio e la sua giustizia”, non devono preoccuparsi di quello che mangeranno, berranno e vestiranno, perché di quelle cose se ne occuperà il loro Padre nei cieli! (cfr. Mt 6,25-34). La terza caratteristica è quella di prendere sul serio la missione, nel senso di non considerarla come una sorta di gita, una possibilità di girare posti nuovi: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì». Quando gli apostoli verranno accolti da una famiglia ben disposta nei loro confronti e nei confronti di Dio, quella diventerà la loro “base operativa” finché rimarranno in quella città, senza bisogno

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di andare a cercare altro. Un ultimo avvertimento che Gesù dà ai dodici riguarda la possibilità concreta, sperimentata più volte da Gesù stesso, di non trovare accoglienza da parte della gente, ma indifferenza o rifiuto: «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Gesù li invita ad accettare la non accoglienza, senza reazioni violente e senza operare vani tentativi di convincimento. Si va via, rimanendo in pace con tutti, lasciando però un “segno” del passaggio di Dio nella loro vita: lo scuotere la polvere dai sandali dei piedi. Questo gesto vuole significare che gli apostoli non sono responsabili del loro rifiuto della parola di Dio, per cui, un giorno, chi non li ha accolti se la vedrà direttamente con Dio... «Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano». Di fronte ai successi della missione apostolica chiediamo allo Spirito Santo che trasformi ciascuno di noi in “apostoli” di Gesù, nell'umiltà, nella povertà, ma anche nella ricchezza di una grande fede, speranza e carità verso tutti quelli che incontreremo. XVI domenica del Tempo ordinario (Mc 6,30-34) “L’importanza del riposo” Al ritorno dalla loro prima missione gli apostoli muoiono dalla voglia di raccontare a Gesù tutto quello che hanno vissuto. Ma, nel tempo in cui gli apostoli erano via, Gesù non era stato con le mani in mano. Egli aveva continuato ad incontrare persone, annunciando il Vangelo e guarendo i malati, così che un mucchio di gente era attorno a lui, non permettendo la tranquillità necessaria per una serena e approfondita condivisione spirituale. Gesù sa benissimo quanto quell'esperienza di missione fosse importante per gli apostoli ed era lui stesso molto curioso di ascoltare i loro racconti. Notando poi che i dodici erano piuttosto affaticati decide di abbandonare quel luogo con la gente che lo attorniava per ritirarsi insieme ai dodici in una zona desertica. Ma questo progetto di “ritiro nel deserto” inaspettatamente “fallisce”, perché la gente non vuole affatto mollare Gesù. Intuendone il tragitto che avrebbe fatto con la barca si precipita a piedi nel luogo del presunto sbarco, anticipando così l'arrivo di Gesù e degli apostoli. Immaginatevi la faccia di Gesù, quando si rende conto del lungo cammino fatto da tutta quella folla. Osservando i loro volti bisognosi di accoglienza, conforto, consolazione e aiuto, prova uno spontaneo e profondo sentimento di grande “amore compassionevole” nei loro confronti. Ai suoi occhi sembrano come un immenso gregge di pecore preoccupate e smarrite, prive di un pastore che le guidi e le protegga. Allora Gesù abbandona temporaneamente il suo progetto di “ritiro”, mettendosi a completa disposizione di quella moltitudine, insegnando un mucchio di cose importanti per la loro salvezza. Sulla base del racconto evangelico, quale può essere il messaggio che Gesù vuole comunicarci questa domenica? Egli ci invita a riconoscere quanto sia importante concederci dei giusti momenti di “riposo” per il nostro corpo e di “ristoro” per la nostra

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anima. Qui Gesù non scopre di certo l'acqua calda, ma nella nostra cultura che spesso ci spinge a vivere tenendo sempre l'acceleratore “a manetta” in modo da fare sempre più cose nel minor tempo possibile, l'invito al riposo non è per nulla “scontato”. Per cui impariamo ad ascoltare le esigenze del nostro corpo, che possiede dei limiti che dobbiamo saper accettare e rispettare. Se no non saremo capaci di godere appieno delle cose che facciamo, ci sentiremo spesso affaticati e stanchi con la sensazione di non essere mai in piena forma e perennemente schiacciati dalle fatiche del quotidiano. Di fronte a questo problema di costante “sovraffaticamento” la soluzione è quella di amarsi un po' di più non abusando del proprio fisico, magari imparando a dire qualche “no” ogni tanto. Gesù però non ci ricorda solo il bisogno del riposo “fisico”, ma anche del ristoro “spirituale”. Magari questa esigenza è meno sentita di quella fisica, ma è altrettanto importante per una vita serena, soddisfacente e, soprattutto, vissuta in compagnia di Gesù. Il brano di oggi ci insegna l'importanza della condivisione spirituale, alla quale Gesù vuole offrire il giusto spazio. Dovremmo abituarci sempre più a condividere con Gesù non solo gli avvenimenti più “superficiali” della nostra vita, ma anche quelli più “profondi”, raccontando a lui le nostre aspirazioni del cuore, le esperienze spirituali che abbiamo vissuto e anche gli eventuali dubbi che ogni tanto possono sorgere nel nostro cammino di fede. Per fare ciò è necessario andare in un luogo “deserto” dove regna il silenzio e dove non ci sono distrazioni, perché senza queste condizioni non si può dialogare nel profondo con Gesù, rischiando di rimanere solo alla superficie di quello che viviamo. Abbiamo il coraggio non solo di fermarci per riposare un po', ma anche per dedicare del tempo esclusivo alla ricerca di un dialogo profondo con Gesù? Oppure ci sembra tempo perso o, comunque, non un qualcosa di così importante per la nostra vita di ogni giorno? Se a volte anche noi ci sentiamo «come pecore che non hanno pastore», questo non dipende affatto dal “pastore”, che ci ha promesso un amore ed una cura eterni, ma dalle “pecore”, ovvero da noi stessi, che spesso per pigrizia, per autosufficienza o per mancanza di fiducia, non ci muoviamo più per andare a cercare il Pastore della nostra anima, sperimentando un inesorabile progressivo decadimento della qualità spirituale della nostra vita. Ecco allora le due parole d'ordine di questa domenica: riposo del corpo e ristoro dell'anima! XVII domenica del Tempo ordinario (Gv 6,1-15) “Gesù riempie la vita” L’episodio della “moltiplicazione dei pani” assume nel Vangelo di Giovanni una caratterizzazione un po’ diversa rispetto alla narrazione offerta dagli altri tre evangelisti. Qui non siamo nel deserto, ma su un monte. Gesù è attorniato dai suoi discepoli e, vedendo un’immensa folla avvicinarsi, vuole mettere alla prova la fede dei “dodici”, ponendo ad uno di loro, Filippo, una domanda: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». La riposta di Filippo non si fa attendere: “Ci

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vorrebbero un mucchio di soldi per sfamarli tutti!”, soldi che, tra l’altro, noi non possediamo neanche. Un altro discepolo, Andrea, interviene nel dialogo facendo osservare che ha visto un ragazzino che ha con sé qualcosa da mangiare (cinque pani e due pesci), ma quello basterebbe solo per lui e per pochi altri. La palla allora viene ripassata a Gesù attraverso una domanda che vuole sottolineare la pochezza irrisoria di quei pochi beni rispetto alla moltitudine presente: «Ma che cos’è questo per tanta gente?». E’ una domanda logica, razionale, umana, matematica, che significa che non c’è possibilità concreta di risolvere il “problema”. Non si possono sfamare migliaia di persone con soli cinque pani e due pesci: sarebbe assurdo solo il poterlo pensare! Ma Gesù, parlando del pane da mangiare, in realtà sta pensando ad un altro pane, a quel “cibo di vita eterna” che è la sua stessa vita. A quel suo “santo corpo” e quel suo “santo sangue” che verranno offerti sull’altare della croce per sfamare il bisogno d’amore eterno presente nel cuore di ogni uomo. In effetti, non è un caso che l’evangelista Giovanni ci tenga a segnalare che in quei giorni «era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei». In prossimità della cena pasquale, nella quale si fa memoria della miracolosa liberazione divina dalla schiavitù dell’Egitto, Gesù sta preparando un “pasto speciale” per anticipare quella “liberazione spirituale” dal male, dal peccato e dalla morte, che opererà attraverso il suo mistero di morte e risurrezione. In effetti, questa “moltiplicazione” dei pani e dei pesci, che in realtà è più una “condivisione moltiplicante” del poco che si ha a disposizione, ricorda l’ultima cena di Gesù e l’Eucaristia: «Allora Gesù prese i pani e, dopo avere reso grazie, li diede a quelli che erano seduti». A differenza del racconto degli altri tre evangelisti qui non sono i discepoli che distribuiscono i pani e i pesci alla gente, ma è Gesù stesso che si occupa di questo, per sottolineare “il dono di sé” che attuerà nel segno dell’Eucaristia. E’ bello poi rilevare che Gesù distribuisce pane e pesci in quantità smisurata, secondo le esigenze di ciascuno: «quanto ne volevano», e che quel cibo rende tutti sazi. Sì, perché quel cibo “speciale” distribuito da Gesù è “Gesù stesso”, colui che solo può saziare il bisogno di luce, di verità e d’amore presente nei nostri cuori. Solo Gesù può “riempire” davvero la nostra vita! Una “condivisione moltiplicante” stupefacente e straordinaria poiché, oltre ad avere saziato tutti i presenti, avanzano pure dodici ceste piene, pronte a sfamare un'altra folla di persone. Davvero un’abbondanza eccezionale, segno che, di fronte alla presenza di Dio, i calcoli matematici e le previsioni di ogni tipo appaiono ridicole, oltre che inadeguate, poiché lui è onnipotente... Il brano poi ha un epilogo “particolare”. La gente, scendendo dal monte, ebbra di gioia per avere raggiunto la sazietà in quella maniera miracolosa e meravigliosa, non vuole farsi sfuggire l’occasione di proclamare Gesù il nuovo re d’Israele, colui che ha il potere di guidare il popolo verso la felicità terrena. Gesù, appena sente quelle voci, scappa, ritirandosi tutto solo sul monte. Si vedono qui i due piani differenti nei quali si muovono l’uomo e Dio: l’uomo cerca Dio per soddisfare i suoi bisogni, in particolare quelli “materiali”, mentre Dio cerca l’uomo per elevarlo “spiritualmente”, per farlo diventare membro della sua stessa “famiglia” divina. Così che l’uomo tende a vedere in Dio un “mezzo” per il suo

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benessere, mentre Dio guarda all’uomo come un “fine” a cui trasmettere gratuitamente tutto se stesso. E’ proprio questa la missione di Gesù: rivelare all’uomo che Dio lo ama con tutto se stesso e vuole condividere con lui la sua stessa vita divina, aprendo a lui le porte dell’amore che unisce nell’eterna gioia il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. XVIII domenica del Tempo ordinario (Gv 6,24-35) “Un viaggio spirituale” Dopo il grande “miracolo” della moltiplicazione dei pani e dei pesci la gente insegue Gesù per nominarlo subito loro “re”, perché si rendono conto che in quell’uomo hanno trovato la “gallina dalle uova d’oro”. Sì, perché quel Gesù di Nazaret ha dimostrato di avere il potere di risolvere il problema primario della sopravvivenza umana, quello del mangiare. Ma Gesù è conscio delle intenzioni “politico-materiali” che albergano nelle menti della folla che affannosamente lo cerca, e con grande coraggio e lucidità le mette subito in evidenza: «voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». Gesù non cerca il successo numerico della folla che lo segue: nel campo della relazione con Dio i numeri sono davvero molto relativi. A lui importa che gli uomini si aprano all’accoglienza del dono della vita divina, che ha il potere di cambiare radicalmente i loro cuori. Tanti possono cercare Gesù, ma non sempre chi lo cerca è mosso dalla “giusta” motivazione. «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà». In fondo, l’aver saziato di pani e di pesci gli stomaci della gente che lo seguiva era soltanto un segno di quella sazietà spirituale che Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, è venuto a donare all’umanità. Solo che la gente si è fermata al livello più superficiale, quello materiale, senza fare il salto verso la profondità della vita spirituale. E’ un po’ quello che era successo alla samaritana che, in cerca di acqua per il suo sostentamento quotidiano, incontra Gesù che le dice di possedere un’acqua diversa, un’acqua viva, capace di estinguere per sempre la sua sete. Continuando nel dialogo con la gente che lo segue Gesù fa capire che il pane materiale, ricercato per la sopravvivenza di ogni giorno, possiede dei limiti, nel senso che può solo nutrire il corpo dell’uomo, non la sua anima. Ecco allora la grande rivelazione: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». Gesù si presenta come il “vero” nutrimento dell’anima dell’uomo! E’ evidente che di fronte a queste parole si possono avere reazioni diverse, a seconda dello scopo attribuito alla vita. Se io penso che la vita sia soprattutto soddisfare appieno i miei cinque sensi, ponendo in tutti gli ambiti dell’esistenza la ricerca del piacere come primo principio vitale, è chiaro che le parole di Gesù, essendo su un altro piano, non appaiono così interessanti. Se invece il mio cuore è aperto alla ricerca dell’invisibile e dell’immateriale, sentendo il desiderio di una vita profonda, autentica, aperta verso un orizzonte eterno e immortale, allora le parole di Gesù appariranno dolci e attraenti, rinfrescanti l’anima come la brezza del mattino... Gesù è venuto a rivelarci che il cuore dell’uomo, essendo plasmato da Dio, non può trovare la sua vera e piena felicità se non aprendosi a Dio stesso, stringendo con lui una

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profonda relazione d’amore. E’ proprio questo amore divino, che per sua natura è libero, gratuito ed eterno, che ha la capacità di appagare tutti i bisogni e i desideri più profondi dell’uomo. Il vivere in quest’amore è quella “vita eterna” che Gesù è venuta a donarci come “cibo” spirituale dell’anima. «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio? Gesù rispose loro: Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». La vita eterna, che è la vita stessa di Dio, non si può “comprare” con i propri sforzi e con le proprie capacità, la si può solo chiedere umilmente e riceverla gratuitamente dalla mano di Dio. Ecco quello che dobbiamo fare: “credere” fermamente alle stupende parole di Gesù di questa domenica, che ci invitano a staccarci dalla superficie della vita per immergerci nelle profondità della nostra anima. E’ come uno che si accontenta di nuotare alla superficie del mare, credendo che il mare possa offrire soltanto quello, non provando mai ad andare sott’acqua, a esplorare ciò che ci sta di sotto. Siamo chiamati a intraprendere un viaggio, ma non alla scoperta di nuovi posti che soddisfino i nostri occhi e gli altri sensi “materiali”. Il viaggio è alla scoperta di “noi stessi”, dei sensi “spirituali” che la nostra anima possiede, quegli stessi sensi divini, che Dio ha posto nell’intimo dei nostri cuori, per accogliere con gioia le parole di Gesù, aprendoci gli orizzonti della vita eterna. XIX domenica del Tempo ordinario (Gv 6,41-51) “Un pane che ci trasforma in Dio” L’inizio del Vangelo di questa domenica ci dimostra quanto il vizio della “mormorazione” sia piuttosto antico. Di fronte all’affermazione di Gesù: «Io sono il pane disceso dal cielo», i suoi uditori restano fortemente perplessi, cominciando a discutere tra loro sull’assurdità della cosa. Essi sanno infatti che Gesù viene da una determinata città (Nazaret) e da una coppia di genitori in carne ed ossa (Maria e Giuseppe), quindi proviene dalla “terra” come loro, altro che dal cielo! Però non hanno il coraggio di comunicare in faccia a Gesù le loro perplessità, ma come spesso fanno gli esseri umani, si mettono a “mormorare” tra di loro, dietro le spalle del soggetto in questione. Gesù però ha le orecchie ben aperte e si rende conto delle parole che circolano sul suo conto, stigmatizzando subito quel comportamento così subdolo e meschino: «Non mormorate tra voi». E’ questo il primo insegnamento di questa domenica: al bando il brutto vizio della mormorazione! Esso è un chiaro indice di codardia, nonché di una mal celata “superbia” che ci fa osservare l’altro dall’alto verso il basso, come giudici super intelligenti e sempre infallibili... Ma andiamo avanti. Il problema dell’origine di Gesù, se “dal cielo” o “dalla terra”, resta comunque una questione “seria”. Essa non tocca solo l’ambito della ragione umana, ma coinvolge anche quello della fede in Dio: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre mio». Sì, per credere nell’identità di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio venuto dal cielo, è necessaria la luce della fede, la sola capace di dare la vera e piena lettura della sua misteriosa persona. E’ solo grazie all’azione rivelatrice dello Spirito

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Santo, inviato dal Padre nel mondo, che gli uomini possono riconoscere la divinità di Gesù. Non c’è altra via: l’uomo da solo non può arrivare al divino! E’ necessario che il divino si “abbassi”, che scenda dal cielo per farsi prossimo dell’essere umano. C’è bisogno di un ponte fra il cielo e la terra e questo ponte è Gesù! Arriviamo al cuore del Vangelo di questa domenica: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno». Ecco la grande rivelazione di Gesù, che approfondisce e chiarisce ulteriormente il segno della moltiplicazione dei pani. Il Figlio di Dio non si è fatto uomo per garantire all’umanità il solo benessere fisico e psicologico, quasi a offrire una sorta di “paradiso” terrestre, come speravano tanti suoi contemporanei e, forse, sperano ancora oggi tanti nostri contemporanei. Gesù non si presenta come un politico o un riformatore sociale, la sua missione è su un altro piano, molto più profondo e spirituale. Egli è venuto infatti ad offrire agli uomini la stessa vita divina, quella comunione eterna d’amore che regna in Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo. Per cui il pane materiale moltiplicato da Gesù, capace di saziare ogni appetito, è un segno dell’amore divino, che è capace di saziare ogni desiderio dell’animo umano. La vita eterna non è altro che vivere nella dimensione dell’amore divino. Quando amo qualcuno entro nella dimensione dell’eternità, poiché l’amore ha la capacità di oltrepassare le barriere dello spazio e del tempo. Ma visto che, come dicevo all’inizio, nessun uomo può diventare divino per sue capacità o per mezzo dei suoi soli sforzi, Gesù si presenta a noi utilizzando l’immagine del “pane vivo, disceso dal cielo”. Mangiando di lui, che è divino, possiamo a nostra volta, trasformarci progressivamente in esseri “divini”. Nutrendoci di Gesù infatti assimiliamo la divinità della sua persona. Certo che pensando alle problematiche che attanagliano la vita di ogni giorno questa rivelazione di Gesù può sembrare eterea, troppo “elevata” e poco concreta. In effetti quelle parole di Gesù non hanno il potere di risolvere “magicamente” tutti i nostri problemi, ma offrono la capacità di vederli sotto un’altra ottica. Ci ricordano che il senso per cui siamo stati creati è la “divinizzazione” delle nostre persone: noi siamo venuti al mondo per diventare come Dio, questa è la nostra più alta vocazione! Per cui, anche in tempo di gravi difficoltà economiche, non ci viene tolta la possibilità di “amare” gli altri e sperimentare così la vita eterna, la sola capace di dare un senso profondo alla nostra esistenza. Se diminuisce la nostra capacità di acquisto di beni, non diminuisce affatto la nostra capacità di donarci agli altri, nutriti da Gesù, il “pane vivo disceso dal cielo”. XX domenica del Tempo ordinario (Gv 6,51-58) “Fare la comunione” «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Continua il lungo discorso di Gesù alla sinagoga di Cafarnao, dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: un discorso che si fa sempre più profondo. Prima egli aveva detto di essere “disceso dal cielo” per offrirsi come il “pane della vita” che dona la vita eterna agli uomini. Ora compie un passaggio avanti decisivo, affermando che quel pane da lui

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offerto è la sua stessa carne, cioè il suo stesso corpo. La reazione della folla che lo ascolta non si fa attendere: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». In effetti la domanda non è stupida. Finché si parlava di un pane “speciale”, di una sorta di nuova “Manna” proveniente dal cielo, il discorso poteva essere accettabile, anche perché già conosciuto nella Scrittura e sperimentato dal popolo d’Israele nel deserto, ma questa “novità” del doversi nutrire del “corpo” di un altro essere umano, è una cosa inaudita, “scandalosa” e anche “orribile”! Poi, per potersi effettivamente realizzare, Gesù dovrebbe per prima cosa morire… In effetti Gesù si sta riferendo proprio al suo sacrificio sulla croce, a quella morte violenta e cruenta alla quale sarà sottoposto, che rappresenta l’apice del suo atto di donazione totale al Padre e a tutta l’umanità. Una morte “per amore” che gli aprirà le porte della risurrezione, dell’ascensione al cielo e dell’intronizzazione come Signore dell’universo. E’ proprio in questa qualità di Signore dell’universo che Gesù può “nutrire” gli uomini della sua divinità, attraverso il dono del suo “corpo” glorioso. In effetti, il sacramento del corpo e sangue del Signore Gesù, come lui stesso afferma, è da considerarsi come «vero cibo» e «vera bevanda», dato che chi si nutre di esso: «rimane in me e io in lui». Ecco allora che il santo nutrimento eucaristico si presenta come lo strumento “divino -umano” in grado di far compiere il passaggio della vita eterna da Dio agli uomini. In realtà, esso è un passaggio “duplice” poiché, secondo le parole di Gesù, colui che con fede e amore si nutre del suo corpo e del suo sangue “entra” nella vita stessa di Gesù («rimane in me»), poi, in virtù di questo movimento, Gesù stesso “entra” nella vita dell’uomo («e io in lui»). Questo duplice santo movimento realizza quello che chiamiamo la “comunione”, ossia l’essere diventati un tutt’uno con Gesù! Faccio notare come la comunione debba essere vista come un dono che ci fa Gesù, non un qualcosa che dipende dalle nostre capacità: è lui che attirandoci a sé permette un’unione spirituale profonda tra la sua e la nostra persona. Non siamo noi che da soli abbiamo il potere di far entrare Gesù nella nostra vita, ma è lui che attirandoci all’interno della sua persona divina, entra a far parte della nostra esistenza. Questa (è proprio il caso di dirlo) “santa” comunione comporta uno sconvolgimento totale all’interno della nostra persona, che viene abitata dalla persona stessa di Gesù. Ora infatti che Gesù, attraverso il sacramento dell’Eucaristia, ci ha donato la sua divinità, il nostro compito è quello di dargli sempre più spazio nella vita di ogni giorno, permettendogli di trasformarci progressivamente a sua immagine, facendoci diventare realmente dei “cristiani” (degli altri “Cristi”). Dobbiamo perciò lasciargli la libertà di guidare i nostri pensieri, le nostre idee, i nostri desideri e le nostre azioni. E’ questo il senso della frase: «colui che mangia di me vivrà per me», dove la preposizione “per” assume un duplice significato “causale” (grazie a me, partendo da me) e “finale” (al suo servizio, secondo il suo volere). Che senso avrebbe, infatti, nutrirsi del sacramento del corpo e sangue di Cristo, se poi, attraverso le nostre scelte di vita antievangeliche, facciamo “abortire” quel seme di divinità che è stato seminato nei nostri cuori?

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XXI domenica del Tempo ordinario (Gv 6,60-69) “Liberi di scegliere il nostro destino” «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Siamo arrivati al termine del lungo discorso di Gesù dopo il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Un percorso articolato che ha raggiunto il suo apice nella rivelazione che il sublime pane celeste, che ha il potere di dare la vita eterna agli uomini, è quel suo corpo donato sulla croce. Di fronte a queste parole, particolarmente misteriose e incomprensibili, gli uditori di Gesù si sentono chiamati a una presa di posizione: “Continuiamo a dargli fiducia, anche se quelle parole ci scandalizzano; oppure cambiamo strada e torniamo alle nostre case e alla vita di ogni giorno, come se niente fosse?”. Di fronte alle parole e alla persona di Gesù c’è una scelta da fare: o gli credi e lo segui, o non gli credi e, di conseguenza, non lo segui… La parola greca tradotta in italiano “dura” è sklērós, che può anche essere tradotta con gli aggettivi: rigido, esigente, difficile. Queste diverse sfumature di significato ci fanno capire che, agli occhi e alle orecchie umane, il discorso di un Dio che si trasforma in pane per donarci la sua vita divina sembra quasi una favola. Inoltre, può disturbarci anche la perentorietà con la quale lo stesso Gesù ci presenta la cosa: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (Gv 6,53). Egli sa benissimo che la proposta del nutrirsi del “pane di vita eterna” è un qualcosa che sta al di fuori dei normali schemi umani e, proprio per questo, ribadisce che è necessario un intervento “dall’alto”, un dono spirituale capace di illuminare le menti e i cuori degli uomini, affinché possano comprendere la bontà e la grandezza del “cibo divino”. Bisogna fare un salto, passare dal modo di pensare “carnale”, dove l’uomo è misura di se stesso, a quello “spirituale”, dove Dio diventa la misura dell’uomo: «E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita». Sarà infatti compito dello Spirito Santo plasmare nel profondo l’essere dell’uomo, donandogli lo stesso pensiero di Dio, così che non solo capirà la ricchezza straordinaria del “pane di vita eterna”, ma si renderà conto, in maniera evidente che, senza quel nutrimento spirituale offertogli da Dio, la sua vita perde notevolmente di senso. Torniamo ora agli uditori di Gesù, che in cuor loro hanno già fatto la loro scelta: da quel momento, infatti, non seguiranno più Gesù, smettendo di considerarsi suoi discepoli! Gesù non è sorpreso di quel ritornare sui loro passi e ne prova grande dispiacere, consapevole del fatto che la chiusura convinta al dono della vita divina, se confermata lungo il corso della vita, preclude all’uomo quella salvezza che il Figlio di Dio è venuto a portare nel mondo. Il momento è quindi altamente “drammatico”: Dio lo si può accettare o rifiutare, l’uomo è infatti libero di scegliere il suo destino… E’ per questo motivo allora che Gesù vuole che anche i dodici apostoli prendano una posizione nei suoi confronti: «Volete andarvene anche voi?». Gesù non vuole persone che si sentano “costrette” a seguirlo per un qualche motivo: il divenire suoi discepoli è una scelta di libertà, che rimane sempre revocabile. Di fronte a questo gesto di “riofferta” della loro libertà di scelta i dodici, rappresentati da Pietro, rispondono con

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convinzione che non vogliono seguire nessun altro, visto che hanno incontrato lo stesso Dio in persona: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». E noi? Vogliamo stare lontano da Gesù? Oppure desideriamo conoscerlo sempre più profondamente, per divenire ogni giorno suoi autentici discepoli, nutriti dalle sue sante parole e dal suo santo corpo e sangue, che sono “spirito e vita”? XXII domenica del Tempo ordinario (Mc 7,1-8.14-15.21-23) “La vera purezza” I farisei sono scandalizzati nel vedere come alcuni dei discepoli di Gesù ignorino completamente le prescrizioni degli antichi maestri rabbini riguardo alle minuziose procedure di purificazione esteriore che dovevano essere seguite prima di prendere i pasti. Quei “lavaggi” purificatori avevano lo scopo di rendere “puro” l’israelita che era venuto in contatto “fisicamente” con qualcosa che aveva intaccato, anche accidentalmente, la sua purità/integrità religiosa (es. essere entrato in contatto con della carne di maiale, animale impuro per eccellenza). Gesù, interrogato sulla questione, risponde che quelle prescrizioni promosse dai farisei non centrano niente con Dio, ma solo delle cose inventate dagli uomini che per Dio non hanno alcun significato. Anzi, fissandosi su di esse, considerandole alla stregua di comandamenti divini, si corre il rischio di perdere di vista i “veri” comandamenti divini, quelli che conducono alla via della vera santità. Inoltre, la pratica fedele di queste inutili invenzioni umane possono far incorrere nella superbia spirituale, nel costatare come tanti uomini quelle pratiche non le seguono affatto. E’ per questo motivo che Gesù, di fronte alla grande importanza data dai farisei a quei lavaggi purificatori, contrappone la parola di Dio, citando alcuni versetti del profeta Isaia, che mostrano con chiarezza quello che veramente importa a Dio: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini». A Dio infatti importa che il cuore dell’uomo, non il suo corpo, sia pulito e puro. E’ come se Gesù dicesse: “A che cosa serve fare tante minuziose pratiche di lavaggi di mani e di altre parti del corpo prima di prendere i pasti, aventi il significato di presentarsi puri e santi davanti a Dio, quando magari nel cuore sei pieno di te stesso e c’è indifferenza o odio verso qualche tuo fratello?”. Il discorso di Gesù prosegue facendo capire che la distinzione tra cibi puri e impuri non è un qualcosa che viene da Dio, ma è una stupida invenzione umana, perché nessun cibo ha il potere di intaccare il cuore dell’uomo, rendendolo “impuro” dinanzi a Dio. Sulla base di queste parole i cristiani hanno abbandonato la distinzione tra cibi “buoni” (puri) e “cattivi” (impuri), che gli ebrei (seguiti dai musulmani e da altre religioni) ancora oggi mantengono. Il problema infatti non è quello che mangi, ma quello che vivi, non è quello che “entra” nella tua pancia, ma quello che “esce” dal tuo cuore: «Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose

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cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo». Queste parole di Gesù, oltre a farci capire quali sono le vere cose che ci rendono “impuri” davanti a Dio e agli uomini, rappresentano anche un invito ad assumerci la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni, evitando di incolpare gli altri dei nostri comportamenti malvagi. Mi spiego. Un giorno un signore mi confessò che lui si considerava una persona davvero mite e pacifica, ma se qualcuno gli faceva un torto, lui non poteva non reagire, dando la colpa della sua reazione all’altro che, con il suo comportamento provocante, lo aveva “costretto” a reagire in malo modo. Gesù ci invita a non fare i “bambini”, ma a comportarci da persone adulte, capaci di distinguere bene le proprie responsabilità: della tua reazione violenta il responsabile sei solo tuo, perché è il tuo cuore che l’ha partorita, l’altro è responsabile solo del torto che ti ha fatto, partorito, a sua volta, dal suo cuore “malato”. XXIII domenica del Tempo ordinario (Mc 7,31-37) “Apriti!” Gesù si trova in territorio pagano e compie uno dei suoi gesti “miracolosi”, guarendo un sordomuto. Guardiamo attentamente la dinamica di questa guarigione. Per prima cosa notiamo l’intimità che Gesù vuole instaurare con il sordomuto, isolandolo dalla folla e portandolo in disparte. Sì, perché la prima condizione per operare la guarigione è instaurare una relazione d’intimità con Gesù: stare soli l’uno di fronte all’altro. Siamo invitati anche noi a cercare questa intimità personale con Gesù, poiché è proprio l’intimità che fa nascere e sviluppare la conoscenza di lui, innescando la dinamica dell’amore. Come può esserci amore profondo tra due persone se non c’è conoscenza reciproca? E come può esserci conoscenza reciproca profonda se non c’è intimità? L’intimità poi permette anche il contatto fisico, Gesù infatti guarisce il sordomuto instaurando con lui una relazione fisica: «gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua». Il primo gesto non ci fa problemi, il secondo forse sì, per motivi “igienici”. Considerando però che la saliva è soprattutto acqua e che l’acqua è simbolo della vita, si capisce allora il senso profondo di quel gesto: Gesù trasmette la potenza guaritrice della sua vita divina, mettendola in contatto con la persona del sordomuto. Da notare poi come quest’ultimo sia completamento passivo nei confronti di Gesù, che fa su di lui quello che vuole, senza alcun impedimento. E’ un’immagine particolarmente eloquente dell’abbandono totale nei confronti di Gesù, necessario per ottenere da lui la guarigione. In effetti, non sei tu che devi dire a Gesù cosa fare per guarirti, poiché lui lo sa benissimo. E’ lui il medico e tu sei paziente, per cui “pazienta” e lasciati fare… I gesti compiuti da Gesù però non sono sufficienti ad operare la guarigione, essi appaiono come dei segni “muti” che, per comunicare tutta la loro significatività ed espressività, hanno bisogno di una voce, di una parola ben precisa e illuminante: «guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: “Effatà”, cioè “Apriti!”». Ecco la parola illuminante: “Apriti!”. Dopo aver pronunciato quella parola il miracolo si compie e il sordomuto potrà recuperare le sue facoltà naturali che erano

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state lesionate, riprendendo ad ascoltare e a parlare correttamente. Certamente non sarà solo la gioia della guarigione “fisica” che accompagnerà la vita dell’ex-sordomuto, perché quando lo Spirito Santo gli farà capire che quel guaritore potente era nientemeno che il Figlio di Dio fatto uomo, allora il suo cuore registrerà indelebilmente quel gesto di grande misericordia sperimentata, aprendolo all’amore e alla gratitudine eterna! Facciamo risuonare nei nostri cuori quella parola “magica”, «Apriti!», che Gesù ha rivolto al sordomuto. Sì, perché anche noi abbiamo bisogno di “guarigione”, soprattutto “spirituale”. Abbiamo bisogno di guarire dalla “sordità” che non ci permette di ascoltare e accogliere la parola di Dio. La sola che, toccando le corde del nostro cuore, ha il potere di cambiare radicalmente il nostro modo di pensare, di ragionare e di desiderare. Guarendo dalla sordità alla parola “divina”, guariremo anche la nostra facoltà di parlare. Cambierà per prima cosa il nostro “vocabolario”. Abbandoneremo le parole inutili, ambigue e volgari, ma anche quel vocabolario che gira attorno ai temi della sfiducia “perenne”, della lamentela “quotidiana” e dell’insoddisfazione “generalizzata”, nonché quelle parole aspre, taglienti e sprezzanti con le quali, a volte, “colpiamo” e “feriamo” il nostro prossimo di turno. “Apriti” al desiderio di Dio di cambiare il tuo cuore! “Apriti” all’ascolto attento della sua parola divina, capace di guarire tutte le tue ferite e i tuoi blocchi! Allora anche il tuo parlare sarà “sanato”, comunicando agli altri saggezza, bontà, amore, fiducia e speranza. XXIV domenica del Tempo ordinario (Mc 8,27-35) “Chi è Gesù e chi sei tu” E’ interessante l’iniziativa di Gesù che, a un certo punto della sua attività evangelizzatrice, chiede ai suoi discepoli che cosa pensi la gente di lui: «La gente, chi dice che io sia?». Sembra dire che è importante ogni tanto fermarsi e fare il punto della situazione e, nel suo caso, di avere un riscontro di cosa il suo operato abbia suscitato nei cuori delle persone incontrate. Le risposte fornite dai suoi discepoli, raccogliendo le opinioni più diffuse tra la gente, risultano essere piuttosto deludenti, poiché Gesù viene paragonato a un semplice profeta del passato “miracolosamente” tornato in vita (i nomi più in auge sono quelli di Giovanni il Battista e di Elia). Gesù allora pone la stessa domanda ai suoi discepoli, e Pietro risponde che la vera identità di Gesù è quella di essere il Messia (il Cristo), l’uomo potente mandato da Dio a inaugurare gli ultimi tempi. Sia la gente, sia i suoi discepoli, non sono riusciti però a cogliere la specificità e l’unicità di Gesù di Nazareth, ovvero il mistero della sua incarnazione, l’essere il Figlio eterno di Dio che si è fatto uomo. Essi si sono fermati a quello che potevano vedere i loro occhi “umani”: un uomo come loro che parla e agisce da profeta, quindi un uomo “di Dio”. Come facevano ad intuire che egli era anche “Dio fatto uomo”? Sarà lo Spirito Santo che illuminerà la mente degli uomini, rendendoli capaci di “vedere” l’invisibile: Gesù non è un semplice uomo, ma il Figlio di Dio disceso dal cielo! La questione dell’identità di Gesù però non finisce qui. Non basta credere che egli è il Figlio di Dio fatto uomo, bisogna anche “comprendere”, cioè “fare proprio” il “modo”

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in cui egli compie la sua missione di Messia e salvatore dell’umanità. E’ questo lo “scandalo” di Pietro, che non accetta assolutamente che il Messia debba soffrire, essere rifiutato e morire sulla croce come un disgraziato. Egli ha in mente un ben altro Messia: un potente liberatore del popolo dall’oppressione dei romani, oltre che dal male del mondo. «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini?”. Pietro viene chiamato da Gesù ad una “conversione” di mentalità, ad un cambiamento profondo del suo pensiero sull’operato del Messia mandato da Dio: non è Dio che deve adeguarsi alle aspettative degli uomini, ma sono gli uomini che devono apprendere la “mentalità” di Dio, mettendosi con umiltà alla scuola di Gesù. Alla luce di tutto ciò, la domanda posta da Gesù ai suoi discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?», assume una profondità nuova. Non basta rispondere: “il Figlio di Dio sceso sulla terra”, rimanendo così al mistero della sola incarnazione, ma bisogna completare la risposta facendo riferimento al mistero della sua dolorosa passione e morte, liberamente accettata per la nostra salvezza. Mistero che troverà la sua piena rivelazione alla luce della risurrezione. Ma anche questo non basta ancora. Manca l’ultimo passaggio, fondamentale per diventare un vero discepolo di Gesù, ossia l’essere disposto a vivere sulla propria pelle lo stesso “stile di vita” adottato da Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Se anche noi accettiamo di ripercorrere come Gesù, il cammino “doloroso” del dono totale di se stessi per amore di Dio e del prossimo, chiunque esso sia (anche colui che ci fa del male), vivremo la sua stessa dinamica di morte e risurrezione. Vivremo cioè la perdita temporanea della vita per una sua riappropriazione più piena e definitiva nella dimensione dell’eternità. Siamo così arrivati a stringere il cerchio: rispondere alla domanda su chi è Gesù per noi non significa solo affermare “qualcosa” sull’identità di Gesù, ma dire anche qualcosa sulla nostra “identità”: su chi siamo e su chi vogliamo essere nella vita. XXV domenica del Tempo ordinario (Mc 9,30-37) “Le Olimpiadi della santità!” Siamo al secondo annuncio che Gesù fa ai discepoli del suo destino di passionemorte-risurrezione che avrebbe vissuto, tra non molto, a Gerusalemme: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Se dopo il primo annuncio c’era stata la reazione scandalizzata di Pietro che si era messo a rimproverare Gesù per quelle “fastidiosissime” parole di sofferenza e di morte, dopo il secondo annuncio non è che le cose siano cambiate di molto. Gesù e i suoi discepoli stanno percorrendo la stessa strada (vanno verso Gerusalemme), ma non lo stesso “cammino”. Le intenzioni presenti nel cuore di Gesù e in quello dei suoi discepoli sono completamente diverse, in aperta opposizione. Da una parte infatti c’è Gesù che parla del dono della propria vita per la salvezza dell’umanità, un’offerta totale di sé che comporta sofferenza, dolore e morte. Dall’altra

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ci sono i discepoli che, incuranti di quelle sue parole “scandalose”, continuano ad alimentare i loro sogni di gloria “umana”, facendo orecchie da mercante. E sì, quando Gesù tocca il tasto della sofferenza e della sua morte, sembra che le orecchie dei discepoli si chiudano immediatamente e automaticamente, impedendo la comunicazione e la comprensione. La loro è una reazione “infantile”. Essi intuiscono che quelle parole di Gesù “profetizzano” una grande sofferenza e un atroce dolore che toccherà anche loro stessi, ma preferiscono far finta di niente, evitando di approfondire la cosa: «Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo». In realtà, nella testa dei discepoli c’è ben altro. Hanno un’altra questione da affrontare e risolvere, una questione di vitale importanza: chi tra di loro debba essere considerato il discepolo più importante, il più grande, il migliore, quello che deve ricevere i maggiori onori. La scena è davvero buffa. Dopo le parole di Gesù sulla sua passione, ascoltate in un silenzio imbarazzato e imbarazzante, i discepoli, riprendendo il cammino dietro a Gesù, cominciano a discutere animatamente facendo le selezioni per il concorso di “Mr. Discepolo”! L’infantilismo dei discepoli ritorna nel momento in cui Gesù chiede loro quale fosse l’argomento che li aveva accalorati così tanto lungo il cammino. Ancora una volta cala il silenzio! Non hanno il coraggio di aprire bocca! Sanno, in coscienza, della vanità assoluta della loro questione, ma non vogliono però abbandonare i loro sogni di gloria. A questo punto allora Gesù affronta con chiarezza e decisione entrambe le questioni: la sua (il suo destino di passione-morte-risurrezione) e quella dei suoi discepoli (i loro sogni di gloria “umana”): «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Gesù rivoluziona completamente i termini del concorso “Mr. Discepolo”: la gara non è per stabilire chi è il primo, ma chi è l’ultimo! Ovvero il primo è colui che sceglie di stare all’ultimo posto, mettendosi con umiltà al servizio degli altri! In questa linea appare chiaro che alle “Olimpiadi della Santità”, il primo posto ce l’ha Gesù, che se lo è conquistato sul podio della croce: «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo […] umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8). Ecco l’invito che questa domenica Gesù fa a tutti noi: mettere definitivamente nel cassetto qualsiasi sogno di gloria “umana” che possiamo avere per la testa, utilizzando le nostre migliori qualità ed energie per gareggiare nelle “Olimpiadi della Santità”, seguendo l’esempio del primatista mondiale del “servizio al prossimo” (Gesù Cristo). Sebbene il secondo posto della graduatoria sia già occupato (dalla Vergine Maria, sua madre), per il terzo posto e i seguenti la lotta rimane ancora aperta… XXVI domenica del Tempo ordinario (Mc 9,38-43.45.47-48) “Non siamo una setta” Subito dopo il discorso di Gesù sulla “gara” a chi più si mette a servizio degli altri per vedere chi è “evangelicamente” il più grande, discorso terminato con l’invito ad

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accogliere i bambini nel suo nome, i discepoli, per bocca di Giovanni, raccontano al loro Maestro l’ultima “marachella” combinata. Ecco il fatto increscioso. I dodici vedono uno sconosciuto che si “permette” di usare il nome di Gesù per scacciare i demoni dagli uomini. Oggettivamente quell’uomo sta facendo una bellissima azione, ha probabilmente visto Gesù fare altrettanto e si è convinto che il solo pronunciare con fede il nome di quell’uomo, così speciale, ha un potere enorme nei confronti di tutti gli spiriti del male. Giovanni e gli altri invece rimangono “scandalizzati” da quel comportamento, poiché quell’uomo è uno sconosciuto, non appartiene al gruppo “ufficiale” dei discepoli che seguono Gesù. Per cui, con estrema decisione e convinzione, gli intimano di smettere di atteggiarsi a “discepolo” di Gesù, agendo impunemente nel suo nome. Gli avranno certamente chiesto: “Che cosa stai facendo? Chi ti ha dato il potere di fare gli esorcismi? Tu non sei uno dei discepoli di Gesù! Non ti conosciamo, non sei uno dei nostri!”. Sembra esserci dietro una sorta di salvaguardia del “potere”, oltre che di sincera difesa della sana fede “cattolica”! Gesù evidentemente non aveva assistito alla scena e i discepoli non gliene avevano ancora parlato. Ma “smascherati” e scossi dalle parole di Gesù sul “mettersi all’ultimo posto” ed essere disposti ad accogliere chiunque (anche un piccolo bambino) che si presenti come inviato di Gesù, essi ntuiscono che, forse, hanno sbagliato anche questa volta! In effetti, anche in questo caso la riposta di Gesù va in tutt’altra direzione rispetto al pensiero dei discepoli: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi». Fermiamoci un po’ a riflettere su questa frase. Gesù per prima cosa li fa ragionare, facendo loro capire che, se una persona utilizza il suo nome per lottare contro il male, vuole dire, di fatto, non solo che egli ha fede in Gesù, ma che lo ama profondamente. Per questo motivo allora egli non si permetterebbe certo di dire o fare mai qualcosa che possa andare contro la sua persona. Questa è la prima rivelazione. Come a dire: guardate che chi decide quali siano le caratteristiche dei miei “discepoli” (inteso qui in senso lato) non siete voi, ma sono io. Ricordatevi che il mio sguardo è molto più ampio del vostro! Voi non potete leggere i cuori delle persone, io sì! Eccoci giunti allora alla seconda rivelazione. Gesù, rispondendo con la frase «chi non è contro di noi è per noi», vuole offrire al gruppo dei dodici il “vero” criterio per discernere se uno è o non è un potenziale o effettivo discepolo di Gesù. Tale criterio è la presa di posizione netta e inequivocabile contro la persona di Gesù e il suo messaggio, nonché contro la persona e il messaggio di tutti i membri che, di fatto, facendo parte del suo “corpo mistico”, appartengono a lui. Gesù ci invita così ad allargare i nostri orizzonti, a non sentirci membri di una “setta”, ma di una comunità “aperta”, dove al centro sta la persona di Gesù e non i suoi discepoli! Questi sono chiamati a essere umili e a valorizzare tutti i germi di verità, di bene, di amore e di ammirazione per la persona di Gesù e il suo messaggio, che vedono presenti anche in coloro che non aderiscono ancora pienamente alla comunità dei suoi discepoli (la Chiesa). Dall’altra parte ci esorta anche a non avere paura di proclamare pubblicamente, con coraggio e decisione, la nostra fede nella persona di Gesù e nel suo Vangelo, specialmente quando si è attaccati da coloro che agiscono apertamente e consapevolmente contro Cristo e la sua Chiesa.

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XXVII domenica del Tempo ordinario (Mc 10,2-16) “Il matrimonio è indissolubile” Il discorso sul “divorzio” è sempre all’ordine del giorno, oggi come ieri. Anche ai tempi di Gesù, infatti, si discuteva se e quali fossero i motivi “validi” perché un uomo potesse “ripudiare” la propria moglie. Questo perché la Legge di Mosè permetteva questa possibilità, senza però entrare nel dettaglio delle motivazioni: «Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa» (Dt 24,1). Cosa vuol dire “qualcosa di vergognoso”? Le due scuole rabbiniche in auge al tempo di Gesù (una più “rigorista” e una più “permissivista”) offrivano due differenti risposte. I primi consideravano come unico motivo valido per il ripudio l’adulterio; i secondi affermavano che bastava qualsiasi cosa che non piacesse al marito (per esempio, il fatto di non essere “brava ai fornelli”). In questo clima i farisei chiedono a Gesù di entrare nel dibattito: «è lecito a un marito ripudiare la propria moglie?». Al sentire che effettivamente nella Legge di Mosè il ripudio era permesso, Gesù reagisce in maniera forte e chiara, spiegando che quella motivazione non veniva da Dio, ma dalla poca capacità degli uomini di amare: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma». Come dire che Mosè è venuto incontro alle debolezze e alle pretese umane, ma in realtà il progetto divino è un altro. Esso prevede, infatti, un legame “indissolubile”: «Ma dall’inizio della creazione (Dio) li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Così non sono più due, ma una carne sola». Siamo partiti da due diverse interpretazioni rabbiniche tendenti entrambe, seppure con casistiche diverse, a legittimare il ripudio. Ora, ai tempi nostri, le due diverse scuole di pensiero che si contrappongono sono il pensiero di Dio e quello dell’uomo. Per Dio il matrimonio sincero, consapevole e valido, celebrato fra un uomo e una donna battezzati in Cristo, non può mai essere sciolto per intervento umano di qualsiasi genere: «Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». Perché? Perché Dio, attraverso il sacramento del matrimonio, non ha solo unito due corpi e due cuori facendoli diventare uno, ma anche due “anime”, rendendo questa nuova “unità spirituale” segno dell’unità che fonda lo stesso mistero di Dio, che è comunione di tre persone. Ma non solo. Egli prende a prestito l’amore scambievole dei coniugi per elevarlo a segno dell’amore infinito con il quale Dio ha amato e ama gli uomini, amore dimostrato dal sacrificio del Figlio Gesù sull’altare della croce. Ecco perché il matrimonio cristiano non ha la sua prima “origine” nei sentimenti dei due sposi, ma dall’amore versato da Gesù sulla croce. E poiché quest’amore è eterno, esso è indissolubile! Tanti però, privi di questa profonda visione di fede, considerano anche il matrimonio cristiano una scelta fondamentalmente umana (anche se viene chiesta la benedizione divina), dove ciò che cementa l’unione sono i sentimenti degli sposi, per cui quando essi si esauriscono, anche il matrimonio automaticamente si esaurisce. Ma questo non è il pensiero di Dio.

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Non immaginiamo quanta sofferenza crei a Dio il ripudio, o il divorzio che sia. Da una parte c’è la sofferenza provata in primis dagli sposi stessi, nonché dai loro figli e dagli altri congiunti e amici, dall’altra c’è la sofferenza provata nel vedere come la bellezza e la grandezza del suo amore unico, eterno e indissolubile non sembra essere così tanto apprezzato dalle sue creature. XXVIII domenica del Tempo ordinario (Mc 10,17-30) “Giocare in borsa con Dio” «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Una domanda piuttosto seria e impegnativa, che da tempo un uomo portava nel cuore, cosciente che il destino della “vita eterna” si giochi su questa terra. Spinto dal desiderio di una risposta chiarificante, quell’uomo si precipita verso Gesù, gettandosi in ginocchio ai suoi piedi pronto ad ascoltare le sue sante parole. E’ curioso il fatto che egli definisca Gesù “buono”, tanto che Gesù stesso rimane meravigliato del titolo affibbiatogli, chiarendo subito che la vera bontà non appartiene agli uomini, ma a Dio. L’appellativo “buono” lo possiamo prendere come un segnale che ci aiuta a capire meglio la “psicologia” di quell’uomo. Immaginiamo che la sua vera domanda sulla vita eterna, in realtà, fosse questa: “Cosa devo fare di buono per essere considerato da Dio una brava persona e guadagnarmi così il paradiso?”. Ecco la riposta di Gesù. Il punto di partenza è non fare del male agli altri e fare del bene ai tuoi prossimi, come dice la Legge di Mosè. L’uomo confessa con gioia che se è solo quello, lui l’ha sempre fatto, sin da quand’era bambino. Immaginiamo il suo volto rasserenato e compiaciuto, considerando quelle parole di Gesù come una sorta di conferma “profetica” di quello che in realtà egli già credeva: il potersi considerare davanti a Dio una “brava” persona! In verità, quello era solo il punto di partenza del cammino per la vita eterna. La risposa di Gesù, infatti, continua spiegando che per arrivare al “traguardo” manca ancora un passo da compiere: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ahia! Qui le cose si mettono male! La musica cambia! Improvvisamente il suo volto, prima sorridente, si fa cupo e triste. Quelle parole di Gesù l’hanno “tramortito”, gli hanno procurato una vera e propria “mazzata” al cuore! Pensava di essere ormai prossimo al traguardo, di avere la certezza di essere un brav’uomo con un bel posto prenotato in paradiso e invece gli viene chiesto di fare una cosa inaudita, apparentemente assurda: spogliarsi di tutti i suoi molteplici averi, di tutto quello che gli dava onore, potere, sicurezza e agio per darli ai “poveri” e mettersi poi al seguito di Gesù. Quella sarebbe la “via” per diventare davvero buoni ed entrare così nella vita eterna… Tocchiamo qui con mano il dramma dell’uomo che non si lascia amare da Dio. Infatti Gesù, prima di fargli quell’”assurda” richiesta, lo guarda con dolcezza, manifestandogli la grandezza dell’amore infinito che Dio ha per le sue creature: «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amo». Gesù lo ama, ma lui non si lascia amare. E’ così forte l’attaccamento ai suoi beni che, di fronte al sorriso amante di Gesù, risponde con un

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netto e mesto rifiuto: «se ne andò rattristato». Possiamo immaginare i pensieri di quell’uomo: “No, mi spiace Gesù, non me la sento di abbandonarmi completamente a te. Ho bisogno di sicurezza, di qualcosa di solido su cui appoggiarmi! E poi perché dovrei dare le mie cose ai poveri? Perché dovrei spogliarmi delle mie ricchezze? Perché non è sufficiente stare attenti a non fare del male agli altri e volere bene ai propri cari per essere “buoni” agli occhi di Dio?”. Cosa bisogna fare allora per ereditare la vita eterna? Bisogna lasciarsi guardare dagli occhi amanti di Gesù e mettere a sua disposizione tutto quello che siamo e abbiamo, non considerandoli come nostra proprietà esclusiva, ma come doni che vengono dalla sua bontà. Doni da condividere ed impiegare per l’edificazione del suo regno. Siamo invitati a “giocare in borsa” con Gesù, certi della promessa che ogni cosa che gli daremo ce la restituirà moltiplicata per cento (1:100), già in questa vita, donandoci, in più, il meraviglioso “premio” della vita eterna! XXIX domenica del Tempo ordinario (Mc 10,35-45) “Servire o essere serviti?” Il gruppo dei dodici discepoli comincia al seguito di Gesù la lunga ascesa che li porterà alla tanto sospirata città santa di Gerusalemme. Ormai è questione di giorni e l’attesa è grande. Gesù per la terza ed ultima volta si preoccupa di spiegare il senso autentico della sua missione a Gerusalemme, parlando del dono “cruento” della sua vita per la salvezza del mondo: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà» (Mc 10,33-34). Ormai i dodici si sono “abituati” a quelle parole misteriose, assurde e scomode, per cui non vi reagiscono più. Essi si immaginano invece che Gesù, appena entrato in Gerusalemme, manifesterà con potenza la grandezza di Dio, cacciando via i romani e ricevendo l’investitura ufficiale di Messa, re d’Israele. Si apre così la lotta ai “primi posti” in questo “regno di gloria”, che è ormai alle porte… Giacomo e Giovanni rompono gli indugi, si fanno avanti e con un tono estremamente deciso e perentorio («vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo») domandano a Gesù di poter diventare il braccio “destro” e il braccio “sinistro” nel suo regno: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Immaginiamo la faccia di Gesù. Egli non li rimprovera, ormai li conosce, non prova nemmeno più delusione, li compatisce soltanto, facendo loro capire che quella richiesta dimostra che “non hanno capito un tubo del regno di Dio”: «Voi non sapete quello che chiedete». Se da una parte, Giacomo, Giovanni e gli altri dieci, sono “assetati” di onore e di gloria, Gesù parla, al contrario, di un “calice amaro” da bere! Gli uni muoiono dalla voglia di “ricevere” dagli altri, Gesù muore dalla voglia di “donarsi” agli altri... In questo contesto arriva allora il grande insegnamento di Gesù. Costatando il funzionamento dei regni “umani”, dove chi sta in alto comanda, domina e usa il potere

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che ha per sfruttare gli altri e arricchirsi, Gesù spiega ai suoi discepoli che il regno di Dio funziona esattamente al “contrario”. Infatti, chi sta in alto si pone in basso a servizio degli altri: «chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti». Con queste parole afferma chiaramente che, nella sua Chiesa, chi cerca di affermare se stesso, chi vuole fare “carriera”, chi vuole stare in alto per ricevere onori ed esercitare il potere sugli altri, ha sbagliato completamente strada, quello non è proprio il suo posto, non può più essere considerato un discepolo di Gesù. E’ per questo che, allo stesso modo, un “cristiano” che si impegna nel campo sociale e politico non può assolutamente essere connivente con qualsiasi utilizzo del “potere” per fare i propri interessi (più o meno puliti), a scapito degli altri... «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Ecco il modello da seguire sempre in ogni campo di azione, ecclesiale, sociale e politico. Gesù ci invita ad entrare in questa “santa” e “divina” mentalità dell’essere stati creati per donarci agli altri, attraverso il servizio del bene, della verità e della comunione. Guardando al prossimo non come qualcuno da cui “prendere” o “ricavare” qualcosa, ma uno a cui “dare” qualcosa: la nostra vita e la nostra persona… Una “missione” non facile, perché comporta un “combattimento” spirituale, sia all’interno di noi, sia fuori di noi. Sì, perché nel nostro cuore, come anche nel cuore degli altri uomini, sono presenti delle ferite che producono forti impulsi egoistici, che muovono contro il desiderio di “servire”, imponendo, al contrario, l’imperativo categorico del “farsi servire”… XXX domenica del Tempo ordinario (Mc 10,46-52) “Anche i ciechi vedono” Questa domenica l’evangelista Marco ci racconta l’ultimo “miracolo” compiuto da Gesù prima del suo arrivo a Gerusalemme. Il protagonista è un cieco di Gerico, Bartimeo, che, sebbene non possa vedere Gesù con i suoi occhi “naturali”, dimostrerà di “vederlo” chiaramente con quelli della “fede”. Egli è lì, seduto lungo la strada, come ogni giorno, passando il tempo a “scocciare” il prossimo, chiedendogli l’elemosina per sopravvivere. Bartimeo, essendo cieco, possiede un senso dell’udito più sensibile rispetto al normale. Sente che c’è movimento, si informa e gli viene spiegato che in città è arrivato il “grande” Gesù di Nazaret, colui che fa tanti miracoli, il Messia tanto atteso dal popolo d’Israele. Non appena si rende conto, dai rumori della folla, che Gesù sta per passare vicino a lui, Bartimeo coglie al volo l’occasione, urlandogli la propria fede e la propria situazione di dolore: «Figlio di Davide, Gesù abbi pietà di me!». Ecco il primo miracolo: Bartimeo, pur essendo cieco, riesce a “vedere” in Gesù il Figlio di Davide. Non mette assolutamente in dubbio il suo essere inviato da Dio. Possiamo dire che ci creda “ciecamente”... Ma che succede? Improvvisamente si frappone un ostacolo tra Bartimeo e Gesù. Molti tra la folla si mettono a rimproverarlo, perché le sue grida sono esagerate e

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disturbano la “quiete pubblica”, invitandolo subito a tacere! Immaginiamo i loro pensieri e le loro parole: “Non disturbare il Maestro con le tue grida assurde! Se sei diventato cieco è perché hai fatto qualcosa di male e Dio ti ha punito! Lascia in pace il Maestro e noi! Sei solo un povero cieco!”. Chi sono questi che rimproverano Bartimeo? Sono persone che si sono messe al seguito di Gesù, apparentemente vestendo i panni di suoi discepoli. In realtà, quel loro comportamento li smaschera, mostrando il loro volto di persone egoiste, insensibili alle vicende altrui, prive di fede, speranza e carità. Altro che discepoli di Gesù! Ma Bartimeo non si abbatte di fronte all’ostacolo. Anzi, l’insensibilità di quella gente lo spinge ad urlare ancora più forte la sua fede in Gesù e il suo desiderio di salvezza: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». E Gesù, a differenza di quella gente, si mostra sensibile a quelle grida, si ferma e lo fa mandare a chiamare. Bellissima questa scena! Gesù si ferma, interrompe il suo cammino per fare spazio nel cuore a Bartimeo, il quale a sua volta ha aperto la porta del suo cuore per farvi entrare Gesù. E qui entrano in gioco altre persone della folla. Questi sì che sono dei veri discepoli di Gesù, perché udito l’invito del Maestro di andarlo a chiamare, subito si mettono in movimento per annunciargli la “buona novella”: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». Lo prendono per mano e lo accompagnano da Gesù. Ecco allora come questa pagina di Vangelo ci offre due modelli positivi da seguire e uno negativo da non imitare affatto. Da una parte c’è la grande fede di Bartimeo e la sua “voglia” di cambiare vita, che non si ferma anche di fronte agli ostacoli. Egli “vede” che Gesù è la persona giusta al quale affidare il suo profondo desiderio di guarigione. Poi ci sono i fedeli collaboratori di Gesù che, condividendo i suoi sentimenti di amore per il prossimo, si offrono per accompagnare tutti coloro che vogliono incontrare Gesù, ma che, per varie ragioni, non sono in grado di andare da lui “con le loro gambe”. Infine, dall’altra parte, ci sono i “finti” discepoli Gesù, i “benpensanti”, che in verità sono dei “malpensanti”. Essi infatti, non conoscendo affatto il pensiero e il cuore di Dio, proiettano sugli altri la loro mancanza di fede, speranza e amore, diventando degli “ostacoli” all’azione sanante della grazia di Dio. XXXI domenica del Tempo ordinario (Mc 12,28-34) “Ama” «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Una domanda che per noi può sembrare scontata, ma non per uno scriba ebreo chiamato ad insegnare al popolo l’osservanza degli innumerevoli precetti della Legge di Mosè. Per lui, aver chiaro quale fosse il comandamento più importante da vivere, quello su cui puntare maggiormente nella sua opera di “catechesi”, era un’esigenza fortemente sentita. Gesù risponde alla questione mettendo insieme due testi biblici noti: la preghiera che ogni ebreo (ancora oggi) è chiamato a recitare tre volte al giorno (lo “Shemá Israel”) e un versetto che parla dell’amore del prossimo. Così che, in realtà, il comandamento più importante non è uno solo, ma sono due: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con

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tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso». Oggi potremmo parafrasare la domanda dello scriba in una maniera più esistenziale: “Cosa si aspetta Dio che io faccia nella vita?”, oppure in una forma più diretta: “Che cosa vuole Dio da me? Perché mi ha creato?“. Ecco la risposta di Dio: “Caro/a mio/a, io ti ho creato perché tu ami”. Che bello, una sola parola, un solo verbo: “amare”. Una sintesi fantastica della vita, altro che rigiri di parole difficili e incomprensibili. Mi piace questa schiettezza e semplicità di Dio. La cosa più importante da fare nella mia esistenza è una sola: “amare”! Dio però non si accontenta di lanciarci una parola e basta, ma ci spiega anche nel dettaglio “chi” amare e “come” amare. Il primo soggetto da amare è lui stesso. Questo non deve sorprendere, perché è Dio che ha “inventato” l’amore, essendo egli stesso “Amore” (cfr. 1Gv 4,8). Egli ci ha creati quindi “per amore” e “per amare”. Chiarito il primo soggetto da amare, passiamo al “come” amarlo: con un amore “totale”, dandogli tutto il nostro cuore, l’anima, la mente e le forze, ossia con tutto noi stessi. Forse può sembrare un tantino esagerato. Perché dovrei dargli tutto? Fermati un attimo e pensa. Chi è che ti ha creato? Dio. Perché ti ha creato? Perché ti ama. Come ti ha dimostrato la grandezza del suo amore? Attraverso il dono totale del Figlio Gesù sulla croce. Bene. Se allora Dio ti ama dandoti tutto se stesso, ti sembra così esagerato che si aspetti di essere contraccambiato con la sua stessa misura? No, perché anche nell’esperienza dell’amore umano, quando qualcuno mi fa capire che è disposto a darmi tutto di lui, anche nel mio cuore nasce il desiderio di contraccambiare con la stessa totalità. Ma cosa vuol dire amare Dio con tutto il cuore, l’anima, la mente e le forze? Che non posso amare nessun altro? No, basta riconoscere che Dio sta al “primo posto”, che è lui l’origine e il fine della tua stessa vita, e che è lui stesso che ti spinge e ti dà la possibilità di amare gli altri. Qui si inserisce il secondo comandamento. Infatti quell’amore totale che Dio ha per te ce l’ha anche per tutti gli altri esseri umani, anch’essi creati da lui per amore e per amare. Tutti dobbiamo considerarci “figli” e “figlie” di quell’unico e identico Amore. E’ proprio quell’Amore che ci rende “vicini”, “prossimi”. Dio non ti chiede altro che essere sempre pronto a “scambiare” il “suo/tuo” amore con tutte le persone che incontri nel cammino, considerandoli tuoi fratelli e tue sorelle. Ti invita a tenere sempre il cuore aperto per “dare” a loro e “ricevere” da loro, per amare ed essere amato. «Non sei lontano dal regno di Dio». Così si rivolge Gesù allo scriba, avendogli dimostrato di condividere in toto le sue parole sul comandamento dell’amore. Sì, perché per “entrare” nel regno di Dio non basta “credere” alle parole sull’amore, bisogna viverle…

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XXXII domenica del Tempo ordinario (Mc 12,38-44) “L’apparenza inganna” «Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete». E’ bella quest’immagine di Gesù che si siede, mettendosi ad osservare con attenzione l’agire degli uomini. Ogni tanto dovremmo fare l’esercizio spirituale di “immaginarci” Gesù, presente lì accanto a noi, intento ad osservare come conduciamo la nostra vita, che ci guarda mentre lavoriamo, parliamo, preghiamo, mangiamo… Il suo non è uno sguardo superficiale che si limita a registrare gli avvenimenti, ma è uno sguardo che va nel profondo, che arriva a penetrare il cuore, leggendo le intenzioni che stanno dietro ai comportamenti umani. Così che Gesù stigmatizza l’atteggiamento degli scribi che facevano di tutto per primeggiare e mettersi in mostra, mascherando un “apparente” grande devozione. Poi osserva le sostanziose offerte a sostegno delle attività del tempio di Gerusalemme fatte dalle persone più ricche, da annoverarsi certamente tra i “grandi benefattori” del culto divino. Ma come ricorda Dio al profeta Samuele chiamato a consacrare il successore del re Saul: «l'uomo vede l'apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam 16,7). Dopo aver osservato il comportamento dei ricchi, l’attenzione di Gesù si ferma su una povera vedova, la quale getta nelle casse del tesoro del tempio solamente due misere monetine, una somma quasi insignificante. Immaginiamoci il rumore altisonante delle offerte dei ricchi che riecheggiano nel tempio e il sordo rumore, quasi impercettibile, di quei due spiccioli. Si direbbe che tra le offerte delle persone benestanti e quella della vedova non ci sia proprio paragone. Ed è vero, ma non nel senso dettato dall’apparenza, poiché Gesù, scavando in profondità, fa venire alla luce le “vere” intenzioni dei cuori, rovesciando il giudizio “apparente”: «questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri». Sì, perché quei ricchi hanno dato “apparentemente” tanto a Dio, ma avendo offerto solo parte del loro superfluo, in realtà non gli hanno dato niente di importante, non coinvolgendosi con tutta la loro persona nella relazione con Dio. Possiamo dire che la loro offerta non è partita dal cuore, intendendo per “cuore” il centro vitale della loro esistenza. La povera vedova, dal canto suo, dando a Dio «tutto quanto aveva per vivere», si è giocata tutto, mettendo a “rischio” la sua stessa sopravvivenza. Ella, possiamo dire, ha davvero messo il suo “cuore” nelle mani di Dio. Cosa c’è dietro il gesto apparentemente “folle” e “sconsiderato” di quella vedova? C’è quella relazione che chiamiamo “fede”, ovvero un rapporto di fiducia “cieca” nei confronti di Dio, un abbandono totale nella sua provvidenza. La povera vedova “scommette” su quelle parole dette da Gesù sul non affannarsi per quello che mangeremo, berremo e vestiremo: «Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,32-33). La vedova ha messo in pratica quelle parole, ponendo le esigenze del “regno di Dio”, simboleggiate dall’offerta al tempio, prima della sua stessa vita, “certa” della risposta benevola del Padre celeste, che si preoccupa di tutti i suoi “piccoli”. Quei ricchi invece hanno continuato a mettere “loro stessi” al centro della vita, calcolando freddamente

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quanto “affidare” e “affidarsi” a Dio, dimostrando così di essere ricchi di soldi, ma poveri di “fede”. Allora questa domenica la grande fede della povera vedova interroga la nostra relazione di abbandono fiducioso in Dio: “Quanto ci fidiamo di Lui? Quanto siamo disposti a donargli della nostra vita e dei nostri beni?”. Forse anche noi siamo di quelli che danno a Dio solo parte del loro superfluo… XXXIII domenica del Tempo ordinario (Mc 13,24-32) “Vedere l’invisibile” Il brano evangelico scelto per questa domenica è tratto dal lungo discorso “escatologico” che occupa il capitolo tredicesimo del Vangelo di Marco. Esso ha inizio con l’apprezzamento ammirato che uno dei discepoli di Gesù fa sulla bellezza delle pietre ornanti il tempio di Gerusalemme. Gesù prende spunto da questa osservazione per “profetizzare” che «Non sarà lasciata pietra su pietra che non venga distrutta» (Mc 13,2). Poi comincia a parlare di guerre, terremoti, carestie, persecuzioni, di martirio e di grandi sconvolgimenti naturali che accadranno in futuro. Afferma che il sole smetterà di fare luce, la luna di conseguenza non rifletterà più un bel niente e le stelle cadranno, una ad una dal cielo. Bene, di fronte a questo buio totale e universale, Gesù annuncia che gli uomini «vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria». L’immagine è “curiosa”: la luce della gloria di Gesù si potrà vedere solamente quando ci sarà l’oscuramento di tutte le luci naturali. Viene in mente la visione della Gerusalemme celeste presente nel libro dell’Apocalisse: «La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello» (Ap 21,23). Queste parole sono davvero “illuminanti”! Esse ci fanno capire che il sole ha il potere di farci vedere solamente le cose “visibili”. Per vedere l’invisibile è necessaria un'altra fonte di luce: il Signore Gesù. Egli è infatti la luce eterna, colui che ci permette di vedere e sperimentare le realtà eterne, quelle che non si corrompono, non si consumano e non si perdono. Quelle che rimangono per sempre e che marcano nel profondo il senso della nostra esistenza: Dio e l’amore. La venuta ultima di Gesù ha perciò lo scopo di eliminare dalla realtà creata tutto ciò che non è eterno, per fare pieno spazio alla gloria divina, che ingloberà tutto e tutti. Questa venuta finale “gloriosa” e “ricapitolativa” di Gesù si pone in perfetta continuità con la sua prima venuta sulla terra. Egli infatti venendo ad abitare in mezzo a noi, ci ha mostrato inequivocabilmente il volto amorevole di Dio, capace di morire d’amore per ciascuna delle sue creature predilette. Non solo. Attraverso il dono dello Spirito Santo, Gesù stesso è venuto ad abitare nei cuori degli uomini, dando loro la capacità di amare con il suo stesso amore divino. Allora è amando del vero e unico amore divino che io posso “vedere” già su questa terra il volto di Gesù, riflesso nei miei stessi atti di amore e in quelli dei miei fratelli e sorelle. Ed è proprio quest’amore, concretamente vissuto, che mi fa già entrare nell’eternità, che mi fa oltrepassare la barriera dello spazio e del tempo, che mi fa “vedere” le cose invisibili.

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Questa luce divina non è paragonabile al potere della luce del sole, della luna e delle stelle, siamo davvero in un’altra dimensione. Ci ricordiamo infatti il personaggio di Bartimeo, quel cieco che, sebbene privo della luce naturale, era stato capace di “vedere” con gli occhi della fede il Figlio di Dio che passava accanto a lui. Cosa è più prezioso: vedere perfettamente il sole, la luna, le stelle e il resto del creato, ma non “credere” nella presenza di Gesù nel mondo, oppure, essere sprovvisti di quella luce naturale, ma avere la luce “soprannaturale” che ci fa vedere il volto di Dio e ci fa pregustare l’eternità? Francesco d’Assisi, nel “Cantico di frate Sole”, non a caso dichiara che la cosa più bella del sole è la sua capacità di “simboleggiare” meglio di tutti gli altri astri la “luminosità divina” del Signore Altissimo. Il Vangelo di oggi però ci fa andare oltre, invitandoci a contemplare la “non eternità” del sole e degli altri astri, che un giorno lasceranno il posto alla vera ed eterna luce, il Signore Gesù re dell’universo. N.S. Gesù Cristo Re dell’universo (Gv 18,33-37) “Martiri d’amore” Certo che Pilato si trova in grande difficoltà con Gesù. Non riesce affatto ad inquadrarlo. Dicono che è un re, ma in realtà, come re appare piuttosto debole, visto che i suoi stessi sudditi glielo hanno consegnato per metterlo a morte e lui non ha fatto alcuna resistenza. Gesù chiarisce subito che il suo modo di essere re è molto diverso da quello dei re della terra. Egli non è venuto sulla terra per “comandare” o per ricevere onori, ma per offrire la sua vita a favore degli altri, mettendosi “umilmente” al loro servizio. Gesù spiega a Pilato che il suo regno «non è di questo mondo» e che la sua missione regale è “particolare”: «dare testimonianza alla verità». In greco il testo letteralmente suonerebbe così: per “martirizzare la verità”. Sì, perché la parola “testimonianza” deriva dal greco “martúrion”, termine che sarà in seguito utilizzato per identificare coloro che, a motivo della loro testimonianza di fede in Cristo, saranno uccisi, divenendo così dei “martiri”. Ma di quale verità sta parlando Gesù? Egli sta parlando di se stesso, della sua identità profonda: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). E’ la verità della sua persona, l’essere il Figlio di Dio fatto uomo venuto a salvare l’umanità attraverso il dono della sua stessa vita. Una verità che Gesù ha affermato più volte, per esempio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Ma le parole da sole non sembrano essere sufficienti per rivelare la “verità”, poiché esse possono essere non capite, mal interpretate o fraintese. C’è bisogno di un gesto, di un’azione che corrisponda specularmente a quanto annunciato con la bocca. E’ necessaria una vera e propria “testimonianza”, in modo che sia tutta la vita della persona a parlare, non soltanto la sua bocca. Ecco allora che il dono di Gesù sull’altare della croce assume la forma della “testimonianza”, della “parola che si fa carne” per mostrare in maniera inequivocabile la

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verità che Dio è amore. Quale re infatti è disposto a lasciarsi condannare a morte dai suoi stessi sudditi, reo di aver cercato sempre e solo il loro bene, completamente alieno da ogni sbaglio, colpa o peccato nei loro confronti? Vengono in mente le parole dell’autore della lettera agli Ebrei che, contemplando estasiato Gesù nei panni del vero e unico “sommo sacerdote”, afferma: «Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli» (Eb 7,26). Ecco il nostro re! Un re che si abbassa per elevarci, che ci si pone davanti per servirci, che ci chiede con umiltà di aprire i nostri cuori per far spazio all’amore divino. Egli sa bene che solo accogliendo il suo amore divino e imparando a condividerlo con gli altri esseri umani possiamo realizzare nel profondo la nostra vita. Non c’è altra vocazione infatti che quella di divenire “amanti”! E’ proprio vivendo ogni giorno questa vocazione all’amore che possiamo sperimentare la vera “libertà” umana, che non è tanto fare sempre quello che si vuole, ma voler “amare” sempre ogni uomo, anche quando questi non ci piace affatto e magari arriva anche a farci del male. Questa è infatti la libertà dell’amore alla quale Gesù chiama i suoi discepoli: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Anche noi allora siamo chiamati a diventare come Gesù “testimoni” fino alla fine, ovvero “martiri” della verità dell’amore universale e senza condizioni di Dio. Un amore capace anche di “spostare le montagne”, quei macigni di paura, indifferenza, disprezzo e odio, che a volte albergano nei nostri cuori. E chissà che il nostro “martirio d’amore” non faccia sgretolare pian piano anche i macigni presenti nei cuori degli altri? I domenica di Quaresima (Mc 1,12-15) “Nel deserto, ma non da soli” Il brano del Vangelo odierno è situato subito dopo il battesimo di Gesù nel Giordano, dopo che lo Spirito Santo scende su di lui ed il Padre comunica che quell'uomo è il suo Figlio amato. Il primo atto che lo Spirito Santo compie, appena sceso su Gesù, è quello di inviarlo nel deserto per essere tentato da Satana. L'evangelista Marco, a differenza di Matteo e Luca, non descrive l'azione tentatrice di Satana, quelle tre prove alle quali viene sottoposto Gesù, ma offre un quadretto molto sintetico, ponendo al centro la figura di Gesù, che sembra vivere “tranquillo e beato” quei quaranta giorni di tentazioni diaboliche. Sì, perché a parte la presenza di Satana, Gesù nel deserto non è solo. Egli trova la compagnia di tanti animali, normali abitatori delle regioni desertiche e, soprattutto, la presenza di alcuni angeli che sono posti al suo servizio: «Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano». La menzione degli animali selvatici, che non fanno assolutamente nulla di male a Gesù, vuole mostrarci che Gesù sta compiendo il famoso oracolo messianico del libro d'Isaia, che annuncia un tempo futuro in cui lo spirito del Signore si poserà in maniera tutta speciale su di un uomo della stirpe di Iesse, che inaugurerà un tempo nuovo, meraviglioso e straordinario, in cui, tra le altre cose: «Il

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lupo dimorerà insieme con l'agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà […] Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; Il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso» (Is 11,6-9). La presenza degli angeli nel deserto invece fa capire che quel Gesù gode di una particolare considerazione da parte del Padre, che si preoccupa che il suo Figlio unigenito possa avere tutti gli onori e le attenzioni che si merita, così come recita un famoso salmo: «Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Sulle mani essi ti porteranno, perché il tuo piede non inciampi nella pietra» (Salmo 90). Ma, andiamo avanti, perché dopo i quaranta giorni nel deserto Gesù, avendo ricevuto la notizia dell'arresto di Giovanni, lascia quel luogo per recarsi in Galilea e cominciare la sua missione evangelizzatrice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo». Ecco allora che il tempo trascorso da Gesù nel deserto si scopre in funzione dell'inizio della sua missione di annunciatore del Vangelo di Dio. Un tempo di preparazione affinché egli sia nelle condizioni di poter vivere, totalmente concentrato nel pieno dono totale di sé al mondo, un’esistenza completamente per-gli-altri. Sulla base di queste riflessioni possiamo trarre degli interessanti elementi capaci di illuminare il cammino della quaresima che abbiamo cominciato. Per prima cosa, la consapevolezza che la quaresima è un tempo di passaggio, non è fine a se stessa. Essa è orientata a “concentrarci”, ossia a crescere nel dono della nostra persona a Dio e agli uomini, proprio come Gesù. In questo senso dobbiamo leggere l'invito alla “conversione” lanciato da Gesù: credere sempre di più che la nostra vita è un dono ricevuto da Dio da ridonare a nostra volta agli altri. Per cui lo scopo di questo periodo di quaresima è arrivare non solo a comprendere più profondamente la bellezza e la grandezza del dono di Gesù sulla croce, ma a “viverlo” sulla nostra pelle. Un cammino che è guidato dallo Spirito Santo, e che non dipende, perciò, solamente dalla nostra buona volontà e dai nostri sforzi. E’ Spirito Santo, infatti, colui che può trasformare il nostro cuore, rendendolo più capace di aprirsi al dono di sé agli altri. Lo Spirito Santo si presenta così come il compagno fedele della nostra quaresima! Sarà lui che ci aiuterà a scoprire gli inganni di Satana. Questi ci inviterà ad accontentarci della nostra capacità di donarci, suggerendoci che noi siamo già fin troppo “buoni” verso gli altri. Ci mostrerà come i beneficiari delle nostre attenzioni tante volte non ci contraccambiano affatto, così che il nostro “sacrificio d'amore” appare inutile, pesante, non ci dà alcuna soddisfazione, anzi ci rende spesso infelici! Ma lo Spirito Santo, oltre a smascherare l'astuzia di Satana, ci farà vedere che in questo cammino di crescita nella capacità di donarci agli altri non siamo soli. Il Padre, dall'alto dell'amore che ha per ciascuno di noi, ci invierà dei messaggeri: degli “angeli”. Essi prenderanno la figura di uomini e donne che si affiancheranno a noi per sostenerci nelle difficoltà del cammino, per illuminarci con il loro esempio di vita dedita al servizio di Dio e del prossimo, stimolandoci a continuare con perseveranza e con gioia nella via dell'amore e del dono di sé.

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II domenica di Quaresima (Mc 9,2-10) “Una vita trasfigurata” E' un'esperienza molto speciale quella che hanno vissuto Pietro, Giacomo e Giovanni, il giorno che sono stati condotti da Gesù sul monte per assistere alla sua “trasfigurazione”. I tre hanno visto Gesù cambiare forma, operando una vera e propria “metamorfosi” (è questo il significato del verbo greco utilizzato per spiegare l'evento della trasfigurazione: metamorfeō), apparendo loro nello splendore della gloria dei cieli. Ma lo stupore non si ferma a quella vista, poiché subito dopo i tre discepoli vedono i due pilastri delle Scritture: Mosè ed Elia. E infine, in una successione di eventi uno più straordinario dell'altro, vengono coperti da una nube dalla quale esce una voce misteriosa: quella di Dio Padre! Come mai tutto questo spiegamento di forze celesti? A quale pro un'esperienza mistica così stupefacente? La risposta sta nella frase pronunciata dal Padre: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». Sì, perché dopo questa frase tutto scompare e ritorna alla normalità: niente più voce divina, niente più nube misteriosa, niente più apparizione di santi e niente più Gesù trasfigurato. Tutto torna come prima. Sul monte restano Pietro, Giacomo, Giovanni e Gesù, uomo “semplice” come loro. Poiché la frase pronunciata dal Padre pone fine alle meraviglie del Tabor, è chiaro che essa rappresenta l'apice dell'esperienza che Gesù voleva far fare ai suoi tre discepoli. Concentriamoci allora sul contenuto di quelle brevi parole pronunciate dal Padre. Egli non fa altro che ripetere lo stesso concetto espresso il giorno del battesimo di Gesù nel Giordano: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento». Solo che in quel caso tali parole erano rivolte direttamente al suo Figlio unigenito, mentre sul Tabor vengono pronunciate ai tre discepoli, in qualità di rappresentanti dell'intera umanità. E soprattutto sul Tabor c'è un' importante aggiunta, una parola in più, un verbo all'imperativo: «ascoltatelo!». Ecco la novità: poiché Gesù è il suo Figlio amato, bisogna dare retta a tutte le sue parole, che non sono altro che le stesse parole del Padre. Ecco allora il senso dell'apparizione di Mosè ed Elia, che si mettono a colloquiare con Gesù. Questi due grandi personaggi dell'Antico Testamento sono l'emblema della parola di Dio contenuta nei cinque libri della Legge e nei dodici libri appartenenti alla sezione dei Profeti, ovvero il fondamento della rivelazione di Dio al popolo d'Israele. Se Pietro, Giacomo e Giovanni, come tutti gli altri appartenenti al popolo d'Israele, sono invitati a credere che la parola contenuta nella Legge e nei Profeti è parola di Dio, tanto più devono credere che la parola di Gesù è parola di Dio, perché lui è il Verbo eterno di Dio che si è fatto carne! A questo punto siamo in grado di comprendere meglio il significato della trasfigurazione di Gesù. Ecco cosa voleva dire “l'ascoltatelo” che il Padre rivolge a Pietro, Giacomo, Giovanni e all’umanità: accogliendo le parole di Gesù nella vita di ogni giorno, facendole diventare carne della sua carne, l'uomo è destinato a cambiare la “forma” della sua esistenza, divenendo anche lui luminoso e raggiante come Gesù. Al di là del super effetto sbiancante registrato sulle vesti di Gesù, così come testimonia l'evangelista Marco: «le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun

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lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche», è chiaro che la luminosità a cui si allude è un qualcosa di interiore e di spirituale, che parte dal cuore dell'uomo per arrivare fino a far brillare anche il suo volto e tutto il corpo. Di questa “metamorfosi spirituale” parla anche san Paolo nella lettera ai Romani: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Ecco allora che l'immagine della metamorfosi, ossia del cambiamento della propria forma di pensare e di agire, diviene un sinonimo della “conversione”. La trasfigurazione luminosa di Gesù sul Tabor ci mostra, visivamente, che quello è il nostro destino: una vita immersa nella luce. A condizione però di ascoltare e mettere in pratica tutte le parole di Gesù. Ecco allora il messaggio che con tanto affetto il Padre ci lascia questa seconda domenica di quaresima: “Cari figli miei, unitevi sempre di più al mio Figlio amato. Lasciatevi avvolgere e guidare dal suo Spirito. Obbedite con umiltà e gioia alle sue parole, le unici capaci di trasformare nel profondo la vostra vita, rendendola bella, luminosa e saporosa. Non date possibilità alle tenebre del peccato di occupare gli spazi del vostro cuore, perché esso è stato creato per essere la dimora eterna di Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo. III domenica di Quaresima (Gv 2,13-25) “La benevolenza di Dio non si compra” Un gesto chiaramente profetico e simbolico quello compiuto da Gesù nel Tempio di Gerusalemme. Gesto che, all'interno del Vangelo di Giovanni, trova la sua interpretazione più profonda. Siamo in prossimità della Pasqua. Nell'atrio del Tempio è ben avviato il commercio degli animali da offrire in sacrificio a Dio per il culto pasquale, con la presenza anche di diversi banchetti di cambiavalute che facevano il servizio di permutare le monete romane che, per il fatto di contenere l'effige dell'imperatore, erano ritenute idolatriche e quindi inaccettabili per acquistare l’occorrente per esercitare il culto divino del Tempio. Possiamo immaginarci il grande rumore che c'era nell'atrio del Tempio, la confusione presente, le urla degli uomini miste ai versi delle migliaia di animali lì presenti. Un vero e proprio “casino” che sicuramente risultava essere altamente molesto per chi voleva entrare nel Tempio a pregare. Ma non è tanto questo che disturba Gesù. Non è il bisogno di silenzio che lo spinge a costruirsi in pochi attimi un flagello, utilizzandolo per cacciare tutti fuori dal Tempio: uomini e animali. Non pensiamo nemmeno che quel giorno Gesù si era alzato con la “luna storta”, così da essere particolarmente nervoso e suscettibile. Niente di tutto questo. Qual é allora il senso di quel gesto così improvviso, inusuale e violento? La risposta la troviamo nella frase con la quale Gesù stesso accompagna il suo gesto: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». Con queste parole Gesù fa capire chiaramente che il sacrificio degli animali a Dio è ormai un qualcosa di superato, che ha perso di significato, che non serve più per

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chiedere perdono a Dio, per ringraziarlo dei suoi benefici o per ingraziarsi la sua benevolenza. La dinamica del dare/avere con Dio è finita, i benefici di Dio non si comprano. Ora c'è una nuova strada per entrare in buona relazione con lui. E’ il dono che il Figlio fa della sua vita al Padre che conduce alla vera e piena comunione con Dio. E’ il suo sacrificio sulla croce. Prova di questo è quell'altra frase pronunciata da Gesù, con la quale annuncia il “cambiamento” ormai alle porte, il passaggio dal “vecchio” al “nuovo” Tempio di Dio, il suo stesso corpo risorto e glorificato: «Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere […] egli parlava del tempio del suo corpo». Di fronte all'offerta della sua vita sulla croce, dalla quale sarebbe scaturita la vittoria sul peccato e sulla morte e la liberazione dalla schiavitù del male, offerta assolutamente libera e gratuita per amore del Padre e dell'umanità, agli occhi di Gesù doveva apparire particolarmente irritante, oltre che ridicolo, il triste spettacolo del “mercato” nell'atrio del Tempio. Infatti, al centro di quel mercato, c'era da una parte l'avidità del denaro e dall'altra la falsa concezione che, attraverso il sacrificio degli animali, si possa, in certo qual modo, “acquistare” la benevolenza di Dio. Allora il senso più profondo della cacciata del “mercato” dal Tempio significa la cacciata del “mercato” nella relazione con il Padre. Gesù ci invita allora a fare un salto di qualità nel nostro rapporto con Dio. Ad uscire dall'infantile: “Se mi fai questa grazia, ti prometto che ti farò questo sacrificio/regalo”, perché questo pensiero appare oltremodo offensivo nei riguardi di Dio, che fin dal giorno della nostra esistenza si prende cura di noi come un Padre amoroso (e farà questo fino al giorno della nostra morte e oltre). Siamo invitati perciò a superare la dinamica, più pagana che cristiana, del dare-avere con Dio, per passare ad una relazione “adulta”, che passa attraverso una forma particolare di sacrificio, quella del riconoscimento della sua presenza amorosa al fianco delle nostre giornate, sia nei momenti che ci procurano gioia, sia in quelli che ci procurano tristezza. Ringraziandolo comunque perché esiste, perché sempre ci ama e mai ci lascia soli. Attraverso l'esercizio del “ringraziamento” quotidiano scopriremo di avere i muscoli “spirituali” del nostro cuore ben tonificati, in grado cioè di poter mettere tutta la nostra vita a sua disposizione, in piena libertà e gratuità, proprio come Gesù. Per compiere la “sua volontà” che non significa altro che vivere con le “due porte” del cuore sempre aperte: quella più interna per accogliere l'amore di Dio e lasciarci amare da lui, e quella più esterna per comunicare quello stesso amore ricevuto a tutti coloro che incontriamo nel cammino di ogni giorno. Così facendo realizzeremo il vero e unico sacrificio al quale Dio ci chiama, quello di una vita santa: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1).

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IV domenica di Quaresima (Gv 3,14-21) “La salvezza è una questione di sguardo” «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». Ecco la frase chiave del Vangelo di questa quarta domenica di Quaresima. Il riferimento è all'episodio del libro dei Numeri, che narra del cammino del popolo d'Israele nel deserto verso la terra promessa. Il popolo è stanco di camminare nel deserto e di nutrirsi di sola manna, così che il Signore, per rompere quel continuo brontolio e far rinascere nel cuore degli israeliti la fede, decide di usare le maniere “forti”, mandando loro dei serpenti velenosi i cui morsi letali cominciano a mietere vittime tra il popolo. A questo punto gli israeliti si rendono conto di aver peccato contro Dio e chiedono a Mosè di intercedere a loro favore, affinché il Signore possa cacciare via dal loro cammino quei serpenti mortiferi. Il Signore interviene però a modo suo, offrendo sì la possibilità della salvezza, ma senza togliere di mezzo i serpenti velenosi. Invita Mosè a costruire un serpente di bronzo da mettere sopra un'asta: l'israelita che, dopo essere stato morso dal serpente, avesse guardato il serpente di bronzo posto in cima all'asta non sarebbe morto, ma avrebbe salvato la sua vita (cfr. Nm 21,4-8). Gesù afferma che c'è un parallelo evidente tra quel serpente di bronzo posto sull'asta e se stesso inchiodato sulla croce. Per prima cosa dobbiamo sottolineare che, come il Signore non toglie i serpenti velenosi dalla vista degli israeliti, allo stesso modo egli non ci salva eliminando dalla nostra vista il male e la possibilità di peccare. Non è questa la modalità che ha scelto per salvarci, anche se, forse, ai nostri occhi, sembrerebbe la soluzione migliore. Dio ci vuole salvare sollecitando sempre la nostra libertà. Vuole che il desiderio della salvezza nasca dal profondo del nostro cuore, che sia un atto esistenzialmente sentito, anelato con tutte le nostre forze. Da dove viene allora la salvezza? La risposta è scontata: viene da Dio, non certo dall'uomo, poiché l'uomo da solo non può salvarsi. Egli non può “produrre” con le sue mani la vita eterna, non rientra nelle sue possibilità né di oggi né di domani. La vita eterna, ovvero il condividere la stessa vita di Dio, il suo amore per sempre, è un dono che proviene dall'alto, da Dio stesso. Ma come faccio ad accogliere questo dono così prezioso? Ci viene richiesta una sola cosa: alzare lo sguardo! Semplice no? Basta guardare verso l'alto, lasciare per un attimo la visione orizzontale della nostra esistenza, quella che ci costruiamo ogni giorno con le nostre mani, per scrutare un nuovo orizzonte, sopraelevato, che non è una creazione umana, ma che Qualcuno ha sapientemente architettato per noi: Gesù sulla croce! Ecco la fonte della nostra salvezza, ecco la porta che ci fa entrare nella vita eterna, ecco lo sguardo che ci mostra il vero volto di Dio, ecco la verità più importante della nostra vita: Dio ci ama alla follia! E' salito sulla croce per donarci la sua stessa vita, il suo corpo ed il suo sangue; per dimostrarci quanto ci ama, quanto siamo preziosi ai suoi occhi. Infatti, contemplando quest’amore così grande ed incredibile, non possiamo non innamorarci di Gesù crocifisso. Ci viene infatti da dire: “Se tu mi ami così tanto, come posso io non contraccambiare il tuo amore? Sarei un ingrato, un perfetto egoista!”.

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Sarà quello stesso amore “travasato” per opera dello Spirito Santo dal cuore di Gesù al nostro cuore, che ci permetterà, a nostra volta, di amare Dio e il prossimo, vincendo così la tentazione del serpente velenoso che ci spinge verso il male, il peccato e la morte dell'anima. Ecco come si compie concretamente la nostra salvezza: è solo una questione di sguardo! Ma c'è un passo del libro del profeta Osea che fa capire come l'alzare il nostro sguardo verso l'alto per incrociare il volto di Gesù crocifisso, non sia un cosa così scontata: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os 11,7). Perché non solleviamo lo sguardo su Gesù crocifisso? Forse, perché abbiamo paura! Paura di dovere essere costretti a cambiare certi metri di giudizio che adottiamo nei nostri rapporti sia con Dio, che con il prossimo. Con Dio, perché di fronte ad un Dio sofferente fino alla morte come possiamo chiedergli di toglierci ogni nostra sofferenza? Con il prossimo, perché quell'amore così “esagerato”, così libero e gratuito verso tutti gli uomini (anche verso coloro che lo hanno inchiodato sulla croce) destabilizza il nostro concetto di amore, sempre sottoposto ai limiti (più o meno ampi) che noi mettiamo. Arrivando persino a farci venire il dubbio che amare chi non ci contraccambia o addirittura ci odia, sia veramente “stupido” ed “assurdo”! E' solo guardando a Gesù crocifisso che l'uomo può contemplare il vero volto dell'Amore! V domenica di Quaresima (Gv 12,20-33) “Chiamati a morire per dare vita” «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto». Come già testimoniato altre volte dai Vangeli, per spiegare le realtà spirituali Gesù utilizza spesso delle immagini prese dal mondo naturale, in particolare da quello agricolo. E' la storia del seme, che per produrre frutto deve disfarsi, marcire, perdere la sua “identità” ed aprirsi completamente alla realtà della terra nella quale è stato gettato. Così facendo è in grado di donare ad essa tutto quel potenziale di vita “nuova” che possiede al suo interno. Unendosi infatti agli altri elementi vitali presenti nel terreno, il seme può dare vita ad un nuovo essere, una nuova pianta che, poi, crescendo darà al mondo un mucchio di buoni frutti. Gesù prende a prestito questa ordinaria vicenda “agricola” per parlare della sua esperienza di morte e risurrezione. Egli vuole farci capire che la sua morte in croce segue la stessa dinamica della morte del chicco di grano caduto in terra, di quel percorso doloroso di “distruzione” a cui fa seguito, poi, una gioiosa “creazione”: un morire a se stesso per dare vita a qualcun altro. A questo proposito viene in mente l'esperienza della maternità. Anche il grembo materno, in un certo senso, muore a se stesso, decidendo di “ospitare” all'interno di sé un nuovo inquilino, una nuova vita della quale si prende cura, condividendo con essa tutte le sostanze che possiede. Inoltre, la nascita di un nuovo essere umano, frutto del “sacrificio” della madre, fa sì che la madre stessa “rinasca” nel figlio e per il figlio. Ella

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dimentica l'indicibile dolore vissuto nel parto, assorbito ormai dall'immensa gioia della visione dello splendido frutto del suo grembo. Tenendo presente le due immagini, quella del seme caduto in terra che porta frutto e del grembo materno che dà alla luce un figlio, possiamo dire che il “morire a se stessi” del seme e della madre significa “aprirsi” all'altro e alla vita nuova. Un cammino “doloroso” di morte/apertura all'altro che dona il senso profondo alla nostra esistenza. Infatti, noi non siamo chiamati a chiuderci in noi stessi, a far girare gli altri intorno a noi, volendoli sempre al nostro servizio. Facendo così dimostriamo di essere solamente degli egoisti, degli individualisti centrati sempre su se stessi, incapaci di fare spazio agli altri e di dare loro un po' della nostra vita. Questo atteggiamento di perfetta chiusura all'altro, simboleggiata dal chicco di grano che caduto in terra non marcisce, non aprendosi per donarsi alla terra (cosa che in natura succede, ma che non è, ovviamente, imputabile ad una “colpa” morale del seme), viene spiegato da Gesù con la frase: «Chi ama la propria vita, la perde». Nel senso che, chi si intestardisce nel convincimento che aprirsi all'altro comporta solo sofferenza e nessun guadagno, per cui è meglio vivere rintanati nel proprio guscio, in un atteggiamento protezionista e individualista (credendo che così facendo dimostra di “amare la propria vita” e di volersi bene), in realtà ha sbagliato tutto, perché vivendo così a poco a poco la vita la si perde. La vitalità della persona infatti progressivamente andrà inaridendosi, diventando “spiritualmente” morti e perennemente infelici, sempre portati a piangere su se stessi e ad incolpare gli altri della propria infelicità. Qual é allora, alla luce di tutto questo, il significato profondo della morte di Gesù in croce? Essa rappresenta visivamente e “plasticamente” la morte di sé come l'apertura massima del proprio cuore, nel dono totale (“corpo e sangue”) di tutta la sua persona a favore di coloro che sono disposti ad accogliere nel loro cuore quello stesso “corpo e sangue”. Esso ha il potere di trasformare radicalmente il loro stile di vita, accettando di essere coinvolti liberamente in quella stessa santa dinamica di morte/risurrezione, di apertura/dono di sé agli altri. E' per questo che Gesù dice: «Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore». Non c'è altra via per il discepolo di Gesù se non quella di “abitare” nello stesso “luogo” scelto dal Maestro, un luogo non fisico, ma spirituale: ossia il suo cuore completamente aperto al dono di sé agli altri. Un'esperienza di morte/risurrezione, che comporta l'accettazione del dolore connesso con l'apertura di sé all'altro, compensata, però, in abbondanza, con l'enorme gioia della contemplazione di quella nuova vita che il tuo sacrificio ha favorito. «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Attiraci, Signore, a te! Non farci fare la fine di quei chicchi di grano che, non aprendosi alla terra, rimangono soli, non producendo alcun frutto, fallendo così la loro “missione” di portatori di vita. Fa che possiamo invece “morire” a noi stessi, per aprirci con fiducia all'opera “creativa” della terra in cui siamo gettati.

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Domenica delle Palme (Mc 14,1-15,47) “Una passione solitaria” Il racconto della passione dell'evangelista Marco mostra, a più riprese, la dimensione dell'estrema “solitudine” vissuta da Gesù. Una solitudine che si manifesta già nell'orto degli ulivi, in quella richiesta di condivisione del suo “combattimento” spirituale notturno con il Padre. Condivisione presto negata dai suoi tre discepoli prediletti (Pietro, Giacomo e Giovanni), che preferiscono “dormirci sopra”. Solitudine che assume poi dei toni altamente drammatici con il tradimento di Giuda. Questi per tradire Gesù sceglie il “bacio”, simbolo di affetto e amicizia, trasformandolo in segno di ripudio, falsità e ipocrisia. Tradimento al quale farà seguito l'abbandono di tutti gli altri undici apostoli che, vedendo il loro maestro che si lascia “tranquillamente” arrestare dalle guardie del tempio, non capiscono più nulla: si sentono persi, delusi e impauriti, dileguandosi nella notte. Poi c'è il rinnegamento di Pietro, che per ben tre volte, per paura di perdere la pelle e far la stessa fine di Gesù, non ha il coraggio di ammettere di essere uno dei suoi discepoli, arrivando a giurare solennemente di non conoscere affatto quell'uomo di cui parlano! In effetti, possiamo dire che veramente Pietro non conosce “quel” Gesù: inerme, legato, pronto a morire in croce. Egli era rimasto al Gesù potente e miracoloso: di quello era divenuto discepolo. In seguito Gesù viene rifiutato dal popolo, sobillato dai capi religiosi di Gerusalemme che lo vogliono vedere morire sulla croce. Viene preso in giro dai soldati romani che lo vestono da re, gli mettono una bella corona di spine sulla testa e si fanno beffe di lui, con insulti, schiaffi e sputi. Ma non finisce qui, perché sulla croce anche i due ladroni lo insultano e tutti i passanti, sempre per prenderlo in giro, lo invitano a scendere dalla croce, visto che si era presentato come il grande Messia d'Israele. Fino ad ora però abbiamo visto solo l'abbandono ed il rifiuto da parte degli uomini, ma c'è di più. A un certo punto, per tre lunghe ore (da mezzogiorno fino all'ora della sua morte) anche la natura sembra allontanarsi da Gesù. Improvvisamente e inspiegabilmente, il cielo, invece di essere in piena luce, si spegne e tutta la terra diventa buia. Per arrivare poi al vertice della solitudine vissuta da Gesù, che ad un certo momento si sente abbandonato anche dal Padre suo, colui del quale condivide intimamente, pienamente ed eternamente la medesima natura divina: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ma l'evangelista Marco, a fronte di tutta questa serie di abbandoni e di rifiuti sperimentati da Gesù, mostra due figure che invece gli sono particolarmente “prossime”. Esse sono poste una all'inizio della passione e l’altra alla fine. La prima di queste figure è una donna della quale non si ricorda il nome. Ella entra improvvisamente nella casa dove, due giorni prima della Pasqua, Gesù e i suoi discepoli stavano condividendo il pasto insieme a un certo Simone il lebbroso che li aveva ospitati. La donna “misteriosa” compie un gesto un po’ “strano”: versa sul capo di Gesù un quantitativo molto abbondante di profumo preziosissimo (di puro nardo). Gesù apprezza molto il gesto di quella donna. Egli lo considera “un'azione buona” compiuta verso di lui e lo mette in relazione alla sua ormai prossima morte e sepoltura,

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affermando anche che quel gesto sarà ricordato per sempre in tutto il mondo. Un gesto d'amore gratuito e di profonda adorazione della sua persona, che contrasta nettamente con le intenzioni dei discepoli presenti che, non pensando affatto a Gesù e a quello che per lui significava tale gesto, si arrabbiano con la donna, colpevole di avere sprecato trecento denari che si potevano dare ai poveri. Andiamo ora alla fine della passione, dove questa volta troviamo un uomo, un pagano, un centurione romano. Egli, a differenza di tutti quelli che passano sotto la croce per prendere in giro Gesù, convinti della sua palese follia e disgrazia, assiste con estrema attenzione a tutto ciò che avviene sul calvario. Essendo un pagano non ha nessun pregiudizio a riguardo della figura di Gesù e non ha paura di tenere il suo sguardo fissato su quel volto crocifisso, arrivando così a comprendere che quell'uomo era veramente il “Figlio di Dio”. Ecco la via per entrare nell'intima e profonda conoscenza di Gesù: avere il coraggio di guardare il suo volto crocifisso, di incrociare il suo sguardo. Un volto che parla di una sofferenza per amore, capace di vincere il peccato e la morte: sì, perché sarà proprio quell'amore sofferente che il terzo giorno risorgerà! Seguiamo allora l'esempio di quella donna che versa il profumo sul capo di Gesù, offrendogli la cosa più preziosa che abbiamo: la nostra volontà, il desiderio di contraccambiare con generosità e gratitudine quell'amore sofferente che ci spalanca le porte della vita eterna. Veglia pasquale (Mc 16,1-7) “Non è qui è risorto” Tre donne (Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome), che hanno seguito “a distanza” gli eventi della passione e morte di Gesù sulla croce, nonché della sua sepoltura in una tomba scavata nella roccia, non vogliono lasciare il corpo del loro maestro senza la rituale unzione profumata. Alla fine del giorno di sabato, alle primi luci della nuova alba, esse si recano al sepolcro per compiere la loro unzione, ma c'è un problema: la via d'accesso al corpo di Gesù è ostacolata dalla presenza di una massiccia pietra messa davanti all'entrata del sepolcro. Come faranno a toglierla? Ci vorrebbe un “miracolo”! Giunte al sepolcro scoprono con grande meraviglia che il sepolcro è aperto: la famigerata pietra è stata fatta rotolare a fianco dell'ingresso. Ma la meraviglia non si ferma lì, perché entrate dentro non trovano il corpo di Gesù, ma un “angelo” con un messaggio proprio per loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E' risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano posto». E' interessante notare che i due grandi eventi riguardanti la vita del Figlio di Dio, ossia il mistero della sua incarnazione e quello della risurrezione dopo la morte, sono annunciati dagli angeli (vedi l’annuncio a Maria, ai pastori e alle donne). E' infatti Dio stesso che, attraverso i suoi messaggeri celesti, comunica e spiega all'uomo la sua meravigliosa e straordinaria opera divina. Questo perché essa trascende gli orizzonti limitati della condizione umana.

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In effetti, fondamento della fede cristiana è credere in due eventi umanamente incredibili, che si situano al di fuori della normale conoscenza scientifica sperimentale: che l'uomo Gesù sia Dio e che, dopo la sua morte, egli sia risorto. Questo per dire che l'evento della risurrezione di Gesù “sfida” nel profondo la nostra relazione di fede in Dio. Siamo invitati ad “accontentarci” di un segno spirituale (Dio che parla attraverso un angelo) e di un segno materiale (la tomba vuota). Due segni che però agli occhi di Dio sono ritenuti sufficienti per farci fare il “salto” della fede, facendoci credere a ciò che è invisibile agli occhi umani, ma che non resta celato agli occhi “spirituali”. Allora il “non abbiate paura” pronunciato dal messaggero divino non è solo un invito alle tre donne di non temere la misteriosa figura angelica che hanno di fronte, ma va oltre. Esso è un invito rivolto alle donne e a ciascuno di noi a nutrire la certezza che Gesù è davvero risorto e, in seconda battuta, a non aver paura della nostra morte, che non sarà affatto la fine di tutto ma, proprio come per Gesù, sarà l'inizio di una vita nuova. Il messaggio dell'angelo poi continua: «Andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto». Gesù ha promesso ai suoi discepoli che si farà vedere dopo la sua morte nella sua nuova dimensione di risorto, così come testimonieranno i Vangeli. Una promessa che fa anche a noi. Ma qual é la nostra Galilea? Quel luogo dove Gesù ci attende e ci precede per mostrarsi ai nostri occhi? Certamente la liturgia eucaristica della domenica, il “luogo” spirituale per eccellenza per poterlo “vedere” con gli occhi della fede ed entrare in una comunione vera e reale con la sua persona divina: comunione anticipata dall'accoglienza della sua Parola e consumata col cibarsi del suo santo corpo “risorto”. Non a caso le apparizioni di Gesù risorto, come testimoniano i Vangeli, si sono verificate proprio la domenica, il primo giorno dopo il sabato ebraico. La domenica non solo dà inizio ad una nuova settimana, ma ha anche il potere di farci entrare in una dimensione esistenziale “nuova”, che va oltre il normale ciclo settimanale della vita, quella dell'eternità di Dio (sarà infatti chiamato l'”ottavo giorno”). Un chiaro segnale perciò che la domenica è davvero un giorno speciale, il giorno privilegiato per sperimentare l'incontro con Gesù risorto. Terminiamo con l'ultimo versetto del brano del Vangelo di Marco, che non sarà letto durante la Veglia pasquale, in quanto omesso: «Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite». Eppure è un versetto molto importante, perché testimonia il rischio sempre possibile di pensare che l'evento della risurrezione di Gesù sia in realtà troppo “incredibile”, troppo poco umanamente sperimentabile per essere considerato vero e per essere quindi comunicato anche agli altri. Siamo allora invitati a non seguire l'esempio del silenzio timoroso delle pie donne, ma ad aprire le porte dei nostri cuori alla gioia di Gesù risorto che ci precede nel cammino della nostra vita.

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II domenica di Pasqua (Gv 20,19-31) “Un incontro personale” Il sepolcro vuoto è un segno che viene lasciato ai discepoli di Gesù, ma da solo non basta per generare la loro fede nella risurrezione del Cristo. Infatti, dopo il segno del sepolcro vuoto, si succedono diverse apparizioni di Gesù risorto, come quelle avvenute nel cenacolo, testimoniate dal Vangelo di Giovanni. La prima coglie il gruppo dei discepoli quasi al completo (ne manca solo uno), la seconda avviene proprio ad hoc per il discepolo mancante (Tommaso), il quale afferma con estrema lucidità e forza, che se non vedrà lui stesso, con i suoi occhi, Gesù risorto e i segni della passione, non crederà alla sua risurrezione. L'atteggiamento incredulo di Tommaso ci appare forse esagerato, poiché non tiene conto per nulla della testimonianza concorde di ben undici persone a lui ben note e stimate (i dieci compagni-apostoli e Maria Maddalena), con le quali ha condiviso lo stesso percorso di discepolo di Gesù. Ma approfondiamo un attimo il discorso. I racconti delle apparizioni di Gesù risorto, testimoniati dagli altri tre evangelisti, confermano unanimemente che la fede in Cristo risorto nasce da un incontro personale con lui. Per dire che la testimonianza di qualcuno che dice di avere visto Gesù risorto non è sufficiente per generare la fede negli altri. Infatti, Maria Maddalena crede perché ha visto Gesù. Gli stessi apostoli crederanno solo dopo aver visto loro stessi, con i loro occhi, Gesù risorto, non dando credito alla testimonianza delle donne e degli altri discepoli che affermavano di averlo visto: «Alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto» (Mc 16,14). Alla luce di ciò, l'atteggiamento di Tommaso ci sembra allora meno assurdo e, in un certo senso, giustificato, facendoci capire che senza un incontro personale con Cristo risorto la fede non può nascere. In effetti, vi siete mai chiesti perché crediamo alla risurrezione di Gesù? Forse perché abbiamo visto a Gerusalemme il sepolcro vuoto? Non credo proprio. Perché Maria Maddalena o Pietro o qualcun altro apostolo ci è apparso e ci ha detto che lui è risorto? No. Perché i Vangeli ci riportano le loro testimonianze? Tutto ciò non è sufficiente per generare la fede. Il segno del sepolcro vuoto e soprattutto le testimonianze dei Vangeli ci aiutano a sostenere, confermare e consolidare la nostra fede, ma non hanno il potere di generarla. Prima è necessario l'incontro con Gesù risorto: un incontro personale, mistico, operato dallo Spirito Santo. E' lo Spirito Santo infatti che ci fa credere alla risurrezione di Gesù. Solo accogliendo nel nostro cuore lo Spirito Santo, effuso da Gesù dopo la sua morte, siamo in grado di credere a Maria Maddalena, a Pietro, a Tommaso e agli altri. Noi crediamo in loro, perché in verità, abbiamo già incontrato “personalmente” anche noi Gesù risorto. Non è la loro stessa identica esperienza, nel senso che noi non crediamo per aver avuto una “visione” diretta di Gesù risorto ma, grazie allo Spirito Santo, lo abbiamo incontrato realmente nella nostra esistenza. E questo lo si percepisce dalle conseguenze provocate da questo incontro: la nostra vita, come quella dei discepoli, è radicalmente cambiata. Ci siamo definiti infatti “cristiani”, ovvero persone che vivono su questa terra unite spiritualmente a Gesù Cristo, risorto e asceso al cielo.

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E' proprio per questa esigenza di un incontro personale con Gesù risorto che egli appare anche a Tommaso, invitandolo “personalmente” a credere. Infatti, dopo averlo visto con i suoi occhi, Tommaso potrà esprimere finalmente la sua convinta professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!». La necessità di un incontro personale con Cristo, capace di generare la fede in lui, non svaluta affatto l'importanza della “testimonianza” alla quale tutti noi siamo chiamati. Sappiamo bene infatti come spesso lo Spirito Santo si serve di uomini e di donne che, attraverso le loro parole ed il loro esempio di vita, ci aiutano e ci stimolano ad avvicinarci a Gesù risorto. Ma queste testimonianze, seppure molto importanti, non sono sufficienti per farci fare un incontro personale con Gesù risorto. Ci vuole un “operazione spirituale” che metta in relazione intima il nostro cuore con il cuore di Gesù. Mettiamoci allora a disposizione dello Spirito Santo con semplicità, umiltà e coraggio, affinché tanti possano incontrarsi anche oggi con Gesù risorto, per condividere insieme la beatitudine annunciata da Gesù stesso: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». III domenica di Pasqua (Lc 24,35-48) “Testimoni dell’amore” «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?». Tutti i Vangeli ci testimoniano come gli apostoli e gli altri discepoli di Gesù abbiano fatto una fatica enorme a credere nella sua risurrezione. Perché questa grande difficoltà? L'evangelista Luca è colui che meglio approfondisce la questione. Al centro della descrizione delle due apparizioni di Gesù risorto, quella ai due discepoli di Emmaus e la successiva narrata nel Vangelo di questa domenica, si stagliano le parole di Gesù che spiegano la necessità che il Messia doveva soffrire e morire, per poi risorgere il terzo giorno. In effetti, sia ai discepoli di Emmaus, sia agli apostoli e agli altri discepoli, Gesù risorto, vestendo i panni del catechista e del teologo biblico, mostra come in tutta la Scrittura (la Legge di Mosè, i libri dei Profeti e il libro dei Salmi) si alluda più volte al suo mistero di passione-morte-risurrezione: «Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture». E' lo scandalo della croce che chiude gli occhi dei discepoli, tanto da essere assolutamente incapaci di riconoscere la presenza di Gesù risorto in mezzo a loro (vedi l'episodio dei discepoli di Emmaus). Ai discepoli è richiesta una “conversione”, un cambiamento di idee: abbandonare l'immagine che si erano fatti di un Messia potente e glorioso, invincibile e imbattibile, per far posto ad una nuova immagine, l'autentica immagine del Messia di Dio. Quella del Figlio unigenito che si spoglia di tutta la sua potenza e gloria, per vestire i panni di un condannato a morte, di un povero disgraziato pendente da una croce. Riecheggiano allora quei versetti del profeta Isaia: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere» (Is 53,2). Ma perché il Messia ha dovuto soffrire e morire così ignobilmente? La risposta non è

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così scontata, dato che gli stessi discepoli, come abbiamo visto, non l'hanno colta subito. Da una parte sta il fatto che il Cristo è stato rifiutato dagli uomini (in particolare dalle autorità giudaiche), che con violenza ne hanno decretato e voluto la morte, dall'altra tutto ciò è stato divinamente previsto e accolto come parte di un grande disegno “rivelatore”: mostrare quale sia il vero volto di Dio e il vero volto dell'amore, il dono totale di sé, libero, gratuito e universale. La risurrezione di Gesù infatti mostra in maniera splendidamente eloquente che il peccato, il male e la morte, non possono assolutamente vincere l'amore. E' infatti l'amore che Gesù nutre per il Padre e per l'umanità e che lo stesso Padre ha per Gesù e per tutti gli uomini, che “conducono” Gesù, il Cristo, alla risurrezione dalla morte. Noi sappiamo che questo Amore ha un nome divino: si chiama infatti “Spirito Santo”. Sarà proprio lo Spirito Santo, l'amore indefettibile e inesauribile che il Padre e il Figlio si scambiano eternamente, colui che guiderà gli apostoli e gli altri discepoli di Gesù, a “com-prendere” (ovvero a prendere con sé, nella loro vita, nel loro modo di pensare e agire) la ragione per cui il Messia doveva soffrire, morire e risorgere. E' proprio dopo la Pentecoste, infatti, dopo che lo Spirito Santo si “impossessa” della mente e del cuore degli apostoli, che essi testimonieranno pubblicamente, per la prima volta, di aver finalmente “compreso” nei loro cuori la grande verità dell'amore divino svelato nel mistero pasquale del Cristo. Gesù risorto dice agli apostoli: «Di questo voi siete testimoni». Sapete come la parola greca, tradotta in italiano con “testimoni”, è mártures (“martiri”). Essa fa affiorare alla mente il coraggio dimostrato da tanti nostri fratelli e sorelle che, lungo duemila anni di storia, hanno “testimoniato” fino alla fine, con il dono del loro corpo e del loro sangue, il grande legame d'amore che avevano con Gesù morto e risorto. Guidati dallo Spirito Santo e sostenuti quindi dall'Amore, essi hanno vissuto la stessa esperienza di sofferenza, dolore e umiliazione sperimentata da Gesù, nella convinzione che morire per amore significa “vivere” per sempre... Arriviamo allora a noi che, sulla scorta degli apostoli e di tutti i martiri, siamo invitati a dare la testimonianza che solo l'amore donato è ciò che conta nella vita, perché esso solo ha il potere di vincere il male e la morte, così come ha mostrato la risurrezione di Gesù. Una testimonianza che può trasformarci in veri e propri martiri “bianchi”, nel momento in cui gli altri non corrispondono al nostro amore e magari reagiscono facendoci del male. Il rifiuto della vendetta e di ogni azione malevola nei loro confronti, uniti al nostro continuare a volere il loro bene, sono il segno che lo Spirito Santo ha plasmato nel profondo la nostra mente e il nostro cuore, avendoci trasformati in Cristo stesso, il “martire” dell'amore di Dio . IV domenica di Pasqua (Gv 10,11-18) “Pastori o mercenari?” «Io sono il buon pastore». Quali sono le caratteristiche che un pastore deve avere per potersi definire “buono”? Gesù ne indica una sola: il donare la propria vita a favore delle pecore. Ritornello che nel testo odierno si ripete per ben cinque volte. In

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contrapposizione alla figura del pastore “buono” Gesù pone la figura del pastore “cattivo”: il mercenario. Egli è colui che si trova a doversi occupare del bene delle pecore non per “vocazione”, ma per ragioni “economiche”, facendolo come mestiere per guadagnarsi da vivere. In realtà, di quelle pecore di cui si deve occupare per “contratto” non gliene importa proprio nulla. Come si fa allora a distinguere un pastore “buono” da uno “cattivo”? Semplice, basta vederli in azione, quando essi devono affrontare una situazione di pericolo per la vita delle pecore a loro affidate. Il pastore buono infatti farà di tutto per metterle in salvo, a costo della propria vita. Il pastore cattivo, al contrario, non ci penserà due volte a fuggire per salvare la pelle, abbandonando le pecore al loro tragico destino. Questo semplice esempio di vita “pastorizia” è in grado di illuminare anche le nostre relazioni affettive. Mi spiego. Una persona può dirmi di amarmi e considerarsi mia amica, solamente nella misura in cui, nel momento del bisogno e della difficoltà, è pronta a donarmi la sua vita. Nel caso contrario non esiste né amore, né amicizia. Lo stesso, ovviamente, vale per me: posso dire di amare veramente una persona e di essere sua amica se, quando questa si trova nel bisogno e nella difficoltà, io sono pronto a farle dono della mia presenza e del mio concreto aiuto. Sentite cosa dice il libro del Siracide riguardo le relazioni d'amicizia: «Se intendi farti un amico, mettilo alla prova; e non fidarti subito di lui. C'è infatti chi è amico quando gli fa comodo, ma non resiste nel giorno della tua sventura […] L'amico non si può riconoscere nella prosperità» (Sir 6,7-8; 12,8). Questo ci fa riflettere sul fatto che l'amore e l'amicizia si scoprono soprattutto nel momento delle difficoltà, perché e proprio lì che l'amante e l'amico vengono fuori, svelando il legame d'affetto che alberga nel loro cuore. In quei momenti di difficoltà e bisogno la persona amata o l'amico non hanno niente da darci che possa renderci felici, ma ci chiedono, al contrario, di dare loro un po' della nostra vita, per aiutarli a superare quella situazione di defaillance che stanno vivendo. E' quello il momento della verità, che mostra inequivocabilmente la quantità e la qualità di amore presente nella relazione. E’ il momento nel quale si gettano giù le maschere e si capisce se si è pastori “buoni”, capaci di donare la propria vita all'altro, o dei semplici mercenari, che quando finisce il momento di prendere e comincia quello di dare abbandonano in fretta il campo. Allora, sorge subito la domanda: noi siamo pastori buoni o mercenari? Le persone che ci circondano sono pastori buoni o mercenari? Andiamo ora a contemplare il volto di Gesù, pastore “buono” delle pecore, il vero e unico e inarrivabile pastore dei cuori umani. Qualche settimana fa lo abbiamo contemplato sulla croce, nudo, inchiodato come un delinquente, subendo atroci sofferenze fisiche e oltraggi di vario tipo, che però non hanno il potere di scalfire il grande amore che egli, in qualità di buon pastore, nutre per ciascuna delle sue pecore. Egli ci ha dato tutto: il suo corpo e il suo sangue. E dopo la risurrezione continua a donarci tutto (il suo corpo e il suo sangue) nella celebrazione eucaristica. Che bello pensare che per tutta l'eternità abbiamo qualcuno che ci ama dandoci tutto se stesso. Attraverso la figura del buon pastore è possibile rileggere e chiarire, in uno sguardo globale perfettamente nitido, tutto il mistero di Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo. Perché Dio si è fatto uomo in Gesù? Per donarci la sua vita divina. Egli ha preso la nostra natura umana, donandoci la sua vita divina. Dono che troverà il suo compimento nel mistero pasquale della sua morte e risurrezione, e che ci verrà effettivamente

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“consegnato” per mezzo dello Spirito Santo. Dono che troverà concretizzazione ed attualizzazione nella vita di ciascuno di noi attraverso il sacramento del Battesimo e gli altri sacramenti, in particolare l'Eucaristia. «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me». Questa frase è un invito a vivere con Gesù una relazione da innamorati, poiché nel linguaggio biblico il verbo conoscere fa riferimento all'esperienza dell'amore. Apriamo i nostri cuori per lasciarci inebriare dal suo amore e per restituirlo a nostra volta, costruendo così un legame spirituale sempre più forte e indissolubile. V domenica di Pasqua (Gv 15,1-8) “Essere tralci” Dopo l'immagine del pastore e delle pecore, questa domenica Gesù ce ne propone una nuova, tratta questa volta dal mondo dell'agricoltura: la vigna. Quando pensiamo alle vigne, credo che subito ci venga in mente l'uva (nera o bianca), buona da mangiare e da utilizzare per la produzione del vino. Gesù invece non si sofferma tanto sul frutto della vigna, ma su ciò che precede la fruttificazione, sulla “relazione” esistente tra la vite e i tralci, condizione necessaria per produrre l'uva. Solo se c'è unione tra la vite e il tralcio, se esso resta legato alla vite, formando un tutt'uno con essa, la vigna è in grado di produrre l'uva. Gesù prende spunto da quest’intimo e necessario legame tra la vite e i tralci, per parlare della nostra relazione con lui, che si presenta come la vite della nostra vita: «Io sono la vite, voi i tralci». Poiché il tralcio riceve il suo sostentamento vitale dalla vite alla quale è legato, allo stesso modo Gesù si presenta come il nostro “principio vitale”. Senza di lui infatti la nostra vita perderebbe progressivamente di senso, arrivando fino a spegnersi, diventando come un tralcio secco destinato ad essere buttato via e bruciato. E' chiaro che quando Gesù dice: «Senza di me non potete fare nulla» non sta parlando della vita “materiale” o “psichica”, poiché io posso mangiare, bere, dormire, lavorare, riposare, leggermi un libro, andare in bicicletta, parlare con un amico, etc, anche senza essere “legato” a Gesù. Egli sta parlando della vita spirituale, della vita eterna, la vita divina che l’uomo può attingere solamente se si trova in relazione con Dio: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma quello che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo» (Gv 6,27). La relazione “vite-tralcio” è davvero molto suggestiva, ponendo una questione fondamentale: Come mi sento io nei panni del tralcio? Ci sto bene? Oppure, sotto sotto mi stanno stretti, nel senso che il legame così vitale e stretto che il tralcio ha con la vite, lo sento un po' troppo “forte” per me, un po' troppo condizionante, temendo che possa limitare la mia libertà e autonomia nei confronti della vita. Magari, preferirei essere io stesso, allo stesso tempo, “la vigna, il tralcio e la vite”, piuttosto che dover essere legato indissolubilmente ad un altro (Gesù), ed essere sottoposto alle cure del Padre suo. Il discorso è serio, perché se non accetto questa dipendenza totale in tutto ciò che riguarda la vita spirituale (la linfa divina che la vite-Gesù scambia con il tralcio-

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ciascuno di noi, non è altro che lo Spirito Santo), non posso dire di essere un discepolo di Gesù e considerarmi un figlio di Dio. In effetti, quello che chiamiamo “peccato” è la rottura del legame tra il tralcio e la vite, una rottura “dolorosa” e oltremodo “illusoria”, perché, come abbiamo visto, il tralcio da solo, staccato da Dio, non può assolutamente “produrre” dei frutti di vita eterna. Piano piano è destinato a seccarsi e a morire “spiritualmente”. Invece, se accettiamo la dipendenza totale con la vite-Gesù e ci affidiamo alle mani provvidenti del Padre-vignaiolo, siamo sicuri che la nostra vita sarà ricca di frutti spirituali: «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Ma dobbiamo davvero affidarci alle sue mani di santo agricoltore, il quale, come spiega Gesù, agisce in due maniere: «Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto». Il portare frutto è così la conseguenza di una duplice azione di “taglio”. Per prima cosa il taglio dei rami secchi della nostra vita, ossia la purificazione da tutti i nostri peccati e da tutte quelle strade “sballate” che abbiamo preso, da quelle decisioni “antievangeliche” che invece di portare la vita hanno prodotto la morte. Questo affidarsi alle mani del Padre, concretamente, significa lasciare che sia lui a decidere quale sia il male della nostra vita, permettendogli di “tagliarlo”. Se il primo taglio “benefico” fa riferimento al discernimento “morale” (tra ciò che è bene e ciò che è male), il secondo taglio si riferisce ad un discernimento di tipo “spirituale” (scelta tra due cose che sono entrambe buone, per scegliere quella “migliore”). Questo taglio appare forse meno comprensibile del primo: perché tagliare un ramo “buono”? Perché il Padre desidera il meglio di noi, sa quali frutti meravigliosi possiamo produrre se ci affidiamo alla sue cure, Egli ci invita perciò a non accontentarci mai dei risultati raggiunti, spingendoci a crescere e a sviluppare tutte le nostre potenzialità, che magari noi non conosciamo ancora, ma lui sì. VI domenica di Pasqua (Gv 15,9-17) “Distributori d’amore” Nell'immagine dei tralci uniti alla vite Gesù ci aveva mostrato, anche visivamente, la relazione sussistente tra lui e i suoi discepoli. Un'unione “vitale”, fondamentale e indispensabile, se si vuole produrre nella propria esistenza frutti di vita eterna. Questa domenica il discorso si approfondisce ulteriormente, poiché il discepolo-tralcio, che resta legato alla vite-Gesù, si trova nella condizione di ricevere continuamente il suo amore, quello stesso amore che il Padre ha donato a Gesù: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». Il discorso sembra essere facile, in quanto ciò che ci è richiesto non è altro che restare sempre in uno stato di “ricezione” nei confronti di Gesù (lui ci dà e noi prendiamo), senza mai staccarci da quel legame d'amore. Ma questa è solo la prima parte del comandamento di Gesù, poiché il ricevere il suo amore non è sufficiente per poter arrivare a produrre dei frutti di vita eterna, c'è infatti una seconda parte di comandamento da mettere in pratica: «che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato

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voi». In effetti, tornando all'immagine della vite e dei tralci, il tralcio che riceve la linfa dalla vite non la tiene per sé, ma la fa scorrere attraverso di sé per dare alla luce una creatura nuova: il grappolo d'uva. E' solo quando nasce il grappolo d'uva e questi arriva alla giusta maturazione che il ciclo della vite raggiungere il suo culmine ed il suo fine. Per cui, allo stesso modo, quando l'amore ricevuto da Gesù non rimane chiuso in me stesso, ma viene donato a sua volta ad un altro mio simile, solo in quel momento la mia vita porta veramente “frutto” e raggiunge, finalmente, il suo vero scopo. Gesù ci dona l'amore che lui stesso riceve dal Padre, affinché anche noi stessi lo doniamo agli altri: questa è, in sintesi, la dinamica della vita cristiana. Allora, non devo solo preoccuparmi di essere sempre in atteggiamento di “ricezione” nei confronti di Gesù, attento a non rompere il legame con lui, ma anche di essere sempre in atteggiamento di “apertura / dono” verso i miei simili, attento a non rompere il legame con loro. E' chiaro che se io chiudo il legame con Gesù, così che la sua linfa d'amore non scorre più nel mio cuore, come posso amare il prossimo che ho davanti? Che cosa gli potrò dare? Forse qualche briciolo di attenzione “umana”, ma non certo l'amore di Dio, perché quello non l'ho più a disposizione. Tutti facciamo esperienza che quando l'amore di Dio è presente nel nostro cuore, e lo percepiamo dalla pace profonda che esso suscita in noi, non ci pesa essere disponibili verso gli altri, anzi, proviamo un vero piacere a stare con loro e a metterci a loro disposizione. Questo perché in quel momento siamo ebbri dell'amore di Dio, che per sua natura è chiamato ad essere donato e a diffondersi attorno a sé. Allo stesso modo quando facciamo fatica ad accettare ed amare il prossimo di turno, il problema non è tanto lui (che può essere più o meno antipatico, difficile e rompiscatole), ma sono io, che non essendo più in atteggiamento di umile ricezione nei confronti di Gesù, mi trovo completamente “scarico” di linfa d'amore, dovendo al più presto riaprire il collegamento con Gesù per lasciarmi riempire del suo amore. Questo santo rifornimento spirituale comporta l’andare da lui, il cercarlo e passare del tempo con lui, standogli davanti “faccia a faccia”, per lasciarci toccare dai suoi raggi d'amore, affinché il nostro cuore inaridito possa rigenerarsi e divenire una spugna capace ancora una volta di ricevere e donare amore. Permettetemi questo paragone: c'è chi ogni tanto va a farsi un po' di lampada per prendere un po' di colore, beh, noi dovremmo trovare, possibilmente giornalmente, un po' di tempo per farci una lampada “spirituale”: fermarci un po', rilassarci e stare sotto il calore dell'amore di Gesù, così che la nostra vita possa riprendere “colore interiore” (Mosè è il primo esempio biblico di sperimentazione degli effetti della lampada “spirituale”. Si racconta infatti che dopo aver conversato a lungo con Dio, il suo viso era diventato raggiante, cfr. Es 34,29). «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». Ecco delle altre belle parole di consolazione. Sì, perché Gesù ha scelto deliberatamente ciascuno di noi per diventare testimoni del suo amore. Una scelta che se da un lato ci meraviglia, dall'altro ci dona grande fiducia e speranza. Ecco allora la nostra vocazione: essere “distributori” d'amore, che prima lo “ricevono” da Dio e poi lo “distribuiscono” agli altri. E’ proprio vivendo questa dinamica di ricezione-distribuzione che la vita acquista senso e gusto, proprio come Gesù che l'ha vissuta per primo dal momento in cui è venuto ad abitare in mezzo a noi...

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Ascensione del Signore (Mc 16,15-20) “Siamo già in cielo” L'ascensione di Gesù al cielo e il conseguente suo eterno “sedere alla destra del Padre” è uno degli articoli della professione di fede cristiana che ripetiamo ogni domenica: «è salito al cielo, siede alla destra del Padre». Cerchiamo allora di approfondire il significato e la portata di questo mistero della nostra fede. Per prima cosa dobbiamo collegare l'”ascesa” al cielo di Gesù con la sua “discesa” sulla terra, ossia con il mistero della sua incarnazione, con l'evento straordinario di Dio (il Figlio, la seconda persona della Trinità) che un giorno si fa uomo, venendo ad abitare in mezzo agli uomini. Da notare però la grande differenza del soggetto che discende sulla terra e che poi ascende al cielo. Chi discende è il Figlio, puro spirito, chi ascende è il Figlio fatto uomo, che porta con sé un corpo pienamente umano, destinato a caratterizzare per tutta l'eternità la sua persona divina. Ecco allora la prima grande e bella notizia che l'ascensione di Gesù al cielo porta a tutto il genere umano: l'umanità è salita in cielo con Gesù e dimora alla destra del Padre. Una grande notizia che sconvolge non solo noi, ma Dio stesso, perché con l'ascensione al cielo di Gesù la Trinità, per così dire, ha cambiato forma, c'è un nuovo inquilino: l'essere umano, con il quale il Figlio si è eternamente legato. Si capisce allora perché S. Paolo, meditando su questa novità assoluta, afferma che Dio Padre: «Con lui (il Cristo) ci ha anche risuscitato e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2,6). Paolo invita tutti i cristiani a considerarsi “già risorti” e “già ascesi” al cielo, in virtù del legame “spirituale” presente con Gesù frutto del suo mistero pasquale, e di quel legame “corporale” frutto del mistero dell'incarnazione, che comporta, come abbiamo già evidenziato, la condivisione con lui della stessa nostra natura umana. Allora possiamo considerare Gesù come un apripista, come colui che per primo ha portato la natura umana in cielo, aprendo quella strada che Dio desidera che ogni uomo percorra, perché tutti possano un giorno ritrovarsi in cielo a condividere la pienezza della sua vita divina. Certo che per noi uomini abituati a vivere non solo con i piedi per terra, ma spesso anche con la mente e lo spirito “a terra”, queste cose possono sembrare sì belle, ma un po’ “lontane”, incapaci di avere una ricaduta concreta nella vita di ogni giorno. Qui si inserisce allora la seconda grande e bella notizia legata al mistero dell'ascensione al cielo, il fatto cioè che Gesù non abbandona l'umanità, lasciandola al suo destino terreno, ma si inventa una modalità nuova di sua presenza nel mondo, una presenza stupefacente e straordinaria: attraverso il dono dello Spirito Santo, accolto nel cuore dell'uomo, Gesù viene ad “abitare” proprio in quella persona. Possiamo allora dire che, mentre in cielo Gesù porta con sé la “nostra natura umana”, nella terra noi portiamo dentro i nostri cuori la “sua natura divina”. Se Gesù fatto uomo viveva “di fronte” agli apostoli, dopo la sua ascensione e il dono dello Spirito Santo, egli vive “negli” apostoli. Una presenza ancora più sconvolgente e potente della prima, capace di coinvolgere davvero tutta l'umanità, perché Gesù vive nel cuore di ogni suo discepolo. Gli apostoli faranno subito esperienza di questa presenza misteriosa e potente “dentro di loro”, così come ci racconta il Vangelo odierno: «Allora essi partirono e predicarono

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dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano». Ecco allora il mandato missionario collegato al mistero dell'ascensione al cielo di Gesù: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». Questa è la “buona notizia” che può davvero cambiare radicalmente la vita di ogni uomo, quella notizia che non si può ascoltare in nessun notiziario, perché troppo “incredibile” per essere vera: “Dio ama così tanto l'uomo che vuole abitare nel suo cuore, vuole diventare un tutt'uno con lui”. E Gesù Cristo è venuto sulla terra a rendere testimonianza di questo bellissimo desiderio divino, un desiderio che nessun uomo avrebbe mai ritenuto immaginabile e possibile. Lo Spirito Santo è venuto ad abitare nei nostri cuori proprio per coinvolgerci in questo santo desiderio di Dio: che tutti gli uomini possano incontrarlo ed entrare in comunione con lui. Per questo egli ci spinge ad essere gentili e ben disposti verso gli altri, a combattere i nostri pregiudizi, ad avere il coraggio di testimoniare apertamente la nostra fede cristiana verso chiunque, a non “condannare”, ma a pregare per quelli che, non conoscendo Dio, compiono atti che vanno diametralmente all'opposto del suo messaggio d'amore. Dio vuole dal profondo del suo cuore che tutti gli uomini possano conoscerlo ed amarlo. Solennità di Pentecoste (Gv 15,26-27.16,12-15) “Lo Spirito della verità” Gesù annuncia ai suoi discepoli la venuta prossima dello Spirito Santo, appellandolo con due nomi particolari: il “Paràclito” e lo “Spirito della verità”. Il termine greco Paráklētos viene normalmente tradotto in italiano con “avvocato” e “consolatore”, per cui, secondo questi due significati, lo Spirito Santo è colui che si mette al nostro fianco per “difenderci dagli accusatori” e per confortarci nei momenti di tristezza e afflizione. Per capire bene le due “funzioni” del Paràclito dobbiamo andare al secondo modo con il quale Gesù chiama lo Spirito Santo: lo “Spirito della verità”. Esso, dice Gesù, «procede dal Padre». Questo “procedere dal Padre” non significa solamente che viene inviato nel mondo dal Padre, ma che lo Spirito è la personificazione del dono di sé stesso che il Padre fa al Figlio, per cui lo Spirito Santo non è altro che lo Spirito della verità dell'amore di Dio. Ancora, Gesù afferma che lo Spirito della verità «darà testimonianza di me». Cosa vuol dire? Che lo Spirito Santo ha il compito di mostrare e ricordare agli uomini quello che Gesù ha detto e fatto, perché tutta la sua vita, ogni sua parola ed ogni suo gesto, sono rivelatori dell'amore di Dio. Lo Spirito della verità dell'amore ci aiuta allora a discernere l'autentico amore (il vero bene) da quello che si presenta apparentemente come amore, ma che, in realtà, è solo un male travestito. L'amore infatti è legato indissolubilmente alle categorie del “vero” e del “bene”, così che l'accoppiata “verobene” conduce alla santità dell'amore e alla felicità dell'uomo, mentre l'accoppiata “falso-male” conduce al peccato e all'infelicità. Sappiamo come nel contesto odierno sia spesso difficile riconoscere la verità dalla falsità (basta guardare all'ambito della giustizia, a come spesso una sentenza di primo

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grado venga completamente stravolta nel grado successivo). Ancora più difficile è stabilire cosa sia bene e cosa sia male. La tendenza infatti è quella di abbandonare la ricerca della verità e del bene universale, valevole per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, restringendo l'ambito della ricerca alla “propria verità” e al “proprio bene” contingente. Le conseguenze di questa mentalità sono un mondo sempre più frammentato, dove gli uomini fanno fatica a trovare ciò che è loro comune e che è capace di unirli nel profondo. Si cerca soprattutto di far prevalere le verità e gli interessi personali. In questo quadro si inserisce l'opera dello Spirito Santo che ha lo scopo di unire tutti gli uomini nell'unica Verità e nell'unico Bene, che provengono da Dio: «Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che (lo Spirito Santo) prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Lo Spirito Santo vuole raggiungere ogni uomo della terra per fargli conoscere la verità della bontà amorevole del Padre, quella che Gesù ha testimoniato con la sua parola ed esistenza. Per fare questo lo Spirito della verità ci illumina sulla relazione esistente tra l'amore, il vero e il bene, e su quella tra l'odio, il falso e il male. Così che, per esempio, quando una persona mi odia o non mi vuole bene, essa non è nella Verità, anche se magari mi sta odiando “sinceramente”, perché non mi sta facendo del bene. Allo stesso modo, quando una persona afferma il falso su di me, non essendo sincera nei miei confronti, vuol dire che non mi ama affatto e che mi sta facendo solo del male. A questo punto siamo in grado di comprendere il legame esistente tra “Spirito della verità” e “Paràclito”, nel senso che lo Spirito Santo ci dona la possibilità di riconoscere e separare il vero dal falso, il bene dal male, l'amore autentico da quello inautentico. Come un “avvocato” ci difende da tutti coloro che, muovendo accuse false e arrogando pretese assurde nei nostri riguardi, ci accusano di non amarli, portando a loro difesa delle presunte attestazioni d'amore, che in verità non sono altro che un maldestro camuffamento delle loro volgari spinte egoistiche, che non mirano assolutamente al nostro vero bene, ma all'appagamento dei loro desideri malsani. Inoltre, lo Spirito Santo è chiamato ad indossare i panni del “consolatore”, lenendo e medicando le nostre ferite affettive in tutti quei momenti in cui facciamo fatica ad accettare noi stessi e i nostri insuccessi. Quando il nostro amore non è contraccambiato dagli altri, oppure quando affiorano nella nostra mente dei pensieri di svalutazione della nostra persona, che ci vogliono portare allo sconforto e alla tristezza. Allora diciamo insieme: Vieni Santo Spirito, scendi su di noi! Santissima Trinità (Mt 28,16-20) “Missionari della Trinità” «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Ecco la frase scelta dalla liturgia in occasione della solennità della Santissima Trinità. In verità, ci sembra un po' scarna per poter guidare a un'approfondita riflessione sul grande mistero del Dio Uno e Trino. Questa volta allora

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ci faremo aiutare anche dalla seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo ai Romani: «avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abba! Padre!» (Rm 8,15). In queste poche parole ci viene fornita la chiave di lettura per entrare nel mistero della Trinità, e questa chiave si chiama: “Spirito Santo”. In effetti, senza l'azione dello Spirito Santo il mistero del Dio Uno e Trino rimarrebbe inaccessibile all'uomo. Infatti, quale filosofo o quale personaggio devoto del passato ha mai parlato di Dio pensandolo Uno e allo stesso tempo Trino? Il mistero della Trinità sembra proprio uscire fuori dagli schemi “umani” del divino. Andiamo a vedere allora in che senso lo Spirito Santo sia da considerarsi la chiave per accedere al mistero della Trinità. Lo Spirito Santo, entrando nel cuore dell'uomo, lo apre alla relazione con Gesù Cristo, il Figlio di Dio, rendendoci suoi fratelli “spirituali”, nel senso che, grazie all'unione intima con lui, veniamo “adottati” dal Padre, divenendo suoi figli. E' proprio lo Spirito Santo, ricorda S. Paolo, che sussurra ai credenti questa convinzione: «siamo figli di Dio» (Rm 8,16). Ci viene così offerta una nuova modalità per vivere la solennità odierna. Non pensare alla Trinità come a un soggetto che sta nel cielo e che siamo chiamati a onorare dall'esterno, perché in quel “mistero” ci siamo dentro pure noi. Infatti, è lo Spirito Santo che ci dona la capacità di “credere” che Dio è veramente Uno e Trino, quello stesso Spirito Santo che è presente nei nostri cuori dal giorno del Battesimo. E noi sappiamo che, in virtù della presenza dello Spirito nei nostri cuori e per il fatto che le tre persone della Trinità sono sempre in relazione tra loro, dentro di noi “abitano” il Figlio e, per mezzo di lui, anche il Padre. Siamo invitati allora a guardare alla Trinità pensando che noi stessi siamo inseriti in quel mistero, poiché, come abbiamo visto, grazie all'azione dello Spirito Santo che ci lega intimamente a Gesù, siamo diventati veri e propri figli “adottivi” del Padre. Per cui festeggiare la Trinità significa gioire del fatto che Dio, per il suo amore, ci ha fatti entrare a far parte del suo mistero di Dio Uno e Trino. D'altra parte, se dopo aver rivolto lo sguardo all'esterno di noi e aver contemplato con grande stupore che all'interno del Dio Uno e Trino ci siamo anche noi, allo stesso modo, orientando lo sguardo verso noi stessi, contempliamo con altrettanta meraviglia come nei nostri cuori “dimorino” il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. All'interno di questo contesto possiamo allora comprendere l'invito di Gesù risorto ai suoi discepoli di andare in tutto il modo per rivelare l'incredibile notizia che non solo Dio è Uno e Trino, Padre e Figlio e Spirito Santo, ma che questo Dio vuole che tutti gli uomini entrino a far parte del suo stesso mistero d'amore, vivendo nel cuore della Trinità e permettendo che la Trinità possa prendere dimora nel cuore dell'uomo. E' questo il significato più profondo del mandato di battezzare «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»; mandato che, oggi, il Dio Uno e Trino conferisce a ciascuno di noi, invitandoci a diventare dei missionari della “Trinità”. Ma cosa vuol dire essere missionari della Trinità? Concretamente significa due cose. La prima è far si che la nostra vita diventi sempre più “trinitaria”, sia sviluppando una relazione sempre più profonda con tutte e tre le persone della Trinità, sia concependo la nostra esistenza come un'offerta di noi stessi, che facciamo al Padre, attraverso l'esempio e la mediazione del suo Figlio Gesù, secondo la guida e le ispirazioni dello Spirito Santo. La seconda cosa è aiutare gli altri, credenti e non, ad avvicinarsi al Dio Uno e Trino,

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attraverso la nostra testimonianza di vita vissuta nell'amore e attraverso la nostra parola “illuminata” dall'alto, in modo che non si pensi alla Trinità come ad un mistero impenetrabile o comunque lontano dalla vita degli uomini. Sì, perché se lo Spirito Santo ci attesta che noi siamo “figli di Dio”, ci attesta anche che non siamo dei figli unici, ma figli ricchi di fratelli e di sorelle. Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Mc 14,12-16.22-26) “Il nutrimento spirituale” Siamo all'ultima cena vissuta da Gesù insieme ai suoi discepoli, quella che precede gli avvenimenti drammatici della sua cattura, condanna, e morte sulla croce. E' una cena davvero “speciale” anche perché coincide, non casualmente, con la cena pasquale, «il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua». Proprio all'interno di quella cena, così particolarmente significativa per il popolo ebraico, nella quale si fa memoria del miracoloso e portentoso “passaggio” (pasqua = passaggio) del Signore che libera il popolo dall'opprimente schiavitù egizia, e si attende la venuta dell'ultima e definitiva liberazione da parte del Messia, Gesù, attraverso le sue parole e i suoi gesti, “crea” una nuova modalità di celebrazione della pasqua che, in seguito, diventerà la celebrazione eucaristica: «Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro dicendo: Prendete, questo è il mio corpo. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti». «Questo è il mio corpo […] questo è il mio sangue». Poche parole, ma portatrici di un significato “immenso” e davvero “incredibile”. Gesù, guardando il pane e il vino che ha davanti ai suoi occhi, è come se vedesse in anticipo se stesso inchiodato sulla croce, quel suo corpo martoriato grondante di sangue. E afferma che quel poco pane e vino che consegna ai suoi discepoli, da quel momento cambiano la loro essenza e il loro significato profondo, divenendo “il suo corpo e il suo sangue”. E' chiaro allora che “il corpo e sangue di Cristo” sono da considerarsi come il “testamento spirituale” di Gesù: un ricordo particolarmente evocativo del suo sacrificio sulla croce, lasciato ai suoi discepoli di tutti i tempi. Ma approfondiamo il discorso. Il “santissimo corpo e sangue di Cristo” non è un semplice ricordo, una fotografia di un evento passato che ora non c'è più, perché Gesù, proprio attraverso quelle parole, «Questo è il mio corpo […] è il mio sangue», parla di una presenza sempre attuale. Fino a quando sulla terra si celebrerà l'Eucaristia quello “è” il suo corpo e quello “è” il suo sangue. Possiamo allora dire che se il primo significato dell'Eucaristia è il rimando al suo sacrificio sulla croce, all'amore “incredibile” con il quale egli ci ha amati, tanto da dare la sua vita per noi, il secondo significato è la “garanzia” della sua presenza fra noi. Qui si capisce allora il senso dell'atto dell'adorazione eucaristica, che non è l'adorazione di una “cosa”, ma di una persona, realmente presente in quel santo segno del pane consacrato. Ma possiamo trovare anche un terzo significato dell'Eucaristia. Cosa rappresentano il pane ed il vino nella vita degli uomini? Essi sono il simbolo dell'alimentazione di ogni

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giorno, almeno lo erano ai tempi di Gesù, dato che oggi i nostri “menù” quotidiani si sono oltremodo ampliati e diversificati, sia nel mangiare che nel bere. Il pane e il vino sono i segni concreti del nostro bisogno quotidiano di nutrimento per poter sopravvivere, così che il “santissimo corpo e sangue di Cristo” diventano il nostro “cibo spirituale” di ogni giorno, che ci permette di vivere nella dimensione divina, di entrare nella vita eterna e vivere una comunione intima e profonda con Gesù: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo […] Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna […] Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,51.54-55). Ma c'è ancora un quarto significato dell'Eucaristia. Abbiamo visto che sulla croce Gesù si offre totalmente per noi e che questa offerta di tutta la sua persona, del “suo corpo e del suo sangue” viene resa viva, presente ed attuale, nel pane e vino consacrati, che alimentano la nostra vita spirituale di ogni giorno. Bene, questa “santa alimentazione spirituale” non è altro che un entrare nella dinamica d'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così che “il santissimo corpo e sangue di Cristo” hanno il potere di “nutrire” la nostra capacità di amare e ricevere amore da Dio e dagli uomini, trasformandoci in uomini e donne “amorevoli” e “amanti”: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 15,12).

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