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http://lavocedelquartiere.it/storie-di-donne/ Home Economia Storie di DONNE Storie di DONNE Napoli, 7 marzo 2018 ■Economia
ROSALIND: STORIE DA RICORDARE di Martina Tafuro Rosalind Franklin
Quando, nel 1962, Watson, Crick e Wilkins ricevettero il premio Nobel per la medicina grazie alla scoperta della struttura del dna, non si udì mezza parola su di lei. Se il comitato non la incluse, fu perché i tre moschettieri della doppia elica si guardarono bene dal ricordare il fondamentale apporto che le ricerche della scienziata avevano dato alla individuazione della struttura tridimensionale degli acidi nucleici costituiti da lunghe catene molecolari avvolte a elica. Lei, non avrebbe potuto lamentarsi: cristallografa professionista, Rosalind Franklin era morta, il 16 aprile 1958, di tumore a 37 anni, probabilmente anche a causa delle radiazioni a cui i suoi studi l’avevano lungamente esposta. Nata nel 1920, Franklin studiò a Cambridge, iniziando la sua carriera di ricercatrice a Parigi e continuandola poi al Kings College di Londra. Fu qui che le sue foto del dna, viste all’insaputa della donna, folgorarono Watson, che in esse riconobbe la raffigurazione della doppia elica. Nel 1952 infatti, utilizzando una macchina da lei modificata, Franklin aveva ottenuto la foto del dna nella sua forma b. Attraverso l’analisi del suo epistolario e delle interviste ai protagonisti minori della vicenda, è emerso che sia stata proprio lei la vera scopritrice della morfologia a elica Martina Tafuro
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del dna. Nel tempo, però, il suo apporto cominciò a emergere. Infatti quando, dopo la vincita del Nobel, Watson scrisse The Double Helix e non poté non citarla. Ma lo fece minimizzandone il più possibile l’apporto, denigrandola come donna e come scienziata. Tanta misoginia, determinò un cambio di editore, la Harvard University Press, dopo che ne era circolata una prima bozza, rescisse il contratto, perchè il testo offendeva colei che non era più in grado di difendersi. é l’ennesimatestimonianza di come l’apporto femminile venga minimizzato dalla società. ASHA: STORIE DA SOSTENERE di Martina Tafuro Asha Omar Ahmed, l’angelo di Mogadiscio, dopo 15 anni in Italia per specializzarsi in oncologia e ginecologia, è rientrata in Somalia. È tornata nel suo Paese con l’obiettivo di spiegare l’importanza dell’igiene e della profilassi e per combattere la pratica delle mutilazioni genitali femminili. La Somalia ancora oggi è uno tra i paesi con il maggior numero di donne morte di parto in conseguenza della pratica delle mutilazioni genitali. Parlare di queste pratiche suscita diffidenza e chiusura, sia perché è considerato tabù, sia perché per molte donne e uomini si mette in dubbio, per la prima volta, una tradizione. Il primo passo, racconta Asha, è spiegare alle persone i rischi e le conseguenze delle mutilazioni, di cui spesso non sono a conoscenza. Ha fondato Save our mothers, un’associazione che mette nero su bianco le gravi condizioni fisiche che accompagnano tutta la vita delle donne in seguito alle mutilazioni e spesso ne sono causa di sofferenza e morte. SUOR ANNA: STORIE DA DIFENDERE di Martina Tafuro Suor Anna Alonzo, nel quartiere Guadagna di Palermo ha spalancato zone degradate e assediate della città al gusto di stare insieme. Mese dopo mese, i metri quadrati accessibili alla comunità sono cresciuti e gli attacchi, le provocazioni, la violenza non hanno ottenuto per reazione né sistemi di allarme, né porte blindate. Si chiama oggi Centro Arcobaleno 3P, come qui nominano ancora, con le sole iniziali, Padre Pino Puglisi. All’interno del centro del beato è appeso un grande ritratto, la tela è piena di cuciture, perché un giorno qualcuno irruppe e, con una lama, volle ucciderlo una seconda volta. L’immagine martire, con le sue cicatrici, definisce oggi uno stile: quello di presenza quotidiana, costi quel che costi, come lievito nella pasta. Suor Anna ha innescato processi, più che occupare spazi. Dà le chiavi del centro per incontrarsi a chiunque, non pianifica, aiuta a strutturare, connette. Così, un’idea cresce, un bisogno trova risposta, qualche progetto dura e si sviluppa: giorno per giorno, da anni. Una rivoluzione, in strade che i palermitani del centro mai avrebbero percorso. Vengono non solo a prendere, ma sempre di più a dare, perché se ciò che era di nessuno diventa comune, allora si sente di appartenere. Nasce, così, la responsabilità, un senso di partecipazione, in cui nessuno è passivo destinatario, né tanto meno assistito. Napoli, 7 marzo 2018
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ONU: World Happiness Report 2018. Finlandia paese più felice, Italia solo 47esima.
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Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ IL MONDO CHE VORREI. DESIDERARE LA FELICITA’ PRIMA DI TUTTO E PER TUTTI ONU: World Happiness Report 2018. Finlandia paese più felice, Italia solo 47esima. di Martina Tafuro Gli esseri umani si estingueranno come i dinosauri? Presumibilmente si, ma se accadrà passeranno almeno altri cento milioni di anni. E nel frattempo? Non vi fate assalire dall’angoscia, basta smettere di fumare e mettere il casco quando viaggiate in moto, per avere più probabilità di diventare ultraottuagenari e vivere la vecchiaia in forma perfetta. Ma, una vita lunga e sana non mi basta, io voglio essere felice! Tutto scorre, panta rei, ha detto Eraclito secoli fa…tranne una cosa. L’uomo da quando è apparso sul pianeta Terra, è alla ricerca della felicità e anche quando la vede irraggiungibile, vuole con tutte le sue forze che lo sia. In questa fastidiosa civiltà consumistica, si viene assaliti quotidianamente da messaggi che invitano a possedere cose facendo credere che quella sia la felicità. Quella, casomai, è contentezza, cioè quel sensuale senso di piacere che pervade l’esistenza quando tutte le cose vanno per il verso giusto, è una frenesia eccitante e dipende sempre
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da qualcosa d’altro. La felicità, al contrario, è uno stato di coscienza interiore e non dipende dagli eventi esterni. La puoi assaporare se vivi in modo consapevole, rispetti tutte le forme di vita, lotti per la pace. Come si raggiunge tale stato di grazia? Non certo seguendo i moderni profeti che girano distribuendo ricette e premi fedeltà. Il confine sta tra una vita vissuta seguendo valori indotti dall’esterno e una vita frutto dei propri talenti e delle tangibili esigenze personali. Se la felicità fosse solo l’assenza di dolore, allora saremmo tutti condannati alla frustrazione eterna, perché non sono convinta che la gioia si collochi oltre questa valle di lacrime, ma è possibile realizzarla già quaggiù. Nel frattempo mi esercito ad essere felice su questa terra, approfittando del fatto che il 20 marzo è la Giornata Internazionale della Felicità. Istituita dall’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la Risoluzione 66/281 del 12 Luglio 2012, che invitava i Paesi membri a misurare la felicità del loro popolo come guida delle loro politiche pubbliche, nella consapevolezza che la felicità è la giusta misura del progresso sociale e l’obiettivo delle politiche pubbliche e che occorreva la definizione di un nuovo paradigma economico dal momento che il PIL da solo non è più in grado di cogliere tutti i fattori che incidono sulla qualità della vita dei cittadini. Il Rapporto, giunto alla VI edizione, è pubblicato dal Sustainable Development Solutions Network (SDSN), rete lanciata dall’ex Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon per mobilitare le competenze scientifiche e tecniche del mondo accademico, della società civile e del settore privato al fine di proporre soluzioni praticabili per lo sviluppo sostenibile.
La pubblicazione esamina i trend dei dati registrando come le persone valutano la loro vita su una scala che va da 0 a 10. Sono 6 i fattori chiave che spiegano i tre quarti delle variazioni nei punteggi annuali medi nazionali il prodotto interno lordo (PIL); il sostegno sociale ovvero avere qualcuno su cui contare; la speranza di vita in buona salute; la libertà di fare scelte di vita; la generosità; la fiducia nelle istituzioni e l’assenza di corruzione. Un ruolo speciale viene affidato alla misurazione e alle conseguenze della disuguaglianza nella distribuzione del benessere, risultando che le persone sono più felici quando vivono in società in cui c’è meno disuguaglianza di felicità. In base a tali parametri i 10 Paesi con i più alti livelli di felicità risultano essere: 1. Finlandia; 2. Norvegia; 3. Danimarca 4. Islanda; 5. Svizzera; 6. Paesi Bassi; 7. Canada; 8. Nuova Zelanda; Martina Tafuro
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9. Svezia; 10.Australia. Tutti i Paesi della top ten tendono ad avere valori elevati per tutte e sei le variabili chiave e tra i primi 5 Paesi le differenze sono abbastanza piccole. L’Italia occupa un mediocre 47° posto, tenuta a galla grazie all’indice “speranza di vita in buona salute”. L’edizione 2018 presenta, inoltre, un focus sulle migrazioni, sia interne che internazionali, dedicando quattro capitoli alla misurazione della felicità dei migranti, delle famiglie lasciate nei Paesi di origine, quella degli abitanti di città e Paesi che li ospitano. John Helliwell, professore all’Università della Columbia Britannica e del Canadian Institute for Advanced Research, co-autore del Rapporto, ha affermato che: “Il dato del report che colpisce di più è la generale corrispondenza tra la felicità degli immigrati e quella degli abitanti che li ospitano. Sebbene gli immigrati provengano da Paesi con livelli di felicità molti diversi tra loro, i giudizi che emergono dai sondaggi sulle loro vite tendono a convergere su quelli degli altri residenti dei loro nuovi Paesi. Chi sceglie Paesi più felici vince, mentre chi sceglie Paesi meno felici perde”. L’Italia in questa classifica occupa il 39° posto su 117 Paesi monitorati ovvero quelli con un numero abbastanza alto di migranti da consentire l’individuazione di campioni sufficientemente consistenti. Napoli, 19 marzo 2018
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Giustizia Climatica e Disuguaglianza di Genere http://lavocedelquartiere.it/giustizia-climatica-e-disuguaglianza-di-genere/
Napoli, 29 marzo 2018
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Empowerment Generation, la sostenibilità climatica si illumina grazie alle donne e alle loro battaglie contro le disuguaglianze di genere. di Martina Tafuro L’ONU, con l’attivazione di Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, ha ulteriormente investito in modo significativo in azioni tese a superare il divario di genere, consolidando le istituzioni a supporto della parità di genere e l’empowerment delle donne. Agenda 2030 è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Il programma ingloba 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, Sustainable Development Goals (SDGs), in un grande programma d’azione per un totale di 169 target o traguardi.
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L’avvio ufficiale degli Obiettivi ha coinciso con l’inizio del 2016, guidando il mondo sulla strada da percorrere nell’arco dei successivi 15 anni: i Paesi, infatti, si sono impegnati a raggiungerli entro il 2030. Nel 2016, l’Alleanza globale per il genere e il clima (GGCA), ha pubblicato il documento: “Genere e cambiamenti climatici: uno sguardo più attento all’evidenza”, con dati concreti sulla relazione tra genere e cambiamenti climatici, tale documento è stato strumento per la formulazione di politiche pubbliche e supporto teorico per progetti che si avvicinano al tema. Precedentemente, nel 2005, l’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) e l’Organizzazione per l’ambiente e lo sviluppo delle donne (WEDO) aveva deciso che era necessaria una strategia globale coordinata sulla questione della parità di genere e dei cambiamenti climatici. Insieme a United NationsDP e UNEP, lanciarono ufficialmente il GGCA alle Nazioni UniteFCCCCOP-13 a Bali (2007). Nello stesso anno, è stata creata: The Global Gender and Climate Alliance, all’interno della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Bali. Per fare del Gender Action Plan una risorsa veramente efficace nella lotta contro la disuguaglianza di genere, le organizzazioni coinvolte hanno raccomandato che l’UNFCCC realizzi, tra l’altro, delle politiche climatiche sensibili al genere, fornendo dati e analisi su sesso e genere in modo disaggregato, oltre che finanziare il piano d’azione. Nonostante ciò, però, è palese che l’attuale modello di sviluppo è portatore di un forte paradosso: le popolazioni che subiscono in maggior misura le conseguenze del riscaldamento globale sono quelle che meno hanno contribuito a creare il fenomeno. Dallo sviluppo del consequenziale dibattito è emerso il concetto di giustizia climatica introducendo, in ambito ambientale, la questione morale come mezzo di diritto collettivo dell’umanità a pretendere un ambiente sano, tutelato e accessibile alle popolazioni locali. Se nelle varie Conferenze sui cambiamenti climatici il tema della giustizia climatica è stato fatto risaltare solo come un auspicio, è in occasione della conferenza organizzata a Parigi nel 2015, COP21, che tale principio è diventato parte centrale del dibattito.
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Il termine giustizia climatica compare per la prima volta nel 1999 nell’articolo Greenhouse Gangsters vs Climate Justice, pubblicato da CorpWatch, gruppo di ricerca californiano, dove vengono definiti banditi quei paesi responsabili della maggior parte dell’inquinamento da combustibili fossili, a danno di quelle nazioni che ne subiscono le conseguenze climatiche. La vasta eco che raggiunse il tema influenzò il dibattito internazionale tanto che nel 2002, in parallelo alla COP6 dell’Aia in Olanda, si svolse il Climate Justice Summit. In questa conferenza si sottolineò la mancanza di diritti di tutte quelle popolazioni esposte agli effetti del riscaldamento globale, di come essi non avessero voce nel processo negoziale e soprattutto di come il cambiamento climatico fosse un problema socio/economico e politico, con particolare riferimento alla condizione femminile e dell’infanzia. A distanza di 15 anni, la rivendicazione della centralità femminile sembra aver trovato il giusto spazio. La giustizia climatica, per tutte le donne è un forte catalizzatore nella lotta alla disuguaglianza di genere, poiché è portatore di maggiore coscienza sulla necessità di avviare una prospettiva di genere in qualsivoglia azione ambientale. E’ quanto meno opportuno riconoscere il legame tra questo fenomeno e i diritti umani, poiché le donne in alcune nazioni subiscono discriminazioni e limitazioni che, combinate con gli effetti del cambiamento climatico, sono così gravi da mettere a rischio la loro stessa sopravvivenza. Nonostante le buone intenzioni, però, nella Conferenza di Parigi del 2015 al tema della parità di genere è stato dato spazio solo nel preambolo e nella parte vincolante del testo, ma in termini così generici da renderlo improduttivo. Ma, l’ambizioso cammino di riconoscimento delle organizzazioni femministe non si è fermato, poiché le donne sanno lottare sempre per indicare il cammino necessario per portare il mondo sulla strada della sostenibilità. Napoli, 29 marzo 2018
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http://lavocedelquartiere.it/donne-che-lottano-per-la-giustizia-climatica/ DONNE CHE LOTTANO PER LA GIUSTIZIA CLIMATICA Napoli, 30 marzo 2018
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Amazzoni ambientali ai tempi di internet di Martina Tafuro
Mary Robinson, mettere le persone al centro delle politiche Giurista e politica irlandese, nonchè prima donna ad essere stata eletta Presidente della Repubblica d’Irlanda (1990-1997), ha dedicato gran parte della sua vita e della sua carriera alla difesa dei diritti umani e dell’equità di genere mettendo al centro delle politiche il contrasto agli impatti del cambiamento climatico. Nel 2002 fonda l’organizzazione Realizing Rights, con la quale si avvicina alla questione del cambiamento climatico evidenziandone le conseguenze negative già in atto e che stavano subendo innanzitutto le popolazioni e in particolare le donne dei paesi meno sviluppati. Nel 2010, da vita alla Mary Robinson Foundation - Climate Justice, con lo scopo di diventare un
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punto di riferimento per l’educazione e l’advocacy nel campo della giustizia climatica, poichè il rispetto dei diritti umani e dell’equità di genere sono elementi indispensabili per affrontare gli impatti del cambiamento climatico. La Fondazione, attraverso azioni di networking e leadership, opera per far sì che donne leader di alto livello lavorino in sinergia con donne leader della società civile. Secondo Mary Robinson, la giustizia climatica è un tema morale per due motivi principali. Innanzitutto, perché ci costringe a capire quali siano i problemi e le sfide delle popolazioni più vulnerabili, portando così avanti un’azione climatica rapida e ambiziosa. Infine, perché ci informa su come dovremmo combattere contro il cambiamento climatico, cioè agendo in solidarietà.
Hindou Oumarou Ibrahim, spendere la propria vita per il proprio popolo Ha dedicato la sua vita alla salvaguardia del popolo Mbororo, comunità pastorale nomade di circa 250.000 persone che vivono nella zona del Sahel, coinvolgendo le popolazioni indigene della regione nel programma governativo per le risorse ambientali del Ciad, utilizzando la conoscenza tradizionale per far fronte alle conseguenze del cambiamento climatico. È la coordinatrice dell’Associazione delle Donne e Popolazioni Indigene del Chad (AFPAT) ed è stata scelta come rappresentante della società civile alla cerimonia d’apertura per la firma dell’Accordo di Parigi del 2015, in occasione della COP 21. Nel suo discorso ai leader mondiali presenti ha ricordato l’effetto che questo fenomeno ha sulle comunità indigene come la sua. Infatti gli Mbororo dipendono, per il loro sostentamento, dall’ecosistema del lago Ciad, bacino idrico che sta scomparendo, prospettando per i membri di questa comunità un futuro da migranti climatici. Ibrahim possiede una solida formazione sui diritti delle popolazioni indigene e sulla protezione ambientale, affermandosi negli anni come una delle maggiori esperte di mitigazione e adattamento climatico. Una parte significativa di questo impegno è focalizzata sull’importanza della conoscenza tradizionale delle popolazioni indigene. Il profondo legame che queste comunità hanno con il territorio è una risorsa che non può essere esclusa dalla ricerca scientifica per la protezione ambientale. Forte di questo bagaglio di conoscenze, nel 2012, ha collaborato allo sviluppo di un progetto di mappatura tridimensionale partecipativa per la gestione delle risorse ambientali del Ciad. Partecipativa, perché il processo consultivo ha coinvolto le popolazioni indigene della regione, integrando per la prima volta la loro conoscenza tradizionale nel programma di adattamento ambientale del governo. Il progetto ha coinvolto le donne del popolo Mbororo evidenziando il loro ruolo nella protezione delle risorse ambientali, in qualità di responsabili del rifornimento alimentare per le loro famiglie, detengono gran parte della conoscenza su come adattarsi alle situazioni di emergenza, per esempio dove trovare l’acqua durante le siccità e come conservarla. In conclusione, è indispensabile capire come le comunità locali sono organizzate, così da utilizzare la conoscenza accumulata nel corso delle generazioni per fronteggiare le conseguenze del cambiamento climatico.
Zakia Naznin, migrazioni ambientali Vs. giustizia climatica Questa coraggiosa antropologa bengalese ha posto la prospettiva di genere al centro del suo lavoro, analizzando le cause che rendono vulnerabile chi non può emigrare dalle zone rurali in cui vive. L’innalzamento delle temperature e l’aumento di fenomeni ambientali disastrosi sta costringendo sempre più persone nel mondo a emigrare per sopravvivere. Martina Tafuro
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Non tutti gli individui esposti ai rischi del cambiamento climatico possono, però, emigrare, donne, bambini e anziani sono spesso costretti a rimanere e lottare per la loro sopravvivenza. È su questi gruppi vulnerabili che si concentra il lavoro di Zakia Naznin, ricercatrice del Bangladesh. Dal suo lavoro emerge come la prospettiva di genere sia fondamentale per trovare la causa della condizione di vulnerabilità in cui si trovano determinati gruppi di individui. Le donne in Bangladesh, come nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, sono spesso responsabili della gestione delle risorse naturali per garantire la sicurezza alimentare alle loro famiglie. Le norme socio-culturali che le relegano a compiti di natura domestica e di assistenza diventano barriere insormontabili davanti alla necessità di trovare nuovi mezzi di sostentamento per sopravvivere al cambiamento climatico. La situazione delle donne del Bangladesh è uno dei tanti esempi di mancata realizzazione della giustizia climatica, ovvero di conseguenze del cambiamento ambientale a carico di persone che non hanno mezzi per porvi rimedio. Nel 2014 Naznin, affiancata da un gruppo di ricercatori del Bangladesh Center for Advanced Studies (Bcas), ha iniziato a collaborare con Un women a un progetto di mitigazione ambientale delle comunità rurali del Bangladesh: “Riduzione della vulnerabilità delle donne colpite dai cambiamenti climatici attraverso opzioni di sostentamento alternative”. In questo quadro le donne di cinque distretti a rischio di disastro ambientale hanno seguito dei corsi di formazione per la conservazione delle risorse, la gestione delle emergenze e la diversificazione delle loro forme di reddito. Il progetto ha fornito l’occasione a Naznin per osservare le conseguenze delle migrazioni indotte dal cambiamento climatico, Naznin ha detto: “Quando si parla di migrazioni non ci si può focalizzare solo sugli uomini che emigrano, ma bisogna considerare anche le donne che vengono lasciate nelle comunità di origine. Le migrazioni hanno un impatto importante sulla loro vita in termini di lavoro, mobilità e relazioni interne alla comunità”. Nei villaggi del Bangladesh che hanno visto l’attuazione del progetto di Un women c’è stato un miglioramento della resilienza ambientale e delle condizioni di vita della popolazione. In conclusione, bisogna sostenere chi è nell’impossibilità di lasciare la propria comunità di origine in modo da trasformare un problema complesso e spesso tragico in un’opportunità di cambiamento. 30 marzo 2018
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Riprendiamo in mano i nostri libri e le nostre penne: sono armi potentissime. ■Economia
Riprendiamo in mano i nostri libri e le nostre penne: sono armi potentissime. di Martina Tafuro Il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, ieri mattina, ha lasciato il Pakistan ed è tornata in Gran Bretagna, al termine del primo viaggio nel suo Paese natale dal 2012, anno in cui fu quasi uccisa dai talebani. È durata quattro giorni la visita in quello che lei stessa ha definito “il posto più bello della terra”. Malala era arrivata in Pakistan la scorsa settimana, qui è stata ricevuta dal primo ministro Abbasi, a ciò è seguito un ricevimento tutto per lei e un incontro con parenti e amici. Originaria di Mingora nella Valle dello Swat, dove quando aveva 14 anni fu attaccata da un commando dei taleban che la ferirono sfigurandole il viso quale punizione per la sua attività di blogger in difesa dell’istruzione delle bambine, lotta che continua tutt’ora attraverso la pagina in lingua urdu della Bbc. Nel 2012 fu ferita da un colpo di arma da fuoco alla testa, proprio mentre viaggiava in autobus da scuola al suo villaggio nella valle dello Swat. Fu poi trasportata nella città inglese di Birmingham per essere curata e vi è rimasta con la famiglia, proseguendo gli studi e la sua campagna a livello mondiale per la scolarizzazione delle bambine. Nel 2014, a 17 anni, le è stato attribuito il premio Nobel per la Pace. Mentre nel 2017, all’età di venti anni, ha ottenuto un posto all’università di Oxford. Napoli, 3 aprile 2018
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La scrittura: strumento al servizio del Bene Comune, motore di uguaglianza e di dialogo. ■Cultura
La scrittura: strumento al servizio del Bene Comune, motore di uguaglianza e di dialogo. di Martina Tafuro È la paura del confronto che ci ferma quando siamo di fronte ad una scelta che in un modo o nell’ altro, prima o poi, attraversa ciascuno di noi: lanciarsi alla scoperta di nuovi mondi o chiudersi nel proprio ovile. Ebbene, cosa c’è di più sensazionale se non scoprire l’altro per approfondire se stessi? È questo l’immenso beneficio che la lettura ci permette di assaporare. Eppure ci trastulliamo in attività che riteniamo interessanti e ricreative, mentendo spudoratamente prima a noi stessi e poi agli altri, vantando conoscenze, dissertando sul genere letterario che più ci confà, astraendoci dalla realtà cruda. Fin quando alla nostra porta non viene a bussare la realtà che mette in pericolo la solidità del cristallo della nostra lussuosa campana di vetro che funge da pseudoscudo, ma che nel migliore dei casi si infrange sotto i primi colpi. Spesso il coraggio sta nel superare le barriere che ci costringono ad avere limiti e decidere di immergersi in nuovi orizzonti, ribellarsi, se necessario, agli stereotipi che attanagliano la società nella quale viviamo. È ciò che Malala Yousafzai, la studentessa pakistana che ha subito un attentato dai talebani per aver frequentato la scuola, ha testimoniato: “Riprendiamo in mano i nostri libri e le nostre penne. Sono le nostre armi più potenti”, queste sono le parole, pronunciate nel suo discorso alle Nazioni Unite. Siamo prigionieri del silenzio che si espande nel cuore dei giovani che da adulti vagheranno nella propria città, ricoperti interamente da un alone nero, lo stesso che da ragazzi ha tarpato le loro
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ali. É questo il perno intorno al quale deve ruotare la vita dell’ uomo del XXI secolo: la condivisione del sapere, la curiosità del conoscere. Di fronte a questa terribile crisi globale che ha generato decadenza morale e culturale, diventa urgente riappropriarsi della necessità di ridefinire le regole del gioco, di provare a ridisegnare un nuovo catalogo di valori, esperienze, sensibilità positive, da cui provare a ripartire, non discorsi astratti, ma un’agenda di cose da fare e da fare bene, al meglio possibile. Della nostra storia recente siamo soliti dare una lettura all’insegna della negatività, che finisce per alimentare le ragioni del catastrofismo e della rassegnazione. Eppure sono ancora molte le energie, le competenze e le disponibilità di chi vede la crisi come un’occasione di cambiamento e di innovazione vera. Dove finisce l’etica pubblica e inizia quella privata? In quale misura sono cambiate? Come sta evolvendo la mentalità collettiva? Da studente mi sento di dire che una prima opportunità potrà venire dalle risposte che la letteratura e la filosofia ha dato ai bisogni primari delle società umane. E’ ineluttabile rimarcare la necessità del Bene, aver cancellato la linea di confine tra il bene e il male, trasformando una scelta imprescindibile in qualcosa di relativo, ha contribuito a trascinare le nuove generazioni in uno stato di confusione e offuscamento, da cui è sparito ogni possibile senso da dare alla propria esistenza. Di pari passo negli ultimi anni è cresciuta una sensibilità collettiva sul concetto e sulla pratica di Bene Comune nella gestione di risorse primarie e irrinunciabili, a partire dall’ambiente, dall’acqua e dalla necessità di ridisegnare scenari per uno sviluppo sostenibile e equo. È al centro della discussione corrente un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni, un tempo affidato alle logiche di mercato. Rafforziamo con nuovi argini la condivisione, come ultima possibilità per superare la crisi e le emergenze e guardare con fiducia al futuro. Lo sharing, come la rete ci ha insegnato a chiamare la condivisione, ormai fa parte della nostra vita quotidiana, da forme evolute e sofisticate a pratiche spontanee. Perché, un po’ per necessità e un po’ per virtù, il condividere torna a essere una scelta e un’idea molto diffusa, dopo decenni in cui abbiamo idealizzato il consumo e il possesso individuale. Sono diventate patrimonio comune esperienze come il commercio equo solidale, una forma di commercio internazionale, alternativa a quella convenzionale, attraverso la quale si tende a far crescere aziende economicamente sane, garantendo ai produttori ed ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo un trattamento economico-sociale equo e rispettoso. Promuove principi di giustizia sociale ed economica, sviluppo sostenibile, rispetto per le persone e per l’ambiente oltre che la crescita della consapevolezza dei consumatori. Il Commercio Equo Solidale è, pertanto, una relazione paritaria fra tutti i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: produttori, lavoratori, Botteghe del Mondo, importatori e consumatori. Ricercare il bene comune significa essere cittadini consapevoli e attivi, divenendo attori sociali coscienti, che sappiano portare energie alla ricerca di un futuro più umanizzato. Significa vivere le nostre comunità come luogo fisico, come sistema di relazioni, rete di connessione e patrimonio ambientale. E’ questo il primo Bene Comune di cui prendersi cura.
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Usa: American Beauty, il corteo nuziale delle spose bambine
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Usa: American Beauty, il corteo nuziale delle spose bambine di Martina Tafuro In Florida e in Missouri esistono le spose bambine! Credevate che questo abuso fosse un cliché dei paesi in via di sviluppo? E invece no, è una realtà anche nella emancipatissima America. E’ quanto già denunciato da:”Global strategy to empower adolescent girls” pubblicazione del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, anni fa. Nella pubblicazione a dispetto delle immagini che accompagnano il testo, sempre e soltanto foto di donne di paesi sottosviluppati, è analizzato a fondo il fenomeno delle minorenni che contraggono matrimoni indesiderati, consuetudine assai diffusa negli States. I dati sono impietosi e ci dicono che tra il 2012 e il 2016 sono state concesse 1828 licenze matrimoniali per coppie con almeno un minorenne, tra cui una tredicenne, sette quattordicenni e 29 quindicenni. E un uomo di oltre 90 anni è riuscito a sposare una ragazzina di 16.
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Un freno a tutto ciò ha cercato di porlo la proposta approvata dal governo della Florida, venerdì 9 marzo scorso, provvedimento in attesa della firma del governatore dello Stato, Rick Scott, per diventare legge. In base alla nuova norma, non saranno concesse licenze matrimoniali ai minori sotto i 18 anni. Nello Stato, prima di questa forte presa di posizione politica, non esisteva un’età minima per il matrimonio riparatore a fronte di uno stupro, in caso di approvazione di un giudice. Questo importante traguardo è stato raggiunto soprattutto grazie all’attivista Sherry Johnson, afroamericana di 58 anni nata in Florida, costretta a sposare il suo stupratore a soli 11 anni, per evitargli il carcere. Sherry ha così commentato: “Sono felice. Il mio scopo era di proteggere i nostri bambini e sento che la mia missione è stata compiuta. Non è una vicenda che riguardava me, io sono sopravvissuta”. Alcune criticità, comunque, continuano a persistere, poiché spesso i matrimoni sono il frutto di un’atavica forma di controllo da parte degli stessi genitori. “Le ragazzine di 17 anni restano senza protezione – ha dichiarato l’attivista Fraidy Reiss, direttrice della campagna Unchained at last – il fatto che ci voglia il consenso dei genitori non è una garanzia perché spesso è proprio la famiglia a combinare le nozze”. Ma, è il Missouri in testa alla classifica con le leggi più permissive sui matrimoni che coinvolgono i minorenni ed è lo Stato che negli Usa ha il più alto numero di spose bambine, che si uniscono in matrimonio anche con i propri stupratori. Il Kansas City Star ha dedicato un’inchiesta a al fenomeno, partendo dalla storia di Brittany, una quindicenne dell’Iowa incinta di un ragazzo di 21 anni. In questo Stato, un 21enne che ha un rapporto sessuale con una 15enne è, per legge, uno stupratore, pertanto, per non far arrestare il fidanzato, un giorno è salita in macchina e con la sua famiglia dopo sei ore di viaggio, è entrata in Missouri: lo Stato che ha le leggi più permissive. Lo Stato del Midwest consente a una 15enne di sposarsi con la semplice firma di un genitore, anche se l’altro è contrario. Inoltre, considera come stupro il rapporto sessuale tra chi ha almeno 21 anni e chi ne ha 17 o meno, ma solo fuori dal matrimonio, poichè se il rapporto si verifica tra due persone sposate, il sesso è legale. Molti casi, tuttavia, coprono situazioni di degrado e abusi, come quello di Heather, 14 anni, incinta di un ragazzo di 24 anni, che l’ha fatta ubriacare e l’ha costretta a un rapporto sessuale. La ragazza, però, difendeva il fidanzato, così il padre, invece di consegnare il ragazzo alle autorità dell’Idaho, ha portato la coppia in Missouri. Il matrimonio, però, è stato annullato grazie alla madre della ragazza, che aveva allarmato la polizia dell’Idaho, il padre e il neosposo, così, sono stati arrestati. Napoli, 13 aprile 2018
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Dalla culla alla culla:orientarsi in un mondo che cambia
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Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Dalla culla alla culla:orientarsi in un mondo che cambia di Martina Tafuro Le formiche hanno colonizzato quasi ogni massa terrestre, prosperano nella maggior parte degli ecosistemi e sono arrivate a costituire fra il 15 e il 25% della biomassa animale terrestre. Le formiche sono la prova provata che il problema non è il boom demografico: “Tutte le formiche di questo pianeta, messe insieme, creano una biomassa ben maggiore di quella di noi umani. Le formiche sono state incredibilmente industriose per milioni d’anni, eppure la loro produttività ha nutrito le piante, gli animali, il suolo. Non si può dire la stessa cosa dell’industria umana. L’industria umana è in attività da poco più di un secolo, ma ha causato il degrado di quasi ogni
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ecosistema del pianeta. La natura non ha un problema di progettazione. L’umanità sì”. (Michael Braungart, William McDonough).
Ricostruire il modo in cui costruiamo le cose “Eliminare il concetto di rifiuto, non riducendo, minimizzando o evitando i rifiuti, ma eliminando proprio il concetto con la progettazione”. Queste sono le provocatorie parole del chimico tedesco Michael Braungart. Lo scienziato, già attivista di Greenpeace, partendo dall’analisi su come proteggere gli ecosistemi dall’aggressione dell’uomo e su come arginare il rapido esaurimento delle risorse naturali, rileva che la scontata risposta ambientalista è di limitare la voracità dei processi produttivi, riciclare i rifiuti prodotti e frenare i consumi. Braungart partendo dall’osservazione di alcuni decisivi elementi naturali, come un albero che produce migliaia di semi per garantirsi la riproduzione, mostra che l’eccedenza, la sovrabbondanza non è spreco ma opportunità, evidenziando così che si rendono disponibili, materia e energia, per una grande quantità di altri organismi viventi. L’evoluzione della natura, il processo competitivo tra le specie e gli individui hanno progettato l’albero in modo tale che ogni porzione dei suoi tessuti e ogni suo organo, trovassero sempre una collocazione efficace nel contesto dell’ecosistema al quale appartiene. Lo scienziato propone un’alternativa al semplicistico dualismo crescita/salvaguardia degli equilibri ambientali, via che si concretizza nel concetto di eco-efficacia, imperniato su tre concetti: a) la progettazione di filiere di produzione che prevedano, a monte, il reinserimento dei materiali in successivi cicli produttivi; b) la netta separazione tra metabolismo biologico e metabolismo tecnologico, dove il secondo apprende dal primo; c) il passaggio dal concetto di vendita di prodotti al concetto di vendita di servizi: acquistiamo solo la funzione, la proprietà dello strumento rimane a chi lo ha prodotto e vende il servizio. Al termine del ciclo vitale il bene sarà restituito a chi lo ha prodotto, che avrà il compito di riciclarlo. In questo modo avrà tutto l’interesse a costruirlo nel migliore dei modi, essendo responsabile della manutenzione e della sostituzione dei pezzi, ovvero del suo intero ciclo di vita. Tale modello è denominato Cradle to cradle (dalla culla alla culla) e Braungart quando lo descrive pensa al design rigenerativo e al leasing ecologico per creare un’industria differente, che sia in
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grado di produrre manufatti utili alle persone e al pianeta, usando energie rinnovabili e materie prime non tossiche, mettendo al centro la responsabilità sociale e assicurandosi prestazioni elevate. È appunto il metodo Cradle to cradle, di cui Braungart è il massimo alfiere dal 1992, al quale moltissime aziende si stanno già affidando per produrre oggetti come la moquette che assorbe le polveri sottili e pulisce l’aria, le vernice che mangia lo smog, gli abiti completamente biodegradabili, i mattoni fatti di sabbia, le sedie da ufficio che bloccano la diffusione di batteri. In pratica, Braungart e gli altri progettisti del modello “C2C” considerano tutto il ciclo dei vita di un prodotto, partendo dalla creazione con materiali sostenibili, rispettando l’ambiente e le stesse persone coinvolte nel processo di produzione. L’aspirazione finale è l’eliminazione del concetto di rifiuto, che si renderà obsoleto. Tutto questo però implica un portentoso e generale cambio di mentalità. Napoli, 17 aprile 2018
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Convegno di presentazione della “Carta della Natura della Campania”
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Convegno di presentazione della “Carta della Natura della Campania” di Martina Tafuro Il convegno si svolgerà a Napoli, domani 20 aprile 2018 alle ore 9.30, presso l’Auditorium del Centro Direzionale di Napoli – isola C3. La Legge Quadro sulle aree naturali protette (Legge n.394/91) ha introdotto Carta della Natura allo scopo di identificare lo stato dell’ambiente naturale, di evidenziare i valori naturali e i profili di vulnerabilità per il territorio italiano. Arpac ha completato l’elaborazione della Carta della natura della Campania. Per la prima volta vengono censiti gli habitat naturali, seminaturali e antropici dell’intera regione: un territorio di 13.600 chilometri quadrati, suddiviso in 42.500 poligoni, ossia porzioni di suolo classificate
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secondo il sistema Corine Biotopes elaborato in ambito europeo. Centosei i diversi tipi di habitat riscontrati in regione, rappresentati con una cartografia in scala 1:50.000. Viene così messo a disposizione delle istituzioni e delle comunità locali uno strumento, fondamentale per una esatta pianificazione del territorio. Inoltre è un utile strumento di analisi nell’ambito delle procedure di valutazione ambientale (valutazione ambientale strategica, valutazione di impatto ambientale, valutazione di incidenza). La Carta della natura, è consultabile a richiesta sul sito dell’Ispra, all’indirizzo: http://www.isprambiente.gov.it/it/servizi-per-lambiente/sistema-carta-della-natura/modulo/. Il programma del convegno di presentazione Pieghevole informativo Napoli, 20 aprile 2018
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Earth Day:Giornata Mondiale della Terra 22 Aprile 2018
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Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Earth Day:Giornata Mondiale della Terra 22 Aprile 2018 di Martina Tafuro Un mese e due giorni dopo l’equinozio di primavera, il 22 aprile di ogni anno, le Nazioni Unite celebrano la Giornata della Terra, la più grande manifestazione ambientale del pianeta, l’unico momento in cui tutti i cittadini del mondo si uniscono per celebrare la Terra e promuoverne la salvaguardia. L’idea di dedicare una Giornata per la Terra venne fuori per la prima volta nel 1962, erano quelli gli anni delle proteste contro la guerra del Vietnam e al senatore Gaylord Nelson venne l’idea di organizzare un teach-in sulle questioni ambientali. Nelson riuscì a coinvolgere anche noti esponenti del mondo politico come Robert Kennedy, che nel 1963 attraversò ben 11 Stati del Paese tenendo una serie di conferenze dedicate ai temi ambientali. L’Earth Day prese definitivamente forma nel 1969 a seguito del disastro ambientale causato dalla fuoriuscita di petrolio dal pozzo della Union Oil al largo di Santa Barbara, in California, a seguito Martina Tafuro
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del quale il senatore Nelson decise fosse giunto il momento di portare le questioni ambientali all’attenzione di tutti gli abitanti del pianeta e del mondo politico. “Tutte le persone, a prescindere dall’etnia, dal sesso, dal proprio reddito o provenienza geografica, hanno il diritto ad un ambiente sano, equilibrato e sostenibile”. Il 22 aprile 1970, ispirandosi a questo principio, 20 milioni di cittadini americani si mobilitarono per una manifestazione a difesa della Terra. I singoli gruppi che avevano combattuto contro l’inquinamento da combustibili fossili, l’inquinamento delle fabbriche e delle centrali elettriche, i rifiuti tossici, i pesticidi, la progressiva desertificazione e l’estinzione della fauna selvatica, all’improvviso presero coscienza di avere in comune gli stessi valori. In migliaia di college e università si organizzarono manifestazioni di protesta contro il degrado ambientale e da allora il 22 aprile prese il nome di Earth Day, la Giornata della Terra. La copertura mediatica della prima Giornata Mondiale della Terra venne realizzata da Walter Cronkite della CBS News con un servizio intitolato “Giornata della Terra: una questione di sopravvivenza”. La Giornata della Terra diede una spinta determinante alle iniziative ambientali in tutto il mondo e contribuì a spianare la strada al Vertice delle Nazioni Unite del 1992 a Rio de Janeiro. Nel corso degli anni l’organizzazione dell’Earth Day si dota di strumenti di comunicazione più potenti arrivando a celebrare il proprio ventesimo anno di fondazione con una storica scalata sul monte Everest in cui un team formato da alpinisti statunitensi, sovietici e cinesi, realizzò un collegamento mondiale via satellite. Al termine della spedizione tutta la squadra trasportò a valle oltre 2 tonnellate di rifiuti lasciati sul posto da precedenti missioni. Nel 2000, grazie all’espansione di internet, lo spirito fondante dell’Earth Day e la celebrazione dell’evento vennero promosse a livello globale. L’evento che ne conseguì riuscì a coinvolgere oltre 5.000 gruppi ambientalisti al di fuori degli Stati Uniti, raggiungendo centinaia di milioni di persone. Nel corso degli anni la partecipazione internazionale all’Earth Day è cresciuta superando oltre il miliardo di persone in tutto il mondo: è l’affermazione della Green Generation, che guarda ad un futuro libero dall’energia da combustibili fossili, in favore di fonti rinnovabili, alla responsabilizzazione individuale verso un consumo sostenibile, allo sviluppo di una green economy e a un sistema educativo ispirato alle tematiche ambientali. La Giornata Mondiale della Terra è giunta ormai alla sua 48a edizione. Il tema di quest’anno è “Alberi per la Terra” e nasce dal progetto di piantare 7 mila miliardi e 800 milioni di alberi entro i prossimi cinque anni. Tale scelta deriva dall’estrema importanza che gli alberi hanno nella nostra vita: combattono il cambiamento climatico perché sono in grado di assorbire CO 2 e gas inquinanti e aiutano le comunità a raggiungere la sostenibilità ambientale ed economica. Auguri a tutti voi che amate la terra, nella sua diversità.
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Auguri Madre Terra da parte di Martina Per un giorno, il 22 aprile, non voglio prendere in considerazione che il malfunzionamento è il segno che il meglio è altrove. La vostra società dei commerci e dei commercianti, per inettitudine e cupidigia, incessantemente questua in cerca di esperti che vi mostrino la strada, viola la diversità della natura e crea ostacoli alla libera circolazione degli esseri umani. Penso alle fabbriche di automobili, che invece di diffondere vetture quanto più omogenee possibili, con ricambi facilmente reperibili e a buon prezzo, nel nome della dea concorrenza producono, per ogni esemplare, numerosissime varianti personalizzate. Voglio sentirmi come il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, che si sente diverso dagli altri e che come scopo nella vita non ha solo quello di procacciarsi il cibo, come tutti i suoi compagni, ma desidera imparare l’arte del volo per scoprire tutti i segreti e raggiungere la perfezione. Questa sua passione però è incompresa sia dalla famiglia, che cerca di spiegargli l’importanza del mangiare, sia dagli amici, che con il tempo cominciano ad escluderlo. Dopo varie vicissitudini, però, tutti ne apprezzano le doti, ne restano affascinati e lui capisce quale sia la sua vera strada, quella da seguire. Insomma, su questa Terra, voglio vivere appieno le mie passioni anche quando non vengono capite o condivise, perché il sentimento di libertà che è insito in ognuno di noi, uomo o animale, è un sentimento che va alimentato per farci sentire appagati. Voglio il ritorno al territorio come bene comune, dove viene valorizzata la globalizzazione dal basso. Desidero guardare dietro le quinte del banchetto gratuito che si consuma ogni giorno sulla Terra. Stare attenti ai consumi energetici, evitare gli sprechi in cucina e fare scelte consapevoli quando si fa la spesa. Il rispetto e la tutela dell’Ambiente, della sua biodiversità, delle risorse di Madre Natura devono essere lo stile di vita ogni giorno. Approfondisci: www.earthdayitalia.org Napoli, 21 aprile 2018
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Il lavoro che vorrei: relazionale, collettivo e partecipativo
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Il lavoro che vorrei: relazionale, collettivo e partecipativo di Martina Tafuro “Il falegname, la tecnica di laboratorio e il direttore d’orchestra sono tutti artigiani, nel senso che a loro sta a cuore il lavoro ben fatto per se stesso. Svolgono un’attività pratica, ma il loro lavoro non è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine di un altro ordine. Se lavorasse più in fretta, il falegname potrebbe vendere più mobili; la tecnica del laboratorio potrebbe cavarsela demandando il problema al suo capo; il direttore d’orchestra sarebbe forse invitato più spesso dalle orchestre stabili se tenesse d’occhio l’orologio. Nella vita ce la si può cavare benissimo senza dedizione. L’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno”. Richard Sennett: L’uomo artigiano “E basta! Le cose vanno sempre peggio, è stato oltrepassato ogni limite. Non se ne può più!”. Seguiamo tutte le piste possibili, come uno sciame inquieto vaghiamo nel buio della quotidianità alla continua ricerca di successo e visibilità, siamo come schegge impazzite. Essere elastici, vivere l’instabilità o essere iperveloci, pensate siano davvero gli elementi fondanti del successo? Consideriamo il concetto di lavoro, i vetero capitalisti consumati predatori di sciami consumisti, ci appioppano l’idea che la produzione massificata e standardizzata è il rimedio universale capace di Martina Tafuro
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sanare tutte le storture sociali. Affermano, con la loro distintiva spocchia, che la conoscenza astratta debba essere disgiunta dai saperi del fare. E finitela! Nel 2008, siamo all’inizio della crisi economica, Richard Sennett, sociologo americano che si è occupato dei temi della teoria della socialità e del lavoro, dei legami sociali nei contesti urbani, degli effetti sull’individuo della convivenza nel mondo moderno urbanizzato, pubblicava “L’uomo artigiano”. Lo studioso, con questa pubblicazione, affermava che il lavoro deve essere mezzo e strumento per favorire la nascita di quella forza vitale capace di partorire intensità emotiva del far bene, tale da produrre relazionalità sociale e favorire un cammino di cittadinanza solidale. Insomma, attraverso Sennet, voglio sottolineare che svolgendo bene un lavoro, si mette in moto quella logica vitale non orientata a trattenere l’accumulo parassitario di capitale, bensì a offrire quel valore aggiunto utile per far rifiorire la cittadinanza solidaristica. Con il mio lavoro quotidiano di studiosa universitaria voglio, bramo, desidero e vivo il limite non come elemento passivo, ma come l’opportunità che mi viene offerta, dal grande gioco della vita, di essere testimonianza tangibile e non smentibile che solo facendo bene, appunto come un artigiano, combatto e lotto, a muso duro, per un mondo migliore. I soliti blablaisti da quattro soldi mi ripetono in modo ossessivo: “Attenta Martina le risorse del pianeta sono limitate e destinate irrimediabilmente ad esaurirsi, se non sposi uno stile di vita basato sulla frugalità”. La stessa cosa si riflette a proposito di come conduco l’esistenza nel dipanarsi della quotidianità dove, è più evidente la competitività sociale nella quale, mio malgrado, mi trovo a combattere, è qui che sono ossessionata dal petulante messaggio che mi invita ad agire in modo economico…a massimizzare i miei sforzi. E’ questo il tempo in cui, per qualità e quantità, il lavoro è sottoposto a forti pressioni e allora non sarebbe il caso di imparare dagli artigiani? E’ questa l’archetipo della categoria lavorativa, fatta di persone orgogliose, pazienti e capace di concentrarsi su problemi concreti. Sono sicura che, così facendo, verrebbe fuori una società e soprattutto delle istituzioni capaci di evolvere, di affrontare i problemi e le limitazioni della crisi globale, di ricercare vitalità, qualità sociale ed un diverso senso del tempo. Artigiani non sono unicamente i membri delle corporazioni medievali, che avevano creato un peculiare sistema, di formazione e apprendimento dei giovani, strutturato e ritualizzato che diventavano maestri dopo svariati anni di apprendistato. Non sono una malinconica pauperista, ma voglio parlare di cose più sostanziose. In questa società dell’impazzimento convulsivo della comunicazione e dei servizi, c’è bisogno di un forte scatto collettivo. È possibile essere eminenti costruttori di manufatti, nelle disseminate realtà sociali contemporanee, così come nelle antiche botteghe? Sennett usa il termine organico per descrivere quel senso di riapertura alla vocazione professionale in tutti i luoghi produttivi. Per troppo tempo il capitale ha appoggiato le forze che hanno ridotto il ruolo vitale e vivificante del lavoro, arrivando infine a dichiarare che la felicità risiede nel non lavoro sociale. Vi invito a riprogettare, con me, una società bonificata dalla menzogna dove si illudono le masse il bisogno di arricchirsi è facile da raggiungere e appagante, perché solo così potrò essere sicura e protetta. Sicura e protetta, a mio giudizio, è svolgere e portare a compimento le attuali attività anche con l’uso di questa supertecnologia diffusa capillarmente, ma usata con talento artigianale, perché deve trionfare la capacità della relazionalità e della conoscenza teorica in abbinamento con la praticità, insomma mettere in contatto la testa con le mani. Una regola di vita semplice e cioè, saper fare bene le cose per il proprio piacere, perché chi sa governare se stesso non solo saprà costruire un meraviglioso violino, ma sarà anche un cittadino giusto.
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Non mi sento parte di una squadra, di un gruppo indifferente e anonimo, sempre a chiedersi come, insensibile al perché, strada che mi condurrebbe di filato alla banalizzazione e a trasformarmi in ingranaggio. È la dimensione partecipativa che mi interessa, i cittadini attivi governano se stessi direttamente, anche se non a ogni livello e a ogni occasione. Tutti voi, fino ad ora siete vissuti nell’epoca dell’energia a basso costo. La partecipazione degli individui, nelle discussioni sul come costruire la comunità che volevano, non era stata ritenuta necessaria. Gli esperti erano lì per decidere, i consumatori per consumare. Ma nella nuova era della transizione energetica, ci sarà bisogno di nuovo dei cittadini, del loro sapere, della loro partecipazione. Sono pronta! Ma allora, perché ho scritto queste cose? Perché voglio fare un esempio di artigiani del tempo presente: gli artifex che lavorano alla Voce del Quartiere. Buon Primo Maggio a tutti voi, amati lettori! napoli, 1 maggio 2018
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Home Cultura Il 3 maggio si celebra la Giornata Internazionale della libertà di... Il 3 maggio si celebra la Giornata Internazionale della libertà di stampa
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Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Il 3 maggio si celebra la Giornata Internazionale della libertà di stampa di Martina Tafuro Difendere i media dagli attacchi alla loro indipendenza, rendere omaggio ai giornalisti che hanno perso la vita nell’esercizio della loro professione e valutare la libertà di stampa in tutto il mondo, sono i principi fondamentali ispiratori della Giornata Internazionale della libertà di stampa che si celebra ogni anno il 3 maggio. Albert Camus scriveva: “Una stampa libera può essere buona o cattiva, ma, senza libertà, la stampa non potrà mai essere altro che cattiva”. La giornata internazionale è stata proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993, a seguito di una raccomandazione adottata in occasione della 26a sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO nel 1991.
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La data del 3 maggio è stata scelta per ricordare il seminario UNESCO per la promozione dell’indipendenza e del pluralismo della stampa africana (Promoting an Independent and Pluralistic African Press) tenutosi dal 29 aprile al 3 maggio 1991 a Windhoek, in Namibia. Questi incontri portarono alla redazione della Dichiarazione di Windhoek, documento che afferma i principi in difesa della libertà di stampa, del pluralismo e dell’indipendenza dei media come elementi fondamentali per la difesa della democrazia ed il rispetto dei diritti umani. Il suo obiettivo è informare i cittadini di tutto il mondo delle violazioni alla libertà d’espressione che avvengono in decine di paesi. Libertà stabilita dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere” e dall’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Violazioni avvengono ogni giorno attraverso atti di censura, sanzioni, sospensioni subite dalle testate giornalistiche. Giornalisti ed editori vengono ancora aggrediti, arrestati e persino uccisi mentre svolgono il loro mestiere.
L’UNESCO ricorda questa giornata conferendo il premio Guillermo Cano World Press Freedom Prize, riconoscimento assegnato a quanti, individui, organizzazioni o istituzioni, hanno contribuito alla difesa e/o alla promozione della libertà di stampa ovunque nel mondo, specialmente quando essa è minacciata. Istituito nel 1997, il premio viene assegnato da una giuria indipendente formata da quattordici giornalisti professionisti e dagli Stati membri dell’UNESCO. Il nome del premio è in onore di Guillermo Cano Isaza, giornalista colombiano ucciso il 17 dicembre 1986, davanti alla sede del giornale El Espectador per il quale lavorava. Il 2018, segna la 25a giornata di celebrazione della Giornata mondiale della libertà di stampa. L’evento principale, organizzato congiuntamente dall’UNESCO e dal governo della Repubblica del Ghana, si svolgerà ad Accra, in Ghana, dal 2 al 3 maggio. Il tema globale di quest’anno è: “Mantieni il potere sotto controllo: media, giustizia e stato di diritto” e riguarderà tutte le criticità relative ai media e alla trasparenza del processo politico, l’indipendenza e l’alfabetizzazione mediatica del sistema giudiziario e la responsabilità delle istituzioni verso il pubblico. La Giornata esaminerà anche le sfide contemporanee per garantire la libertà di stampa online. Insomma, qui si tratta di dare il giusto valore ad uno dei diritti più sacri e inviolabili dell’uomo: la libertà di espressione e di informazione. Martina Tafuro
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La libertà di stampa è, continuamente, messa in pericolo nel mondo da regimi autoritari e dalle aggressioni delle mafie e della criminalità organizzata. Dobbiamo farlo in nome dei colleghi vittime della repressione e delle intimidazioni e di tanti altri che hanno difeso la libera informazione anche a costo della vita. Ossigeno per l’informazione La situazione in Italia Ossigeno per l’Informazione, osservatorio istituito congiuntamente dalla FNSI e dall’Ordine dei Giornalisti e approvato dal Consiglio Nazionale il 26 marzo 2008, da anni monitora le situazioni di gravi violazioni della libertà d’informazione attuate con intimidazioni, minacce, ritorsioni. Inoltre la squadra di monitoraggio dell’Osservatorio, dopo avere verificato i casi uno per uno, ha pubblicato i loro nomi nella seguente Tabella. Napoli, 2 maggio 201
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La meglio gioventù d’Europa sta voltando le spalle all’Inghilterra? ■Cultura
La meglio gioventù d’Europa sta voltando le spalle all’Inghilterra? di Martina Tafuro Moltissimi giovani europei stanno abbandonando l’Inghilterra, la colpa è dell’addio all’Unione Europea, approvato con il referendum del 23 giugno 2016, fortemente voluto da Theresa May? Siamo nel pieno della trattativa tra Regno Unito e UE per la definizione della exit strategy, in questa incertezza è possibile stabilire se i sudditi di Sua Maestà abbiano avuto ragione? Proviamo a porre un punto fermo. La Fondazione Leone Moressa, istituto di studi e ricerche nato nel 2002 da un’iniziativa dell’ Associazione Artigiani e Piccole Imprese di Mestre CGIA, specializzato nello studio delle fenomenologie e delle problematiche relative alla presenza straniera sul territorio, incrociando e studiando i dati elaborati da Eurostat (l’istituto di statistica europeo) e ONS (l’istituto di statistica britannico) ha evidenziato che il calo c’è stato. L’istituto di ricerca italiano esaminando il netto calo nelle registrazioni del codice NIN (l’ equivalente del nostro codice fiscale), ha osservato che il calo più intenso si registra tra i cittadini polacchi, la comunità straniera più numerosa, le cui iscrizioni scendono da 111 mila a 61 mila in 2 anni (-44,4%). Per quanto riguarda l’Italia, la crescita più intensa nelle iscrizioni è avvenuta prima del 2013 (nel 2010 si contavano 18 mila iscrizioni, nel 2013 44 mila), il trend si è confermato positivo fino al 2015 e anche nel 2016 (da 58 a 62 mila). Nel 2017 si è registrato invece un netto calo, arrivando a 50 mila iscrizioni. Infine, ci sono i romeni, i lavoratori iscritti al NIN erano 189 mila prima del referendum e sono scesi a 154 mila dopo, insomma la campagna per il Leave pare aver raggiunto l’effetto sperato, tenere lontani gli ospiti indesiderati. I più colpiti sono proprio i cittadini Ue, i loro arrivi sono stati in aumento fino al secondo semestre 2016, quando hanno toccato il picco massimo di 284 mila, proprio in concomitanza del referendum, Da allora, un costante calo ha portato gli ingressi a quota 220 mila, al contrario, le partenze hanno registrato un’improvvisa impennata, arrivata a 130 mila nel settembre dello scorso anno (il 37 per cento in più rispetto a giugno 2016). La scelta inglese di uscire dal sistema Europa avviene in un momento storico molto delicato. Essa si inserisce nel traballante groviglio di spinte separatiste e populiste, il precario equilibrio vive della dicotomia di chi cerca risposte circa l’utilità di mantenere in piedi un sistema ormai basato sul Martina Tafuro
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rapporto tra debito e prodotto interno lordo piuttosto che sul benessere e prosperità economica. Alla fine cosa assume rilevanza, pur nelle diverse espressioni delle Carte Costituzionali, se non le variabili del lavoro e dell’occupazione? La lettura semantica delle conseguenze è ancora tutta da delineare in vari aspetti del mercato del lavoro stesso. Non è ancora tempo di analizzare tali specifici segnali, ma è fuor di ogni dubbio che la rappresentanza inglese presso le istituzioni comunitarie ha un forte peso politico ed economico. Il Regno Unito vanta 73 eurodeputati e una nutrita rappresentanza di consiglieri presso il Comitato Economico Sociale Europeo senza contare il sottobosco di dirigenti, funzionari e impiegati.
Il sistema di uscita dalla Comunità Europea è delineato dall’art 50 dei trattati Articolo 50 1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. Per maggioranza qualificata s’intende quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49. Napoli, 7 maggio 2018
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Inquinamento: se respirare è la quarta causa di morte… ■Cultura
Inquinamento: se respirare è la quarta causa di morte… di Martina Tafuro Il 17 aprile 2018 sono stati diffusi i risultati dello studio: State Of Global Air, realizzato in collaborazione tra l’Health Effects Institute (HEI) di Boston, l’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME) e l’Università della British Columbia. I dati raccolti, attraverso l’analisi di oltre 300 malattie, le cause di morte e 84 fattori di rischio in 195 paesi, hanno rilevato che la quarta causa di morte in assoluto a livello mondiale è respirare, dopo ipertensione, alimentazione e tabagismo. I dati non lasciano spazio a dubbi e ci rivelano che più del 95 per cento della popolazione mondiale respira aria pericolosa e al di sopra dei livelli ritenuti sicuri dall’Organizzazione mondiale della sanità. Delle conseguenze sulla salute e dei rischi legati alle emissioni di particolato fine (PM10, PM2.5 e PM1.0) si parla da anni. Ora lo studio ha fornito una ulteriore dimostrazione: quasi il 60 per cento della popolazione mondiale vive in aree in cui il particolato fine supera anche il meno restrittivo obiettivo di qualità dell’aria di 35 μg per m3 previsto dalle linea guida per la qualità dell’aria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e la maggiore presenza di queste particelle si trova nelle città e nei centri industriali e che proprio i centri urbani ospitano una percentuale sempre maggiore della popolazione mondiale. La conclusione è sotto gli occhi di tutti, l’inquinamento contribuisce alla morte di milioni di persone ogni anno. L’organismo decisionale sull’ambiente a livello più alto nel mondo, l’Assemblea Ambiente delle Nazioni Unite, invita la società civile, le imprese e i governi a impegnarsi per combattere l’inquinamento e a raccontare la propria storia tramite il portale BeatPollution. E’ una chiamata all’azione (CTA), call to action, impostata su 6 dimensioni: aria, acqua, suolo, mare, rifiuti e sostanze chimiche. Utilizzando messaggi chiave e infografiche, dati dell’ inquinamento a livello mondiale vengono illustrati, sono illustrate le attività e gli impegni assunti per ciascuna dimensione. Nel contempo tutti sono invitati a mettere in campo impegni e azioni concrete, i singoli, le imprese e i governi possono e devono fare di più. Aria Ogni anno circa 7 milioni di persone muoiono prematuramente a causa della scarsa qualità dell’aria, 4,3 milioni di decessi sono attribuiti all’inquinamento indoor. Martina Tafuro
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Aria Ogni anno circa 7 milioni di persone muoiono prematuramente a causa della scarsa qualità dell’aria. 4,3 milioni di decessi sono attribuiti all’inquinamento indoor.
Acqua In tutto il mondo, ogni giorno circa 2 miliardi di tonnellate di rifiuti umani vengono smaltiti in corsi d’acqua. Tutto ciò ha un impatto significativo sulla salute: 4.000 bambini muoiono ogni giorno a causa di malattie causate da acqua inquinata e servizi igienici inadeguati.
Suolo Una cattiva gestione industriale, specialmente nel comparto estrattivo, può inquinare enormi aree di terra. Il suolo contaminato può portare a colture e prodotti contaminati, che hanno impatti diretti e immediati sulla salute umana.
Mare La continua crescita della quantità di rifiuti solidi che gli esseri umani producono e il ritmo molto lento con cui questi rifiuti si degradano stanno portando ad un graduale aumento della quantità di rifiuti trovati in mare, sul fondale marino e lungo le coste di tutto il mondo.
Rifiuti Ogni anno produciamo quasi 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, equivalenti a 125.000 jumbo jet. Quasi il 30% del cibo prodotto in tutto il mondo viene perso ogni anno. Anche l’economia globale sta assistendo ad un rapido aumento della produzione di rifiuti pericolosi.
Sostanze chimiche Se non gestite correttamente, le sostanze chimiche possono avere gravi conseguenze sulla salute umana, causando intossicazione acuta, cancri, difetti alla nascita, disturbi neurologici, disturbi ormonali e altro ancora. L’esposizione al piombo, ad esempio, è responsabile del 4% delle cardiopatie ischemiche e del 6,6% degli ictus.
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Napoli, 10 maggio 2018
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PERCHÉ E’ UN CRIMINE CREDERE NELLA SOLIDARIETÀ? ■Cultura
PERCHÉ E’ UN CRIMINE CREDERE NELLA SOLIDARIETÀ? di Martina Tafuro Difendo a spada tratta i diritti umani, tuttavia percepisco intorno a me sempre di più campagne diffamatorie e di delegittimazione verso chi li sostiene. L’intervento di media aggressivi e di leader politici irresponsabili ha dato un’impronta di forte connotazione dispotica alla mia democrazia…o quel che ne resta. In diverse parti del mondo accade già da tempo, ma è nella mia Italia che questo processo corrosivo corre veloce verso il nulla, supportato culturalmente da una visione colpevolizzante verso chi difende i diritti. È questo, secondo me, il segno di una situazione che attraversa la società civile italiana e tanti altri stati nel mondo che soffrono quel che viene definito “shrinking space for civil society” . Infatti in Italia, così come in alcuni paesi nel mondo, assistiamo all’abbraccio mortale di formazioni xenofobe che puntano a ostacolare le attività delle organizzazioni che si occupano di diritti dei migranti. Nel rapporto del 2017: “Countering the shrinking space for Europe’s civil society”, pubblicato dalla Fundamental Rights Agency dell’Unione Europea sono evidenziate le sfide che oggi le organizzazioni della società civile si trovano a dover affrontare nell’ Unione Europea. Il rapporto evidenzia una forte apprensione riguardo ai difensori che si occupano di diritti dei migranti riferendo alcuni casi di intimidazione da parte della polizia francese nella frontiera delle Alpi Marittime, fattispecie del tutto simile a quanto avvenuto di recente a Bardonecchia quando funzionari di polizia francese attraversarono arbitrariamente il confine per fare irruzione nei locali dove operava Rainbow 4 Africa. In un altro rapporto della Civil Liberties Union for Europe del 2018: “Participatory democracy under threat: Growing restrictions on the freedoms of NGOs in the EU”, le istituzioni Europee vengono sollecitata a monitorare, con attenzione a qunto succede in Romania, Ungheria, Irlanda, Polonia e Italia.
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Il rapporto conferma che gli attacchi alla credibilità e alla reputazione danneggiano e delegittimano le organizzazioni della società civile, fomentando i sospetti da parte dell’opinione pubblica. Stabilire con chiarezza chi fa solidarietà con i migranti come difensore dei diritti umani è importante, perché così sarà possibile ricorrere ad una serie di strumenti suggeriti dalle Nazioni Unite e dall’ OSCE /ODHIR (Ufficio per la Democrazia ed i Diritti Umani ) per la protezione dei Difensori dei diritti umani. Ancor di più è importante per l’Italia, Presidente di turno dell’OSCE, è il 2018 perchè segna il ventesimo anniversario della dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani. Inoltre, è importante conoscere a fondo le raccomandazioni, diffuse nel gennaio di quest’anno, fatte agli stati dal Relatore Speciale ONU, Michel Forst, nel suo rapporto sui difensori dei “people on the move”, definizione scelta appositamente per evitare la distinzione arbitraria tra richiedenti asilo, rifugiati, e migranti. Secondo il Relatore Speciale, queste persone si trovano ad affrontare “restrizioni senza precedenti incluse minacce, e atti di violenza, denunce su mezzi di comunicazione e criminalizzazione”. Inoltre quei difensori che cercano di offrire assistenza umanitaria alle persone “on the move” senza il permesso delle autorità sono soggette a criminalizzazione, nonostante il fatto che siano protetti da norme di diritto internazionale. Quasi in contemporanea alla pubblicazione del rapporto di Forst, l’Ufficio dell’Alto Commissario ONU (OHCHR) sui Diritti Umani ha finalizzato i propri “Principi e linee guida per la protezione dei diritti umani dei migranti in situazioni vulnerabili” (“Principles and practical guidance on the protection of the human rights of migrants in vulnerable situations”) pubblicate ed adottate nel marzo 2018. Tra i principi e le linee-guida per gli stati quello di “assicurarsi che esistano leggi e procedure appropriate che permettano ai difensori dei diritti umani ed agli operatori umanitari di proteggere i migranti e documentare le violazioni dei diritti umani”. Per quanto concerne la criminalizzazione della solidarietà viene richiamato l’obbligo a “rispettare e sostenere le attività dei difensori dei diritti umani che promuovono e proteggono i diritti umani dei migranti”.
Come reagisco quindi? Ispirandomi alle parole di papa Francesco, che attraverso i 4 verbi: accogliere, proteggere, promuovere, integrare detta l’agenda dell’impegno socio-politico a livello locale e a livello planetario, esortando gli Stati a concludere seriamente e generosamente entro il 2018 i due patti globali, uno sui rifugiati e uno sui migranti, in discussione all’Onu. Accogliere, significa offrire possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale, realizzare forme di accoglienza diffusa, anteponendo anche la sicurezza personale a quella nazionale. Proteggere, cioè difendere diritti e dignità, garantire la sussistenza vitale, assicurare l’accesso all’istruzione, ecc.
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Promuovere, e quindi far sì che migranti e rifugiati, come pure chi li accoglie, possano realizzarsi come persone in tutte le dimensioni (familiare, socio-lavorativa, ma anche religiosa) Integrare, significa non certo indurre l’altro a dimenticare la propria identità culturale, ma aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggiore conoscenza reciproca, favorendo sempre la cultura dell’incontro. Compito arduo, ma necessario e urgente. Napoli, 25 maggio 2018
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IL 1 GIUGNO AL CENTRO C’È LA FAMIGLIA: È LA GIORNATA MONDIALE DEI GENITORI ■Cultura
Il 1 giugno al centro c’è la famiglia: è la Giornata Mondiale dei Genitori di Martina Tafuro I genitori servono, ma non sono servi! Il 1 giugno di ogni anno, viene celebrata la Giornata Mondiale dei Genitori. Il 17 settembre 2012 l’Onu ha introdotto la Giornata con la risoluzione A/RES/66/292, intendendo onorare i genitori in tutto il mondo. Domani, 1 giugno, preparatevi a tornare un po’ bambini! Il Global Day offre l’opportunità di apprezzare tutti i genitori in tutte le parti del mondo, per il loro impegno disinteressato, nei confronti dei bambini e il loro sacrificio per tutta la vita verso la cura di questa relazione. Dagli anni ottanta, il ruolo importante della famiglia è diventato sempre più oggetto dell’attenzione della comunità internazionale. Sottolineando il ruolo fondamentale dei genitori nella crescita dei bambini, il Global Day of Parents riconosce anche che la famiglia ha la responsabilità primaria della cura e della protezione dei bambini. Gli obiettivi centrali dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottati dai leader mondiali nel 2015, si concentrano sul porre fine alla povertà, promuovere la prosperità economica condivisa, lo sviluppo sociale e il benessere delle persone proteggendo l’ambiente. Le famiglie rimangono al centro della vita sociale garantendo il benessere dei loro membri, educando e socializzando bambini e giovani e prendendosi cura di giovani e anziani. In particolare, le politiche orientate alla famiglia possono contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile da 1 a 5 relativi al superamento della povertà e della fame; Martina Tafuro
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garantire una vita sana e promuovere il benessere per tutte le età; garantire opportunità educative per tutta la vita e raggiungere l’uguaglianza di genere. Per questo tutti gli Stati Membri sono invitati a onorarli durante la Giornata Mondiale dei Genitori, riflettendo e valorizzando il loro importante compito educativo quale fondamento della società. I genitori, sia biologici che adottivi, hanno in mano il futuro, l’educazione dei loro bimbi! Il lavoro di genitori chiede sempre grandi e maggiori responsabilità e, a volte o per meglio dire spesso, senza alcun riconoscimento. Tutti i genitori del mondo meritano rispetto e gratitudine. I genitori sono coloro che giornalmente si prendono cura, nutrono i loro figli e sono i modelli per la vita futura (anche se talvolta, purtroppo, non è così). Sono coloro che guidano i figli e condividono con loro valori e indicazioni sulla vita, li aiutano a crescere e svilupparsi. Si dice che il ruolo di genitore sia il lavoro più difficile del mondo, ed in effetti lo è. Attiva ogni minima particella del corpo e soprattutto mette a ferro e fuoco la sfera emotiva. E’ un lavoro, che non ha orari, condizioni, riposi e contratti.
Approfondimenti
United Nations Programme on the Family The International Year of the Family (1994) Tenth Anniversary of the International Year of the Family (2004) International Migrants Day Disability and the United Nations Universal Children’s Day International Day of Older Persons International Women’s Day International Day for the Elimination of Violence against Women International Day of Families
Risorse
General Assembly Resolutions Reports of the Secretary – General Economic and Social Council Resolutions Universal Declaration of Human Rights Napoli, 31 maggio 2018
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Jeanne e… L’Arte Tutta Femminile di Vivere a Lungo. Lunga Vita a Noi Donne!
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Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Jeanne e l’arte tutta femminile di vivere a lungo. Lunga vita a noi donne! di Martina Tafuro Siamo un mondo di vecchi! Questa affermazione non è smentibile, perché il mondo è attraversato da una profonda trasformazione demografica in tema di invecchiamento della popolazione. Le cause sono da ricercare, essenzialmente, nel costante aumento degli indici di denatalità e nell’aumento della sopravvivenza degli individui in età avanzata. Questo è proprio il caso di Jeanne Calment, agiata negoziante, morta a Arles il 4 agosto 1997. Potrebbe anche non interessarvi, se non fosse che Jeanne era nata, sempre ad Arles, il 1875.
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Era nata il 21 febbraio alle 7 del mattino, da un carpentiere navale e da una casalinga. L’anno dopo la sua nascita, Tolstoj pubblicò Anna Karenina e quel furbone di Alexander Graham Bell, dopo aver scopiazzato il telettrofono di Antonio Meucci, brevettò la sua invenzione. Era nata prima del telefono, morì quando internet aveva già fatto ingresso nelle case di milioni di famiglie. Nella sua vita aveva conosciuto Van Gogh e, con la famiglia, nel 1885 preso parte ai funerali di Victor Hugo a Parigi. Incontrò anche il poeta e premio Nobel Frédéric Mistral, e andò a vedere uno spettacolo di Joséphine Baker. Era sopravvissuta a svariate guerre, a un marito, una figlia e un nipote. A 85 anni prese lezioni di scherma. A 100, era ancora in sella a una bicicletta. Rimase una buona forchetta e una estimatrice del vino portoghese, quasi sino all’ultimo dei suoi giorni. Jeanne è stata la persona che ha vissuto più a lungo al mondo, anni tutti documentati! Centoventidue anni sono pur sempre una lunga vita, possiamo solo giustificarli come il risultato di una straordinaria coincidenza di eventi, di nessuna rilevanza per la società.
Ma, le cose non stanno esattamente così. Femmine, noi viviamo più a lungo degli uomini! Parola della demografa Virginia Zarulli. Già sapevamo che le donne vivono più a lungo degli uomini: nel mondo, l’aspettativa media di vita femminile è di 70 anni, quella maschile di 66; in Italia, 85 e 80,6. Ora è dimostrato che resistiamo meglio persino in condizioni durissime, come carestie ed epidemie, e che i geni ci favoriscono. A ribadire questa tesi, è intervenuta la scoperta scientifica realizzata dalla giovane demografa fiorentina, professoressa all’Università della Danimarca meridionale. La sua ricerca: “Women live longer than men even during severe famines and epidemics”, pubblicata sulla rivista Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences), analizza 7 casi storici per stabilire che il vero sesso forte siamo noi. “Mentre indagavo sulla carestia in Ucraina del 1933 per un altro lavoro, mi colpì che l’aspettativa di vita era scesa rapidamente a livelli bassissimi: da 42 anni per gli uomini e 46 per le donne a, rispettivamente, 7,3 e 11 anni” racconta Zarulli. “Se la fame fosse durata a lungo, i nuovi nati non sarebbero arrivati all’età adulta e la popolazione si sarebbe estinta. Ma il dato mostrava anche che le donne riuscivano a sopravvivere con più successo persino in una situazione tanto drammatica. Così ho cercato altri episodi documentati, per rispondere alla domanda: cosa fa vivere le donne di più?”. La soluzione è arrivata dai neonati, poiché in tutti i casi analizzati a contribuire alla differenza di genere nell’aspettativa di vita era soprattutto la maggiore sopravvivenza delle bambine.“Da 0 a 1 anno, il maschio cerca il latte dalla mamma e si sveglia ogni 2 ore proprio come la femmina” dice l’esperta. “In quella fascia di età i comportamenti sono identici, allora il fatto che le neonate morissero meno dei neonati mostra che il vantaggio femminile ha una radice biologica”. Secondo la studiosa, le donne hanno 3 marce in più: “La prima: i nostri cromosomi sono XX, mentre quelli maschili sono XY. In caso di malattia per una mutazione sfavorevole su un Martina Tafuro
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cromosoma X, la donna ha un altro X che può compensare, l’uomo invece no” dice Zarulli. “Secondo elemento favorevole, gli ormoni: gli estrogeni femminili proteggono da varie patologie. Il testosterone maschile, al contrario, tende ad aumentare il rischio cardiovascolare, e i suoi picchi in giovane età spingono a comportamenti pericolosi, possibili cause di morte violenta. Terzo fattore positivo: la nostra riserva di grasso corporeo, di norma maggiore rispetto a quella dei maschi, può salvarci quando manca il cibo, per esempio durante le carestie”. I sette casi storici analizzati: 1)
La carestia in Svezia tra il 1772 e il 1773.
2) La mortalità tra gli schiavi nelle piantagioni della colonia britannica di Trinidad all’inizio dell’800. 3)
La mortalità tra gli schiavi liberati dagli Stati Uniti e mandati in Liberia nel 1820-1843.
4)
L’epidemia di morbillo in Islanda nel 1846.
5)
La seconda epidemia di morbillo in Islanda nel 1882.
6)
La carestia in Irlanda nel 1845-1849.
7)
La carestia in Ucraina nel 1933. SIAMO IL SESSO FORTE!
Tutti i mammiferi sono dominati da una forte asimmetria, per quanto riguarda il loro modello biologico sessuale. Gli ovuli umani sono all’incirca 80.000 volte più grandi degli spermatozoi. Sia gli ovuli che gli spermatozoi sono forniti di un nucleo simile, all’interno del quale si trovano i cromosomi...che formeranno il nuovo individuo. Ma, negli ovuli si trova un composito citoplasma organizzato e un notevole numero di organismi, i mitocondri con Dna proprio, fondamentali al metabolismo, che viene trasmesso unicamente dalle donne. Insomma, l’asimmetria tra gameti è sbilanciata a favore della donna. Tutte le strutture cellulari presenti nel corpo e dotate di nucleo conservano questa diversità cromosomica basilare. Gli ovuli sono grandi, pochi e cari. Solamente qualche centinaio arriva allo sviluppo completo in tutta l’esistenza della donna e contengono materiali preziosissimi, indispensabili nell’elaborazione dell’embrione. Gli spermatozoi sono piccoli, tanti…vari milioni in una sola eiaculazione e poco cari…giusto quelli che servono per trasportare il nucleo che si unirà a quello dell’ovulo. Il processo generazionale, stesso, è fortemente asimmetrico a favore della donna.
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Solo e soltanto lei è fornita di organi per la gestazione e la nutrizione: utero, mammelle e altro, che le assegnano un ruolo unico e indispensabile nel rapporto con il nuovo essere. Il potere di generare e di allattare fa si che si crei un rapporto psichico intimo e unico fra madre e figlio. Queste differenze si manifestano in tutte le dimensioni corporee, con aspetti diversi ma chiari. Per esempio, esiste una migliore connessione interemisferica nel cervello delle donne; alcune zone della morfologia cerebrale della donna modificano la loro struttura durante il processo riproduttivo. Queste diversità sessuali spiegano probabilmente le diversità di comportamento, le donne hanno una maggiore perspicacia percettiva e una migliore capacità di relazionarsi in rete rispetto agli uomini, che sono più gerarchizzati. Per secoli gli esseri umani hanno elaborato i loro comportamenti in un processo di umanizzazione lungo e complesso che, partendo dai forti condizionamenti biologici, tende a stabilire modelli di condotta che superino la biologia per puntare a valori nuovi. Ed è questo che avviene nel sesso. I vantaggi biologici femminili rispetto alla generazione della vita sono stati il presupposto per confinare la donna nelle funzioni riproduttive. Napoli, 1 giugno 201
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I POVERI: E’ TEMPO DI AIUTARLI CONCRETAMENTE
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I poveri: è tempo di aiutarli concretamente di Martina Tafuro Se l’intera popolazione del pianeta, vivesse solo nel territorio della provincia di Napoli, forse staremmo tutti comodi nella regione Campania. Il resto del pianeta, di contro, sarebbe vuoto, pieno di verde e riserve naturali, si vivrebbe in un’economia con meno lavoro e più tempo libero, ricca di creatività e relazioni umane, si riscoprirebbero i bisogni affettivi. Queste sono le aspirazioni dei ricchi e dei benestanti, che soddisfatti i bisogni primari, si sono ritirati in una sorta di isola precapitalistica autosufficiente. Ho studiato a fondo la situazione e vi assicuro che esisteva un mondo fino alla metà del XX secolo scorso, nel quale le società occidentali riuscirono a ridurre la distanza tra i ricchi e i lavoratori. E allora, cosa è successo? La famiglia italiana è diventata sempre più povera. Per raggiungere questo invidiabile traguardo, non si è fatta mancare nulla: figli da crescere, mancanza di lavoro e/o di una casa, preoccupazione nel fronteggiare le responsabilità genitoriali. Quando consideriamo la povertà di casa nostra, la rappresentiamo attraverso l’immagine di una vedova con le calze sdrucite e il cappottino allo stremo, senza pensione, la bolletta della luce stretta in mano, che si presenta in parrocchia. E’, questo, il povero classico, scontato, gestibile, è un povero in pianta stabile, diciamo.
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Invece, nel mese di giugno 2018, c’è il povero con il cellulare, la tivù e l’auto. Non sembrano poveri. Non sono i poveri a cui eravamo abituati. E’ una nuova categoria di cittadini, ossia quelli che non guadagnano abbastanza e sono a rischio povertà, nonostante percepiscano uno stipendio. Gli inglesi li hanno soprannominati working poor, lavoratori poveri. Secondo i dati Eurostat sono l’11,7% della forza lavoro, ben sopra la media Ue del 9,6%. Ma quello che allarma di più è l’aumento record registrato tra il 2015 e il 2016 nel nostro paese: oltre il 23%. A cui aggiungere le prospettive di vita: stando ai dati attuali, secondo il Censis, ben 5,7 milioni di giovani rischiano di avere nel 2050 pensioni sotto la soglia di povertà. Il parrocchiano radical/chic e perfettino entra in crisi, non è il povero a cui donava il suo santo tempo libero, non è malato, non è sofferente, non è emarginato …è il vicino di casa. Andate a leggere il Rapporto 2017 su povertà giovanili ed esclusione sociale in Italia della Caritas, dal titolo: “Futuro anteriore”, incentrato sul tema della povertà giovanile in Italia e in Europa. I dati parlano chiaro, i giovani sono sempre più a rischio esclusione sociale. Nel dettaglio, nella fascia di età 18-34 anni è povero 1 su 10 e il rischio povertà ed esclusione sociale tocca il 37% dei giovani italiani. Complessivamente, in dieci anni la situazione è andata peggiorando visto che il numero complessivo di poveri è aumentato del 165,2% in un decennio: nel 2016 le persone in grave povertà sono risultate 4 milioni e 742mila. “un giovane italiano su dieci vive in uno stato di povertà assoluta. Nell’ultimo decennio l’incidenza della povertà tra i giovani (18-34 anni) è passata dall’1,9% al 10,4%”. A diminuire è la percentuale tra gli over 65, passata dal 4,8% del 2007 al 3,9%. “Rispetto al passato, ad essere maggiormente penalizzati dalla povertà economica e dall’esclusione sociale non sono più gli anziani o i pensionati, ma i giovani – registra il rapporto -. Se negli anni antecedenti la crisi economica la categoria più svantaggiata era quella degli anziani, da circa un lustro sono invece i giovani e giovanissimi (under 34) a vivere la situazione più critica, decisamente più allarmante di quella vissuta un decennio fa dagli ultra-sessantacinquenni”. Preoccupa la situazione dei minori: in Italia, 1 milione 292mila sono nella povertà assoluta (il 12,5% del totale). Particolarmente drammatica la condizione delle famiglie dove sono presenti tre o più figli minori per le quali l’incidenza della povertà sale al 26,8%, coinvolgendo quasi 138mila famiglie e oltre 814mila individui. Risulta ampio il divario relativo all’incidenza della povertà tra i nuclei di soli stranieri (25,7%) e misti (27,4%) rispetto a quella di soli italiani (4,4%) La povertà giovanile coinvolge nel vecchio continente più di 15 milioni di ragazzi tra i 16 e i 24 anni (il 27,3% del totale). In questo contesto si registra in Italia un forte aumento della povertà giovanile: i ragazzi a rischio di povertà ed esclusione sociale in Italia sono passati da 1 milione e 732mila del 2010 a 1 milione e 995mila del 2015 (223mila giovani poveri in più, pari ad un incremento del 12,9%). Secondo il Rapporto, il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda il 33,7% dei giovani italiani (il 6,4% in più rispetto a quanto accade nel resto d’Europa). La diffusa situazione di vulnerabilità dei giovani, emerge anche dal Cares Report, il rapporto sulla povertà di Caritas Europa. Faccio mia la tesi di Diane Coyle, esposta in: “L’economia dell’Abbastanza, ovvero gestire le nostre società come se il futuro contasse davvero”, che ci propone di riflettere e confrontarci su cinque provocazioni: Felicità, Natura, Posterità, Equità, Fiducia. Diane ci invita ad aprire un cantiere per la ricostruzione della Fiducia Collettiva, riducendo le diseguaglianze mettiamo il mattone dell’Equità. Sulle fondamenta della Fiducia piantiamo i pilastri nuovi del benessere per pesare la Felicità, rinforziamo quello dello sviluppo che risparmia risorse in favore della Natura. Insomma, bisogna riprendere a credere negli altri e lasciare così un futuro alle prossime generazioni. La responsabilità è nostra e nostra soltanto la possibilità di azione. Rimbocchiamoci le maniche! Napoli, 5 giugno 2018
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Lavoro Minorile: 12 giugno Giornata Mondiale contro lo sfruttamento
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Lavoro minorile: 12 giugno Giornata Mondiale contro lo sfruttamento di Martina Tafuro Ogni anno, il 12 giugno, la Giornata Mondiale contro il lavoro minorile riunisce governi, datori di lavoro e organizzazioni operaie, società civile e milioni di persone da tutto il mondo per porre al centro del dibattito, la difficile situazione dei bambini lavoratori e cosa si può fare per aiutarli. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), nel 2002, ha lanciato la Giornata mondiale contro il lavoro minorile, per focalizzare l’attenzione sull’estensione globale del lavoro minorile e sull’azione e gli sforzi necessari per eliminarlo. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG), adottati dai leader mondiali nel 2015, comprendono un rinnovato impegno globale per porre fine al lavoro minorile. In particolare, l’obiettivo 8.7 degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile invita la comunità globale a: “Prendere misure immediate ed efficaci per sradicare il lavoro forzato, porre fine alla schiavitù moderna e alla tratta di esseri umani e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile, incluso il reclutamento e uso di bambini soldato e entro il 2025 il lavoro minorile in tutte le sue forme”.
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Quest’anno, sia la Giornata mondiale contro il lavoro minorile, che la Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro, celebrata il 28 aprile 2018, invitano a riflettere sulla necessità di migliorare la sicurezza e la salute dei giovani lavoratori e di porre fine al lavoro minorile. Questa campagna si pone l’obiettivo di accelerare l’azione per raggiungere l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 8.8 sugli ambienti di lavoro sicuri per tutti i lavoratori entro il 2030 e l’ obiettivo SDG 8.7 che si prefigge di porre fine a tutte le forme di lavoro minorile entro il 2025. Raggiungere questi obiettivi a beneficio della prossima generazione richiede un approccio concertato e integrato per eliminare il lavoro minorile e promuovere una cultura della prevenzione sulla salute della sicurezza sul lavoro. I bambini che sono liberi dal peso del lavoro minorile sono in grado di realizzare pienamente i loro diritti all’educazione, al tempo libero e allo sviluppo sano, fornendo a loro volta le basi essenziali per un più ampio sviluppo sociale ed economico, eliminazione della povertà e diritti umani. FOCUS Il lavoro minorile è definito come l’attività lavorativa che priva i bambini e le bambine della loro infanzia, della loro dignità e influisce negativamente sul loro sviluppo psico-fisico. Esso comprende varie forme di sfruttamento e abuso spesso causate da condizioni di estrema povertà, dalla mancata possibilità di istruzione, da situazioni economiche e politiche in cui i diritti dei bambini e delle bambine non vengono rispettati, a vantaggio dei profitti e dei guadagni degli adulti. Ai bambini in situazione di lavoro minorile viene negato il diritto di andare a scuola, la possibilità di giocare e di godere dei loro affetti. Molti bambini sono coinvolti nei processi produttivi dell’economia globalizzata: in agricoltura, in miniera, nei servizi e nelle industrie per la produzione di beni destinati all’esportazione. Essi sono spesso reclusi, emarginati, esposti a sofferenze fisiche e psicologiche. Il lavoro minorile è un fenomeno di dimensioni globali. Secondo le recenti stime dell’ILO, sono ancora 152 milioni i bambini – 68 milioni sono bambine e 88 milioni sono bambini – vittime di lavoro minorile. Metà di essi, 73 milioni, sono costretti in attività di lavoro pericolose che mettono a rischio la salute, la sicurezza e il loro sviluppo morale. Molti di loro vivono in contesti colpiti da guerre e da disastri naturali nei quali lottano per sopravvivere, rovistando nelle macerie o lavorando per strada. Altri vengono reclutati come bambini soldato per combattere nelle guerre volute dagli adulti. Le Convenzioni dell’ILO sul lavoro minorile sono strumenti giuridici a tutela dei minori, che chiedono ai governi interventi mirati per l’eliminazione dello sfruttamento del lavoro minorile e la proibizione, attraverso procedure d’urgenza, delle sue forme peggiori.
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La Convenzione dell’ILO n. 182 del 1999 sulle peggiori forme di lavoro minorile afferma la necessità e l’urgenza di adottare delle strategie di azione per eliminare, con priorità assoluta, le peggiori forme di lavoro minorile, senza perdere di vista l’obiettivo di lungo periodo di eliminare tutte le forme di lavoro minorile nel mondo. La Convenzione ILO n. 138 sull’età minima per l’ammissione al lavoro fissa l’età minima in cui i bambini possono essere legalmente impiegati in attività lavorative. La Dichiarazione dell’ILO sui Principi e i Diritti Fondamentali al Lavoro prevede che anche gli Stati membri che non hanno ancora ratificato queste Convenzioni devono rispettare, promuovere e realizzare i principi contenuti nelle Convenzioni. Sono molti i Paesi che hanno ratificato le norme internazionali dell’ILO sul lavoro minorile, ma — come evidenziato dai dati recenti — la distanza tra la ratifica e la loro effettiva applicazione resta ancora grande. L’abolizione del lavoro minorile rappresenta una priorità per l’azione dell’ILO sin dalla sua istituzione nel 1919. Con l’Obiettivo 8.7 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, tutti i Paesi si sono impegnati ad adottare misure immediate per eliminare le peggiori forme di lavoro minorile entro il 2025. L’ILO ha lanciato insieme ai suoi partner l’Alleanza 8.7 , un’alleanza mondiale per porre fine al lavoro minorile, al lavoro forzato, alla schiavitù moderna e alla tratta degli esseri umani. APPROFONDIMENTI Pubblicazioni dell’ILO Convenzioni e protocolli C14 – Convenzione sul riposo settimanale (industria), 1921 C19 – Convenzione sull’uguaglianza di trattamento (infortuni sul lavoro), 1925 C29 – Convenzione sul lavoro forzato, 1930 C74 – Convenzione relativa ai certificati di marinaio qualificato, 1946 C77 – Convenzione sull’esame medico degli adolescenti (industria), 1946 C78 – Convenzione sull’esame medico degli adolescenti (lavori non industriali), 1946 C81 – Convenzione sull’ispezione del lavoro, 1947 C87 – Convenzione sulla libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale, 1948 C88 – Convenzione sul servizio di collocamento, 1948 C91 (Scartata) – Convenzione sulle ferie pagate dei marittimi (riveduta), 1949 C92 – Convenzione sugli alloggi degli equipaggi (riveduta), 1949 C94 – Convenzione sulle clausole di lavoro (contratti pubblici), 1949 C95 – Convenzione sulla protezione del salario, 1949 C97 – Convenzione sui lavoratori migranti (riveduta), 1949 C98 – Convenzione sul diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva, 1949 C99 – Convenzione sui metodi di fissazione dei salari minimi (agricoltura), 1951 C100 – Convenzione sull’uguaglianza di retribuzione, 1951 C102 – Convenzione sulla sicurezza sociale (norma minima), 1952 C103 – Convenzione sulla protezione della maternità (riveduta), 1952 C105 – Convenzione sull’abolizione del lavoro forzato, 1957 C108 – Convenzione sui documenti d’identità dei marittimi, 1958 C109 – Convenzione su salari, durata del lavoro a bordo ed effettivi (riveduta), 1958 C110 – Convenzione sulle piantagioni, 1958 C111 – Convenzione sulla discriminazione (impiego e professione), 1958 Martina Tafuro
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C112 – Convenzione sull’età minima (pescatori), 1959 C115 – Convenzione sulla protezione contro le radiazioni, 1960 C118 – Convenzione sull’uguaglianza di trattamento (sicurezza sociale), 1962 C119 – Convenzione sulla protezione dalle macchine, 1963 C120 – Convenzione sull’igiene (aziende commerciali e uffici), 1964 C122 – Convenzione sulla politica dell’impiego, 1964 C123 – Convenzione sull’età minima (lavori sotterranei), 1965 C124 – Convenzione sull’esame medico degli adolescenti (lavori sotterranei), 1965 C127 – Convenzione sul peso massimo, 1967 C129 – Convenzione sull’ispezione del lavoro (agricoltura), 1969 C130 – Convenzione sulle cure mediche e le indennità di malattia, 1969 C131 – Convenzione sulla fissazione del salario minimo, 1970 C132 – Convenzione sui congedi pagati (riveduta), 1970 C133 – Convenzione sull’alloggio degli equipaggi (disposizioni complementari), 1970 C134 – Convenzione sulla prevenzione degli infortuni (marittimi), 1970 C135 – Convenzione sui rappresentanti dei lavoratori, 1971 C136 – Convenzione sul benzene, 1971 C137 – Convenzione sul lavoro nei porti, 1973 C138 – Convenzione sull’età minima, 1973 C139 – Convenzione sul cancro professionale, 1974 C141 – Convenzione sulle organizzazioni di lavoratori agricoli, 1975 C142 – Convenzione sulla valorizzazione delle risorse umane, 1975 C143 – Convenzione sui lavoratori migranti (disposizioni complementari), 1975 C144 – Convenzione sulle consultazioni tripartite relative alle norme internazionali del lavoro, 1976 C145 – Convenzione sulla continuità dell’impiego (marittimi), 1976 C146 – Convenzione sui congedi pagati annuali (marittimi), 1976 C147 – Convenzione sulla marina mercantile (norme minime), 1976 C148 – Convenzione per la protezione dell’ambiente di lavoro (inquinamento dell’aria, rumori e vibrazioni), 1977 C149 – Convenzione sul personale infermieristico, 1977 C150 – Convenzione sull’amministrazione del lavoro, 1978 C151 – Convenzione sulle relazioni di lavoro nella funzione pubblica, 1978 C152 – Convenzione sulla sicurezza e l’igiene nelle operazioni portuali, 1979 C154 – Convenzione sulla contrattazione collettiva, 1981 C155 – Convenzione sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, 1981 C158 – Convenzione sul licenziamento, 1982 C159 – Convenzione sul reinserimento professionale e l’occupazione (persone disabili), 1983 C160 – Convenzione sulle statistiche del lavoro, 1985 C161 – Convenzione sui servizi sanitari sul lavoro, 1985 C162 – Convenzione sull’amianto, 1986 C164 – Convenzione sulla protezione della salute e le cure mediche (marittimi), 1987 C167 – Convenzione sulla sicurezza e la salute nelle costruzioni, 1988 C170 – Convenzione sui prodotti chimici, 1990 C171 – Convenzione sul lavoro notturno, 1990 C172 – Convenzione sulle condizioni di lavoro negli alberghi e nei ristoranti, 1991 C174 – Convenzione sulla prevenzione degli incidenti industriali maggiori, 1993 C175 – Convenzione sul lavoro a tempo parziale, 1994 C176 – Convenzione sulla sicurezza e la salute nelle miniere, 1995 C181 – Convenzione sulle agenzie per l’impiego private, 1997 C182 – Convenzione sulle forme peggiori di lavoro minorile, 1999
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C183 – Convenzione sulla protezione della maternità, 2000 C184 – Convenzione sulla sicurezza e la salute nell’agricoltura, 2001 C185 – Convenzione sui documenti di identità dei marittimi (riveduta), 2003 CLM – Convenzione del lavoro marittimo, 2006 C187 – Convenzione sul quadro promozionale per la salute e la sicurezza sul lavoro, 2006 C188 – Convenzione sul lavoro nel settore della pesca, 2007 C189 – Convenzione sulle lavoratrici e i lavoratori domestici, 2011 P29 – Protocollo del 2014 relativo alla Convenzione sul lavoro forzato del 1930 P155 – Protocollo del 2002 relativo alla Convenzione sulla salute e la sicurezza dei lavoratori del 1981
Raccomandazioni R35 – Raccomandazione sulla costrizione indiretta al lavoro, 1930 R85 – Raccomandazione sulla protezione del salario, 1949 R86 – Raccomandazione sui lavoratori migranti (riveduta), 1949 R90 – Raccomandazione sull’uguaglianza di retribuzione, 1951 R99 – Raccomandazione sull’adattamento ed il riadattamento professionale degli invalidi, 1955 R102 – Raccomandazione sui servizi sociali, 1956 R111 – Raccomandazione sulla discriminazione (impiego e professione), 1958 R114 – Raccomandazione sulla protezione contro le radiazioni, 1960 R120 – Raccomandazione sull’igiene (aziende commerciali e uffici), 1964 R134 – Raccomandazione sulle cure mediche e le indennità di malattia, 1969 R146 – Raccomandazione sull’età minima, 1973 R164 – Raccomandazione sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, 1981. R170 – Raccomandazione sulle statistiche del lavoro, 1985 R171 – Raccomandazione sui servizi sanitari sul lavoro, 1985 R172 – Raccomandazione sull’amianto, 1986 R177 – Raccomandazione sui prodotti chimici, 1990 R178 – Raccomandazione sul lavoro notturno, 1990 R188 – Raccomandazione sulle agenzie per l’impiego private, 1997 R190 – Raccomandazione sulle forme peggiori di lavoro minorile, 1999 R191 – Raccomandazione sulla protezione della maternità, 2000 R193 – Raccomandazione sulla promozione delle cooperative, 2002 R197 – Raccomandazione sul quadro promozionale per la salute e la sicurezza sul lavoro, 2006 R199 – Raccomandazione sul lavoro nella pesca, 2007 R200 – Raccomandazione sull’HIV/AIDS, 2010 R201 – Raccomandazione sulle lavoratrici e i lavoratori domestici, 2011 R202 – Raccomandazione sui sistemi nazionali di protezione sociale di base, 2012 R203 – Raccomandazione sul lavoro forzato (misure complementari), 2014 R204 – Raccomandazione sulla transizione dall’economia informale verso l’economia formale, 2015 R205 – Raccomandazione sull’occupazione e lavoro dignitoso per la pace e la resilienza, 2017
Altri documenti ufficiali dell’ILO - Dichiarazione (di Filadelfia) riguardante gli scopi e gli obbiettivi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, 1944 - Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro e suoi seguiti, 1998 - Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale Martina Tafuro
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- Quadro multilaterale dell’ILO sulle migrazioni per lavoro - Dichiarazione dell’ILO sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta, 2008 - Superare la crisi. Un patto globale per l’occupazione, 2009 Napoli, 11 giugno 2018
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Democrazia diretta, partecipativa e deliberativa
■Politica
Democrazia diretta, partecipativa e deliberativa di Martina Tafuro Ignacio Ramonet, ha scritto: “Che cos’è il pensiero unico? È la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale”. È ancora possibile immaginare un mondo diverso rispetto a quello dominato dal pensiero unico neoliberista? Il termine, pensiero unico, fu coniato nel gennaio del 1995 in un editoriale dal direttore responsabile di Le Monde diplomatique, Ignacio Ramonet. E se si, quale strada si deve percorrere per cambiare il sistema? Con quali mezzi, strumenti e azioni è possibile formare nuovi cittadini che abbiano il gusto della partecipazione, che ricerchino il bene comune, che abbiano uno spiccato senso di comunità, che si sentano ognuno responsabile di tutto? Insomma, esiste la democrazia partecipativa?
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Il luogo dove il nuovo cittadino deve essere informato sull’operato di chi amministra le città, dove trova la possibilità di sviluppare proposte e progetti su temi relativi all’ambiente, alla sanità, al risparmio del denaro pubblico, al turismo sostenibile, alla raccolta dei rifiuti porta a porta, all’ acqua pubblica. Le decisioni per il bene delle città non devono essere prese da una manciata di persone, ma dalla stessa collettività nella sua interezza. Le parole d’ordine sono: confronto, dialogo, partecipazione, passione civica. E’ innegabile che una comunità opera e funziona bene, solo quando, tutti i suoi componenti hanno introiettato un codice morale e sociale ispirato a partecipazione e rispetto. La politica, quando è in grado di mettersi in gioco, ha un solo mandato: restituire potere ai cittadini. Alimentando la partecipazione dei cittadini nelle scelte delle politiche pubbliche, è possibile sperimentare il governo orizzontale, sicura strada per riuscire a promuovere cambiamenti socio/culturali. E a Nola, in Italia? Sono possibili esperimenti del genere? Si. Anzi, sono già stati compiuti, spesso inconsapevolmente, a partire dal livello locale. Si pensi alle numerose esperienze di coloro, che praticano il cambiamento dal basso attraverso una nuova visione della politica locale, partecipata, attenta al territorio, all’integrazione. Insomma, queste sono le risposte da dare in uno scenario dove regna sovrano il raggrupparsi per plotoni che agiscono come la mera somma di tante soggettività. Stiamo vivendo lo spazio in cui la speranza è rinata, lottando contro l’intrecciarsi di profezie svendute a basso prezzo. Democrazia diretta, evoca l’immagine dell’agorà ateniese e indica l’esercizio diretto del potere e della sovranità da parte dei cittadini. Forme di democrazia diretta sono tutte quelle procedure che implicano l’annullamento di ogni mediazione nell’esercizio del potere del popolo. Le teorie che si appellano alla democrazia diretta hanno trovato alimento nella critica al ruolo della rappresentanza. In questa visione direttistica della democrazia, centrale appare l’idea che ogni forma di rappresentanza politica conduca inevitabilmente alla separazione, al distacco, degli eletti dal popolo. E da qui, dunque, le contromisure: quelle che portano a una visione della rappresentanza come delega vincolata e funzionale e l’idea di un mandato imperativo per gli eletti. Democrazia partecipativa, prende le mosse negli Stati Uniti degli anni Sessanta del Novecento: è allora che nasce e si sviluppa un modello di participatory democracy, che trarrà ispirazione dal movimento per i diritti civili e poi dai grandi movimenti giovanili di quel decennio. Tra i tratti costitutivi di questo modello teorico vi era il rifiuto radicale della rappresentanza, di cui si sottolineavano gli effetti perversi: in particolare, l’atrofizzazione delle capacità politiche degli individui, gli incentivi all’apatia e alla passività. Come antidoto a tutto ciò, la participatory democracy esaltava le possibili virtù di una cittadinanza attiva che doveva e poteva essere educata e Martina Tafuro
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alimentata da forme dirette di empowerment, dall’esercizio di una diretta responsabilità di autonomia, autogoverno e autodeterminazione. Al centro, vi era dunque una visione della democrazia come democrazia locale e comunitaria, fondata sulla diretta partecipazione del cittadino alla formazione delle scelte collettive. Di recente il richiamo alla democrazia partecipativa si produce sull’onda dei movimenti di critica alla globalizzazione. Contro la logica del pensiero unico, occorre attivare un protagonismo sociale dal basso e la democrazia partecipativa, in questo senso, diviene lo strumento attraverso cui si costituisce una nuova soggettività sociale critica e antagonistica. Torna, quindi, in forme rinnovate, l’idea di un empowerment delle società locali, oggi contro i processi di omologazione indotti dalla globalizzazione, e torna l’idea che le comunità locali si possano e debbano autogovernare, e riappropriarsi così del loro destino. Tuttavia, a differenza delle visioni che possiamo ricondurre a una visione diretta della democrazia, le più recenti elaborazioni di un modello di democrazia partecipativa propongono una forma di coesistenza o di complementarietà con le istituzioni della democrazia rappresentativa: le forme e i processi di democrazia partecipativa, così, tendono ad essere viste come quelle in cui i cittadini esercitano una qualche forma di pressione o costruiscono una relazione con i processi decisionali propri delle istituzioni attraverso un loro intervento all’interno di tali processi. Democrazia deliberativa. Una possibile definizione, attraverso cui cogliere il tratto specifico di questa concezione della democrazia, può essere trovata nella contrapposizione tra una concezione aggregativa, l’idea che le preferenze degli individui possano e debbano essere solo contate, assunte come date e come espressione diretta della loro volontà. Oppure in una concezione trasformativa e discorsiva della democrazia, cioè l’idea che le preferenze degli individui non sono esogene, ma possono formarsi e trasformarsi nel corso stesso di un processo e di una procedura deliberativa. Una procedura democratica deliberativa si fonda sulla discussione pubblica, sullo scambio di ragioni e di argomenti, e può ambire a ottenere un consenso razionale e una soluzione condivisa, o produrre decisioni migliori; ma può anche limitarsi a circoscrivere le ragioni di un disaccordo o di un conflitto, a renderlo produttivo, individuando possibili punti di equilibrio e di compromesso. Deliberare significa soppesare i pro e i contro delle possibili soluzioni a un problema collettivo. In conclusione, si può ben comprendere che democrazia diretta, democrazia partecipativa e democrazia deliberativa sono tre modelli da tenere separati per evitare confusioni e fraintendimenti. Le prime due si fondano sull’azione diretta di cittadini che acquisiscono o cercano di esercitare una qualche forma di potere sulle decisioni istituzionali. La terza, invece, punta soprattutto sullo scambio argomentativo e sulla discussione pubblica che precedono una decisione, e vedono la deliberazione come fase di un processo di costruzione dialogica e discorsiva di decisioni che spetta comunque alle legittime istituzioni democratiche assumere. Napoli, 18 giugno 2018
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Fai ciò che ti piace e sarai ricompensato. La classe agiata di Thorstein Veblen.
■Cultura
Fai ciò che ti piace e sarai ricompensato. La classe agiata di Thorstein Veblen di Martina Tafuro
“Il consumo vistoso di beni ricercati è un mezzo di rispettabilità per il gentiluomo agiato. Come la ricchezza gli si accumula nelle mani, egli non riuscirà da solo, con questo metodo, per quanto si sforzi, a mettere sufficientemente a mostra la sua opulenza. Si ricorre perciò all’aiuto di amici e competitori con l’espediente di offrire regali di valore, feste e trattenimenti dispendiosi. Egli consuma per conto del suo ospite e intanto è testimone del consumo di quella sovrabbondanza di beni che l’ospite non potrebbe consumare da solo, ed è pure fatto testimone della compitezza cerimoniale di quest’ultimo. Il consumo diventa un investimento in vista di un aumento di reputazione”. Thorstein Veblen
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Viviamo l’epoca in cui i beni di lusso sono sempre di più alla portata della cosiddetta classe media, è l’effetto della democratizzazione del lusso! Infatti, siamo tutti lì a riflettere di quanto sia cool andare a cena in un all you can eat (tutto quello che puoi mangiare), di quanto sia fashion mangiare nell’hamburgheria nobilitata, di quanto sia trend partecipare al brunch domenicale nel bar in piazza. Queste sono tutte quelle operazioni economiche e poco alienanti, che caratterizzano i comportamenti delle nuove élite, le quali sono alla ricerca incessante di nuove strade per esibire prove del proprio status sociale. Pensandoci bene, però, il concetto di status symbol è antico quasi quanto l’uomo. Tanto per citare un esempio, nell’antica Roma quando i plebei divennero abbastanza ricchi iniziarono a decorare le loro case, allora l’élite iniziò a riempire di mosaici le proprie ville per sottolineare di nuovo la propria superiorità. Insomma, da sempre, l’ostentazione consumistica dei beni di lusso, è stato il segno evidenziatore dell’ appartenza alla classe più abbiente di una civiltà. Tesi descritta, già, dal sociologo americano, Thorstein Veblen, nel 1899, attraverso il concetto di consumo ostentativo. Teoria esposta in: “La Teoria della Classe Agiata”, in cui si collegano le decisioni di consumo alla dimostrazione della propria appartenenza a una classe sociale. Veblen analizza la società americana di fine 800, sostenendo che le attività economiche, nella società moderna, non abbiano motivazioni utilitaristiche. La classe agiata, per distinguersi dalle classi sociali più basse, realizza un consumo superfluo dei beni, vistoso. In questo modo, la classe agiata provoca l’imitazione delle classi inferiori che lo seguono come un modello ideale di vita. Per Veblen, è dunque il confronto antagonistico e la competizione che spinge a superare gli altri contendenti, presenti nella scena sociale, con cui possiamo classificarci. Quindi, non troviamo consumatori che appagano in modo razionale i propri desideri, ma consumatori che dipendono dal giudizio degli altri cercando di ottenere riconoscimento in una continua gara per raggiungere uno status sociale più elevato. Veblen scrive ad esempio che, la ragione principale per cui si indossavano, all’epoca, scarpe col tacco o un cappello a cilindro era per dimostrare il fatto che non si facevano lavori manuali. Trasportato questo pensiero nel nostro tempo, potremmo dire che il modo migliore per inseguire la ricchezza non sia tanto dedicarsi alle cose pratiche, bensì investire in ciò che riguarda l’intelletto e la creatività. Un esempio di questa dinamica è l’istruzione, infatti per raggiungere la vetta della piramide sociale non serve impegnarsi da piccolo per imparare un mestiere, ma passare quanto più tempo possibile a studiare. Il tempo passato sui libri è direttamente proporzionale al tenore di vita che si avrà una volta entrati nel mercato del lavoro. Questa è la grande promessa e il grande paradosso dal liberismo: “fai ciò che più ti piace, fai si che le tue idee che valgano e sarai ricompensato nel migliore dei modi senza dover mai sporcarti le mani”. Veblen descriveva la classe superiore, come quella che dedica più Martina Tafuro
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tempo alle cose superflue e non è direttamente coinvolta nel processo produttivo e la sua supremazia è giustificata dal significato sottinteso indegno e degradante che il lavoro produttivo ha assunto nell’epoca moderna. La ricchezza ha una caratteristica positiva, poiché è indispensabile per ottenere rispetto ed ammirazione. Le persone ricche, in virtù della loro ricchezza sono qualitativamente superiori moralmente, fanno lavori intellettualmente interessanti e possono dedicare il loro tempo a cose senza un’utilità pratica. La ricchezza è quindi, condizione e conseguenza dell’astensione da occupazioni manuali e tecniche. In conclusione, Veblen ha teorizzato il comportamento consumistico come elemento fondante della struttura sociale, al di là delle necessità naturali, poiché il prestigio finanziario è caratteristica peculiare dell’esperienza umana, è il suo abito mentale. In virtù di tale connotazione tende ad influenzare indirettamente anche gli aspetti non propriamente economici del comportamento e interviene a modificare la morale, la religiosità, il gusto estetico e persino la moda. Riletta in chiave moderna la lezione di Veblen sta lì a dirci che c’è bisogno di rianimare la mobilità sociale, ridestando quella rete partecipata dalle parti sociali che metta insieme tutti gli attori al fine di ottenere e offrire tutti quei servizi di cui il territorio socio/economico ha bisogno. C’è bisogno di arginare questa deriva consumistica tipica di coloro che vivono di speculazione, senza produrre beni e lucrando sul lavoro di altri. Napoli, 22 giugno 2018
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L’illusione di essere élite. La classe posizionale di Fred Hirsch. ■Cultura
L’illusione di essere élite. La classe posizionale di Fred Hirsch di Martina Tafuro “Le scelte operate dal consumatore nel mercato o in una transazione di tipo commerciale nel settore posizionale appaiono sempre più attraenti prima che altri consumatori abbiano effettuato la loro scelta”. Fred Hirsch Negli anni settanta, un giornalista finanziario, Fred Hirsch in, “I limiti sociali allo sviluppo”, scrive che lo sviluppo così come concepito dalle società consumiste è limitato socialmente, al contrario di quanto sostenuto dal Club di Roma che asseriva che i limiti dello sviluppo sono dati dalla finitezza delle risorse e materie prime. La tesi, di Hirsch, è che, soddisfatti i bisogni di base, mangiare, scaldarsi, ecc., i consumatori si orientano verso una quota crescente di beni e servizi volti a soddisfare bisogni non fondamentali. Questi beni, però, sono tanto più desiderabili quando più sono riservati a pochi. Sono beni di status, o beni il cui uso è fortemente legato alla scarsa diffusione, alla difficoltà di accesso, alla limitatezza. Il Super Suv è tanto più desiderabile quanto più esso si distingue su uno sfondo di utilitarie lente e tamarre. Ma le società democratiche, basate sui consumi di massa devono lasciare aperto a tutti, teoricamente, l’accesso a tali beni. Il risultato è una crescente insoddisfazione ai livelli più bassi, tra chi per ragioni di reddito, di status ecc. non può accedere a certi beni, dalle scuole private al fuoristrada, ma anche ai livelli più alti, a mano a mano che crescono la pressione dal basso e l’affollamento. Martina Tafuro
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Un aspetto fondamentale del consumo in una società ad alto tenore di vita è che quando aumenta il livello medio di spesa, una quota crescente di consumo assume un carattere sociale individuale. Ciò significa che il soddisfacimento che i consumatori traggono dai beni e servizi dipende in misura crescente non solo dal loro consumo personale, ma anche dal consumo degli altri, tipo come l’ appagamento che deriva ad un uomo affamato dal consumo di un pasto abbondante che non è intaccato da quanto altre persone stanno mangiando, oppure quando vediamo che l’aria che si respira in una metropoli è un prodotto sociale, poiché la qualità dell’aria che ciascun cittadino respira dipende interamente dal comportamento d’ogni altro cittadino nei riguardi dell’inquinamento atmosferico. In altri termini, la crescita in una società ad alto tenore di vita cambia il modo di ottenere soddisfacimento. Attraverso l’atto consumistico, il valore della mia istruzione scolastica dipende non solo dal livello che ho raggiunto, ma anche dal livello raggiunto dall’individuo che mi precede nella ricerca del lavoro. Il soddisfacimento che mi deriva dall’uso del mio Suv dipende dalle condizioni in cui gli altri consumatori sono in grado di comprare fuoristrada. Considerata singolarmente, la domanda individuale per un’educazione scolastica superiore, per un’auto, può essere intesa come una scelta genuina di ogni individuo che cerchi di migliorare la propria posizione. Ma, il soddisfacimento di queste preferenze individuali altera esso stesso la situazione che gli altri consumatori affrontano cercando di soddisfare gli stessi bisogni, perché nel mercato di questi prodotti d’alto valore, le cui risorse sono limitate per natura, la lotta per diventare membro d’una élite fa sì che il guadagno di uno sia la perdita d’un altro. Questo concetto esprime l’idea di scarsità sociale. Le cose buone della vita sono limitate non solo da vincoli fisici nella produzione delle stesse, che ne causano la scarsità materiale, ma anche da vincoli sociali al loro utilizzo. Questi vincoli sociali al consumo derivano dall’incapacità dell’ambiente sociale ad allargare il loro utilizzo senza deteriorare la qualità del prodotto. Inoltre, la competizione posizionale non solo produce sprechi sociali nel settore commerciale, ma toglie pure risorse da quelle attività che rimangono fuori dal mercato, come i contatti sociali ed il tempo libero. Quando gli individui passano sempre più tempo a lavorare, a consumare, e a combattere la concorrenza posizionale, arrivano a considerare l’amicizia come un consumo di tempo e perciò come un costo. Sempre più frequentemente i contatti sociali, il relax e il gioco diventano beni costosi a causa del crescente dispendio di tempo dovuto al processo stesso del consumo. Da qui la spinta a fare più cose nello stesso tempo, come l’uomo moderno, che beve caffè brasiliano, fuma sigaro olandese, sorseggia cognac francese tutto nello stesso tempo. Napoli, 2 luglio 2018
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Pubblicata la classifica Censis delle Università italiane 2018/2019
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Pubblicata la classifica Censis delle Università italiane 2018/2019 di Martina Tafuro Il Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, importante istituto di ricerca socio-economica, ha pubblicato l’ultimo rapporto annuale sullo stato delle università italiane. La classifica annuale degli atenei statali e non statali è redatta in base all’analisi delle strutture disponibili, dei servizi erogati, del livello di internazionalizzazione e sulla capacità di comunicazione 2.0. Sono, inoltre, disponibili anche le classifiche della didattica delle lauree triennali, dei corsi a ciclo unico e delle lauree magistrali biennali secondo la progressione di carriera degli studenti e i rapporti internazionali Complessivamente si tratta di 63 classifiche, che possono essere da supporto per individuare con consapevolezza il percorso di formazione migliore. Per il terzo anno consecutivo, l’anno accademico 2016-2017 ha registrato una ripresa delle immatricolazioni (+5,2% rispetto all’anno accademico precedente) e una rinnovata attrattività dell’istruzione universitaria, scelta da oltre il 47% dei 19enni italiani. Sono i gruppi disciplinari economico-statistico e ingegneria a registrare le più alte quote di immatricolati (rispettivamente, il 14,5% e il 14,1%).
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Sul fronte dell’offerta, la dimensione internazionale acquisisce un peso sempre più consistente. Nell’ultimo anno accademico, più di 44.000 iscritti (quasi il 4% del totale) sono stati in mobilità e più del 23% di loro lo ha fatto attraverso programmi di mobilità internazionale diversi da Erasmus+, attivati grazie alla cooperazione internazionale dei singoli atenei. Questi ultimi, da parte loro, hanno ospitato oltre 29.000 studenti stranieri in mobilità. I mega atenei statali, con oltre 40.000 iscritti Tra i mega atenei statali mantiene la prima posizione in graduatoria l’Università di Bologna, con un punteggio complessivo pari a 91,2. Segue, come l’anno precedente, l’Università di Firenze (86,0) a pari merito con l’Università di Padova e con l’Università di Roma La Sapienza. Come lo scorso anno, ultima in classifica tra i mega atenei statali è l’Università di Napoli Federico II. I grandi atenei statali, da 20.000 a 40.000 iscritti L’Università di Perugia continua a guidare la classifica dei grandi atenei statali con un punteggio complessivo pari a 93,8. Con 92,0 scala troviamo l’Università della Calabria. Conferma la terza posizione in graduatoria l’Università di Parma con un punteggio pari a 90,6. Scivola al quarto posto, l’Università di Pavia, con un punteggio complessivo di 87,8. New entry tra i grandi atenei statali è l’Università di Palermo, non più classificabile come mega ateneo a seguito della contrazione del numero di iscritti, occupando la settima pozione. In ultima posizione, l’Università della Campania Luigi Vanvitelli con 74,2 punti, nonostante il sensibile incremento di 12 punti registrato per le strutture per gli studenti. I medi atenei statali, da 10.000 a 20.000 iscritti L’Università di Siena è in testa alla graduatoria dei medi atenei statali, con un punteggio totale di 99,0. Guadagna la seconda posizione l’Università di Sassari, con un punteggio di 98,0, sorpassando l’Università di Trento (96,8). Quest’ultima guadagna punti per borse e altri interventi in favore degli studenti e internazionalizzazione, ma retrocede per gli altri indicatori. Stabile al quarto posto è l’Università di Trieste (91,0), seguita dall’Università Politecnica delle Marche (88,4). New entry tra i medi atenei statali, per effetto dell’incremento di studenti iscritti, è l’Università di Macerata, che si colloca in ottava posizione (84,6). Rispettivamente all’ultimo e al penultimo posto ci sono le Università di Napoli L’Orientale e Parthenope. I piccoli atenei statali, fino a 10.000 iscritti Nella classifica dei piccoli atenei statali primeggia l’Università di Camerino, con un punteggio complessivo di 91,4, cui segue l’Università di Foggia, che totalizza 87,6 punti. L’Università di Cassino sale dal quinto al terzo posto, continuando l’ascesa della graduatoria iniziata lo scorso anno. L’ultima posizione è occupata dall’Università del Sannio. I Politecnici Stabile la speciale classifica dei Politecnici, guidata dal Politecnico di Milano (91,2), seguito dallo Iuav di Venezia (89,0), secondo posizionato, e dai Politecnici di Torino e di Bari, rispettivamente terzo e quarto. La classifica internazionale lIn campo internazionale, nei primi giorni di giugno è stata pubblicata la quindicesima edizione del QS World University Rankings, da QS Quacquarelli Symonds, società globale di consulenza specializzata nell’analisi del settore universitario.
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La classifica 2018-2019 conferma il Massachusetts Institute of Technology (MIT) la migliore università al mondo per il settimo anno consecutivo, superando Harvard, che ha detenuto questo ambito titolo per sei edizioni. Gli Stati Uniti mantengono le prime quattro posizioni che restano invariate rispetto alla scorsa edizione, mentre per la prima volta, Oxford (5^) supera Cambrigde (6^) e conquista il primato Europeo. ETH Zurich (7°) ottiene il proprio miglior posizionamento nella storia del ranking. Dove si posizionano le università italiane? Tra le trenta università Italiane incluse nella classifica, 21 guadagnano terreno e nove lo perdono. Il Politecnico di Milano scala quattordici posizioni e raggiunge il 156°posto, riconfermandosi la migliore università Italiana per il quarto anno consecutivo e ottenendo il proprio più alto posizionamento nei quindici anni dalla creazione del ranking. L’argento italiano va alla Scuola Superiore Sant’Anna Pisa (167^), che balza in avanti di venticinque posizioni; Sul podio anche la Scuola Normale Superiore di Pisa che ne guadagna diciassette, piazzandosi al 175° posto. Anche l’Università degli Studi di Bologna sale di otto posizioni, e si classifica 180^. Nella fascia Top 600, l’università italiana che cresce più significativamente rispetto allo scorso anno é l’ Università degli Studi di Padova (249^), che con un salto di 47 posizioni, è tra migliori 250 al mondo. Questa ascesa é ascrivibile al progresso ottenuto in quattro dei sei indicatori che compongono il ranking. Una nota particolare merita il Politecnico di Torino (387°), che perde ottanta posizioni per un declino in cinque dei sei indicatori. In realtà, la discesa é stata in gran parte determinata dall’avere incluso per la prima volta, nel conto del personale docente, gli Assegnisti di Ricerca, adeguandosi alla definizione di QS del “full-time equivalent staff”. Questo ha comportato un incremento del 67% della faculty, che ha determinato la perdita di 162 posizioni nell’indicatore “Citation per Faculty”. In sostanza, il Politecnico di Torino é un’eccellenza italiana, che quest’anno é rappresentata accuratamente in questa classifica, secondo i criteri e le definizioni che la determinano. Napoli, 4 luglio 2018
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Non ha i soldi dell’élite ma aspira a diventarla. La classe aspirazionale di Elizabeth CurridHalkett.
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Non ha i soldi dell’élite ma aspira a diventarla. La classe aspirazionale di Elizabeth CurridHalkett di Martina Tafuro devo staccarmi dalla massa, perchè la distanza economica tra me e la massa si sta riducendo e il risultato è che non solo devo sviluppare nuovi modi, meno appariscenti, per distinguermi dai più, ma, avverto un bisogno maggiore di distanziarmi da loro, per esorcizzare questo avvicinamento sgradito. In questo nostro tempo, l’accesso alla ricchezza di molte più persone, il calo dei prezzi dei beni di consumo in generale, hanno trasformato nell’immaginario collettivo il concetto di status. Al punto che, oggi, l’élite punta a consumare meno della classe media e sceglie nuovi indicatori di benessere per dimostrare il proprio posizionamento sociale. Elizabeth Currid-Halkett, docente presso l’Università della Southern California in politiche pubbliche, offre un’analisi di questo spaccato sociale in The Sum of Small Things. A Theory of the Aspirational Class (La Somma delle Piccole Cose. Una Teoria sulla Classe Aspirazionale), in cui indaga i nuovi comportamenti di consumo delle classi abbienti.
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O meglio delle nuove élite, che non per forza coincidono con le classi più ricche: i nuovi parametri per definire i potenti del pianeta, secondo Currid-Halkett, sono piuttosto l’istruzione di alto profilo e il capitale culturale. L’autrice, per definire queste nuove élite, introduce il concetto di “aspirational class” e nel dipanarsi delle pagine del volume ne descrive le abitudini in termini di istruzione dei figli, salute, genitorialità e pensioni. La classe aspirazionale non compra auto di lusso o ville con piscina per dimostrare la propria superiorità, ma sceglie di assumere la domestica per avere più tempo per sé e poter dedicarsi allo sport o alla meditazione. Insomma, i beni materiali non sono più il simbolo di un elevato status sociale, perchè accessibili a tutti. Gli aspirational hanno modificato le proprie abitudini d’acquisto in modo meno appariscente, modificandole in maniera da svelare la propria padronanza del mondo in determinate materie… attraverso la somma di piccole cose, ma che si riferiscono a precisi stili di vita. gli aspirational sono: “Estremamente istruiti, definiti dal capitale culturale piuttosto che dal proprio salario annuale, questi individui sono ardentemente impegnati nell’acquisto di prodotti biologici, nell’indossare borse di tela griffate NPR [National Public Radio, organizzazione non profit che comprende un migliaio di radio indipendenti americane] e allattano al seno i propri bambini. Hanno a cuore il fatto che i propri consumi siano discreti e poco ostentati: mangiano, per esempio, pollo solo se allevato all’aperto e pomodori bio, indossano magliette di cotone organico e scarpe TOMS, ascoltano le serie di podcast. Utilizzano il proprio potere d’acquisto per assumere bambinaie e domestici, per coltivare la crescita dei propri figli e praticare yoga e Pilates”. La nuova élite non si lascia più attrarre da “capi firmati, orologi, gioielli, auto e altri beni socialmente visibili”, preferisce, invece, acquistare oggetti che gli diano uno status intellettuale. Il fatto di consumare solo alimenti bio, dimostra le proprie tendenze all’ambientalismo e una spiccata conoscenza di tematiche come il climate change. Evidenzia, inoltre l’autrice, che la classe media indirizza gran parte dei propri guadagni al consumo ostentativo, più di quanto non faccia la classe abbiente. Quindi per la classe aspirational, il consumo ostentativo democratizzato è meno appetibile per le persone più ricche, se per Veblen il lusso ostentato serviva per dimostrare di non aver bisogno di lavorare per essere ricchi, oggi la classe abbiente è anche quella che lavora di più. D’altra parte l’aspirational lavora di più, perchè pone al centro dei suoi desiderata un bene per lui di estremo valore in termini sociali: l’istruzione. Le competenze guadagnate dall’élite nel corso degli anni derivano infatti proprio dal loro accesso all’istruzione superiore delle università. Ecco perché oggi, secondo Currid-Halkett, “la consapevolezza sociale, ambientale e culturale” rappresenta la principale fonte di capitale sociale. Allora, mi chiedo:”Se i genitori benestanti spendono sempre più soldi nell’educazione dei figli, questo non limita le opportunità per i ragazzi meno abbienti?”. Il timore è che le nuove abitudini d’acquisto dell’élite potrebbero trasformarsi in una strategia per rafforzare la propria posizione di dominio. “Prima, essere ricchi voleva dire avere tempo libero e, per esempio, potersi dedicare al volontariato. Le nuove classi agiate invece si distinguono in base al merito e al fatto di lavorare sodo, perciò anche chi è più in alto nella scala non ha molte ore di libertà. E allora ci si distingue perché si può pagare una tata, o perché si può scegliere di allattare al seno”. Fai parte della classe aspirazionale se: 1) compri cose che ti fanno sentire una persona migliore; 2) i consumi non vistosi rappresentano una fetta importante della tua spesa; 3) fare il genitore è un nuovo status symbol; 4) parli di idee e non di cose… come nei salotti intellettual/chic; 5) disponi del tuo tempo con discreta flessibilità… come lavorare da casa che fa tanto élite. Napoli, 9 luglio 2018
Martina Tafuro
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Rapporto Ecomafia 2018: il fatturato vale oltre 14 miliardi. ■Cultura
Rapporto Ecomafia 2018: il fatturato vale oltre 14 miliardi. di Martina Tafuro “L’inquinamento è un delitto contro i giovani” Sergio Mattarella Nel 2017 sono stati consumati 84 reati al giorno. Sono state sequestrate 4,4 le tonnellate di rifiuti. La Biodiversità è stata messa in grave pericolo. Sono i dati che emergono dal rapporto Ecomafia 2018 presentato ieri 9 luglio alla Camera. La fotografia dell’Italia Diciassettemila costruzioni illegali. Quasi 31 mila (30.692) illeciti: In altre parole sono stati compiuti più di 84 reati al giorno, 3,5 ogni ora. Vero e proprio business che in un anno è cresciuto del 9,4% arrivando a quota 14,1 miliardi. Ma anche boom di arresti per crimini contro l’ambiente e di inchieste sui traffici illegali di rifiuti. Campania record di illeciti Nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso è stato verbalizzato il 44% del totale nazionale di infrazioni. La Campania è la regione in cui si registra il maggior numero di illeciti ambientali (4.382 che rappresentano il 14,6% del totale nazionale), seguita dalla Sicilia (3.178), dalla Puglia (3.119), dalla Calabria (2.809) e dal Lazio (2.684). Cresce il malaffare nella monnezza Nel 2017 la percentuale più alta di illeciti, il 24%, ha riguardato il traffico di rifiuti. I reati contro gli animali e la fauna selvatica rappresentano il 22,8%, gli incendi boschivi il 21,3%, il ciclo del cemento, il 12,7%. Sono aumentate anche le tonnellate di rifiuti sequestrati: dal primo gennaio al 31 maggio 2018 sono state più di 4,5 milioni di tonnellate: una fila ininterrotta di 181.287 tir lunga 2.500 chilometri. Tra le tipologie di rifiuti maggiormente trafficate i fanghi industriali, le polveri di abbattimento fumi, i Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche), i materiali plastici, gli scarti metallici (ferrosi e non), carta e cartone. I dati del ministero della Giustizia ci dicono che i procedimenti totali avviati dalle procure sono stati 614. La fattispecie più applicata è stata l’inquinamento ambientale con 361 casi, poi l’omessa bonifica (81), i delitti colposi contro l’ambiente (64), il disastro ambientale (55), l’impedimento al controllo (29) e il traffico di materiale ad alta radioattività (7). Il balzo in avanti nell’applicazione della Legge 68/2015 è certificato anche considerando l’attività di tutte le forze dell’ordine, dove gli ecoreati contestati passano da 173 (anno 2016) a 303, con una impennata netta del 75%. Martina Tafuro
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Boom di arresti per crimini ambientali Nel 2017 si è raggiunto il numero più alto di persone arrestate per crimini contro l’ambiente, con 538 provvedimenti solo per quanto riguarda la custodia cautelare (+ 140% rispetto al 2016). In aumento anche le persone denunciate (39.211, +36%) e i sequestri effettuati (11.027, +52%). I clan censiti da Legambiente finora e attivi nelle varie forme di crimine ambientale sono 331. Un dato che va incrociato con le amministrazioni sciolte per mafia: 16 Comuni da gennaio 2018, 20 nel 2017. Secondo i dati elaborati di Avviso Pubblico e riportati da Legambiente nel 2017 si sono registrate 537 le intimidazioni a sindaci e amministratori, 2.182 negli ultimi cinque anni. Edilizia abusiva a tutta forza Sul ciclo illegale del cemento nel corso del 2017 sono emerse 3.908 infrazioni, una media di 10,7 ogni 24 ore. Le persone denunciate sono state 4.977 persone. Il 46,2% dei reati si concentra nelle quattro cosiddette regioni a tradizionale presenza mafiosa, ossia Campania, Sicilia, Puglia e Calabria. Secondo le stime del Cresme, nel 2017 in Italia sarebbero state costruite circa 17 mila nuove case abusive. Agroalimentare, animali e arte a rischio Crescono i reati nell’agroalimentare, con 37mila reati e sequestri per oltre un miliardo di euro. I numeri parlano di 22mila persone denunciate o diffidate e 196 arresti. Continua anche la violazione del patrimonio italiano di biodiversità, sulla pelle di lupi, aquile, pettirossi, tonni rossi, pesci spada. I reati contro la natura, primo tra tutti il bracconaggio, si concentrano per il 43 per cento nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa, anche se la Liguria arriva in quarta posizione con 565 illeciti. Nel 2017 sono state 7mila le infrazioni accertate, il 18% in più rispetto al 2016. non va meglio per il patrimonio artistico e culturale italiano: nel 2017 ci sono state 1.136 denunce, 11 arresti e 851 sequestri effettuati in attività di tutela. La stima economica sul fatturato incassato dai furti d’arte è di circa 340 milioni di euro. Biodiversità sotto assedio Nel 2017 più di 6 mila persone sono state denunciate per reati contro la biodiversità, quasi 17 al giorno; 7 mila le infrazioni (19 al giorno +18% rispetto al 2016). L’aggressione al patrimonio di biodiversità continua sulla pelle di lupi, aquile, pettirossi, tonni rossi, pesci spada e non solo. Le regioni a tradizionale presenza mafiosa totalizzano il 43% dei reati. La Sicilia è in testa per numero di illeciti (1.177 pari al 16,8% del totale nazionale), seguita dalla Puglia (946 reati), dal Lazio (727) e dalla Liguria per la prima volta in quarta posizione (569), prima della Calabria (496) e della Campania (430). Shopper fuori legge Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Assobioplastiche, in media 60 buste su 100 in circolazione sono fuori norma. Nel mirino soprattutto i mercati rionali di ortofrutta e i negozi al dettaglio. Nel 2017 sono state comminate sanzioni per 5 milioni di euro. Solo due esempi, il Nucleo speciale tutela proprietà intellettuale della Guardia di finanza ha sequestrato circa 2 milioni di sacchetti di plastica illegali e 2,3 tonnellate di materia prima usata per produrli. A Napoli, nel 2017 la Polizia locale ha provveduto al sequestro di 1,6 milioni di sacchetti, mentre nei primi 5 mesi del 2018 ne ha già sequestrato più di 122 mila. ECOMAFIA 2018, Le storie e i numeri della criminalità ambientale in Italia, Edizioni Ambiente Napoli, 10 luglio 2018
Martina Tafuro
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Turismo è consapevolezza ambientale: forza motrice della Sostenibilità ■Cultura
Turismo è consapevolezza ambientale: forza motrice della Sostenibilità di Martina Tafuro “Lo sviluppo sostenibile è quello che provvede al soddisfacimento dei bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la possibilità di soddisfacimento dei bisogni di quelle future” (Our common future – Rapporto Brundtland) Era il 1987, quando la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, durante il Summit della Terra di Rio de Janeiro nel 1992, presentò un Rapporto dal titolo: “Il futuro di tutti noi”. La commissione presieduta dal premier norvegese Gro Harem Brundtland, introdusse nel dibattito pubblico il termine di sviluppo sostenibile. Quest’ultimo concetto entrava, così, nel linguaggio comune e veniva sintetizzato nei famosi due pilastri: soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le future. Questa prima definizione dà vita alla cosiddetta regola dell’equilibrio delle tre E: ecologia, equità, economia, quindi viene posta al centro del dibattito la questione del benessere delle future generazioni. In definitiva, si cerca di armonizzare le ragioni della tutela del creato e della sua custodia, con quelle dell’economia e del mercato. L’umanità, nel corso della sua storia, ha manifestato una voracità incredibile riuscendo a consumare, così tante risorse da rendere impossibile alle generazioni future, continuare sul modello di sviluppo consolidato. Modello di sviluppo che ha poi generato squilibri non più accettabili: l’effetto serra, la deforestazione, la progressiva scomparsa della biodiversità, la desertificazione, la contaminazione dell’aria, del suolo, delle acque. Questi sono tutti elementi di una crisi la cui responsabilità è da addebitare all’uomo stesso, la stessa crisi economica è conseguenza di una visione egoistica che non è più in grado di offrire risposte concrete ai bisogni reali dell’uomo e ha messo in discussione il futuro delle prossime generazioni. L’idolatria del mercato, il consumismo sfrenato e senza limiti, la distruzione dell’ambiente sono mali sociali riparabili soltanto usando in modo equo e sostenibile le risorse ancora disponibili. Agenda 21, il programma d’azione per lo sviluppo sostenibile e la Dichiarazione di Rio, a costo di tanti sforzi, hanno raggruppato in 6 argomenti le azioni prioritarie per un futuro sostenibile: 1. Costruzione di un mondo prospero: crescita dell’economia di mercato con criteri di sostenibilità. 2. Costruzione di un mondo giusto: riduzione della povertà, garanzia di una esistenza vivibile ed equa per tutti, riduzione del degrado ambientale, sostegno ai paesi in via di sviluppo.
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3. Costruzione di un mondo vivibile: risanamento urbanistico delle metropoli ormai collassate, riduzione delle periferie degradate, qualità delle abitazioni, dell’energia, del trasporto, delle reti idriche per ridurre l’inquinamento urbano e lo smaltimento dei rifiuti e delle acque di scarico. 4. Promozione di un mondo fertile: ottimizzazione della produzione agricola attraverso l’utilizzo sostenibile della terra, dell’acqua potabile, delle risorse biologiche. 5. Promozione di un mondo condiviso: uso responsabile e giusto delle risorse e azioni di cooperazione globale per la protezione delle risorse stesse. 6. Promozione di un mondo pulito: riduzione dei prodotti chimici, nocivi, tossici e loro smaltimento. È sul versante della qualità della vita che si gioca il futuro di tutti noi. Il pensiero e le teorie sullo sviluppo sostenibile e dell’eco-economia ribaltano i cardini fondamentali dell’economia basata esclusivamente sul lavoro e il capitale: per capitale si distinguono quello naturale (sistemi naturali, flora, fauna, habitat, fiumi, mari, laghi, agricoltura, pesca, beni culturali di un territorio) e quello prodotto dall’uomo. La terra sta passando da una fase storica in cui il fattore limite era il capitale prodotto dall’uomo ad un’altra in cui il fattore determinate è quello che rimane del capitale naturale. Ne deriva un nuovo approccio alla gestione di Madre Terra che punta sulla lotta alla povertà, al sottosviluppo e al miglioramento della vita per tutti. La necessità di un uso razionale e responsabile delle risorse, attraverso il cambiamento dei comportamenti di consumo, conservazione e salvaguardia dell’ambiente, lotta alla deforestazione, tutela della biodiversità, promozione dell’agricoltura. La riduzione massima degli sprechi non è solo necessità virtuosa, ma di sopravvivenza. Uno stile di vita improntata al concetto di sobrietà rafforza la qualità della vita e sostiene una crescita armonica dell’uomo. Il riciclaggio delle risorse rinnovabili, è conseguenza della strategia della sufficienza che conduce inevitabilmente ad un cambio di prospettive valoriali e di stili di vita. Rachel Carson nasce la consapevolezza ambientale Nel 1962, Rachel Carson pubblicò “Silent Spring” e denunciò al mondo, le conseguenze ambientali nefaste sul pianeta frutto dell'uso delle sostanze chimiche di sintesi e dimostrò che erano state intaccate in modo irreversibile le catene alimentari, sia terrestri che marine. Il DDT e altri pesticidi sintetici, molti dei quali soggetti a bioaccumulo, distruggono praticamente tutte le specie di insetti, compresi quelli utili all’uomo e necessari alla conservazione dell’ecosistema. L’industria chimica del settore viene accusata di diffondere intenzionalmente disinformazione fra pubblico e funzionari pubblici per fare accettare le proprie posizioni, cioè i propri interessi. Universalmente riconosciuta come la madre dell’ambientalismo contemporaneo, Rachel Carson (1907-1964), biologa e scrittrice americana, è stata un punto di riferimento fondamentale per la riflessione ecofemminista. Nei suoi scritti e interventi pubblici sfidò l’ideologia del progresso, denunciò l’irresponsabilità dell’industria chimica e l’indifferenza dei governi nei confronti dell’alterazione degli equilibri naturali e ne previde le nefaste conseguenze. La pubblicazione di Silent Spring fu un evento epocale nella storia del pensiero ecologico. L’idea che gli esseri umani fossero parte di un delicato e complesso ecosistema implicava un radicale mutamento culturale, un rovesciamento completo della tradizione di pensiero che poneva gli umani al di fuori e al di sopra della natura. Attraverso i suoi scritti, e con l’esempio della sua stessa vita, mise in discussione le ideologie dell’oppressione che impedivano alle donne la piena espressione nella società ed esercitò una rilevante influenza su scienziate, movimenti femminili e donne comuni. Il successo di vendite fece da volano per una campagna contro l’industria chimica. John Kennedy fu costretto a inserire nell’agenda di governo i primi provvedimenti ambientali. Le tesi esposte in Primavera Silenziosa, ancora oggi, dimostrano che esistono alternative all’ avvelenamento del pianeta da parte delle industrie chimiche e che il lavoro congiunto degli studiosi ambientali suggerisce soluzioni biologiche, basate sulla conoscenza degli organismi viventi. Risorse Le tappe fondamentali dello sviluppo sostenibile Codice Mondiale di Etica del Turismo Dichiarazione di Montreal per una visione umanistica e sociale del turismo Carta di Lanzarote per un turismo sostenibile Napoli, 16 luglio 2018
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Essere sognatore significa passare dal desiderio alla decisione ■Cultura
Essere sognatore significa passare dal desiderio alla decisione di Martina Tafuro Per distrarsi si perdeva a sognare che, una volta o l’altra, se ne sarebbe andato via; via di nascosto; via per sempre, senza ritornare a casa mai più. Pirandello, Fuga Ti prometto fedeltà eterna, amore mio! Promettere significa mandare avanti e la promessa è la maniera con la quale mandiamo avanti la nostra vita. Insomma, credere che ci sarà un futuro è l’orizzonte che fa da propulsore al nostro cuore. Gli uomini e le donne di questo pianeta hanno bisogno di fare sogni perché, così, credono che vale la pena sforzarsi sempre per fare un passo avanti…anche quando sono stanchi. E’ pur vero che la promessa è un’utopia che a volte diventa illusione, alcuni molte volte ci fanno promesse che non manterranno mai. Ma proprio perché la promessa somiglia a un sogno, non sempre siamo così coraggiosi da crederci.
La promessa deve prendere corpo, altrimenti resta solo una chiacchiera. I sogni sono ambizioni, progetti, immagini ideali che raccontano come vorremmo essere. Le decisioni rimandano, inevitabilmente, a un conflitto: decidere vuol dire tagliare, troncare, uscire dal bivio.
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Tutti ricordano il tempo in cui essere investito della carica di farmacista o di maresciallo del paese bastava per sentirsi appagati e realizzati. L’homo globalis è ossessionato dal pensiero unico dominante che qualsiasi cosa faccia, ci saranno sempre persone che hanno fatto meglio e più di lui, è alla continua ricerca di una vita piena di significato. Gli esperti da studio televisivo e.. anche non, ci dicono che assistere ai traguardi raggiunti dai personaggi famosi, accresce il timore di valere meno. A tutto questo dico basta! Ho una mia visione del mondo, credo in chi sa dare risposte coerenti alle domande esistenziali sulla mia presenza sul pianeta terra. Ritengo che le mie esperienze di relazione sociale debbano essere organizzabili in un sistema relazionale fatto di persone che vivo con una coerenza intima e indipendente, frutto del continuo confronto con gli altri. Insomma, vivo con onestà, cercando di fare ciò che mi è possibile, purché in linea con la mia coerenza interiore. Riccardo Petrella, in “Una nuova narrazione del mondo” paragona questa mesta società che ansima in una continua battaglia competitiva, ad un sistema religioso. La Teologia Universale Capitalista (TUC) ha la sua trinità (liberalizzazione, deregolamentazione, privatizzazione), la sua Pentecoste (la tecnologia), il suo vangelo (la competitività), i suoi teologi e i suoi evangelisti ecc. Perfino la sua nuova arca di Noè (il mercato globale). Il mercato ci viene presentato come regolato da leggi scientifiche, al pari della fisica o della biologia, ma sappiamo bene che nella realtà non lo è affatto. Le conclusioni che ci vengono date da bere come realtà naturali e immodificabili, non sono altro che montature. “Cominciare ad esercitare il nostro sacrosanto e mai proclamato diritto di sognare” ha scritto Eduardo Galeano, invitandoci ad abbandonare la devozione verso il pragmatismo in favore di una progettualità utopica, liberatrice dalla nostra interiorità Nella mia collettività non c’è più partecipazione, non vi sono più beni comuni da gestire per il bene collettivo. Barriere, sempre più pressanti, vengo costruite per arginare la forza che combatte contro la privatizzazione dei beni comuni (acqua, aria, sole, educazione ecc.), la tutela del reddito minimo, vero strumento, per il riconoscimento del diritto ad una vita degna di essere vissuta da ogni essere umano. Per poter respingere la teologia universale capitalista e inventarsi una nuova narrazione del mondo, è necessario mantenere viva la partecipazione alla vita politica e sociale. Ridare un sogno, significa ridare le condizioni perché ciascuno possa sentirsi soggetto di storia. Per dare forza ai nostri sogni e poter ri-costruire il vivere insieme dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri. Napoli, 23 luglio 2018
Martina Tafuro
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Il 30 luglio si festeggia la Giornata Internazionale dell’Amicizia
■Cultura
Il 30 luglio si festeggia la Giornata Internazionale dell’Amicizia di Martina Tafuro Ogni persona che passa nella nostra vita è unica. Sempre lascia un po’ di se e si porta via un po’ di noi. Ci sarà chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla. Questa è la più grande responsabilità della nostra vita e la prova evidente che due anime non si incontrano per caso. Jorge Luis Borges La Giornata Internazionale dell’ Amicizia (A/65/L.72) è stata proclamata nel 2011 dall’ Assemblea generale delle Nazioni Unite con l’idea che l’ amicizia tra popoli, paesi, culture e individui possa ispirare sforzi di pace e costruire ponti tra le comunità. La Giornata internazionale dell’ amicizia è un’iniziativa che segue la proposta fatta dall’ UNESCO e ripresa dall’ Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1997 (A/RES/52/13), che ha definito la cultura della pace come un insieme di valori, atteggiamenti e comportamenti che rifiutano la violenza e si sforzano di prevenire i conflitti affrontando le loro cause alla radice al fine di risolvere i problemi. Inoltre, la risoluzione (A/RES/65/275), alla base di questa celebrazione, pone un accento particolare sul coinvolgimento dei giovani, in quanto futuri leader, in attività comunitarie che comprendono culture diverse e promuovono la comprensione e il rispetto della diversità a livello internazionale.
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L’amicizia Il vostro amico è il vostro bisogno saziato. È il campo che seminate con amore e mietete con riconoscenza. È la vostra mensa e il vostro focolare. Poiché, affamati, vi rifugiate in lui e lo ricercate per la vostra pace. Quando l’amico vi confida il suo pensiero, non negategli la vostra approvazione, né abbiate paura di contraddirlo. E quando tace, il vostro cuore non smetta di ascoltare il suo cuore: Nell’amicizia ogni pensiero, ogni desiderio, ogni attesa nasce in silenzio e viene condiviso con inesprimibile gioia. Quando vi separate dall’amico non rattristatevi: La sua assenza può chiarirvi ciò che in lui più amate, come allo scalatore la montagna è più chiara della pianura. E non vi sia nell’amicizia altro scopo che l’approfondimento dello spirito. Poiché l’amore che non cerca in tutti i modi lo schiudersi del proprio mistero non è amore, ma una rete lanciata in avanti e che afferra solo ciò che è vano. E il meglio di voi sia per l’amico vostro. Se lui dovrà conoscere il riflusso della vostra marea, fate che ne conosca anche la piena. Quale amico è il vostro, per cercarlo nelle ore di morte? Cercatelo sempre nelle ore di vita. Poiché lui può colmare ogni vostro bisogno, ma non il vostro vuoto. E condividete i piaceri sorridendo nella dolcezza dell’amicizia. Poiché nella rugiada delle piccole cose il cuore ritrova il suo mattino e si ristora. Kahlil Gibran Questa giornata si prefigge anche di sostenere gli obiettivi e le finalità della Dichiarazione e del Programma di Azione per la una Cultura di Pace e del Decennio Internazionale per una Cultura di Pace e di Non-violenza per i Bambini nel Mondo (2001-2010) (A/RES/53/25). Con quest’ultima risoluzione l’Assemblea generale ha riconosciuto che enormi sofferenze sono causate ai bambini attraverso diverse forme di violenza. Ha sottolineato che la promozione di una cultura di pace e non violenza dovrebbe essere instillata nei bambini attraverso l’educazione. Se i bambini imparano a vivere insieme in pace e armonia, contribuiranno al rafforzamento della pace e della cooperazione internazionale. Per celebrare la Giornata internazionale dell’Amicizia, l’ONU incoraggia i governi, le organizzazioni internazionali e i gruppi della società civile a organizzare eventi, attività e iniziative che contribuiscano agli sforzi della comunità internazionale per promuovere un dialogo tra civiltà, solidarietà, comprensione reciproca e riconciliazione.
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Il nostro mondo deve affrontare molte sfide, crisi e forze di divisione, come la povertà, la violenza e le violazioni dei diritti umani che minano la pace, la sicurezza, lo sviluppo e l’ armonia sociale tra i popoli del mondo. Per affrontare queste sfide, le loro cause profonde devono essere affrontate promuovendo e difendendo uno spirito condiviso di solidarietà umana, che assume molte forme la più semplice delle quali è l’amicizia. Attraverso l’ amicizia possiamo contribuire ai cambiamenti fondamentali che sono urgentemente necessari per raggiungere una stabilità duratura, tessere una rete di sicurezza che ci protegga tutti e generare passione per un mondo migliore in cui tutti sono uniti per il bene più grande. La Dichiarazione e il Programma di azione per una cultura di pace (A/RES/53/243), adottati nel 1999, stabiliscono 8 aree di azione per le nazioni, le organizzazioni e le persone da intraprendere affinché prevalga una cultura della pace: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
promuovere una cultura della pace attraverso l’ educazione; promuovere uno sviluppo economico e sociale sostenibile; promuovere il rispetto di tutti i diritti umani; garantire l’ uguaglianza tra donne e uomini; favorire la partecipazione democratica; comprensione anticipata, tolleranza e solidarietà; sostenere la comunicazione partecipativa e il libero flusso di informazioni e conoscenze; promuovere la pace e la sicurezza internazionali.
Documenti utili
UN General Assembly designates 30 July as the International Day of Friendship (2011) General Assembly resolution on a Culture of Peace (1998) Proclamation of the year 2000 as the International Year for the Culture of Peace (1998) Declaration and Programme of Action on a Culture of Peace (1999) General Assembly declares 21 September as the International Day of Peace (2001) International Decade for a Culture of Peace and Non-violence for the Children of the World, 2001-2010 Resolution adopted by the General Assembly in 1998 (A/RES/53/25) Resolution adopted by the General Assembly in 2001 (A/RES/55/47) Report of the Secretary-General (September 2000)(A/55/377) Report of the Secretary-General (September 2001) (A/56/349) Note by the Secretary-General (August 2009)(A/64/312) Convention on the Rights of the Child Declaration on the Elimination of All Forms of Intolerance and of Discrimination Based on Religion or Belief
Risorse
UNESCO Culture of Peace International Day for Tolerance World Day for Cultural Diversity Alliance of Civilizations International Year for the Rapprochement of Cultures International Day of Peace
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International Year of Youth Committee on the Rights of the Child Children and Armed Conflict Napoli, 28 luglio 2018
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Extraterrestri in campagna. Il mondo delle fattorie didattiche ■Cultura
Extraterrestri in campagna. Il mondo delle fattorie didattiche di Martina Tafuro Cosa è una Fattoria didattica… E’ una azienda agricola, agrituristica, un’impresa agroalimentare o un museo della civiltà contadina in possesso dei necessari requisiti in termini di significatività, qualità dell’offerta didattica, sicurezza, ospitalità e in grado di offrire servizi di accoglienza, in particolare per le scolaresche, al fine di illustrare i processi produttivi, i metodi di produzione alimentare, la correlazione esistente tra la produzione agricola e la salvaguardia delle risorse naturali del territorio, valorizzare i prodotti tipici, evidenziare il lavoro dell’agricoltore e le iniziative che intraprende per produrre nel rispetto dell’ambiente. L’idea di offrire un servizio di tipo sociale da parte di chi lavora in campagna è nata circa 100 anni fa, in modo spontaneo e non coordinato, in Europa e Nord America. Nel 1902, la nascita del 4H nell’Ohio, Stati Uniti. Il primo club è stato chiamato “The Tomato Club” o il “Corn Growing Club”. Nello stesso anno nel Minnesota partono local agricultural after-school clubs and fairs che nel 1912 sono stati chiamati 4-H club. Il quadrifoglio era diventato il simbolo di quello che sarebbe diventato il più grande movimento giovanile rurale del mondo.
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Un valido esempio è anche la Green Chimneys Farm for Little Folk, sorta nella periferia di New York, inaugurata nel 1948 dal giovane Samuel Ross con lo scopo di fornire un ambiente amorevole per i bambini, con l’esperienza unica di interagire e curare gli animali. Oggi questa fattoria accoglie più di 200 studenti che realizzano programmi scolastici residenziali. Agli inizi del ‘900 nel Nord Europa si è assistito al sorgere di molte strutture la cui finalità è quella di garantire uno sviluppo armonico dell’individuo attraverso il contatto con l’ambiente naturale. In Svezia nel 1918 è stato istituito il Jordbrukare-Ungdomens Förbund (JUF) una confederazione di giovani agricoltori. Nel 1924 si è deciso di mettere in pratica le idee del movimento americano: i Club 4H. Quattro parole inglesi che iniziano con la lettera H (Head, Health, Heart, Hand) e riassumono l’obiettivo teso ad uno sviluppo armonico dell’individuo: la testa, la salute, il cuore, le mani. L’Association of Swedish 4H è nata nel 1960. In Germania si comincia a parlare di tematiche legate alle fattorie didattiche già alla fine della seconda guerra mondiale. Allo sviluppo dell’urbanizzazione si accompagna, infatti, la creazione di Aktivspielplätze, i parchi giochi “attivi”, il primo parco avventura a Berlino e la prima fattoria giovani a Stoccarda. Nel 1972 la prima City Farm è stata fondata nel Kentish Town, Londra. La nascita delle City Farms in Gran Bretagna diviene la soluzione per recuperare luoghi abbandonati, spesso trasformati in discariche nelle zone urbane periferiche, oppure è l’unione di un gruppo di giardini familiari e di fattorie urbane: la Federazione delle City Farms e dei Community Gardens. In Francia, la prima Fattoria Urbana è stata costituita nel 1974 nella periferia di Lille sull’esempio delle esperienze nordeuropee. Dal 1985 è inoltre attivo il Gifaè (Gruppo internazionale Fattorie d’Animazione e Didattiche) che raccoglie fattorie in Francia, ma anche in Belgio, Spagna, Portogallo e Svizzera Qubec e che si impegnano rispettare la Carta della qualità del gruppo. Nel 1990 nasce la European Federation of City Farms (EFCF). Nell’anno 1997 Italia, sull’esempio di quanto avveniva nel nord Europa, Alimos Soc. Coop. (l’allora Osservatorio Agroambientale) ha organizzato, con il sostegno della Provincia di ForlìCesena il primo gruppo permanente di fattorie didattiche grazie alla collaborazione di imprenditori agricoli che si sono organizzati nella Rete delle fattorie didattiche romagnole. Le prime esperienze italiane sono state presentate nel 1997 nell’ambito del primo Meeting Agriscuola+è organizzato da Alimos con la partecipazione della Federazione Europea delle City Farms. La fattoria didattica è un’azienda: ecocompatibile, perché adotta sistemi di produzione biologica, integrata e tipiche di qualità; accogliente, perché dispone anche di un luogo di accoglienza coperto e riscaldato per la realizzazione delle attività didattiche in caso di maltempo e in tutti i periodi dell’anno; attrezzata, perché ospita grazie agli arredi indispensabili per realizzare le attività, servizi igienici riservati agli ospiti, adeguata pulizia; educativa, perché ha predisposto percorsi didattici attivi sull’educazione ambientale, alimentare, al gusto e alla ruralità, realizzabili in funzione dell’età dell’utente; sicura, perché rispetta le norme sanitarie e di sicurezza vigenti, ha limitazioni d’accesso o segnalazioni di pericolo dove opportune e un’assicurazione di responsabilità civile che includa i rischi di intossicazione alimentare. Risorse: Albo delle fattorie didattiche della Campania Napoli, 2 agosto 2018
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Nutrirsi e non essere nutriti. Riflessioni sul cibo dal sapore amaro. ■Cultura
Nutrirsi e non essere nutriti. Riflessioni sul cibo dal sapore amaro. di Martina Tafuro Anno Domini 1985, nello stato americano dell’Indiana, Forrest Davis, un operaio saldatore specializzato, decide che è venuto il momento del suo american dream, mettersi in proprio e realizzare il suo sogno. Fonda la Goliath Casket (il feretro di Golia), premiata società di servizi funebri. Dopo un’attenta analisi del mercato rileva che il quindici per cento degli emancipati e paffuti suoi concittadini sono in sovrappeso, intuisce che il mercato è in forte espansione. Invade, perciò, il mercato con un’offerta di prodotti che non ha eguali. Nasce il mercato della bara gigante! E’ un successo strepitoso e allora Forrest, da un solo modello all’anno dell’esemplare a tripla grandezza offerto con solo due dimensioni e un colore, passa a piazzarne più di cinque… al mese. L’offerta è comprensiva di una gamma completa di formati a partire da 2 fino a 52 pollici di larghezza e una lunghezza massima di 8 piedi, nelle varianti blu, bronzo e oro e nella versione deluxe la si può abbinare con maniglie dorate e cuscini imbottiti. Insomma, Dio è morto e gli obesi, solo e soltanto loro, sono responsabili della loro triste condizione, non sono capaci di tenere a freno il loro vorace istinto del trangugiare spasmodicamente. Perché avviene questo? Perché analizzare il tema dell’obesità, significa indagare a fondo sul modo di vivere delle cosiddette società avanzate, infatti gli innumerevoli maestri spirituali del dio cibo distolgono l’attenzione dal reale problema. Nel 1996 esce nelle sale SubUrbia un film diretto da Richard Linklater, basato su testo teatrale di Eric Bogosian. E’ il ritratto amaro della provincia americana, in cui alcuni ragazzi si ritrovano nel Martina Tafuro
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parcheggio di un market gestito da due pakistani, aperto tutta la notte. Tra chiacchiere e alcool, c’è chi progetta di lasciare la città, sperando in un futuro migliore e chi invece non vuole lasciare quel piccolo e rassicurante universo. Ho avuto modo di vederlo in un recente incontro in parrocchia e dal dibattito scaturito dopo la visione è venuto fuori che è opportuno chiedersi se non sia auspicabile che il business globale dell’alimentazione esali l’ultimo respiro e nascerà un esercito liberatore che distruggerà l’insostenibile cultura dei suburbia, le sterili periferie di lusso. Prendiamo il Vulcano Buono, il centro commerciale costruito a ridosso del Cis di Nola, non è altro che un santuario vuoto, luogo affollato di anime in cerca di un spazio usato per sedute collettive di psicanalisi sociale spicciola, con al centro lui: il cibo, la suadente ossessione dell’ homo oversize. A Cancun, nel 2003, si trattò la liberalizzazione completa della produzione agricola e alimentare, con l’equazione cibo uguale merce si pretese di regolare la produzione agricola del pianeta in modo che ogni contadino lavorasse per un mercato mondiale. In quella infausta sede, si decise la completa supremazia del commercio e delle sue regole su tutti gli accordi internazionali sull’ ambiente in nome del diritto alla libera concorrenza globale. Prima di invitare i super amministratori del pianeta a leggere tutti i testi che i babilonesi dedicarono alla zappa. Comunque sia, è innegabile che le merci nascono dalla natura, poichè ogni attività umana diretta a produrre un bene o un servizio, ha conseguenze sulla natura, nel senso di toglierle materia nobile, energia, acqua, calore, E al tempo stesso aggiungono scorie e inquinamento. Lo sviluppo è sempre insostenibile. Questo non vuol dire che occorra stare fermi e seduti, o viceversa che, essendo tutto inutile, sia molto meglio lasciar fare, lasciar passare. Dobbiamo decidere se vogliamo dare un futuro all’umanità e allora c’è bisogno di costruire una società fondata su altre regole economiche e su nuovi stili di vita. In ogni caso, il diritto al cibo è innegabile e irrinunciabile da parte di qualsiasi essere umano. Non è utopia questa! Napoli, 6 agosto 2018
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Cristiani uniti per il Creato. Camminare insieme e mai rassegnarsi! ■Cultura
Cristiani uniti per il Creato. Camminare insieme e mai rassegnarsi! di Martina Tafuro Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno. Genesi vv. 8-22 La Chiesa Cattolica, ogni anno il 1 settembre, celebra la Giornata per la Custodia del Creato. Coltivare l’alleanza con la terra è il tema di questa tredicesima Giornata. La comunità cattolica, attraverso la voce dei suoi vescovi, ci invita a disinvestire dalle fonti fossili e a promuovere un lavoro dignitoso in ottica ambientale. Occorre ritrovare il legame tra la cura dei territori e quella del popolo, anche per orientare a nuovi stili di vita e di consumo responsabile, così come a scelte lungimiranti da parte delle comunità. Nel Messaggio si evidenzia di come oggi ci si senta talvolta “come se tale alleanza fosse intaccata”: dalle devastazioni dei fenomeni atmosferici, a causa del cambiamento climatico e all’inquinamento diffuso. Per questo “talvolta si fa strada un senso di impotenza e di disperazione, come fossimo di fronte ad un degrado inevitabile della nostra terra”.
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Tuttavia, Papa Francesco già nell’enciclica Laudato si , aveva esortato “a non cedere alla rassegnazione”, perché come scritto nella Genesi: “Finché durerà la terra, seme e mèsse, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno” e tutti noi siamo sicuri che: “Dio promette un futuro in cui l’umanità e gli altri viventi possano fiorire nella pace”. E’ importante, però, che tutti contribuiscano, perché la “gravità del mutamento climatico in atto”, al di là di quanto affermato da certe “forme di negazionismo antiscientifico”, è evidente che esso “sia legato in gran parte a comportamenti umani, che possiamo modificare”. Per questo, è importante sottolineare, come scritto da Francesco, che: “la pace interiore delle persone è molto legata alla cura dell’ecologia e al bene comune, perché, autenticamente vissuta, si riflette in uno stile di vita equilibrato unito a una capacità di stupore che conduce alla profondità della vita”. Infatti nel secondo capitolo della Laudato sì sottolinea “come quel mondo creato, che ci è dato come dono buono, sia anche affidato alla cura delle nostre mani, per custodirne l’abitabilità preziosa”. Ecco, allora, “che lo sguardo preoccupato per la devastazione del territorio a seguito del riscaldamento globale dovrà farsi attiva opera di prevenzione”, afferma la CEI. Si tratterà di “proteggere città e campagne con serie misure di adattamento, in grado di favorire la resilienza di fronte ad eventi estremi” e “di promuovere un’azione di mitigazione, che contribuisca a contenere i fattori che li determinano”. Per i vescovi italiani, particolare rilievo avrà in tal senso la Conferenza internazionale Cop 24, che si terrà a Katowicze in Polonia nel dicembre 2018: è un’occasione “per ripensare ed approfondire le iniziative contro il mutamento climatico avviate tre anni fa dalla precedente Cop 21 svoltasi a Parigi”. Sarà importante, “che l’Italia svolga un ruolo attivo e lungimirante in tale contesto, proponendo impegni realistici ed ambiziosi per l’azione della comunità internazionale. Il criterio sarà quello di un bene comune inteso in prospettiva ampia, ad includere le generazioni future e tutte le creature”. L’essere umano nello svolgere la sua vocazione cristiana deve essere in grado di custodire la terra per farsi, “carico…delle fragilità ambientali di fronte agli impatti del mutamento, in una prospettiva di cura integrale”. Da ultimo, un richiamo alla dimensione ecumenica, dal momento che si tratta di “una sfida che le Chiese cristiane stanno imparando ad affrontare assieme, riscoprendo in orizzonte ecumenico l’impegno comune per la cura della creazione di Dio. La celebrazione condivisa del Tempo del Creato è anche un segno importante nel cammino verso la comunione tra le Chiese: ne ha dato una testimonianza importante il messaggio inviato nel 2017 da Papa Francesco col Patriarca ecumenico Bartolomeo I di Costantinopoli”. Insomma, intraprendere un rinnovato stile di vita, dove la comunione con gli altri uomini è l’elemento determinante per le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti scaturisce da una grande attenzione nei confronti del creato, pensando che esiste una grande reciprocità tra noi, il prossimo, la creazione e Dio. Nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite esso, si prende cura di noi, poiché l’approccio cristiano mette Dio creatore al primo posto, l’uomo come prima creatura e il creato come dono di Dio all’uomo affinché nel creato l’uomo, ogni uomo, tutto l’uomo si sviluppi e faccia sviluppare lo stesso in tutte le sue componenti: uomini, animali, piante. Martina Tafuro
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La visione cristiana è il camminare insieme dell’uomo e dell’ambiente verso Dio. “La nostra celebrazione non può, però, dimenticare le ferite di cui soffre la nostra terra, che possono essere guarite solo da coscienze animate dalla giustizia e da mani solidali. Guarire è voce del verbo amare, e chi desidera guarire sente che quel gesto ha in sé una valenza che lo vorrebbe perenne, come perenne e fedele è l’Amore che sgorga dal cuore di Dio e si manifesta nella bellezza nel creato, a noi affidato come dono e responsabilità. Con esso, proprio perché gratuitamente donato, è necessario anche riconciliarsi quando ci accorgiamo di averlo violato”. 30 agosto 2018
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Il cammino delle donne per lo sviluppo nel dibattito internazionale ■Cultura
Il cammino delle donne per lo sviluppo nel dibattito internazionale di Martina Tafuro “Genere è la definizione socialmente costruita di donne e uomini. E’ l’immagine sociale della diversità di sesso biologica, determinata dalla concezione dei compiti, delle funzioni e dei ruoli attribuiti a donne e uomini nella società e nella sfera pubblica e privata. E’ una definizione di femminilità e mascolinità culturalmente specifica, che come tale varia nello spazio e nel tempo (…) Genere non è solo una definizione socialmente costruita di donne e uomini, è anche una definizione culturalmente costruita della relazione tra i sessi. In questa definizione è implicita una relazione ineguale di potere, col dominio del maschile e la subordinazionedel femminile nella maggioranza delle sfere della vita” Consiglio d’Europa (1998). Gender mainstreaming: conceptual framework, methodology and presentation of good practices Il percorso portato avanti contro le discriminazioni delle donne e le lotte per l’affermazione dell’uguaglianza di genere, prende le mosse nei primi anni settanta. E’ in questo determinato periodo storico che il tema “donne e sviluppo” entra nel dibattito internazionale, in concomitanza con la travolgente diffusione del movimento femminista. Cronologicamente, è con l’approvazione della Convenzione per l’abolizione delle discriminazioni contro le donne (CEDAW), da parte delle Nazioni Unite nel 1979, che si avvia il dibattito e la lotta per le conquiste femminili. Successivamente si sono svolte le Conferenze Mondiali sulle Donne di Copenhagen (1980) e Nairobi (1985) e la Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna (1993). In tutte queste sedi, è stato affermato il principio di parità, di opportunità, di retribuzione, di diritti nella sfera pubblica e privata, oltre che l’eliminazione di ogni forma di discriminazione sessuale e di violenza nei confronti del genere femminile. Il punto di svolta del percorso di lotta è stato raggiunto con la Quarta Conferenza Mondiale delle Donne di Pechino (1995).
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Punto di svolta, perché a Pechino si registra un cambio nei contenuti e nelle azioni intraprese nelle lotte per la risoluzione della questione femminile, essenzialmente in riferimento al dualismo sviluppo/sottosviluppo. Due concetti in particolare, il gender mainstreaming e l’empowerment entrano a far parte del processo sociale e culturale, che investe il modo di affermare diritti, interessi, obblighi e opportunità dell’universo femminile e del mondo maschile. Il progetto che nasce con la Conferenza di Pechino non è: “rivolto ad incidere soltanto sulle condizioni di vita e di lavoro delle donne, bensì inteso a rimodellare la realtà complessiva a partire dalla forza delle donne come soggetti capaci di portare cambiamento”. Iniziano, così, a crearsi tutti quegli strumenti e mezzi tesi a favorire percorsi di uguaglianza di genere nelle politiche di cooperazione e, soprattutto, per educarsi a un nuovo modo di leggere il rapporto tra donne e uomini nello sviluppo equamente centrato su entrambi i sessi e non focalizzato esclusivamente su l’uno o l’altro.
Parallelamente all’istituzionalizzazione della questione “donne e sviluppo”, nascono nuovi percorsi per combattere le diseguaglianze. Nell’approccio conosciuto come WID Women in Development (Donne nello Sviluppo), elaborato negli anni settanta, le risorse dello sviluppo venivano utilizzate per migliorare la condizione femminile e spiegare il ruolo delle donne nella realtà sociale. In altri temini, le donne venivano considerate, così, una categoria prioritaria di beneficiari dei progetti di sviluppo. Era, in ogni caso, un passaggio obbligato che semplificava la riflessione teorica e l’analisi delle esperienze pratiche e portava alla definizione dell’approccio di genere (GAD). La logica di tipo GAD Gender and Development (Genere e Sviluppo), è figlia degli anni ’90, rappresentazione dello specchio di una società a democrazia partecipata alla continua ricerca di una più equa distribuzione del potere tra donne e uomini. L’introduzione della categoria (GAD) permette di cambiare radicalmente la percezione e la comprensione delle relazioni tra uomo e donna. Attraverso di essa le disuguaglianze non sono più assunte come evidenze statiche, ma interpretate come prodotti dinamici della società, della cultura, dell’organizzazione economica e delle relazioni di potere. Nel 2000 la Dichiarazione del Millennio lanciò gli Obiettivi da raggiungere in quindici anni tra i quali quello destinato alla promozione dell’equità di genere e dell’empowerment delle donne, oggetto di quest’articolo. Nel 2011, a vent’anni dalla Conferenza di Rio, concetti quali sostenibilità, equità ed empowerment sono punti essenziali sui quali l’ultimo Rapporto annuale dell’UNDP “Sustainability and Equity: A Better Future for All” , proprio del 2011, ritiene di dover partire per costruire un futuro migliore per tutti. L’ultimo documento rilevante è l’impegno strategico a favore della parità di genere 20162019 dove è indicata la necessità di integrare una prospettiva di parità in tutte le attività e le politiche dell’Ue. Sono diverse le istituzioni e gli organismi che hanno il compito di tutelare e coordinare il lavoro per raggiungere. Attualmente, all’interno della Commissione europea c’è l’unità per l’uguaglianza di genere all’interno della Direzione Generale per la Giustizia e i Consumatori che se occupa. L’Unità della Commissione si avvale della collaborazione dell’ European Institute for Gender Equality (EIGE) che ha sede a Vilnius (Lithuania). Parallelamente esiste anche la Commissione per i Diritti delle donne e l’uguaglianza di genere (FEMM) del Parlamento Europeo, che promuove azioni all’interno del più alto organo rappresentativo dell’Unione europea. Focus sul cammino delle donne tra WID e GAD Finalità Strategie Rappresentazione descrittiva Martina Tafuro
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Lo scopo dello sviluppo è quello di rendere le donne madri sempre migliori. Le donne sono viste come beneficiarie passive dello sviluppo. Si riconosce il ruolo riproduttivo della donna e le strategie sono principalmente rivolte a Benessere Prime strategie fornire aiuti alimentari, a offrire misure contro la Assistenza 1950-70 malnutrizione e la pianificazione famigliare. Le politiche macroeconomiche di riferimento sono quelle della crescita accelerata attraverso strategie per il soddisfacimento dei bisogni primari. Lo scopo è quello di ottenere equità per le donne che sono viste come partecipanti attive allo Sviluppo in un’ottica Origini approccio WID generale di redistribuzione delle risorse. Vengono Women’s Decade delle riconosciute le tre dimensioni del ruolo della donna Equità Nazioni Unite (riproduttivo, produttivo e comunitario) e la 1975-1985 priorità dell’intervento è di assegnare autonomia economia e politica alle donne riducendo la distanza che le separa dagli uomini. Lo scopo principale è quello di aumentare la produttività delle donne a basso reddito. La povertà femminile è vista Seconda fase come un problema di sottosviluppo e non di Anti approccio WID subordinazione. Viene riconosciuto il ruolo produttivo delle povertà dal 1970 in poi donne e le priorità dell’intervento sono quelle di favorirne i guadagni soprattutto all’interno di progetti su piccola scala. Terza fase Lo scopo è quello di assicurarsi che lo sviluppo sia più approccio WID efficiente ed efficace attraverso il contributo economico dal 1980 al 1990 delle donne e la partecipazione è spesso messa sullo stesso Efficienza parallelamente alla crisi piano dell’equità. Si cerca di rispondere ai bisogni e alle del debito dei paesi in priorità dei ruoli della donna con un approccio flessibile ai via di sviluppo tempi delle donne. Prima fase L’obiettivo è di rafforzare le donne attraverso approccio post WID l’autorganizzazione (self–reliance). Si riconoscono i tre Empowerment o prima fase GAD ruoli delle donne e si cerca di rispondere ai bisogni e alle favorito dalle donne dei priorità strategiche delle donne indirettamente attraverso la paesi in via di sviluppo mobilitazione dal basso sui bisogni pratici di genere. Approccio GAD Si introduce il concetto di equità come diritto umano e si emerso dalla quarta sottolinea che le questioni della condivisione del potere e Equità Conferenza delle una più equa partnership tra donne e uomini sono Diritti umani Donne prerequisiti sociali, economici e politici per uno sviluppo di Pechino del 1995 sostenibile e centrato sulla persona. fonte: Gender in Development Programme. Learning and Information Pack Napoli, 3 settembre 2018
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15 settembre Giornata Internazionale della Democrazia: la lezione delle api.
15 settembre Giornata Internazionale della Democrazia: la lezione delle api. di Martina Tafuro Il termine democrazia deriva da due parole greche: demos che significa popolo e kratein che significa regnare. Il termine demokratia, inteso come potere del popolo, divenne comune fra i greci, in particolare con Tucidide e Aristofane, ma in seguito anche con Erodoto. Ad Atene si stabilirono i fondamenti essenziali della democrazia: con Clistene, con l’uso del termine uguaglianza. Nel discorso funebre per Pericle furono menzionati tre ideali: diritto, libertà ed uguaglianza. Api democratiche Presso il convento dei frati Cappuccini di Nola è arrivato da poco tempo Padre Valentino, esperto e appassionato apicoltore. Subito si è messo all’opera per ripristinare le vecchie arnie abbandonate e attivarsi per la produzione del miele. Questa attività, insolita e appassionante per il nostro mondo iperveloce, è stata per me da stimolo alla riflessione. Innanzitutto, in che modo le api trovano casa nel momento in cui decidono di sciamare? Il buon frate mi spiegava che ogni primavera la vecchia regina, con una parte della sua corte, lascia il suo regno per fondarne uno nuovo. Una volta presa la decisione, le api esplodono, volando fuori dall’arnia e si raccolgono a mò di palla ronzante attaccandosi a qualche albero nelle vicinanze. Da qui, spiccheranno il volo verso una nuova casa, impiegando un lasso di tempo che va da pochi minuti a intere giornate. In verità ho visto, qualche volta, uno sciame e osservando tutta quella massa di api appallottolata sparire all’orizzonte, mi son chiesto: “Cosa guida il loro viaggio, sanno dove andare, si muovono a casaccio o sperano di imbattersi in un’abitazione adatta a loro?”. Valentino, ormai siamo al tu, mi spiega che prima del trasloco, alcune operaie, nel ruolo di esploratrici, vanno alla ricerca del posto ideale. Insomma, sono degli agenti immobiliari che selezionano le varie offerte da proporre al cliente! Martina Tafuro
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La nuova residenza dovrà avere tre caratteristiche principali: il volume della cavità, l’altezza dal suolo e le dimensioni dell’ingresso. Le api/agenti immobiliari, esplorano tutti i luoghi papabili nel raggio di parecchi chilometri, per scoprire la soluzione giusta da portare in assemblea. Pensate che, questi piccoli esserini, hanno la capacità di determinare altezza, profondità, esposizione e di tornare nell’alveare a riferirle attraverso una danza particolare. L’ape che presenta il balletto più vigoroso ed energico, ha più chance di convincere tutte le altre della solidità della sua proposta, chiamandole ad esplorare insieme a lei il luogo scoperto per stimarne le qualità. Soltanto dopo questa consultazione democratica le altre esploratrici/agenti, accettano la nuova soluzione, lo sciame, così, può librarsi in volo. Nel democrazia delle api il principio della realtà sostituisce il principio dell’onestà. La società delle api prevede un cammino di crescita per ogni esemplare. Le api appena nate fanno le spazzine, poi aiutano le sorelle a crescere, quindi passano a fare le guardiane sulla porta dell’arnia e infine, nell’ultima fase della loro vita, vanno in giro a raccogliere il nettare e a fare le agenti immobiliari. Sono, proprio, questi passaggi obbligatori che consentono alla società delle api di reggere una collettività strutturalmente complessa. Che cosa accadrebbe se fosse inviata una spazzina a fare l’esploratrice? Sicuramente, accecata dal suo senso di pulizia, sceglierebbe una casa qualsiasi. Ecco allora che entra in gioco la potenza salvifica della democrazia, perché le esploratrici più esperte andrebbero a controllare e salverebbero così lo sciame da sicura morte. In conclusione, l’esempio della democrazia delle api ci dice che nella gestione della cosa pubblica bisogna mettere al centro la ricerca del bene comune! 15 settembre 2018: Giornata Internazionale della Democrazia Nel 2007 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella risoluzione A/62/7 incoraggia i governi a rafforzare i programmi nazionali dedicati alla promozione e consolidamento della democrazia, e proclama la Giornata Internazionale della Democrazia da osservarsi il 15 Settembre di ogni anno. Con l’istituzione della Giornata Internazionale della Democrazia, l’Onu, intende offrire l’opportunità di esaminare lo stato della democrazia nel mondo. La democrazia è tanto un processo come un obiettivo, e solo con la piena partecipazione e il sostegno della comunità internazionale, organi di governo nazionali, la società civile e gli individui, può l’ideale della democrazia essere trasformato in una realtà per essere goduto da tutti, in tutto il mondo. I valori di libertà, rispetto dei diritti umani e il principio di tenere periodiche e veritiere elezioni a suffragio universale sono elementi essenziali della democrazia. A sua volta, la democrazia offre l’ambiente naturale per la protezione e la effettiva realizzazione dei diritti umani. Questi valori sono sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ulteriormente sviluppate nel Patto internazionale sui diritti civili e politici. Il legame tra democrazia e i diritti umani è trattato dall’ articolo 21 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, in cui si afferma: “La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione”. Napoli, 13 settembre 2018
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Risparmiatori responsabili per essere socialmente responsabili
Risparmiatori responsabili per essere socialmente responsabili di Martina Tafuro https://www.youtube.com/watch?v=1KrEH5FP3rM&feature=youtu.be prima di leggere clicca sull’icona e scopri se sei un risparmiatore responsabile E’ possibile, nel mondo del turbo capitalismo sfrenato, avere un ritorno finanziario e nello stesso tempo originare, un efficace e duraturo, impatto socio-ambientale dagli investimenti? Generare tale effetto positivo, è il principio alla base dell’ impact investing, una strategia di investimento sostenibile e responsabile (o SRI) che si sta diffondendo sempre più nel corso degli ultimi anni. Confermano questa crescita i dati per il 2017 raccolti dal Global Impact Investing Network (GIIN) l’organizzazione internazionale di riferimento per l’impact investing, nel recente rapporto annuale dedicato all’analisi dei principali trend di mercato. L’Annual Impact Investor Survey 2018 si basa sulle risposte di 229 investitori rappresentati principalmente da gestori di fondi, banche e fondazioni, il 47% in USA e Canada e il 30% in Europa occidentale. Nell’insieme, i rispondenti hanno destinato $228 miliardi di asset in investimenti a impatto socio-ambientale. Nello scorso anno hanno investito $35,5 miliardi, per un totale di 11136 operazioni, di contro gli 82 soggetti che hanno partecipato all’indagine anche nel 2013 hanno registrato un aumento dei volumi del 27% rispetto a 5 anni fa. Questa dinamica non sembra trovare, per ora, un argine: i rispondenti hanno espresso l’intenzione di aumentare dell’8% il capitale investito in progetti di impact investing nel 2018. Secondo il Rapporto i principali settori d’intervento sono stati: servizi finanziari (19%), energia (14%) e microfinanza (9%). Inoltre è da sottolineare che, dal punto di vista geografico gli investimenti si sono concentrati in USA e Canada (20%), in America Latina e Caraibi (16%) e in Africa Subsahariana (12%). La Commissione Europea, attenta alle dinamiche finanziarie, ha pubblicato lo scorso 8 marzo 2018, il Piano d’Azione sulla finanza sostenibile, dove illustra le misure che la Commissione intende adottare per orientare il mercato dei capitali verso un modello di sviluppo sostenibile, inclusivo e in linea con gli impegni assunti nell’ambito dell’Accordo di Parigi sul clima. Martina Tafuro
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Il documento recepisce gran parte delle raccomandazioni dell’High-Level Expert Group on Sustainable Finance. Le misure introdotte dalla Commissione puntano a: orientare i flussi di capitale verso investimenti sostenibili; gestire in modo più efficace i rischi finanziari che derivano dal cambiamento climatico, dal consumo di risorse, dal degrado ambientale e dalle disuguaglianze sociali; migliorare la trasparenza e incoraggiare un approccio di lungo periodo delle attività economico-finanziarie.
Altro importante contributo per uno sviluppo sostenibile dei mercati finanziari viene dall’ Eurosif – European Sustainable Investment Forum, organizzazione europea la cui missione è la promozione dello sviluppo sostenibile attraverso i mercati finanziari. Eurosif lavora in collaborazione con i Sustainable Investment Forum (SIF) nazionali, con il diretto supporto della loro rete di Soci, che comprende oltre 500 organizzazioni europee attive nel settore degli investimenti sostenibili, tra cui: investitori istituzionali, asset manager, fornitori di servizi finanziari, index provider, società di ricerca e analisi ESG, per un totale di oltre €1.000 miliardi di asset in gestione. Eurosif è anche membro fondatore della Global Sustainable Investment Alliance, la coalizione dei più grandi SIF su scala mondiale. Le principali attività di Eurosif rientrano negli ambiti: policy pubbliche, ricerca e creazione di piattaforme per promuovere best practice in ambito SRI. L’Eurosif, identifica sette principali strategie per selezionare i destinatari del finanziamento: Esclusione di settori o attività controverse. Dai possibili destinatari dell’investimento sono esclusi, totalmente o sulla base di una soglia massima di ricavi realizzati da operazioni controverse, gli emittenti (principalmente imprese) coinvolti in attività ritenute dannose per la società, come la produzione di alcol, tabacco, armi, coinvolgimento nel gioco d’azzardo e pornografia, o per l’ambiente, come la produzione di organismi geneticamente modificati, l’energia fossile e nucleare. Rispetto di norme e standard internazionali. Vengono esclusi dai possibili investimenti gli emittenti (imprese e Stati) accusati da fonti autorevoli di gravi violazioni di norme internazionali legate a temi ambientali, sociali e di governo (Environment Society Governance - Esg), quali il rispetto dei diritti umani, delle convenzioni internazionali sulla biodiversità o la corruzione. Tra le principali norme cui si fa riferimento vi sono le Convenzioni, quali la Convenzione internazionale dei diritti civili e politici o quella sull’abolizione del lavoro forzato, e i progetti definiti in sede Onu o presso le sue Agenzie (tra cui Ilo, Unep, Unicef, Unhcr, Global Compact). Selezione Best-in-Class Esg.
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Un voto Esg, attribuito agli emittenti (imprese o Stati), ne riassume l’esposizione a rischi di natura ambientale, sociale e di governo e la capacità di gestirli in modo tempestivo ed efficace. Vengono privilegiati gli emittenti con un voto più alto all’interno di un gruppo omogeneo, secondo l’approccio Best-in-Class. A differenza delle strategie precedenti, questo approccio non esclude a priori uno specifico settore, un’attività o un Paese, ma privilegia gli emittenti che soddisfano al meglio determinati criteri Esg ritenuti importanti dai gestori degli investimenti. Investimenti tematici. Gli investimenti vengono indirizzati verso aree o attività legate allo sviluppo della sostenibilità. Gli investimenti tematici si focalizzano su cambiamenti climatici, efficienza energetica, gestione delle risorse idriche, salute e altro. Integrazione. Questa strategia prevede che i gestori del risparmio, quali Etica Sgr, svolgano un’analisi esplicita, sistemica e costante degli emittenti secondo le variabili Esg, che risultano parte integrante dell’analisi e della decisione di investimento. Questa strategia occupa un posto centrale nella definizione degli investimenti sostenibili e responsabili. Engagement. Questa strategia prevede che l’investitore crei e sviluppi un rapporto strutturato, costante e di lungo periodo con il management delle imprese oggetto di investimento al fine di portare all’attenzione eventuali fattori di rischio Esg e spronarla nel migliorare il profilo socio-ambientale. L’engagement si può concretizzare attraverso attività di dialogo con le imprese o di voto in assemblea degli azionisti (azionariato attivo) aventi ad oggetto questioni Esg. Anche questo approccio, come la selezione Best-in-Class, non esclude a priori uno specifico settore, attività o azienda. Impact investing. Questa strategia prevede l’investimento in imprese, organizzazioni o fondi ideati con l’obiettivo principale di realizzare un impatto ambientale e/o sociale positivo e il vincolo di ricercare un ritorno finanziario sostenibile, tendenzialmente almeno superiore all’inflazione. Fanno parte di questa strategia, per esempio, gli investimenti in imprese sociali, operanti nel campo dell’assistenza sociale, della sanità, della cultura, della tutela ambientale, del sostegno alle fasce sociali a rischio o in istituzioni di microfinanza o in progetti di social housing. Dal momento che i target di questa strategia non sono mai imprese quotate su borse regolamentate, raramente gli strumenti più idonei per realizzarla sono fondi comuni d’investimento. Nel contempo si cerca di tracciare un profilo del risparmiatore responsabile italiano attraverso uno studio di mercato. L’ultima indagine pubblicata è l’aggiornamento di una ricerca svolta nel 2013 , avente l’obiettivo di analizzare come sono cambiate le attitudini dei risparmiatori e degli investitori, la loro propensione ad investire in prodotti SRI e l’importanza che attribuiscono ai temi sociali, ambientali e di governance. Lo studio si propone, inoltre, di indagare le aspettative e il grado di consapevolezza dei risparmiatori rispetto a queste tematiche, nonché i canali di comunicazione e di informazione preferenziali per i prodotti finanziari e per quelli SRI in particolare, con riferimento al ruolo della banca, dell’assicurazione e del consulente finanziario. L’indagine, infine, mira ad analizzare come si sono evoluti i criteri adottati nelle decisioni di investimento e la propensione a tenere maggiormente in considerazione gli aspetti ESG (Environmental, Social and Governance) nella scelta dei prodotti finanziari. Napoli, 18 settembre 2018
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Il ritorno dei poveri e la lunga storia del reddito di base
Il ritorno dei poveri e la lunga storia del reddito di base di Martina Tafuro Il povero sembrava essere una categoria in via d’estinzione, almeno nelle bulimiche società occidentali. È bastato, però, il venticello della recessione e il tema è ritornato al centro del dibattito. I dati che ci rimandano le statistiche ufficiali, considerano in povertà assoluta chi vive in una famiglia che ha una spesa per consumi inferiore al valore di un paniere di beni e servizi ritenuto essenziale per vivere in modo dignitoso. I cosiddetti progressisti, hanno pensato bene di voltarsi dall’altra parte, infatti, la distopia dell’intervento straordinario del bonus degli 80 euro, dall’incerto costo di circa 9,5 miliardi di euro, non è stato pensato come uno strumento di contrasto alla povertà, ma per restituire alle classi medie una parte del potere d’acquisto perduto nel corso degli anni, generando, così, la completa devastazione del tessuto sociale. Allora mi chiedo: “E’ possibile garantire un reddito a ogni persona per renderla libera dalla necessità di avere un lavoro per vivere?”. Idea radicale, sogno che affascina, che ha assunto sfaccettature diverse a seconda dei periodi storici e delle aree geografiche in cui si è tentato di applicarla. Il concetto di reddito di base non nasce oggi, pur trovando scarsa applicazione per i suoi costi elevati per il bilancio pubblico e per il fastidio verso l’idea che sia possibile erogare un reddito a chi non concorre, con il lavoro o con la disponibilità al lavoro, ad offrire un contributo alla società. E’ vero che da più parti si cerca di banalizzare il tema, ma allargare il contraddittorio sul reddito di base significa gettare basi solide per creare una società meno ingiusta e più stabile. Martina Tafuro
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Definizioni Prima di iniziare il percorso storico del reddito di base, è utile definire il significato di reddito di base/basic income/reddito di cittadinanza e sui modi con cui si differenzia da altre misure come il reddito minimo garantito e il salario minimo. Reddito di base/basic income (reddito di cittadinanza): È un reddito erogato in modo incondizionato a tutti, su base individuale, senza alcuna verifica della condizione economica o richiesta di disponibilità a lavorare. Da oltre tre decenni convegni europei e mondiali sul tema sono organizzati dalla rete di coordinamento BIEN (Basic Income Earth Network). Reddito minimo garantito: È un reddito limitato nel tempo che si basa su un programma universale ma selettivo. La concessione del sussidio dipende infatti da regole uguali per tutti. È garantito in base al reddito e al patrimonio di chi ne fa domanda. Nei parametri può anche rientrare il fatto di aver perso un lavoro o di non riuscire a trovarlo. Nel 1992 il Consiglio delle comunità europee ha fatto richiesta per l’introduzione “in tutti gli Stati membri di un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d’inserimento nella società dei cittadini più poveri”. Salario minimo: È una remunerazione minima che i datori di lavoro devono per legge dare ai propri dipendenti. La misura, che punta a ridare potere d’acquisto ai lavoratori, contro le disuguaglianze sociali, è prevista in 21 dei 28 paesi dell’Unione europea: varia dai 173 euro al mese della Bulgaria, ai 1.921 euro mensili del Lussemburgo.
Il percorso delle idee nella Storia Il reddito universale, appartiene a una famiglia di idee correlate tra di loro: reddito universale di base, reddito incondizionato, dividendo sociale, reddito annuo garantito, reddito di cittadinanza, imposta negativa sul reddito, tutte si basano sul concetto di basic income. Fin dalle sue origini, le diverse proposte si sono articolate intorno ad un’alternativa: estendere l’erogazione delle prestazioni sociali a tutta la collettività, opzione universale. Oppure rivolgerla solo a determinati soggetti, in base alla loro condizione economica, opzione selettiva. La prima volta che se ne parla è, con tutta probabilità, quando Thomas More immagina nella sua Utopia (1516) un’isola dove a ciascun abitante fossero assicurati mezzi di sussistenza senza dover dipendere da un lavoro. 1795 - 1797. Per risolvere il problema della povertà dilagante in Francia, Thomas Paine, tra i padri fondatori degli Stati Uniti d’America e attivista impegnato nelle rivoluzioni francese, nel suo libro La giustizia agraria, difende l’idea di un fondo alimentato dai proprietari terrieri che permettesse
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di versare a ciascun individuo un reddito minimo: una somma abbastanza consistente al compimento della maggiore età e poi un pagamento annuo dai 50 anni in su. 1795 - 1834. Erano gli anni in cui l’Inghilterra stava affrontando anni di raccolti scarsi, il prezzo del grano continuava a salire e non vi era possibilità di poterlo importare dall’Europa, a Speenhamland, un distretto a sud del paese, alcuni magistrati si riuniscono in una locanda del villaggio di Speen e decidono di riformare l’assistenza ai poveri, pensando ad un’economia costruita sul diritto di vivere. Fino ad allora secondo quanto regolamentato dall’Act of Settlement del 1662, il lavoratore era legato alla propria “parrocchia”. La Speenhamland Law liberalizzava i lavoratori da queste “corporazioni” e contestualmente prevedeva un sistema di sussidi da aggiungere ai salari. L’idea era di assicurare un reddito di base soprattutto ai poveri e alle loro famiglie indipendentemente dai loro guadagni per raggiungere un adeguato livello di sussistenza. Le quote da assegnare a ogni componente della famiglia sarebbero state quantificate sulla base del prezzo del pane. In poco tempo il sistema si diffonde in tutto il sud dell’Inghilterra e, in particolare, nelle aree rurali e nei distretti manifatturieri. Nel 1832 il governo di Londra avvia un’indagine a livello nazionale sulle condizioni di lavoro, sulla povertà delle zone rurali e sul “sistema Speenhamland”. Il rapporto finale di 13mila pagine giungeva alla conclusione che il piano sperimentato era stato disastroso perché aveva portato a un’esplosione demografica, alla riduzione dei salari e al degrado della classe operaia inglese. Ma, tra il 1960 e il 1970, il rapporto viene riletto da alcuni storici che scoprono che buona parte del testo del rapporto finale era stata scritta prima della raccolta dei dati e che solo il 10% dei questionari distribuiti era stato compilato. Quasi nessuna delle persone intervistate era tra le beneficiarie del sussidio. Nel 1834 il “sistema Speenhamland” viene smantellato definitivamente e, sulla base del rapporto, parzialmente truccato, viene approvato il Poor law amendment act. L’assistenza viene subordinata a condizioni così restrittive da renderla meno appetibile del lavoro salariato. 1848. Nello stesso anno in cui Karl Marx scrive Il Capitale, il giurista belga Joseph Charlier scrive The solution of the social problem, considerato il primo libro in cui viene proposto il reddito di base come soluzione alle disuguaglianze sociali. Charlier, propone il concetto di “dividendo territoriale”, cioè il pagamento ogni tre mesi di una quota annuale stabilita sulla base del valore di affitto delle abitazioni. 1910 - 1920. Dopo le devastazioni della prima guerra mondiale, diversi movimenti sociali chiedono una redistribuzione delle risorse. Nel 1918, nel suo libro Roads to Freedom, il filosofo Bertrand Russell propone il reddito di base come strumento di giustizia sociale. In Gran Bretagna, Bertrand Pickard e i coniugi Milner pubblicano l’opuscolo Scheme for a State Bonus: A Rational Method of Solving the Social Problem, in cui chiedono un “bonus statale” settimanale per tutti i cittadini del Regno Unito. 1930. La cancellazione di posti di lavoro e l’impennata della povertà a causa della Grande Depressione del 1929 porta il reddito di base al centro del dibattito pubblico negli Stati Uniti. Nel 1934 il senatore della Louisiana, Huey Long lancia alla radio il suo manifesto politico Share Our Wealth (ndr, “condividi la nostra ricchezza”), in cui chiede di confiscare i beni dei ricchi e garantire a tutte le famiglie un reddito annuo. Il progetto fu interrotto dall’assassinio di Long un anno dopo. Sempre nel 1935, il presidente degli Usa, Franklin D. Roosevelt, firma il Social Security Act, creando il programma di anti-povertà noto come “Sostegno alle famiglie con figli a carico” o “welfare”. 1940. Gli economisti conservatori Milton Friedman e George Stigler, iniziano a elaborare l’idea di un sistema fiscale che garantisca una maggiore uguaglianza del reddito senza però trasformarsi in assistenza pubblica. È la prima teorizzazione di un pensiero che porterà poi negli anni ‘60 all’elaborazione della proposta di imposta negativa sul reddito (NIT). In quegli stessi anni, nel 1943, in Gran Bretagna, Lady Rhys Williams, nel libro Something to Look Forward To avanzava la proposta di un “dividendo sociale” da destinare a tutti coloro che avessero lavorato e fossero disposti a tornare al lavoro, tramite l’iscrizione alle liste di disoccupazione. Il
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fisco statale avrebbe dovuto farsi carico di questo contributo, definito in base a una quota del reddito medio collettivo. Qualche anno dopo, negli Usa, l’economista George D. H. Cole rielabora il concetto di dividendo sociale: “il patrimonio di un paese è il risultato congiunto degli sforzi e dell’inventiva e perizia ereditata nel tempo da generazioni e generazioni di un’intera società. Per questo motivo, tutti i cittadini dovrebbero condividere la rendita di questo patrimonio attraverso una sua ridistribuzione sotto forma di premi e incentivi”. Nella sua presentazione del libro di John Stuart Mill, Storia del pensiero socialista, Cole è il primo a utilizzare il termine “reddito di base“. Decennio ‘60 -’70. Negli anni ‘60, negli Stati Uniti, il reddito di base torna a essere proposto come soluzione di contrasto alla povertà e alla disoccupazione, a fronte anche della massiccia migrazione di afro-americani nel nord del paese. Nel 1963, lo scrittore e sociologo Dwight Macdonald, studioso delle culture di massa, in una famosa recensione del libro The Other America del socialista democratico Michael Harrington sul New Yorker, sosteneva la necessità di un reddito garantito per tutte le famiglie. Nel 1962, nel libro Capitalismo e Libertà, Milton Friedman definiva la sua idea di imposta negativa sul reddito. La NIT metteva in connessione due flussi di denaro di segno opposto tra Stato e contribuenti: chi era sotto la soglia riceveva un sussidio, chi era al di sopra pagava le tasse. Dai soldi delle tasse si ricavavano i fondi per finanziare i sussidi. Dato un limite di 10mila dollari per famiglia, un nucleo familiare con reddito di 8mila dollari avrebbe ricevuto il 25% della quota mancante per arrivare al tetto di 10mila. Una cifra pari a 500 dollari. Una famiglia con reddito 0, avrebbe ricevuto 2500 dollari. Secondo Friedman, collegando la tassazione dei più ricchi e il contributo ai più poveri, il settore pubblico avrebbe potuto immediatamente attuare una redistribuzione del reddito (alternativa all’esenzione fiscale per i più poveri). In questo modo, secondo l’economista, sarebbe stato possibile contenere la spesa sociale e garantire benefici effettivi ai cittadini meno abbienti. Mentre aumentano le proteste in tutta l’America, con richieste di giustizia economica (in un discorso del 1967, Marthin Luther King chiede un reddito minimo garantito per tutti), l’équipe dell’Ufficio di Economic Opportunity – il team di consulenti che lavorò all’elaborazione della Great Society, un insieme di programmi statunitensi di riforma annunciati dall’allora presidente Lyndon B. Johnson, che avevano l’obiettivo di ridurre la povertà ed eliminare l’ingiustizia sociale – inizia a progettare la sperimentazione su larga scala dell’idea di imposta negativa sul reddito. Nel 1968, grandi capi di aziende e più di 1200 economisti e studiosi firmano una dichiarazione chiedendo un “sistema nazionale di reddito garantito”. Nello stesso anno l’idea di Friedman viene sperimentata in New Jersey da uno studio condotto dall’Istituto di Ricerca sulla povertà dell’Università del Wisconsin e da una società di Princeton, Mathematica Inc., che si sarebbe occupata della ricerca sul campo e della raccolta dei dati. Si voleva verificare se l’imposta negativa sul reddito portasse a lavorare meno e ad abbassare i salari. Dalla sperimentazione venne fuori che lo strumento pensato da Friedman non riusciva a garantire contemporaneamente: a) un reddito dignitoso per tutti; b) un incentivo a lavorare; c) il pareggio tra costi e ricavi. Inoltre, dalla ricerca emerse che in presenza di esenzioni di vario genere e di un sistema di welfare, le misure già in vigore erano ritenute più vantaggiose del NIT. Successivamente l’Istituto di Ricerca di Stanford analizzò i dati di una sperimentazione fatta a Seattle e Denver. I tre ricercatori che condussero la ricerca giunsero alla conclusione che il NIT portava a una riduzione del lavoro del 90% tra gli uomini e del 18% tra le donne e a una disgregazione dell’unità familiare: avere in famiglia un salariato non era più vantaggioso ai fini fiscali e la possibilità di avere un reddito garantito riduceva i vincoli del capo famiglia a restare nel nucleo familiare. Altri studiosi contestarono l’attendibilità dello studio di Stanford. 1969 - 1972. In un discorso televisivo nell’agosto del 1969, il presidente degli Usa, Richard Nixon, presenta il piano di assistenza familiare (FAP). Il piano rappresentava una rottura radicale con le politiche sulla povertà del passato e con il sistema di welfare allora attuale. Per la prima volta veniva cancellata la distinzione tra “meritevoli” poveri (gli anziani, i disabili, le madri con bambini
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piccoli) e “immeritevoli” (persone fisicamente in grado di lavorare). Con il FAP, sia le famiglie con a capo adulti che lavorano sia con disoccupati erano ammissibili al sostegno. Il FAP prevedeva che una famiglia media di quattro persone avrebbe dovuto ricevere 1600 dollari al mese. La proposta non ebbe i voti necessari al Congresso per ben due volte, trovando l’opposizione dei partiti conservatore e democratico. Nel 1970 il disegno di legge passò facilmente alla Camera dei Rappresentanti, ma fu bloccato nella commissione finanze del Senato. Nel 1972 il candidato democratico alla presidenza, senatore George McGovern, presentò una sua proposta di reddito minimo. Il senatore suggeriva che “ogni uomo, donna e bambino dovesse ricevere dal governo federale un pagamento annuale”, che “non varia in accordo con la ricchezza del destinatario”, né era subordinato al nucleo familiare. La proposta non trovò il sostegno necessario. 1974 - 1979. In Canada, tra il 1974 e il 1979, il governo trasforma la piccola e isolata città di Dauphin, nella provincia di Manitoba, in un laboratorio vivente dove residenti qualificati ricevono un reddito annuale garantito di circa 15mila dollari per una famiglia di quattro persone. L’esperimento voleva valutare se (e in che misura) un reddito annuale garantito e incondizionato disincentivasse al lavoro. I dati della sperimentazione canadese sono stati analizzati solo di recente dall’economista Evelyn Forget. Sono stati scoperti, infatti, da uno studioso solo nei primi anni 2000, impacchettati in 1800 scatoloni in un magazzino di Winnipeg. Secondo l’analisi di Forget, la sperimentazione portò a un incremento del tasso di scolarizzazione, a un calo dei ricoveri in ospedale (perché i cittadini avevano maggiore possibilità di procurarsi le cure di base) e a una diminuzione solo dell’1% della quantità delle ore di lavoro. Nel 1976, in Alaska, poco prima della conclusione dei lavori della Trans-Alaska Pipeline, il governatore Jay Hammond propone un sistema di dividendi da versare a tutti i cittadini dell’Alaska da un fondo di Stato proveniente dai proventi del petrolio. Il programma dispensò i primi dividendi nel 1982, diventando di fatto il primo sistema di reddito di base negli Usa. Nel 2015 lo Stato ha inviato assegni di 2072 dollari a quasi 650mila residenti. Anni ’80. In Francia, André Gorz, uno dei principali teorici di ecologia politica e della decrescita, parla di reddito di autonomia, come mezzo per affrancarsi dall’alienazione del lavoro a catena, mentre il filosofo Michel Foucault individua nel reddito incondizionato la liberazione dal controllo sociale da parte dello Stato. Nel 1986, Philippe Van Parijs, crea insieme ad altri pensatori la prima conferenza europea sul reddito di base che punta a sconfiggere la povertà e permettere alle persone di poter vivere indipendentemente dal reddito da lavoro. Alla fine del convegno nasce il Basic Income Europe Network (BIEN). Nel 2004, l’organizzazione viene ribattezzata con il nome di Basic Income Earth Network. Anni ’90. L’amministrazione Clinton introduce l’Earned Income Tax Credit, una forma di “credito di imposta” sul reddito o (in alcuni casi) di “rimborso federale” per i lavoratori a basso reddito. Per poter aver accesso alla misura era necessaria la cittadinanza statunitense (gli stranieri dovevano essere coniugati con cittadini americani), essere iscritti alla previdenza sociale e aver lavorato durante l’anno fiscale. Nel 1997 il Messico lancia un programma su vasta scala di trasferimento condizionato di contanti (CCT), un sistema di pagamenti diretti in denaro alle famiglie povere. Esperienza seguita nel 2001 da Brasile e Colombia. Sebbene il CCT non sia identico al reddito di base (si prevede infatti una sovvenzione in base alla presenza di alcuni specifici requisiti, come la scolarizzazione dei figli ed essere sotto la soglia di povertà), esso si fonda sullo stesso presupposto che tali sovvenzioni possano servire ai beneficiari per migliorare la loro condizione sociale e di vita. I programmi CCT si sono diffusi rapidamente in tutta l’America Latina nei primi anni 2000 e poi in alcune aree dell’Asia e dell’Africa. Decine di milioni di persone impoverite in tutto il mondo ora ricevono assistenza finanziaria attraverso trasferimenti condizionati di contanti, finanziati da governi, organizzazioni umanitarie internazionali e organizzazioni non profit. Anni 2000. Nella conferenza del network mondiale del Basic Income, tenutasi a Città del Capo, in Sud Africa, nel 2006, l’allora capo della Chiesa luterana evangelica della Namibia, Zephania Kameeta, intervenne dicendosi stufo delle sterili discussioni accademiche che avevano animato
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l’incontro. Nel 2009 Kameeta tentò di avviare un progetto pilota di reddito di base in un’area molto povera. Nel 2010 un gruppo di ricercatori ha iniziato una serie di sperimentazioni di reddito di base nelle zone rurali dell’India che ha coinvolto più di 6000 persone. DODICI MOTIVI PER CUI LA POVERTÀ È ILLEGALE 1. Nessuno nasce povero né sceglie di esserlo. Tutti noi nascendo riceviamo la vita, è lo stato della società nella quale nasciamo che ci fa poveri o ricchi. 2. Poveri si diventa. La povertà è una costruzione sociale. La povertà non è un fatto di natura come la pioggia, è un fenomeno sociale, costruito e prodotto dalle società umane. Le società scandinave degli anni ’60-’80 sono riuscite a far sparire i processi strutturali d’impoverimento e a ridurre i processi d’esclusione ad ambiti molto limitati di povertà materiale. 3. Non è la società povera che produce povertà. La povertà, non solo materiale, si è nuovamente sviluppata dalla seconda metà degli anni ’90, perché le classi dirigenti hanno cambiato la loro visione del mondo ed operato scelte diverse da quelle del passato. 4. L’esclusione produce l’impoverimento. L’esclusione riguarda sia l’accesso economico e sociale ai beni e ai servizi necessari ed indispensabili ad una vita degna e dignitosa, sia l’accesso alle condizioni e alle forme di cittadinanza civile, politica e sociale odierna. L’esclusione tocca l’insieme della condizione umana. 5. In quanto processo strutturale, l’impoverimento è collettivo. Esso non riguarda solo una persona ma i nuclei familiari, intere popolazioni come gli immigrati, i nomadi… e categorie sociali particolari come lavoratori precari, contadini, anziani... 6. L’impoverimento è figlio di una società che non crede nei diritti di vita e di cittadinanza per tutti né nella responsabilità politica collettiva per garantire tali diritti a tutti gli abitanti della Terra. I nostri governanti non credono nell’esistenza dei diritti umani di vita e di cittadinanza universali, indivisibili e imprescrittibili. Se sono obbligati dalle leggi a rispettarli, per esempio le Costituzioni, essi credono che non siano fruibili per tutti. Inoltre, negli ultimi decenni, sono riusciti ad imporre che l’accesso ai diritti umani e sociali deve essere pagante, è il caso del diritto all’acqua o della salute di base. 7. I processi d’impoverimento avvengono in società ingiuste. Le società ingiuste sono negatrici dell’universalità, dell’indivisibilità e dell’imprescrittibilità dei diritti di vita e di cittadinanza e, quindi, negatrici dell’uguaglianza di tutti gli abitanti del Pianeta di fronte ai diritti. Queste società credono che l’accesso economico e sociale ai beni e servizi necessari e indispensabili alla vita sia una questione di iniziativa personale o di gruppo e di merito individuale. 8. La lotta contro la povertà (l’impoverimento) è anzitutto la lotta contro la ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice (l’arricchimento).C’è impoverimento perché c’è arricchimento. I processi d’impoverimento avvengono perché nelle società ingiuste prevalgono i processi di arricchimento inuguale, ingiusto e predatorio. 9. “Il pianeta degli impoveriti“ è diventato sempre più popoloso a seguito dell’erosione e della mercificazione dei beni comuni perpetrate a partire dagli anni ’70. I gruppi dominanti hanno dato sempre di più valore unicamente alla ricchezza individuale. Essi hanno cancellato nell’immaginario dei popoli la cultura della ricchezza collettiva, in particolare dei beni comuni pubblici. 10. Le politiche di riduzione e di eliminazione della povertà perseguite negli ultimi quaranta anni sono fallite perché si sono attaccate ai sintomi (misure curative) e non alle cause (misure risolutive). A causa del perseguimento di politiche economiche e sociali aventi obiettivi antitetici rispetto a quelli anti-povertà, si sono tradotte in politiche contro i poveri. Da qui i fenomeni di criminalizzazione dei poveri. 11. La povertà è oggi una delle forme più avanzate di schiavitù perché basata su un “furto di umanità e di futuro”. La schiavitù moderna, è un furto di umanità perpetrato nei confronti di miliardi di esseri umani esclusi dalla cittadinanza, ai quali per conseguenza si è anche rubato il futuro.
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12. Per liberare la società dall’impoverimento bisogna mettere “fuori legge” le leggi, le istituzioni e le pratiche sociali collettive che generano ed alimentano i processi d’impoverimento. È possibile uscire dalla povertà e liberare la società dall’impoverimento, mettendo fuori legge quelle disposizioni legislative e misure amministrative, quelle istituzioni e quelle pratiche sociali collettive che, ai livelli decisivi locali, nazionali e mondiali, costituiscono gli agenti di alimentazione e di crescita dei processi di ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice. Napoli, 25 settembre 2018
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Dibattere del reddito di base è di nuovo attuale?
Dibattere del reddito di base è di nuovo attuale? di Martina Tafuro Nella sua ultima relazione:”Employment and Social Developments in Europe“, la Commissione Europea analizza le criticità occupazionali e sociali per l’Unione europea e i suoi Stati membri. In particolare, l’edizione 2018 si concentra sulla evoluzione, occupazionale e sociale, nel mondo lavoro. In un contesto di contrazione della popolazione in età lavorativa nell’UE, le innovazioni tecnologiche che aumentano la produttività diventano sempre più cruciali, ma cambiano anche l’organizzazione della produzione di beni e servizi e il mondo del lavoro. L’automazione comporta una nuova gestione economico/sociale del capitale, in particolare nel settore manifatturiero e per compiti di bassa competenza e attività di routine. L’avvento di nuove tecnologie innovative fanno emergere nuove forme di lavoro non standardizzate, in grado di consentire una riorganizzazione dell’orario di lavoro e dello spazio più flessibile. La nuova visione del capitale, le nuove forme di lavoro sollevano criticità rispetto a: contrazione degli impieghi a tempo pieno, irrigidimento delle assicurazioni sociali, potenziali perdite di posti di lavoro e diminuzione della qualità del lavoro.
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Il lavoro atipico, diventa così, una sfida per l’organizzazione e il finanziamento dei meccanismi di protezione sociale, poiché costringe a mutare il modo tradizionale/autoreferenziale di rappresentare gli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro nell’ ambito del dialogo sociale. D’altra parte, la mutata relazione tra lavoro e capitale fa emergere: aumento della produttività, creazione di nuovi posti di lavoro, facilitazione dei percorsi di inclusione lavorativa e un rinnovato equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Si avverte, quindi, l’urgenza di investire in istruzione e promozione delle competenze, per ridurre i rischi derivanti dagli sviluppi tecnologici e per ridistribuire i tanti benefici ottenuti. Non dimenticando che, le separazioni poste in essere dai sistemi di protezione sociale devono essere ripensate al fine di fornire una protezione inclusiva. Molte persone che lavorano, però, sono ancora povere! Pur osservando che, le nostre economie continuano a creare nuovi posti di lavoro e le famiglie si ritrovano con più reddito disponibile. Le analisi statistiche ci dicono che dal 2012 al 2015, nella maggior parte degli Stati membri c’è stato un calo della quota di persone a rischio povertà o esclusione sociale, raggiungendo in Europa il 23,7% (circa 119 milioni di persone) della popolazione totale, il livello più basso dal 2010. La relazione però sottolinea che “anche se sono stati compiuti progressi, povertà e disuguaglianza rimangono troppo elevati – soprattutto per alcuni gruppi della società (ossia i minori e le minoranze)”. Insomma sono cresciute le situazioni di disagio sociale a cui, giocoforza, se ne collega un’altra: il lavoro non protegge più dal rischio povertà. Anche se in tutta l’Unione europea, i lavoratori a tempo pieno sono relativamente ben protetti dalla povertà, la povertà dei lavoratori è aumentata da circa una su dieci persone, prima della crisi, a una su otto. Durante il periodo della crisi economica (tra il 2008 e il 2013) nella maggior parte degli Stati membri, pur assistendo all’incremento dell’utilizzo di contratti temporanei la velocità di passaggio ai contratti a tempo indeterminato è peggiorata. Nello stesso lasso di tempo, a livello europeo, “la probabilità di passare da un contratto di lavoro temporaneo a uno permanente è diminuito del 4,6%”. Anche per questi motivi, specifica l’Eurostat, nonostante l’Unione europea abbia registrato il suo quarto anno di ripresa economica (Commissione Europea, 2016), l’attuale situazione resta una grande sfida per la politica, impegnata a combattere la povertà e garantire l’inclusione sociale. All’interno di questo quadro si inseriscono anche forti disparità dei redditi, spiega ancora l’Ufficio statistico dell’Unione europea. Il dibattito, divenuto centrale, sulle disuguaglianze, sulla povertà, sulle criticità del welfare state e sui rischi temuti per le possibili conseguenze della nuova rivoluzione tecnologica, hanno spinto diversi politici, studiosi, organizzazioni pubbliche e privati a sostenere l’idea di un reddito di base.
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Elon Musk, amministratore delegato della Space Exploration Technologies Corporation e a capo dell’azienda automobilistica Tesla Motors è, ad esempio, uno dei sostenitori della misura. Anche Bill Gates, presidente di Microsoft, ha aperto alla possibilità dell’applicazione di un reddito di base, pur specificando che è ancora troppo presto. Si tratta comunque di un dibattito articolato e con molte posizioni anche contrarie da considerare. Il Parlamento europeo lo scorso febbraio ha bocciato la proposta di prendere in considerazione una forma di reddito di base, avanzata dal membro del parlamento europeo Delvaux-Stehres in vista dei possibili effetti negativi dell’automazione nel mercato del lavoro. Barack Obama, ex presidente degli Stati Uniti d’America, in un’intervista, riferendosi all’importanza di ridisegnare il patto sociale in vista delle nuove sfide che la società deve affrontare a partire da quelle del lavoro, aveva detto: “Se un reddito universale è un giusto modello - verrà accettato da un’ampia parte della popolazione? -, questo è un dibattito che faremo da qui ai prossimi dieci, venti anni”. Il reddito di base è un’idea che implica un cambiamento radicale del modo di pensare la società, il welfare e il rapporto tra uomo e lavoro, perché il salario non diventa più l’unica via per la propria esistenza. C’è chi come Gianfranco Sabattini, nel suo libro Riforma del Welfare state, spiega che la misura segnerebbe il passaggio da un’etica del lavoro a un’etica della solidarietà “tra chi lavora e chi non riesce a percepire un reddito in quanto parte di un sistema sociale in cui tutti hanno uguali diritti e doveri sociali”. Ulteriore questione sono le conseguenze dello slegare il reddito dal lavoro: sarebbero un disincentivo a lavorare? E questo maggiore tempo libero che impatto avrebbe sulle persone? Alcuni critici dicono che i beneficiari del reddito sarebbero portati alla pigrizia, non puntando più a cercare un lavoro, inteso come obiettivo per realizzarsi nella vita. Al contrario chi sostiene questa misura afferma che in questo modo gli uomini potrebbero concentrarsi sulla propria istruzione e formazione, accrescendo il proprio spirito d’iniziativa. Infine, probabilmente l’impatto maggiore del reddito di base è sul sistema di welfare di un paese. Da un lato c’è chi sostiene che la misura, sostituendo gli ammortizzatori sociali attualmente attivi, sposterebbe ampie risorse oggi destinate ai poveri distribuendole a persone con redditi superiori. Dall’altro, invece, si sottolinea che l’attuale organizzazione del welfare è piena di falle e il reddito di base funzionerebbe come un pavimento che darebbe stabilità a tutti, garantendo un sussidio anche a quelle persone, attualmente non riconosciute come beneficiarie dei programmi di assistenza sociale, ma che una volta pagate le tasse finiscono sotto la soglia di povertà. Napoli, 3 ottobre 2018
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William D. Nordhaus e Paul M. Romer, premi Nobel per l’Economia 2018 di Martina Tafuro Il premio Nobel per l’Economia 2018 è stato assegnato a William D. Nordhaus e Paul M. Romer per i loro studi sui rapporti tra cambiamento climatico, nuove tecnologie e andamenti macroeconomici. William D. Nordhaus (Stati Uniti) 77 anni, ha dedicato i suoi studi ai rapporti e alle interazioni tra società e natura.
Già dagli anni Settanta, ha diretto la sua attenzione di studioso ai temi del cambiamento climatico, analizzando il rapido aumento nel consumo dei combustibili fossili con l’emissione di anidride carbonica in atmosfera. A metà degli anni Novanta, Nordhaus è stato il primo a teorizzare e a realizzare un modello integrato per valutare gli impatti del cambiamento climatico sull’economia. Nel suo modello, interagiscono molteplici discipline come la chimica e la fisica, oltre all’economia. Martina Tafuro
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Il modello di Nordhaus, negli anni, è diventato uno dei più usati per simulare come varia l’andamento globale al variare del clima. Il suo sistema è stato utilizzato, per esempio, per prevedere gli effetti delle politiche economiche tese a ridurre il consumo di combustibili fossili, come la carbon tax. Nordhaus con le sue ricerche ha dimostrato che uno dei rimedi più efficaci per ridurre l’inquinamento in atmosfera è l’applicazione di uno schema, su scala globale, di tassazione per le emissioni di anidride carbonica, applicato uniformemente tra tutti i paesi. “Nordhaus – si legge nella motivazione del Nobel – ha deciso di lavorare su questo argomento negli anni ’70, in quanto gli scienziati erano diventati sempre più preoccupati per la combustione dei combustibili fossili, con il risultato di un clima più caldo. A metà degli anni ’90, è diventato il primo a creare un modello di valutazione integrato , ovvero un modello quantitativo che descrive l’interazione globale tra economia e clima. Il suo modello integra teorie e risultati empirici di fisica, chimica ed economia. Il modello di Nordhaus è ora ampiamente diffuso e viene utilizzato per simulare il modo in cui l’economia e il clima si evolvono. È utilizzato per esaminare le conseguenze degli interventi sulla politica climatica, ad esempio le tasse sul carbonio”. Paul M. Romer (Stati Uniti) 63 anni con i suoi studi, ha dimostrato come la conoscenza possa essere uno dei principali fattori di crescita economica nel lungo periodo.
Prima delle sue ricerche, le principali teorie di macroeconomia ritenevano che le innovazioni tecnologiche fossero il primo fattore di crescita, ma senza valutazioni più accurate sulle scelte e le condizioni del mercato che portavano alla creazione di nuove tecnologie. Romer ha dimostrato come le conoscenze possano fungere da motore della crescita economica a lungo termine: “Quando una crescita economica annuale di pochi punti percentuali si accumula nel corso di decenni, trasforma le vite delle persone. La precedente ricerca macroeconomica aveva enfatizzato l’innovazione tecnologica come motore principale della crescita economica, ma non aveva modellato come le decisioni economiche e le condizioni del mercato determinano la creazione di nuove tecnologie”. Romer ha risolto questo problema “dimostrando come le forze economiche governano la volontà delle imprese di produrre nuove idee e innovazioni”. La soluzione di Romer, pubblicata nel 1990, ha gettato le basi della teoria della crescita endogena . Una teoria che spiega come le idee sono diverse dagli altri beni e richiedono condizioni specifiche per prosperare nel mercato. La teoria di Romer ha generato una lunga serie di ricerche sui regolamenti e sulle politiche che incoraggiano idee nuove e prosperità a lungo termine. Napoli, 9 ottobre 2018
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Il 16 ottobre 2018 la FAO celebra la Giornata Mondiale dell’Alimentazione di Martina Tafuro Il 16 ottobre 1945, si riunirono in Quebec (Canada) 42 paesi per dare vita all’Organizzazione dell’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO). Nel far questo i governi, compirono un passo importante nell’incessante lotta dell’uomo contro la fame. La miseria e le avversità causate dalla guerra, caratterizzarono quegli anni, causa di grandi spostamenti di popolazione e di grave insicurezza alimentare Con la creazione della FAO, i paesi fondatori si dotarono e fornirono le nazioni che in seguito sarebbero entrate nell’Organizzazione, di un meccanismo attraverso il quale i Paesi membri della FAO avrebbero potuto affrontare una serie di criticità che sono fonte di grande preoccupazione per tutti i paesi e tutti i popoli. Precisamente, la FAO fu fondata nel 1943 a Hot Springs (USA) durante la Conferenza ONU sull’alimentazione e l’agricoltura e venne formalmente istituita nel corso della Prima sessione della Conferenza della FAO, tenutasi in Quebec, Canada, nel 1945. Gli obiettivi della GMA sono: sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della fame nel mondo; stimolare l’attenzione per la produzione alimentare agricola e gli sforzi nazionali, bilaterali, multilaterali e non governativi diretti a tale scopo; promuovere il trasferimento di conoscenze tecniche ai paesi in via di sviluppo; rafforzare la solidarietà internazionale e nazionale nella lotta contro la fame, la malnutrizione e la povertà, ed attirare l’attenzione sui risultati ottenuti nello sviluppo alimentare ed agricolo; incoraggiare la partecipazione delle popolazioni rurali, in particolare le donne e le categorie meno favorite, ai processi decisionali ed alle attività che influenzano le loro condizioni di vita.; incoraggiare la cooperazione economica e tecnica tra i paesi in via di sviluppo. Un primo tentativo di creazione di un ente sul piano internazionale per la cooperazione in materia agricola agli inizi del ventesimo secolo si ebbe ad opera di Vittorio Emanuele III, il quale, insieme Martina Tafuro
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ai delegati di settantaquattro Stati partecipanti, sottoscrisse il 27 giugno 1904 la convenzione istitutiva dell’Istituto internazionale di agricoltura. Tale istituto cominciò a operare solo nel 1908 e con ristretti campi d’azione poiché, a norma dell’articolo 9 della Convenzione, esso provvedeva solamente alla raccolta ed alla pubblicazione di informazioni statistiche, tecniche ed economiche relative all’agricoltura e ad altre materie, prevedendo unicamente la possibilità di elaborare delle proposte da sottoporre all’approvazione dei Governi. Nel 1935 con la creazione in seno alla Società delle Nazioni, ad opera di Bruce, McDougall, John Boyd Orr, di un comitato misto che si occupasse di problemi agricoli ed alimentari. Approfondisci le origini della FAO qui L’obiettivo Fame Zero (#FameZero) è il cuore degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (OSS) delle Nazioni Unite da raggiungere entro il 2030. E’ importante, però, ribadire che la FAO e i governi coinvolti nella missione più importante per il nostro pianeta non potranno farcela senza uno sforzo da parte di tutti. Purtroppo la fame nel mondo è in aumento: secondo un rapporto FAO, nel 2016 le persone che soffrono la fame sono state 38 milioni in più rispetto al 2015. Ogni giorno più di 800 milioni di persone non riescono a procurarsi alcun tipo di cibo e rischiano di morire di denutrizione. Fame Zero è il secondo dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) delle Nazioni Unite. Gli OSS sono una guida ai governi per poter sviluppare politiche e iniziative per debellare la fame e la povertà, combattere le disuguaglianze e le ingiustizie, contrastare i cambiamenti climatici e raggiungere uno sviluppo sostenibile, che è la vera soluzione permanente. Cibo e agricoltura sono elementi importantissimi per ognuno di questi punti perché raggiungere l’obiettivo Fame Zero significa anche realizzare molti degli altri OSS. Ad esempio, non è possibile pensare all’istruzione e al benessere se prima non si rende la sana alimentazione accessibile a tutti. COSA PUOI FARE TU PER IL RAGGIUNGIMENTO DELL’OBIETTIVO #FAMEZERO (guarda il video)
Sprecare meno, mangiare meglio e adottare uno stile di vita sostenibile sono elementi essenziali per costruire un mondo senza fame. Le scelte che facciamo oggi sono fondamentali per garantire un futuro ricco di alimenti. Ecco un elenco di semplici azioni per aiutarti a realizzare lo stile di vita #FameZero, che ti aiuterà a riprendere contatto con il cibo e con ciò che rappresenta. Abbi cura degli avanzi Se hai degli avanzi, congelali per consumarli in un secondo momento, oppure usali come ingrediente per un altro pasto. Quando mangi al ristorante, chiedi una mezza porzione se non hai molta fame, oppure porta a casa gli avanzi. Segui una dieta più sana e sostenibile La vita è frenetica e trovare il tempo per preparare pasti sani e nutrienti può essere una sfida se non sai come fare. I pasti sani non devono necessariamente essere elaborati. In realtà il cibo sano può essere cucinato in modo rapido e semplice, utilizzando solo pochi ingredienti. Condividi le tue ricette rapide e sane con amici, parenti, colleghi e su internet. Segui le ricette sostenibili di chef e blogger per imparare nuove ricette o consulta il tuo agricoltore locale per sapere come cucina a casa i suoi prodotti. Condividere significa avere a cuore Regala il cibo che altrimenti andrebbe sprecato, attenendoti alle regole alimentari locali. OLIO, per esempio, è una nuova applicazione che mette in contatto i vicini di casa con le imprese locali, in modo che il cibo in eccesso possa essere condiviso e non gettato via. Scopri le iniziative in corso nei locali che frequenti, nei negozi o nella tua zona per dare il tuo supporto alle associazioni di aiuti alimentari. Compra solo il necessario Pianifica i tuoi pasti, fai la lista della spesa e seguila scrupolosamente – evitando gli acquisti d’impulso. Non solo sprecherai meno cibo, ma risparmierai anche soldi! Conserva il cibo in modo saggio
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Non permettere che il cibo vada sprecato: sposta i prodotti più vecchi nella parte anteriore della dispensa o del frigorifero e quelli nuovi nella parte posteriore. Una volta aperti, usa contenitori ermetici per mantenere freschi i cibi in frigorifero e accertati che le confezioni siano ben chiuse per tenere lontani gli insetti dalla dispensa. Fai buon uso dei tuoi rifiuti Invece di gettare via i rifiuti alimentari, perché non metterli in una compostiera? Così facendo restituirai sostanze nutritive alla terra, riducendo le emissioni di anidride carbonica. Tieni una conversazione sul rispetto per il cibo con le persone che conosci Il cibo riguarda tutti. Aiuta gli altri a rimettersi in contatto con il cibo secondo lo stile di vita #FameZero e ciò che rappresenta condividendo le tue conoscenze e la tua passione con parenti, amici e colleghi. Puoi coltivare alimenti a casa o partecipare a un orto di quartiere, organizzare cene o condividere ricette. Puoi inoltre sostenere iniziative di beneficenza rivolte ai senzatetto e agli affamati e coinvolgere amici e parenti. Mantieni puliti terreni e acque Alcuni rifiuti domestici sono potenzialmente pericolosi e non dovrebbero mai essere gettati nel normale bidone della spazzatura. Batterie, vernici, cellulari, medicine, prodotti chimici, fertilizzanti, pneumatici, cartucce d’inchiostro, ecc. possono infiltrarsi nella terra e nei canali idrici, danneggiando le risorse naturali che producono i nostri alimenti. Usa meno acqua L’acqua è l’elemento fondamentale della vita e senza di essa non sarebbe possibile produrre alimenti. Così come è importante che gli agricoltori imparino a usare meno acqua per coltivare alimenti, anche tu puoi preservare l’acqua riducendo gli sprechi alimentari. Quando getti via il cibo, sprechi le risorse idriche che lo hanno prodotto. Per esempio, per produrre un’arancia servono 50 litri di acqua! Puoi anche sprecare meno acqua facendo la doccia invece del bagno, chiudendo l’acqua mentre ti lavi i denti e aggiustando le perdite! Conosci la provenienza del tuo cibo Il rispetto per il cibo prevede anche conoscere la sua provenienza e i suoi ingredienti. Informati su cosa mangi leggendo le etichette. Scopri quali sono gli ingredienti nocivi e scegli prodotti più sani. Crea un orto casalingo o partecipa a un orto di quartiere: non solo potrai avere cibo nutriente e sano, ma imparerai anche cosa ci vuole per produrre il cibo che abbiamo a disposizione. Sostieni i produttori locali Acquistando prodotti locali, sostieni i piccoli agricoltori e le piccole imprese a conduzione familiare nella tua comunità. Aiuterai anche a combattere l’inquinamento, riducendo le distanze per le consegne su camion e altri veicoli. Scegli frutta e verdura “brutta“ Non giudicare il cibo dal suo aspetto. Frutta e verdura schiacciate o dalla forma strana vengono spesso gettate via perché non sono di aspetto gradevole. Non hai nulla da temere: il sapore è identico, se non addirittura migliore. La frutta matura può essere utilizzata anche per frullati, succhi e dolci. Diventa un consumatore coscienzioso Prova a fare un pasto alla settimana a base di sole verdure (compresi i legumi come lenticchie, fagioli, piselli e ceci) al posto della carne. Per la produzione di carne vengono utilizzate molte risorse naturali, in particolare acqua e milioni di acri di foresta pluviale, che viene tagliata e bruciata per trasformare la terra in pascoli per il bestiame. Scopri gustosissime ricette a base di legumi e prova cereali ‘antichi’ come la quinoa. Quando fai la spesa, fai un po’ di ricerche per accertarti di acquistare solo prodotti di aziende che seguono procedimenti sostenibili e non danneggiano l’ambiente. Non dimenticare che i prezzi bassi spesso nascondono alti costi umani o ambientali. Impara a leggere le etichette sugli alimenti C’è una grande differenza tra “da consumarsi preferibilmente entro il” e “data di scadenza”. A volte un alimento può tranquillamente essere mangiato dopo la data indicata con “da consumarsi preferibilmente entro il”, mentre è la “data di scadenza” che ti indica quando non è più possibile
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mangiarlo. Impara anche a individuare sulle etichette degli alimenti i conservanti e gli ingredienti nocivi, come i grassi trans, ed evita i cibi con zuccheri aggiunti. Compra prodotti biologici L’agricoltura biologica aiuta la terra a mantenersi sana e conserva la sua capacità di immagazzinare carbonio, il che contribuisce a contrastare i cambiamenti climatici. Nei supermercati o nei mercati ortofrutticoli cerca prodotti biologici e del commercio equo e solidale e sostieni i piccoli agricoltori evitando carni, uova e latticini provenienti da allevamenti intensivi. Mantieni in vita i branchi di pesce Convinci amici e parenti a mangiare pesci di specie più abbondanti, come gli sgombri o le aringhe, piuttosto che quelli a maggior rischio di sfruttamento eccessivo, come i merluzzi o i tonni. Acquista pesce che sia stato catturato o allevato in modo sostenibile e con marchio di certificazione o etichetta “eco”. Diventa un sostenitore #FameZero! Se sui social vedi un post interessante sulla fame, sui cambiamenti climatici o sulla vita sostenibile, condividilo e fatti sentire! Scopri di più sulle tue autorità locali e nazionali e pensa a cosa potrebbero fare per ristabilire il rispetto per il cibo e contribuire alla lotta contro la fame. Se puoi, sfrutta il tuo diritto e vota i leader del tuo Paese e della tua comunità locale o magari candidati tu stesso. Il mondo a Fame Zero inizia da te. Informati su #FameZero Se sei bene informato puoi fare scelte più attente. Prenditi il tempo necessario per documentarti su #FameZero, sulle sfide che dobbiamo affrontare per raggiungere questo obiettivo e cosa devono fare governi, aziende, agricoltori e altri ancora. Napoli, 16 ottobre 2018
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Reddito di cittadinanza. Per saperne di più.
Reddito di cittadinanza. Per saperne di più. di Martina Tafuro Ken Loach, celeberrimo regista britannico, ha diretto nel 2016 Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake), film vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2016. Il film racconta la storia di Daniel Blake, un carpentiere di Newcastle di 59 anni, che in seguito a una grave crisi cardiaca, per la prima volta nella sua vita, è costretto a chiedere un sussidio statale. Il suo medico gli ha proibito di lavorare, ma a causa di incredibili incongruenze burocratiche si trova nell’assurda condizione di dover comunque cercare lavoro, pena una severa sanzione, mentre aspetta che venga approvata la sua richiesta di indennità per malattia. Durante una delle sue visite regolari al centro per l’impiego, Daniel incontra Katie, giovane madre single di due figli piccoli che non riesce a trovare lavoro. Entrambi stretti nella morsa delle perversioni amministrative della Gran Bretagna di oggi, Daniel e Katie stringono un legame di amicizia speciale, cercando di darsi sostegno e aiutarsi come possono in questa situazione molto complicata. Un welfare state in grado di fornire sostentamento economico a tutti, indipendentemente dal reddito e dalla disponibilità a lavorare è un’idea antica e affascinante, ma mai realizzata. Perché? Come funziona?
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Stefano Toso, professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’Università di Bologna, nel 2016 ha pubblicato: “Reddito di cittadinanza. O reddito minimo?”, per il Mulino. Il libro si prefigge di offrire al lettore una panoramica, quanto più esauriente possibile, circa la natura e i problemi del reddito di cittadinanza. Servendosi anche dei contributi di altri studiosi, che si sono occupati, in modi e per motivi diversi del tema in questione come: Richard Titmuss, Gøsta Esping-Andersen, Anthony Atkinson, Milton Friedman, James Meade e l’ Agathotopia, John Rawls e i surfisti di Malibu, per citarne solo alcuni. Nel dipanarsi, già, delle prime pagine, Toso, illustra cosa sia il reddito di cittadinanza. Lo identifica come il supporto economico corrisposto individualmente e in maniera non selettiva a tutta la cittadinanza, distinguendolo dal reddito minimo, ovvero la garanzia di una soglia di introito minimo per tutti i cittadini in condizione di povertà o quasi povertà, per garantire la quale lo Stato opererebbe la necessaria ridistribuzione delle risorse. L’autore, evidenzia che la distinzione tra reddito di cittadinanza e reddito minimo, va mantenuta “come chiave di lettura per esaminare i pro e i contro del reddito di cittadinanza”, ma tenendo ben presente che essa “non va estremizzata”. La necessità, impellente, di pensare ad un nuovo tipo di welfare state, ci costringe a riflettere giocoforza fra universalismo e selettività. La maggior efficacia e semplicità gestionale dell’universalismo sono le caratteristiche che rendono il reddito di cittadinanza più appetibile, ma il maggior costo per le casse dello stato costringe a cercare un compromesso sul reddito minimo, che così potrebbe essere ridistribuito ai meno abbienti, risparmiando risorse. Così facendo, si otterrebbe maggior rispetto della privacy, evitando quelle situazioni umilianti, come quelle descritte da Ken Loach in Io di Daniel Blake, che sempre più di frequente caratterizzano i nostri sistemi selettivi di welfare. Viene poi rappresentata una ricostruzione della genesi del reddito di cittadinanza in termini di storia del pensiero, attraverso la disanima di concetti quali dividendo sociale, imposta negativa sul reddito e reddito di partecipazione. Il reddito di partecipazione fra tutti, è il concetto più interessante fra i suddetti, trattandosi di un reddito di cittadinanza da limitare a chi contribuisce alla società attraverso il suo lavoro, risolvendo, in un certo senso, il tema dei surfisti di Malibu. I surfisti di Malibu, free-rider o lavoratori? Ci sono persone che, anziché lavorare, preferiscono passare il loro tempo a fare surf nelle acque di Malibu. Bella vita mi direte. Ipotizziamo che in una società si decida di erogare un servizio di pubblica utilità, ad esempio l’assistenza sanitaria, in forma gratuita. Ciascun individuo, se in stato di necessità, riceverà assistenza senza dover pagare nulla. Il servizio viene finanziato per mezzo di una tassa che colpisce tutti i soggetti che lavorano, poiché se un individuo non lavora, non ha i mezzi per contribuire al sistema sanitario. I surfisti di Malibu, non lavorando, beneficiano del sistema senza contribuire…consumano il bene pubblico senza produrlo e quindi pagare la tassa. Il loro costo viene sopportato dalla società nel suo complesso, infatti il servizio viene comunque offerto, ma la sua sostenibilità finanziaria deve essere assicurata incrementando le tasse dei
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contribuenti lavoratori. Il loro beneficio è ancora presente, ma a un costo superiore rispetto a quello di equilibrio. Il problema qui è che il free-riding non può essere risolto. O, meglio, non c’è un interesse collettivo a risolverlo. Se infatti la società decidesse di escludere dall’accesso gratuito al servizio sanitario chi non lavora, colpirebbe non soltanto i surfisti di Malibu che non lavorano per scelta, ma anche tutti quei soggetti che non lavorano, perché non possono o perché non trovano occupazione… nasce la diseguaglianza. Quello che qui preme sottolineare è che nessun individuo può escludere che si troverà, un giorno nella sua vita, nelle condizioni di non poter lavorare. Se il timore di trovarsi nelle condizioni degli ultimi è elevato, allora è bene curarsi del benessere di chi sta peggio, perché anche noi potremmo, un giorno o l’altro, perdere il lavoro. Insomma, individui razionali cercano di migliorare il più possibile la condizione di chi sta peggio mirando, egoisticamente, a cercare la soluzione più equa moralmente. Il terzo capitolo introduce le ipotesi originate facendo una sintesi tra reddito di cittadinanza e reddito minimo, alla ricerca di un nuovo “universalismo selettivo”, neologismo che “implica la coesistenza tra un principio universalistico, ossia l’irrilevanza di qualsiasi variabile categoriale ai fini del diritto all’accesso, e l’applicazione della prova dei mezzi per selezionare la platea dei beneficiari”. Fondamentali sono le numerose pagine dedicate dall’autore per illustrare principi e funzionamento del reddito minimo nel resto d’Europa e nel corso della storia, evidenziando successi e fallimenti, con particolare attenzione al rischio di “trappola della povertà” per tali istituti. Un capitolo è inoltre dedicato alla situazione del nostro Paese, affrontando esperimenti, proposte e iniziative politiche, non trascurando nemmeno gli aspetti di più di stringente attualità. Grande attenzione è poi dedicata agli istituti di sostegno sociale e al reddito degli enti locali. Dal libro emerge, la critica ai modelli di workfare (modello alternativo al classico welfare state, di natura puramente assistenziale, che consiste piuttosto in politiche di welfare attivo finalizzate ad evitare gli effetti disincentivanti sull’offerta di lavoro, collegando il trattamento previdenziale allo svolgimento di un’attività di lavoro) e al ricorso ai means testing (prova dei mezzi: Verifica della condizione economica dell’individuo, accertamento dell’incapacità) nel welfare state attuale. Cercare di risolvere questi problemi non può che essere una meta condivisa da coloro che hanno a cuore il tema dell’uguaglianza.
Napoli, 22 ottobre 2018
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1968 nasceva il Club di Roma. Siamo ancora in tempo per rallentare
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1968 nasceva il Club di Roma. Siamo ancora in tempo per rallentare di Martina Tafuro Nel 1968 l’imprenditore italiano Aurelio Peccei, lo scienziato scozzese Alexander King, insieme a intellettuali fra cui Elisabeth Mann Borgese, premi Nobel e leader politici fondano il Club di Roma. Il 17 e il 18 ottobre 2018 Roma ha ospitato un evento celebrativo con relatori tra i massimi esperti mondiali in tema di sostenibilità. Il nome del gruppo nasce dal fatto che la prima riunione si svolse a Roma, presso la sede dell’Accademia dei Lincei. La mission del Club è di agire come catalizzatore dei cambiamenti globali, individuando i principali problemi che l’umanità si troverà ad affrontare, analizzandoli in un contesto mondiale e ricercando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili. Nel progetto, quindi, il Club di Roma intende essere una sorta di cenacolo di pensatori dediti ad analizzare i cambiamenti della società contemporanea. Aurelio Peccei egli studiosi del gruppo stabilirono che il destino dell’umanità doveva essere analizzato scientificamente, utilizzando due concetti chiave “attenzione ed educazione al futuro” e “visione del destino dell’umanità”. Era diventato un imperativo categorico che le generazioni future
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dovevano essere avvisate di quello che stava per succedere, dovevano essere messe in guardia sui mutamenti e sui possibili pericoli planetari. Per evitare la catastrofe la tecnologia può dare un rilevante contributo, ma il suo adeguato impiego richiede coraggiose scelte politiche e finanziarie. La globalità dei problemi, dal cambiamento climatico, alle migrazioni o anche solo pensando alle crescenti diseguaglianze, fa sì che nessuna area del mondo possa pensare di esimersi dal rischio del tracollo. Dunque, bisogna cambiare strada e farlo rapidamente. La prospettiva di una “nuova economia climatica”, che oltre a tutto può contribuire anche alla crescita economica, è stata sin dal principio sottolineata da tutti i partecipanti al consesso. Il Club di Roma, con forza, volle richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sui problemi del futuro realizzando un libro che si prefiggeva di spiegare, in forma convincente e provocatoria, che cosa ci si sarebbe potuti aspettare all’inizio del ventunesimo secolo. Mediante modelli matematici e l’uso di (allora, nel 1970) potenti calcolatori elettronici, alcuni studiosi, per conto del Club di Roma, analizzarono che cosa sarebbe potuto succedere se alcuni fenomeni fossero aumentati con certe tendenze. Conquistò l’attenzione dell’opinione pubblica con il suo I limiti dello sviluppo, meglio noto come Rapporto Meadows, pubblicato nel 1972, il quale prediceva che la crescita economica non potesse continuare indefinitamente a causa della limitata disponibilità di risorse naturali, principalmente il petrolio e della debole capacità di assorbimento degli inquinanti da parte del pianeta. La crisi petrolifera del 1973 attirò ulteriormente l’attenzione dell’opinione pubblica su questo problema. E´ dalla pubblicazione del Rapporto che si discute tra chi è convinto che il progresso tecnologico sia in grado di risolvere tutte le sfide e chi è preoccupato che se non cambiamo strada siamo avviati al disastro. I dati che si stanno accumulando ci dicono che stiamo percorrendo la strada verso l’abisso, anche se l’Agenda 2030 ha posto le basi per un grande impegno mondiale. Le donne, gli uomini e le idee dell’ambientalismo Sono passati ventisei anni dal primo Vertice della Terra di Rio del 1992, evento che segnò lo spartiacque nel governo della Terra. In quell’occasione vennero fissati obiettivi comuni e fu chiaro a tutti che si stava entrando nell’era dello sviluppo sostenibile. Ma come e quando sono nate le lotte ambientali e quali idee ne sono state alla base? La consapevolezza ambientale. Nel 1962, Rachel Carson pubblicò “Silent Spring”e denunciò al mondo, le conseguenze ambientali nefaste sul pianeta frutto dell’uso delle sostanze chimiche di sintesi e dimostrò che erano state intaccate in modo irreversibile le catene alimentari, sia terrestri che marine. Il grandioso successo di vendite fece da volano per un furioso attacco all’industria chimica, John Kennedy fu costretto a inserire nell’agenda di governo i primi provvedimenti ambientali. L’opera fu tradotta in molte lingue, la Feltrinelli la pubblicò in Italia col titolo “Primavera Silenziosa” nel 1963. Rachel Carson, morì nel 1964, ma di lei è restato l’appassionato impegno, lo scrupoloso rispetto della verità e il coraggio personale che sono serviti da modello nella lotta per la difesa dell’ambiente in tutto il mondo, e lei stessa può essere considerata madre del movimento ambientalista. Le tesi, ancora attualissime esposte in “Primavera silenziosa” dimostrano che esistono alternative all’ avvelenamento del pianeta da parte delle industrie chimiche e che il lavoro congiunto degli studiosi ambientali suggerisce soluzioni biologiche, basate sulla conoscenza degli organismi viventi. Il dibattito ambientalista si internazionalizza. Nel 1972 fu pubblicato: “The Limits to Growth”. Questo capolavoro è il frutto delle intuizioni di Aurelio Peccei, un alto dirigente Fiat …senza maglioncino monastico monocromatico. Laureatosi in economia con una tesi sulla Nuova politica economica di Lenin, fu partigiano di Giustizia e Libertà, nei mesi successivi alla Liberazione fu alla testa della casa madre torinese e contribuì alla fondazione dell’Alitalia. Pur essendo uno dei manager più competenti e creativi della Fiat e pur di
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essere fedele alla sua vocazione manageriale e aziendale, si vide precludere l’ascesa ai massimi vertici della Fiat, ma grazie ai suoi eccellenti rapporti prima con Vittorio Valletta poi con Gianni Agnelli riuscì a ritagliarsi spazi di manovra. Fondò e diresse in America Latina la più fortunata filiale estera della Fiat e in seguito l’Adela, “società di investimenti e gestioni fondata sulla cooperazione di vari continenti”, rimise in sesto l’ Olivetti e ideò un “gruppo di consulenza ingegneristica ed economica” per gli investimenti nel Terzo Mondo, l’Italconsult, capace di “svilupparsi indipendentemente da quella degli azionisti e dei loro interessi”. Tutto questo, avendo sempre come ruolo principale la direzione di tutte le operazioni sudamericane della Fiat. La vita di Peccei sia di illuminazione a tanti manager contemporanei, pieni di boria. In età ormai matura Peccei iniziò a riflettere sulle implicazioni della mondializzazione dell’economia e della rapidità dell’innovazione tecnologica. La sua idea, era che le novità derivanti da questi due fenomeni non fossero solo positive, ma implicassero dei gravi squilibri a livello planetario destinati ad aggravarsi col passare del tempo fino ad arrivare a veri e propri punti di rottura. Peccei riteneva tuttavia che queste tendenze potessero essere governate, a condizione però di averne piena consapevolezza e di riuscire a realizzare una vera e propria rivoluzione nel modo di considerare il governo della cosa pubblica. Quel che era necessario, secondo Peccei, era un approccio sistemico, globale, previsionale e fortemente cooperativo. Il tutto, però, animato da un profondo senso del bene pubblico. Per far modo che queste intuizioni divenissero patrimonio comune sia delle opinioni pubbliche che dei tecnici e dei governanti, Peccei costituì quel che noi oggi chiameremmo un serbatoio di pensiero, i superesperti direbbero think tank, fatto di personalità di tutto il mondo, il Club di Roma, creato nel 1967-68 e si sforzò di capire come si potessero comunicare con successo le conoscenze e la visione complessiva maturate all’interno del gruppo. Il risultato, nel marzo del 1972, fu la pubblicazione, del rapporto The Limits to Growth, tradotto in Italia con un pessimo titolo: ”I limiti dello sviluppo”, che illustrava i possibili scenari planetari per i successivi settantacinque anni a seconda delle scelte politiche e tecnologiche adottate. La ricerca fu strutturata secondo i criteri dell’analisi dei sistemi che si basa sullo studio di come variano col tempo alcune grandezze correlate con altre; si deve cercare di immaginare come ciascuna può variare se ognuna delle altre cambia in un certo modo. L’analisi può essere fatta con equazioni differenziali derivate da quelle che cercano di prevedere come varia una popolazione animale se nello stesso territorio sono presenti altri animali, prede o predatori, se il cibo o lo spazio sono scarsi, se sono presenti agenti intossicanti, ecc. La stessa procedura può essere applicata nel cercare di correlare gli affari di una impresa industriale con la dimensione del mercato, con l’aggressività dei concorrenti, col costo del denaro, con il cambiamento dei gusti dei consumatori, ecc. Se volessimo indicare cos’- hanno in comune, “Silent Spring” e “The Limits to Growth” dovremmo concentrare la nostra attenzione su cinque elementi: esse hanno fortemente favorito l’internazionalizzazione del dibattito ambientalista, fino a quel momento piuttosto ripiegato su ambiti continentali o persino nazionali; hanno segnato la comparsa di quello che si sarebbe poi chiamato l’ambientalismo scientifico, cioè un approccio ambientalista fondato molto più su solide basi conoscitive che non su petizioni di principio magari dalle fragili basi argomentative; hanno dato un contributo cruciale all’istituzionalizzazione delle politiche ambientali, sia nazionali che sovranazionali; hanno imposto con maggior autorevolezza che in passato un approccio sistemico e globale all’analisi dei fenomeni ambientali e soprattutto all’analisi del danno ambientale; sono stati importanti catalizzatori di una straordinaria crescita della consapevolezza ambientale e dei relativi movimenti a livello mondiale. Modello e metodologia Il Rapporto sui limiti dello sviluppo aveva come base teorica il modello World3
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Il modello World3 è un modello matematico scritto in un linguaggio chiamato DYNAMO. Il codice sorgente DYNAMO è stato pubblicato su Dynamics of Growth in a Finite World (1974) assieme all’analisi del sistema di equazioni differenziali accoppiate che costituiscono il modello World3. I punti-leva del World3 sono essenzialmente tre: 1. La crescita economica è correlata all’attività industriale con una curva crescente e l’attività industriale al consumo di materie prime. In pratica, per fare più soldi si deve scavare di più. 2. La crescita economica è correlata alla fertilità tramite una curva bizzarra che dice essenzialmente questo: i poveri tendono a fare molti figli (faccio molti figli perché pochi sopravvivranno), l’aumento della ricchezza porta il tasso di fertilità a stabilizzarsi attorno ai due figli per coppia (faccio i figli che mi posso permettere) salvo crescere ancora all’aumentare della ricchezza oltre un certo limite (faccio più figli perché sono ricco e mi posso permettere di averne tanti). 3. La produzione industriale è direttamente correlata all’inquinamento e, indi, al tasso di mortalità. Altrimenti detto, producendo oltremisura si finisce a morire di inquinamento Napoli, 29 ottobre 2018
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Ecco i compiti da fare per la settimana: amare, amare, amare
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Ecco i compiti da fare per la settimana: amare, amare, amare di Martina Tafuro In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: “Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi”. Lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo. Mc 12,28-34 Innanzitutto, la domanda dello scriba mi sembra interessante e in me stuzzica un certo interesse. Allora mi chiedo:” Ma quanti sono i comandamenti della legge di Mosè?”. Ricerco notizie, non mi fido dei social/predicatori, e scopro che nella Legge di Mosè vi sono ben 613 comandamenti da osservare, 365 negativi e 248 positivi. Martina Tafuro
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Quindi, ogni giorno c’è una cosa, obbligatoriamente, da non fare e un 0,68 da fare…quasi una. Allora capisco che il lavoro dello scriba era di cercare una priorità, mettendo ordine, nella giungla di comandamenti prescritti, sarà per questo che vi dedicavano la vita. L’ominide dalle dita opponibili del terzo millennio, vive una situazione molto simile. E’, sempre e da sempre, sopraffatto da infinite cose da fare, la spesa, i lavori domestici, l’attività fisica, le e-mail da inviare, le notizie da ascoltare … e la lectio e l’adorazione da non dimenticare. Come, moderni scribi non riusciamo a stabilire delle priorità e il più delle volte il senso di colpa ci rimprovera di non utilizzare bene il nostro tempo, di non fare le cose veramente importanti nella nostra vita. Per uscire da questo ingorgo, depressivo e repressivo, il mio Gesù mi viene incontro. Martina a qualsiasi età, che tu viva a Nola o a Łódź hai una priorità assoluta che si condensa in cinque lettere (3 vocali e 2 consonanti): AMARE. Gesù, il mio Gesù, mi dice che su questa terra non c’è nulla di più importante dell’amore: “amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.[….] Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Quindi, io Martina, devo amare Dio, il prossimo e me stessa. Dio, perché è unico, il Creatore dell’universo, della vita, colui che mi ha dato la vita, che mi ama infinitamente, che è sempre fedele, che mi libera dal male, che mi perdona, che mi apre le porte del cielo e della vita eterna, è il grande benefattore della mia vita. Non c’è nessuno sulla terra che mi ama come lui. Dal suo amore esagerato nasce in me il desiderio di una risposta d’amore altrettanto esagerata. Insomma, voglio che la mia replica al comandamento dell’amore sia eccessiva in riposta al SUO sovrabbondante amore. Dopo Dio da amare, c’è il prossimo, un essere umano come me. Non posso amarlo come Dio altrimenti sarei un’idolatra. Il prossimo, è sufficiente amarlo come noi stessi. E così, per amarlo, dobbiamo prima amare noi stessi. E per amarci, dobbiamo accettarci e apprezzarci. Io amo, perché ho sperimentato in me stessa l’amore di Dio, ho iniziato ad amare me stessa il giorno in cui ho sperimentato di essere amata gratuitamente da Dio. E, allo stesso tempo, ho anche imparato ad amare l’altro come me stessa, perchè Dio lo ama come ama me. Quindi devo ammettere che se oggi amo, perchè non mi è bastato conoscere la password che sblocca il desk: amare… ma ho praticato, messo in pratica la password. Gesù disse allo scriba che aveva dimostrato di conoscere la password e che non era lontano dalla fonte dell’amore. Amare, amare, amare… Dio, il prossimo e me stessa… Napoli, 3 novembre 2018
Martina Tafuro
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“Questo povero grida e il Signore lo ascolta”. 18 novembre 2018 II Giornata mondiale dei Poveri
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“Questo povero grida e il Signore lo ascolta”. 18 novembre 2018 II Giornata mondiale dei Poveri di Martina Tafuro “In Italia il numero dei poveri assoluti (cioè le persone che non riescono a raggiungere uno standard di vita dignitoso) continua ad aumentare, passando da 4 milioni 700mila del 2016 a 5 milioni 58mila del 2017, nonostante i timidi segnali di ripresa sul fronte economico e occupazionale. Dagli anni pre-crisi ad oggi il numero di poveri è aumentato del 182%, un dato che dà il senso dello stravolgimento avvenuto per effetto della recessione economica”. Rapporto Caritas 2018 Si celebrerà domenica 18 novembre 2018 la seconda Giornata mondiale dei Poveri, istituita da papa Francesco al termine del Giubileo della Misericordia nel 2016. La seconda edizione di questa Giornata ha per titolo “Questo povero grida e il Signore lo ascolta”.
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Nel Messaggio del Papa per questa Giornata saltano subito agli occhi tre verbi, che caratterizzano l’atteggiamento del povero e il suo rapporto con Dio: gridare, rispondere, liberare. Nel Messaggio papa Francesco ci ricorda che: “…in questa Giornata Mondiale siamo invitati a dare concretezza alle parole del Salmo: “I poveri mangeranno e saranno saziati”. Sappiamo che nel tempio di Gerusalemme, dopo il rito del sacrificio, avveniva il banchetto. In molte Diocesi, questa è stata un’esperienza che, lo scorso anno, ha arricchito la celebrazione della prima Giornata Mondiale dei Poveri. Molti hanno trovato il calore di una casa, la gioia di un pasto festivo e la solidarietà di quanti hanno voluto condividere la mensa in maniera semplice e fraterna. Vorrei che anche quest’anno e in avvenire questa Giornata fosse celebrata all’insegna della gioia per la ritrovata capacità di stare insieme. Pregare insieme in comunità e condividere il pasto nel giorno della domenica. Un’esperienza che ci riporta alla prima comunità cristiana, che l’evangelista Luca descrive in tutta la sua originalità e semplicità:”Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. […] Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. La Caritas è da sempre accanto alle esigenze dei poveri e tra le varie iniziative messe in campo vi è annualmente la presentazione di un Rapporto sulla povertà. Il Rapporto 2018 su povertà e politiche di contrasto ha per titolo “Povertà in attesa”. La pubblicazione del Rapporto 2018 si compone di due parti, il diciassettesimo Rapporto sulla povertà e il quinto Rapporto sulle politiche di contrasto. In particolare il rapporto analizza il tema della povertà educativa, fenomeno ereditario nel nostro Paese, forte fattore di trasmissione di povertà economica, presente nelle generazioni. I dati raccolti confermano la forte correlazione tra livelli di istruzione e povertà economica, documentando altresì una correlazione tra livelli di istruzione e cronicità della povertà. Persiste quel zoccolo duro di disagio che ha tutta la caratteristica della parte della società ante crisi economica 2007-2008, solo che oggi il fenomeno ha investito molti più soggetti. Per strada, vive accanto a noi, una moltitudine di poveri in attesa, che non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per un’ allarmante cronicizzazione e multidimensionalità dei bisogni. Dal Rapporto si evince che nel corso del 2017 i volti incontrati dalla rete Caritas sono stati 197.332, attraverso 1.982 Centri di ascolto allocati in 185 diocesi. Delle persone incontrate il 42,2% è di cittadinanza italiana, il 57,8% straniera. Nel Settentrione e nel Centro prevalgono gli stranieri mentre nel Mezzogiorno le storie intercettate sono in maggioranza di italiani. Le maggiori caratteristiche che il Rapporto evidenzia e che ci rimandano l’identikit del fruitore dei Centri Caritas sono:
rottura dei legami familiari come fattore scatenante nell’entrata in stato di povertà e di bisogno; stabilità dei lavoratori con un basso livello di reddito, divisi tra salari da fame e contratti a intermittenza, working poor; incremento delle persone senza dimora e delle storie connotate da un minor capitale relazionale, le cosiddette famiglie uni-personali;
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aumento dei giovani compresi nella fascia d’età 18-34 anni; diminuzione della componente femminile; incremento dell’irregolarità tra gli stranieri; decremento del numero di nuovi utenti; crescita di soggetti di sesso maschile originaria del continente africano; incremento ulteriore di analfabeti/senza titolo, da 6,6 a 7,2%. Napoli, 14 novembre 2018
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Il World Toilet Day, per sensibilizzare sull’importanza dei servizi igienici
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Il World Toilet Day, per sensibilizzare sull’importanza dei servizi igienici di Martina Tafuro Oggi, 19 novembre è il World Toilet Day, la giornata mondiale voluta dall’Onu per sensibilizzare il mondo sull’importanza di adeguati e puliti servizi igienici. Una giornata resa necessaria dal mancato accesso ai servizi igienici di base di oltre 2 miliardi di persone nel mondo, circa il 30% della popolazione complessiva. Dei 2,3 miliardi complessivi, circa 600 milioni condividono il bagno con altre famiglie mentre quasi 900 milioni non lo hanno affatto e utilizzano la natura come wc. Questo, evidenziano gli organizzatori, ha “un impatto devastante sulla salute pubblica, le condizioni di vita, la nutrizione, l’educazione e la produttività economica in tutto il mondo”.
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Il tema di questa edizione sono le “soluzioni naturali” al problema, poiché è importante evidenziare che i servizi igienici di base aiutano a combattere la malnutrizione, la violenza e la diffusione di malattie mortali. Il gabinetto può essere una frase spiritosa, ma se vogliamo raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 dobbiamo darci una mossa. L’Obiettivo di sviluppo sostenibile numero 6 infatti vuole “Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie”. L’esposizione agli escrementi umani ha effetti nocivi per la sanità pubblica e la nutrizione, perché contaminano l’ambiente e le fonti di acqua potabile, agevolando così la diffusione di malattie letali. Ogni anno 340.000 bambini, al di sotto dei cinque anni, perdono la vita a causa di diarrea, colera e dissenteria, malattie che nascono e si diffondono per la mancanza di strutture igienico sanitaria. Accanto a ciò gli esperti ci dicono che condizioni igieniche precarie generano malnutrizione cronica, condizione che favoriscono un ritardo nella crescita e compromissione dello sviluppo fisico e cognitivo. In ultimo c’è da porre all’attenzione di tutti un problema di sicurezza personale, poiché si calcola che circa una donna su tre al mondo è esposta al rischio di aggressione e stupro poiché costretta a fare i propri bisogni all’aperto. Napoli, 19 novembre 2018
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Conferenza sui cambiamenti climatici (COP24) a Katowice in Polonia, per salvare il Pianeta
Conferenza sui cambiamenti climatici (COP24) a Katowice in Polonia, per salvare il Pianeta di Martina Tafuro Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. (WCED,1987) I rappresentanti di circa 200 Paesi sono riuniti in Polonia per la Conferenza delle Parti promossa dalle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP24). I convenuti sotto la forte minaccia lanciata dagli scienziati, danno vita a due settimane di negoziati per ridare nuova linfa all’accordo di Parigi sul clima. La Conferenza svoltasi a Parigi (Cop21) dal 30 novembre all’11 dicembre 2015 portò a un accordo globale per cercare di limitare l’aumento della temperatura media terrestre a 2 °C, facendo tutti i tentativi possibili per rimanere entro 1,5 °C. L’accordo prevedeva che le misure avrebbero dovuto avere inizio trenta giorni dopo che almeno 55 “parti della convenzione” (nazioni o federazioni di stati), e per almeno il 55% delle emissioni totali di gas a effetto serra, avessero firmato il trattato.
Ad oggi le nazioni che hanno ratificato e firmato l’accordo sono visibili sulla pagina del World Resources Institute …non ci sono Cina, Stati Uniti e India. Alla Cop 24 entrerà nel vivo anche il Dialogo Facilitativo decisione adottata a Parigi nel 2015, ribattezzato Dialogo di Talanoa, con l’obiettivo di fare un bilancio degli sforzi collettivi delle parti in relazione ai progressi verso gli obiettivi di temperatura dell’accordo parigino e di informare di conseguenza i paesi in preparazione dei prossimi NDCs. La situazione è certamente lenta a risolversi, di contro le conseguenze dei cambiamenti continuano a crescere a grande velocità. Il rapporto dell’IPCC, evidenzia che il mondo continua a riscaldarsi: “se le emissioni di gas serra continueranno al ritmo attuale, le temperature globali aumenteranno di 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali entro il 2040, e poi di 3 gradi entro il 2100”. L’uomo con la sua attività predatoria, ha causato un riscaldamento globale di quasi 1° (0,87° in un range tra 0.75 e 0.99°) rispetto al periodo pre-industriale (1850-1900). Dopo la decisione di voltare le spalle all’accordo da parte degli Stati Uniti e la presa di distanza di altri paesi: “La Polonia non può rinunciare al carbone”, ha dichiarate il padrone di casa polacco, alla fine della giornata inaugurale, è palese quanto sia difficile concretizzare le promesse fatte a Parigi nel 2015. Le ultime Conferenze mondiali, la Cop 22 di Marrakech e la Cop 23 di Bonn, hanno provato ad avviarne l’attuazione pratica, con risultati molto parziali che alimentano ora un’attesa spasmodica verso la Cop 24, di Katowice, in Polonia. Insomma l’accordo di Parigi fornisce solo il quadro della nuova governance internazionale sul clima, occorre ora mettere a punto i meccanismi per l’attuazione: il sistema deve infatti essere operativo nel 2020. Le aspettative sono molteplici e complesse, i segnali d’allarme provenienti da più parti sonon incessanti: “Siamo i meno responsabili del cambiamento climatico ma anche i più vulnerabili alle sue conseguenze”: ha sottolineato il diplomatico etiope Gebru Jember Endalew, presidente delle delegazioni dei Paesi meno sviluppati (Ldc). Il rappresentante africano, sottolinea che per le politiche di contrasto serviranno miliardi e miliardi, riferendosi alla promessa dei Paesi ricchi di garantire allo scopo finanziamenti per cento miliardi di dollari l’anno entro il 2020, per i più poveri. Tra le altre voci vi è quella dell’Istituto superiore di Sanità, che attraverso il presidente Walter Ricciardi: “Due generazioni, ovvero 20 anni, per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici e dagli effetti devastanti che questi avranno sulla salute dell'uomo e dei territori”, lancia l’allarme: “E' questo il tempo che ci rimane per mettere in atto misure concrete. Fra 20 anni potrebbe già essere troppo tardi. Già oggi le morti in Europa legate ai cambiamenti climatici sono migliaia l’anno, ma saranno milioni nel prossimo futuro se non si agisce subito”. Il fatto, ha avvertito Ricciardi, è che “i danni sulla salute dai cambiamenti climatici sono visibili all'istante ma sono devastanti; si tratta, in un certo senso, di un Olocausto a fuoco lento”. Napoli, 4 dicembre 2018
Global compact per le migrazioni: cos’è? ■Cultura
Global compact per le migrazioni: cos’è? di Martina Tafuro Il Global Compact per le migrazioni è stato approvato, il 10 dicembre 2018, a Marrakesh alla Conferenza dell’Onu con oltre 160 voti favorevoli, rispetto ai 193 Paesi membri che due anni fa avevano avviato il percorso con un voto unanime. L’obiettivo dell’accordo era quello di definire un quadro di indirizzi, non vincolanti e non lesivi della sovranità nazionale per pervenire a “migrazioni sicure, ordinate e regolari”. Il Patto globale sulle migrazioni vuole essere punto di riferimento per una risoluzione globale delle singole politiche migratorie, messe in campo dagli Stati. Lo strumento approvato intende superare l’approccio emergenziale e si pone come mezzo e strumento per poter portare al tavolo della trattativa internazionale le proprie ragioni, così da facilitare le trattative tese a definire accordi e strategie tra i paesi di provenienza e di transito. Nel vertice del 19 settembre 2016 l’Assemblea Generale dell’ONU ha adottato all’unanimità la Dichiarazione di New York sui migranti e rifugiati. I leader dei 193 Stati membri hanno ammesso l’ opportunità di un approccio globale alla mobilità umana, esprimendo la volontà di garantire la salvezza delle vite, la protezione delle persone, la salvaguardia dei diritti umani, la condivisione delle responsabilità e degli oneri, il potenziamento della governance dei flussi migratori. E’ stato programmato, per il raggiungimento dell’obiettivo, un ampio percorso di consultazione con le più rilevanti istituzioni pubbliche e private coinvolte, seguito da negoziati intergovernativi che hanno prodotto la bozza finale del “Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Come si è giunti al Global Compact? Dopo la ratifica e l’adozione, da parte degli Stati, della Dichiarazione di New York, agli ambasciatori all’ONU di Svizzera e Messico è stato dato l’incarico di creare tutte le condizione per
agevolare il negoziato sul Global Compact, con il supporto dell’IOM, Organizzazione internazionale per le migrazioni. La bozza finale è stata approvata il 13 luglio scorso da 192 paesi, a conclusione di un negoziato intergovernativo che ha prodotto tre revisioni della bozza iniziale. In conclusione il Patto globale sulle migrazioni è utile, in particolar modo ai decisori politici: 1. come riferimento per un’ approccio decisionale complessivo delle politiche migratorie dei singoli Stati, come strumento per superare l’emergenza settoriale; 2. come mezzo e strumento per rafforzare le proprie ragioni nelle relazioni e negoziazioni; 3. come tramite per facilitare le trattative nella definizione dei necessari accordi bilaterali con i paesi di provenienza e di transito. Il Global Compact traccia un’azione dirompente di governance dei movimenti migratori. Questo percorso offre un quadro complessivo di compressione del fenomeno, ripropone e attualizza principi condivisi da tempo, delimita un coerente quadro d’azione in riferimento ad Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, invita gli Stati ad una migliore cooperazione e solidarietà coinvolgendo gli attori interessati ad una più proficua collaborazione. Insomma, una bussola che ogni Stato deve seguire con sempre maggiore intensità, indipendentemente dalle proprie opzioni politiche. I 23 obiettivi esposti nel Global compact, non spalancano le frontiere, ma suggeriscono come regolarla. Vediamone alcuni: 1) Raccogliere e utilizzare dati accurati e disaggregati per elaborare politiche basate sull’evidenza. 2) Ridurre al minimo i fattori strutturali e le condizioni avverse che forzano le persone a lasciare il loro Paese di origine. 4) Garantire che i migranti abbiano identità legalmente accertata, corretta identificazione e documentazione. 5) Migliorare la disponibilità e flessibilità di canali migratori regolari. 6) Rendere possibili modalità giuste ed etiche di assunzione per assicurare condizioni decenti di lavoro. 9) Rafforzare il contrasto transfrontaliero al traffico di migranti. 10) Prevenire e combattere la tratta di persone nell’ambito delle migrazioni internazionali. 11) Gestire le frontiere con modalità integrate, sicure e coordinate. 21) Collaborare a rendere possibile, un ritorno, una riammissione e un reintegro che siano sostenibili e dignitosi. 22) Stabilire meccanismi che permettano la portabilità dei trattamenti pensionistici e indennità maturati. Approfondimenti: Video esplicativo sulla migrazione e il GCM: https://www.youtube.com/watch?time_continue=4&v=LL87BK5OSz8; altre informazioni utili: http://www.un.org/en/conf/migration/; intervento della Rappresentante Speciale del Segretario Generale, Louise Arbour, del 27 novembre 2018: https://www.unmultimedia.org/avlibrary/asset/2320/2320581/; Dipartimento per gli affari economici e sociali (DESA) video sulle rimesse e sui contributi dei migranti a favore dello sviluppo sostenibile: https://www.un.org/development/desa/en/; video su YouTube: https://www.youtube.com/watch?time_continue=38&v=BQdOVcQAons; Altre informazioni e infografiche: https://refugeesmigrants.un.org/ Napoli, 13 dicembre 2018
Rapporto Censis 2018. Dove rinasce la speranza?
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Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Rapporto Censis 2018. Dove rinasce la speranza? di Martina Tafuro Salari quasi identici a 17 anni fa! Tra il 2000 e il 2017 nel nostro Paese il salario medio annuo è aumentato solo dell’1,4% in termini reali. La differenza è pari a poco più di 400 euro annui, 32 euro in più se considerati su 13 mensilità. Nello stesso periodo in Germania l’incremento è stato del 13,6%, quasi 5.000 euro annui in più, e in Francia di oltre 6.000 euro, cioè 20,4 punti percentuali in più. Se nel 2000 il salario medio italiano rappresentava l’83% di quello tedesco, nel 2017 è sceso al 74% e la forbice si è allargata di 9 punti. “Quando compri credi di farlo col denaro, ma ti sbagli. Non si compra con i soldi, ma con il tempo che abbiamo usato per guadagnare quel denaro. In altre parole quando si consuma, si paga con la vita che se ne va”. E’ questa la risposta di Pepe Mujica, presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015 data a un giornalista che lo incalzava sulla necessità di consumare. Quindi, seguendo il ragionamento di Mujica, bisogna essere ricchi per consumare molto.
Il punto è che passiamo tutto il tempo al lavoro per fare soldi e non ne resta per le altre dimensioni. Ecco perché le famiglie sembrano essere diventate dei non luogo, infatti se si analizza il tempo passato insieme da tutti i componenti della famiglia vediamo che le famiglie non son altro che delle stazioni di transito, dove il più delle volte ci si saluta a distanza. Insomma, la vittima sacrificale della nostra esistenza è la relazione, in tutte le sue accezioni. In quest’ottica possiamo leggere il Rapporto Censis giunto alla sua 52ª edizione. Nell’edizione 2018 la pubblicazione ci descrive il momento storico che stiamo attraversando e cioè il passaggio da un’economia dei sistemi a un ecosistema degli attori individuali, verso un appiattimento della società. Nella parte dedicata alla società italiana del 2018, si affrontano i temi pregnanti emersi durante i 365 giorni passati: le radici sociali di un sovranismo psichico, prima ancora che politico, le tensioni alla convergenza e le spinte centrifughe che caratterizzano i rapporti con l’Europa, gli snodi da cui ripartire per dare slancio alla crescita. Infine, trova spazio il dibattito incentrato sulla formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, la sicurezza e la cittadinanza. L’analisi del Censis evidenzia che il nostro tessuto sociale si è ingrigito, frammentato e chiuso, rinunciando a consumi e investimenti. Il rancore ha preso possesso del nostro agire collettivo, cambiando il nostro modo di essere facendo dell’invidia verso il prossimo il nostro compagno di viaggio.A dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers, niente è cambiato se non che devi lavorare di più per non dover scendere sotto la soglia minima di guadagno per vivere dignitosamente. I giovani continuano a vivere la loro esistenza di precari esistenziali e cresce sempre di più il rancore, alimentato dal blocco verso l’alto dell’ascensore sociale e dalla percezione che non ci sia un futuro migliore. Accanto alla crisi materiale, vi è la crisi immateriale scaturita dalla fine dell’immaginario collettivo che ci proietta solo paure. Pensiamo alle aspettative delle persone per la propria condizione economica: nel 1998 il 27,7% degli italiani era convinto che la propria condizione economica sarebbe migliorata e il 23% che sarebbe migliorata quella in generale. Nel 2008, anno della crisi, era il 19,6% a pensare che la propria condizione sarebbe migliorata e il 20,8% a pensare che sarebbe migliorata quella degli altri. Infine, nel 2018 è il 28% a dire che la propria condizione migliorerà, mentre il 35% pensa che migliorerà, in generale, quella degli altri. In parallelo la percezione di avere le stesse opportunità degli altri per avanzare nella vita è bassa: è convinto di avere pari opportunità rispetto alle altre persone il 45% degli italiani. Un altro aspetto importante, legato all’ascensore sociale bloccato, è la percezione che occorra difendersi da incertezze e paure, ciò si manifesta nel sentimento che le cose stiano andando nella direzione sbagliata: di questo è convinto il 60% degli italiani. È caduta anche la fiducia nel futuro: il 39% degli italiani è sfiduciato nei confronti di ciò che verrà, la percezione che le cose vadano male si accompagna a confusione e incertezza verso l’ignoto futuro: il 35% degli italiani dichiara di non capire ciò che gli sta accadendo attorno. Nelle Considerazioni generali del 52° Rapporto Censis, così viene descritta la situazione italiana: “Il sistema sociale, attraversato da tensioni, paure, rancore, guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, rompe l’empatia verso il progresso, teme le turbolenze della transizione. Il popolo si ricostituisce nell’idea di una nazione sovrana supponendo, con una interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella nonsovranità nazionale. I riferimenti alla società piatta come soluzione del rancore, e alla nazione
sovrana come garante di fronte a ogni ingiustizia sociale, hanno costruito il consenso elettorale e sono alla base del successo nei sondaggi politici in Italia come in tante altre democrazie del mondo. Siamo di fronte a una politica dell’annuncio. Ma la funzione politica, la responsabilità della classe dirigente, il ruolo dell’establishment stanno nel proporre una prospettiva nel futuro. L’annuncio, senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al progetto politico, da profetico si fa epigonale. L’errore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso e diseguale. Bisogna prendere coscienza del fatto di avere di fronte un ecosistema di attori e processi. C’è bisogno di un dibattito sull’orientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i nuovi traguardi. Ritorna il tema dell’egemonia e del ruolo delle élite. Serve una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi”. Napoli, 19 dicembre 2018
Auguri Terra. Ti proteggerò perché ti voglio bene! ■Cultura
Auguri Terra. Ti proteggerò perché ti voglio bene! di Martina Tafuro Sul finire di quest’anno mi risuonano in mente, più forti che mai, le parole di Don Tonino Bello: “Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame”. La provocazione di questo scomodo e amato prete, mi invita a riflettere sul concetto/forza di libertà, intesa come strumento per realizzare la felicità. Il mio concetto di libertà, è quello sancito nella rivendicazione dei diritti naturali con cui si apre la Dichiarazione di Indipendenza americana del 4 luglio 1776. Nel documento è scritto che a tutti gli uomini vanno riconosciuti il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità. L’impulso, proprio dell’uomo, a realizzare la pienezza della libertà è un fenomeno che ha sempre destato meraviglia nei pensatori. Non voglio tediarvi descrivendovi la filosofia di Kant, ma non si può negare che gli uomini desiderano la libertà e la cercano, perché in ogni accadimento si pongono domande che reclamano risposte. Che cosa è? Perché l’uomo la continua a cercare? Perché la scambia con beni che non la contengono? È una illusione o una speranza legittima? Libertà, felicità, accoglienza sono e devono essere fari che ci guidano e fanno luce nel buio, affinché non ci perdiamo lungo il cammino dell’esistenza. Sono parole che esprimono il desiderio di relazione tra noi e gli altri, la ricerca e la lotta per il raggiungimento di questi obiettivi ci può far credere che si tratti di qualcosa che viene imposto dall’esterno e che ci impone un passivo
assoggettamento. Se le cose stessero così, il naturale moto di ribellione sarebbe giustificato. Vere profonde queste belle parole, ma oggi ci arriva il messaggio che la libertà è la condizione nella quale non c’è alcuna forma di dipendenza, né vincoli da riconoscere. Qualcosa non torna! Allora come esistono gli altri, non siamo mica tutti dei semidei e gli altri schiavi a cui imporre il nostro dominio? Come la mettiamo con chi urla ai quattro venti che la persona libera, è chi recide ogni legame per dedicarsi esclusivamente al proprio interesse? Questi individui dietro l’apparente sicurezza sono fragili, non sopportano il limite, perché non sanno costruire rapporti duraturi con l’alterità. Mi son reso conto frequentando la vita in parrocchia che, il più delle volte, avevo sì risolto il problema della libertà, ma non quello della socialità, del sentirmi parte di una comunità. Sembra che la mia parrocchia, sia orfana di persuasiva idealità e vigorose motivazioni. L’intero gregge vaga, tutti sono diventati volubili, individualisti, disponibili a contaminazioni e ipersensibili a fenomeni di leaderanza parrocchiale. Eh già! il vostro Dio è troppo un affare di famiglia per liberarsene. Ma io proseguo il mio cammino nel grande gioco della vita, sono figlia della libertà e ho la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e quotidianamente ho l’attrezzatura per inventarmi una vita carica di donazione, di silenzio, di coraggio. Siamo nell’Antropocene, l’uomo ha uno spazio libero dove muoversi, ma l’esistenza non è più percepita come sua dimora. Vuole vivere in isolamento seguendo le sue pulsioni, non ascolta più la propria intimità, costantemente provocata a sostare, a mettere radici, a entrare in relazione. Chi pretende di essere libero e vivere in solitudine è semplicemente un illuso, perché non tiene conto della socialità, essenza della persona. La dignità della persona, il rispetto delle scelte degli altri sono elementi essenziali nella costruzione di legami relazionali cercati e non imposti, è il percorso per diventare popolo maturo e non più schiavi. La libertà è la pista su cui correre per raggiungere la felicità, che non vuol dire soddisfare ogni genere di desiderio, ma quei bisogni fondamentali che rendono la vita bella. Aldilà dei consigli a cambiare stile di vita, a non usare il denaro come potere, è importante riprendere la lotta per la conquista della libertà, in primo luogo credendo nella speranza. Se tante persone ritorneranno libere, si potrà cambiare la nostra società, ritornando ai principi che non siano quelli del denaro a tutti i costi, della crescita infinita. “Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate”. Inizia un nuovo anno, cosa ci proponi Martina? Non parliamo sempre di abbattere gli sprechi. Vi propongo di rivedere i desideri. Napoli, 31 dicembre 2018
Buon compleanno Greta: forza del nostro futuro. ■Cultura
Buon compleanno Greta: forza del nostro futuro. di Martina Tafuro Domani 3 gennaio, compirà 16 anni Greta Thunberg. Per chi non la conoscesse è la ragazza con l’impermeabile giallo che dallo scorso agosto, ha iniziato il suo “Climate Strike”, uno sciopero dalla scuola per andare a protestare di fronte al Parlamento svedese per le politiche energetiche e ambientali. La ragazzina terribile viene dalla Svezia e ha iniziato a interessarsi al cambiamento climatico all’età di 8 anni. Con la sua protesta garbata e decisa ha conquistato decine di pagine sui quotidiani, le sono stati dedicati reportage, interviste in tutto il mondo, ma soprattutto l’invito alla conferenza di Katowice, in Polonia. Clicca sull’immagine e segui il discorso di Greta. Greta ha una madre cantante lirica sinfonica, un padre attore, una diagnosi di sindrome di Asperger: “mi fa vedere le cose in bianco e in nero. Non mi piace mentire”, pressa adulti e politici sul peso che stanno lasciando sui bimbi di tutto il mondo, togliendo loro il futuro. Eppure quando è salita sul palco della COP24, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, ha lasciato il segno di fronte ai leader mondiali che partecipavano all’evento. “Ci state rubando il futuro”, ha gridato dal palco “Mi chiamo Greta Thunberg. Ho 15 anni. Vengo dalla Svezia. Parlo a nome di Climate Justice Now. Molte persone dicono che la Svezia è solo un piccolo paese e non importa quello che facciamo. Ma ho imparato che non sei mai troppo piccolo per fare la differenza”, così si è presentata al cospetto dei leader del mondo, la ragazzina indicata
dal Time nella lista delle teenager più influenti al mondo del 2018, riguardo le disuguaglianze climatiche e sociali nel mondo. Greta ha portato avanti diversi scioperi. Lo scorso settembre è rimasta seduta per due giorni a settimana, per tre settimane, di fronte al Parlamento di Stoccolma, dichiarando: “Lo faccio perché gli adulti stanno sgretolando il nostro futuro”. In ottobre ha parlato a una folla di 10mila persone, durante una protesta sui cambiamenti climatici ad Helsinki: “Invece di preoccuparci del nostro futuro dovremmo pensare a cambiarlo, finché siamo in tempo”. Tenace e senza paura di dire ciò che pensa. “E se alcuni bambini in tutto il mondo ce la fanno anche quando gli viene negato l’accesso alla scuola, allora immaginate cosa potremmo fare tutti insieme se solo lo volessimo davvero. Ma per farlo, dobbiamo parlare chiaramente, non importa quanto possa essere scomodo”. Seduta accanto al Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres ha invitato il mondo intero: “a rendersi conto che i nostri leader politici ci hanno deluso, perché siamo di fronte a una minaccia esistenziale e non c’è tempo per continuare su questa strada folle”. “Poiché i nostri leader si comportano come bambini, dovremo assumerci le responsabilità che avrebbero dovuto assumersi loro da tempo”, spiega durante il suo discorso e ancora: “Non siamo venuti qui per chiedere ai leader mondiali di prendersi cura del nostro futuro. Ci hanno ignorato in passato e ci ignoreranno di nuovo. Siamo venuti qui per fargli sapere che il cambiamento sta arrivando, che la cosa gli piaccia o no. La gente sarà all’altezza della sfida”. E ancora: “Mentre il mondo consuma circa 100 milioni di barili di petrolio al giorno, non ci sono politiche per cambiare questa situazione. Non ci sono politiche per tenere quel petrolio nel terreno. Quindi non possiamo più salvare il mondo giocando secondo le regole, perché le regole vanno cambiate”. Greta è già conosciuta a livello internazionale per gli scioperi climatici settimanali fuori dal parlamento svedese. Dopo l’estate svedese più calda della storia, salta la scuola una volta a settimana per parlare con i politici dei cambiamenti climatici. Ecco uno stralcio del suo lungo discorso: “Parlate solo di andare avanti con le stesse cattive idee capitaliste che ci hanno portato in questo casino, anche quando l’unica cosa sensata da fare è tirare il freno di emergenza. Non siete abbastanza maturo per dire la verità? Ci lasciate anche questo di peso. Ma non mi interessa essere popolare. Mi interessa la giustizia climatica e salvare il pianeta. La nostra civiltà viene sacrificata per l’opportunità di un numero molto ridotto di persone di continuare a fare enormi somme di denaro. La nostra biosfera viene sacrificata in modo che i ricchi di paesi come il mio possano vivere nel lusso. Sono le sofferenze dei molti che pagano per i lussi di pochi. Nel 2078 celebrerò il mio 75esimo compleanno. Se avrò figli, forse passeranno quella giornata con me. Forse mi chiederanno di voi. Forse chiederanno perché non avete fatto nulla mentre c’era ancora tempo per agire. Dite di amare i tuoi figli sopra ogni altra cosa, eppure state rubando il loro futuro davanti ai loro stessi occhi. Finché non inizierete a concentrarti su ciò che deve essere fatto piuttosto che su ciò che è politicamente possibile, non c’è speranza. Non possiamo risolvere una crisi senza trattarla come una crisi. Dobbiamo mantenere i combustibili fossili nel terreno e dobbiamo concentrarci sull’equità. E se le soluzioni all’interno del sistema sono così impossibili da trovare, forse dovremmo cambiare il sistema stesso. Non siamo venuti qui per chiedere assistenza ai leader mondiali. Ci avete ignorato in passato e ci ignorerete di nuovo. Abbiamo finito le scuse e stiamo finendo il tempo. Siamo venuti qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. Il vero potere appartiene alle persone che si ribellano. Grazie”. Allora tutti noi prendiamo esempio dalla piccola Greta che, a suo modo, ha avviato una protesta di cui tutto il mondo sta parlando. Tutto questo per salvare l’umanità e la nostra terra: non ne abbiamo un’altra dove andare per il momento.
Napoli, 2 gennaio 2018
Violenza per motivi di genere sulle donne e le ragazze: i numeri del 2018
■Cultura
Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Violenza per motivi di genere sulle donne e le ragazze: i numeri del 2018 di Martina Tafuro L’ Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC) , ha pubblicato alla fine dello scorso anno: “Gender related killing of women and girls”, un’analisi rigorosa delle uccisioni di cui sono state vittime le femmine al di fuori della sfera domestica, ad esempio in caso di conflitto armato o di morte di una operatrice del sesso. Lo studio ha analizzato i dati degli omicidi commessi nei quali c’è una rapporto, una relazione tra vittima, aggressore e movente certa. Il tutto visualizzato all’interno dei vari sistemi nazionali. Gli studiosi dell’UNDOC hanno dovuto affrontare, nel corso del loro lavoro, grossi ostacoli dovuti alla reperibilità dei dati specialmente in materia di infanticidio femminile e uccisione delle donne aborigene e/o indigene in alcune aree del globo, dovuta principalmente alla mancanza di una definizione standardizzata del termine femminicidio.
Femminicidio o gender-related killing of women. Non tutti gli omicidi di donne hanno come movente il genere e di conseguenza non tutti gli omicidi di donne possono essere classificati come femminicidi. Solitamente, si parla di femminicidio, in riferimento agli omicidi di donne commessi all’interno della sfera familiare o domestica. Nella maggior parte dei casi il crimine viene commesso dal (ex)partner della vittima e l’omicidio viene identificato con la sigla IPH/F (Intimate Partner Homicide/Femicide). I numeri della mattanza
Femminicidi nel mondo nel 2017 Donne uccise quotidianamente su scala mondiale 2/3 delle donne uccise in Africa sono state uccise da parte di partner (ex) 1/3 delle donne uccise in Europa è stata uccisa da parte di partner (ex)
Numero donne uccise 87.000 137 19.000 2.666
Delle 87.000 donne che sono state intenzionalmente uccise, il 58% è avvenuto per mano di un (ex)partner o di un membro della famiglia (padre, fratello, figlio, nonno o zio). Quindi, mediamente, 137 donne vengono uccise quotidianamente su scala mondiale. Sempre riferendoci ai dati del 2017, il più alto numero di donne uccise si è avuto in Asia (20.000), seguita da Africa (19.000), America (8.000), Europa (3.000) e Oceania (300). Per quanto riguarda invece i dati relativi al numero di donne uccise da IP (Intimate Partner) nel 2017 il più alto numero di uccisioni è stato riscontrato in Africa con una media di 1.7 ogni 100.000 donne. Ciò sta a significare che più di 2/3 di tutte le donne africane nel 2017 sono state uccise da IP o membri interni alla sfera familiare; la situazione europea non sembra essere più rassicurante: circa 1/3 delle donne europee è stata ammazzata da un IP. In Italia, nel 2017, la media si aggira intorno a 0.5 ogni 100.000 donne di cui il 90% uccisa per mano di un familiare o (ex)partner, con un aumento del 50% rispetto al 2016. La conclusione che subito salta agli occhi è che gli omicidi di femmine ad opera dei loro IP non sono compiuti sotto la spinta di un raptus incontrollabile o imprevedibile, ma sono generati da una cultura patriarcale e sessista che punisce le donne che ad essa non si conformano. E’ importante studiare il fenomeno per cercare di fare prevenzione. Oltremodo, è diventato non più rinviabile, implementare misure sul lungo periodo, come l’educazione di genere nelle scuole, la formazione su molestie sessuali e violenza di genere nei posti di lavoro, nonché politiche di promozione dell’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro. Napoli, 10 gennaio 2019
Nel mondo aumenta la distanza tra ricchi e poveri. A dirlo è il Rapporto Oxfam 2019. ■Cultura
Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Nel mondo aumenta la distanza tra ricchi e poveri. A dirlo è il Rapporto Oxfam 2019 di Martina Tafuro “Quando spendiamo 5 dollari per compensare l’emissione di una tonnellata di anidride carbonica facciamo qualcosa di buono, probabilmente generando un beneficio sociale di circa 2 dollari. Ma gli stessi 5 dollari donati a un’altra organizzazione avrebbero potuto produrre un beneficio sociale del valore di 200 dollari se fossero stati usati per la prevenzione dell’AIDS o di 150 dollari se usati contro la denutrizione. Vorrei che fosse ritenuto naturale preferire benefici del valore di 200 dollari invece che di 2… Spero che potremo guardare negli occhi le nuove generazioni e dire loro che non abbiamo fatto solo ciò che ci sembrava utile in base alle mode del momento, ma che abbiamo migliorato a fondo il mondo grazie a strategie semplici, sperimentate e sensate, non abbiamo fatto solo qualcosa che ci faceva sentire bene, ma qualcosa che faceva davvero bene”. Bjørn Lomborg Papa Bergoglio, nell’enciclica Evangelii Gaudium, adopera la parola diseguità per sintetizzare lo scandalo della diseguaglianza collegato alla sperimentazione dell’ingiustizia.
Certa e convinta di non possedere tutto la sagacia dei novelli predicatori, esponenti di spicco del cattolicesimo perfettino, rifletto (o faccio discernimento?) sulle parole di Francesco e penso che egli abbia voluto evidenziare la scandalosa situazione, in cui vive il nostro bel mondo esacerbato dalle migliaia forme di esclusione, di dolorosa miseria, materiale, morale e spirituale. Nel frattempo che partorivo questi profondi pensieri, mi è capitato di leggere il Rapporto Oxfam 2019 pubblicato in concomitanza al Forum economico mondiale di Davos. Dalla pubblicazione esce fuori che, le fortune dei super-ricchi sono aumentate del 12% lo scorso anno, al ritmo della cifra monstre di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre 3,8 miliardi di persone, che costituiscono la metà più povera dell’umanità, hanno visto decrescere quel che avevano dell’11%. Insomma su questo delizioso pianetino ci sono 85, dico ottantacinque, esserini umani che posseggono il 50, dico il cinquanta per cento della ricchezza posseduta dall’altra metà del mondo. Cioè lo zero virgola/moltissimi/zeri/virgolauno è possiede una ricchezza pari a quella di tre miliardi e mezzo di persone. Evviva come sono felice! Il divario di classe esiste ancora, non si è fermato un attimo… ma i novelli cresi hanno vinto dieci a zero, supercoppa, giro di campo e champagne negli spogliatoi, questa è la loro risposta al mito di cartone che ci propinano da decenni: ”Se aumenta la ricchezza diminuisce la povertà, il ricco darà da lavorare e migliorerà le condizioni dei poveri”. Anche l’Italia è in linea con questi dati: il 20% più ricco possedeva, nello stesso periodo, circa il 72% dell’intera ricchezza nazionale. Oxfam nel Rapporto evidenzia, inoltre, un sistema fiscale che finisce col pesare di più sulle categorie più povere della società tassando i redditi da lavoro e consumo. Le imposte sul patrimonio, sono state ridotte, se non eliminate del tutto. L’imposizione fiscale a carico di chi produce redditi più elevati e delle grandi imprese si è ridotta negli ultimi decenni. Secondo i calcoli dell’Oxfam, se I’1% dei più ricchi pagasse appena lo 0,5% in più in imposte sul proprio patrimonio, si avrebbero risorse sufficienti per mandare a scuola 262 milioni di bambini e salvare la vita a 100 milioni di persone nel prossimo decennio. Dall’analisi rapporto viene a galla, poi, una forte correlazione tra disuguaglianza economica e disuguaglianza di genere. A livello globale, infatti, gli uomini possiedono oggi il 50% in più della ricchezza netta delle donne e controllano oltre l’86% delle aziende. Il divario retributivo di genere è pari al 23% in favore degli uomini. Inoltre, non viene preso in considerazione il contributo delle donne al lavoro di cura. Infatti, secondo Oxfam, se tutto il lavoro di cura non retribuito svolto dalle donne nel mondo fosse dato in gestione ad una sola azienda, questa raggiungerebbe un fatturato di 10 mila miliardi di dollari all’anno. Infine, è messo in evidenza come in molti Paesi un’istruzione e una sanità di qualità sono diventate un lusso che solo i più ricchi possono permettersi. Ogni giorno 10 mila persone nel mondo muoiono perché non possono permettersi le cure mediche. In un paese come il Kenya, un bambino di una famiglia ricca frequenterà la scuola per il doppio degli anni rispetto a un bambino proveniente da una famiglia senza mezzi. Documentazione: Rapporto Oxfam 2019 integrale(inglese) Sommario del Rapporto Oxfam 2019 (italiano) Le persone più povere del pianeta non sono soltanto quelle che hanno le minori responsabilità nel provocare i cambiamenti climatici, ma sono anche coloro maggiormente vulnerabili alle loro conseguenze e meno in grado di affrontarli. Queste disuguaglianze sono sia orizzontali che verticali e vedono le donne maggiormente esposte ai rischi rispetto agli uomini, così come le comunità rurali rispetto a quelle urbane, e tutti i gruppi marginalizzati per motivi di razza, etnia o di altri fattori rispetto al resto della popolazione. Un recente studio della Banca Mondiale che ha riguardato 52 paesi rivela che la maggior parte delle persone vive in paesi in cui i più poveri (definiti come il 20% più povero della popolazione nazionale) sono maggiormente esposti ai
disastri naturali come siccità, inondazioni e ondate di calore rispetto alla media dell’intera popolazione, e che in particolare si tratta di persone che vivono in molti paesi dell’Africa e del Sudest Asiatico. Molto spesso sono le donne ad essere maggiormente esposte ai rischi legati al surriscaldamento globale poiché tendono ad essere più dipendenti da attività economiche soggette alle condizioni climatiche (come l’agricoltura pluviale e la raccolta di acqua per uso domestico), e spesso hanno pochissime possibilità di uscire da periodi di crisi o di aumentare la produttività per via, per esempio, di un minore accesso alla terra, alla formazione o al capitale. Fonte: Oxfam Napoli, 22 gennaio 2019
Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Industria 4.0. La fabbrica digitale sfida tra innovazione e cambiamento. di Martina Tafuro
Il web ci ha insegnato il potere dell’effetto di rete: quando connettete le persone e le idee, esse crescono. Chris Anderson La parola economia letteralmente significa norma che facilita la gestione della casa. Deriva da una parola di origine greca, composta da oikos (casa) e nomos (dividere, ripartire) e assume il senso più ampio di comunità, società, stato. Dal punto di vista scientifico è la scienza che studia i processi di produzione, distribuzione e consumo dei beni e servizi che soddisfano i bisogni dell’uomo. Nata dalla necessità di dare consigli agli uomini di stato in materia di politica economica, l’economia si divide in macroeconomia o scienza delle finanze, che si occupa di gestione economica dello stato e microeconomia, o economia privata o aziendale, che si occupa delle unità economiche singole come le famiglie o le imprese.
In questa mia riflessione, mi soffermerò sull’economia aziendale, prima di farlo però bisogna fare un accenno alla ragioneria, che è la base di questa materia, poiché, quest’ultima, rientra in quell’ insieme di materie che si occupano del mondo economico aziendale. Nell’immaginario collettivo, il ragioniere è un esperto in fatto di compilazione di prospetti, di situazioni, di documenti riguardanti le aziende. Ma, non basta solo questo, bisogna conoscere l’azienda, in quanto organizzazione che opera per realizzare un risultato positivo. Ecco perché la ragioneria può essere definita la base dell’economia aziendale. Nel 1927, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Venezia Ca’ Foscari, Gino Zappa pronuncia la celebre Prolusione: “Tendenze Nuove negli studi di Ragioneria”, testo che viene considerato il manifesto fondativo dell’Economia Aziendale. Nella concezione dell’allievo di Fabio Besta, l’Economia Aziendale non è una disciplina a sé stante, ma nell’ambito della scienza economica, occupa una posizione speciale dell’Economia, come la scienza che si interessa dello “studio delle condizioni di esistenza e delle manifestazioni di vita delle aziende”. Essa ha il compito di avviare “una nuova e caratteristica comprensione dei fenomeni economici”. Indubbiamente, siamo protagonisti (o spettatori?) di una nuova rivoluzione industriale e la storia ci insegna che a ogni rivoluzione in campo produttivo, ha fatto seguito una riduzione dei posti di lavoro, che spesso genera la scomparsa di vecchi mestieri. Così è stato per le rivoluzioni industriali dei secoli scorsi, trainate dalla macchina a vapore (1794), dall’elettricità e dal petrolio (1870) e dall’informatica (1970). Quella in corso, battezzata dai tedeschi nel 2013 Industry 4.0, è considerata frutto della forte avanzata tecnologica che ha implementato tecnologie sempre più in connessione, che si potenziano l’un l’altra. La caratteristica di questa rivoluzione è la velocità, la pervasività e l’essere multiforme, in fondo queste tecnologie già fanno parte della nostra vita, vedi gli smartphone e l’onnipresenza della Rete. Alessandro Perego, direttore scientifico dell’ Osservatorio industria 4.0, così descrive questi processi: “Pensate alla produzione di un’autovettura. Un’auto già oggi è piena di elettronica e di sensori. Potenzialmente, mentre si muove, può raccogliere una quantità enorme di informazioni. Siamo arrivati al punto che persino i pneumatici sono intelligenti. Hanno un sensore talmente sofisticato che informa non solo sullo stato del pneumatico, ma anche su quello dell’autovettura, sulla condizione del manto stradale e anche se sta piovendo o meno in un dato momento”. Ebbene, tutti questi dati, raccolti dai diversi sensori e mandati a una rete intelligente, sono utilissimi a molti soggetti. Intanto per il produttore, che può monitorare il funzionamento della vettura singola, nonchè quelle dello stesso tipo, la qual cosa gli consentirà di progettarle con migliori risultati in futuro. Le stesse informazioni sono preziose per monitorare il funzionamento della vettura, prevedere quando e come avrà un guasto, organizzare un nuovo sistema di assistenza post vendita. Non solo, presto ogni autovettura parlerà con le autovetture che si trovano in quel momento nella stessa zona e
“questa rete di autovetture connesse aumenterà le informazioni sul traffico e la possibilità di prevenire situazioni di rischio, permettendo una viabilità intelligente”. Non c’è più separazione tra produttore, consumatore, servizi, logistica, territorio. È tutto collegato: “La parola chiave dell’industria 4.0 è connessione”. Nell’universo mondo 4.0 gli oggetti sono sempre più personalizzabili, con il risultato che si otterrà più flessibilità, più qualità, più efficienza. In questo scenario l’essere umano si trova a fronteggiare due sensazioni contrapposte: l’entusiasmo suscitato dalla consapevolezza delle possibilità che si aprono davanti a lui e di contro avverte la preoccupazione per gli eventuali rischi. Per governare un processo d’innovazione di tale portata, veloce e complesso, è divenuto impellente che tutti gli attori coinvolti costruiscano e coltivino spazi di confronto e condivisione per la creazione di nuove regole e percorsi. Sicuramente, la sfida più grande da affrontare, sarà la formazione dei lavoratori. Un report del World Economic Forum stima che il 65 per cento degli alunni che oggi iniziano le elementari farà un lavoro che ancora non esiste. Ciò significa che la velocità dell’innovazione è tale che senza un adeguamento costante delle competenze sarà impossibile rimanere sul mercato del lavoro. Ulteriori approfondimenti: Rapporto Annuale Istat 2018 Rapporto Annuale Istat del 2017 Future of Jobs 2018 Il Report analizza come le scoperte tecnologiche spostano rapidamente la frontiera tra le mansioni lavorative svolte dall’uomo e quelle eseguite da macchine e algoritmi, i mercati del lavoro globali subiranno probabilmente grandi trasformazioni. The Global Competitiveness Report 2018 Il Report valuta il panorama di competitività di 140 economie, fornendo una visione unica dei motori della crescita economica nell’era della quarta rivoluzione industriale. Scopri le classifiche dell’edizione 2018, i risultati chiave, la scheda punteggi della tua economia e molto altro ancora.
Napoli, 29 gennaio 2019
Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili. Maria di Nazareth, Enza, Valentina …donne senza retorica ■Cultura
Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili. Maria di Nazareth, Enza, Valentina …donne senza retorica di Martina Tafuro Il 6 febbraio si è celebrata la Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili. Mi accingo a scrivere sul tema con il senno di poi e non sull’onda dell’emozione, spesso rabbiosa. Nel mondo ci sono 200 milioni di donne che hanno vissuto il dramma delle mutilazioni genitali femminili, ricavandone drammatiche conseguenze fisiche e psicologiche. Le mutilazioni genitali femminili, effettuate soprattutto su bambine tra i 4 e i 14 anni di età, includono varie operazioni che spaziano dalla rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni. Il Rapporto Female genital mutilation/cutting: a global concern, pubblicato dall’Unicef conferma che metà delle bambine e delle donne che hanno subito forme di mutilazione vive in tre paesi: Egitto, Etiopia e Indonesia. Questa macabra usanza non ha nessuna radice religiosa, è il frutto dell’ignoranza unito al rifiuto di abbandonare usanze tribali. La mutilazione, infatti, è la raffigurazione simbolica e purtroppo materiale del passaggio dall’età della fanciullezza a quello del mondo degli adulti, elemento visivo per la coesione nella comunità. Il fenomeno però non riguarda solo i paesi dell’Africa subsahariana, anche in Italia viene praticata la mutilazione genitale femminile, tramandata da famiglie originarie di paesi dove la pratica è diffusa. Le legge italiana in materia prevede il carcere da 3 a 16 anni per chi pratica la mutilazione.
Riflettendo su questo fenomeno, che non esiterei a definire odioso, i pensieri si soffermano sul fatto che tutti gli abusi fatti sulle donne hanno trasformato, in un’espressione sospetta, quella che era la più delicata delle manifestazioni dell’amore: la carezza . Penso alla carezza materna e a volte consolatoria, a quella affettiva tra due fidanzati. Ecco! Voglio parlare della carezza, soave espressione affettiva, potente balsamo per risanare la ferita inflitta al nostro sentire e agire. Le donne sono in grado di farlo efficacemente, perché hanno uno sguardo interno: quello di chi non ha mai avuto voce e uno esterno: quello di chi è capace di vedere chi non ce l’ha. Viviamo in un mondo dove lo spirito del tempo soffia in senso opposto, a regnare è la cultura tecnologica del senza contatto. Efficacia, rapidità, indipendenza. Il senza contatto realizza il sogno di un’umanità liberata dal rischio del contatto ed è quindi urgente considerare che l’universo femminile è un continuo invito a prendere atto del peso del nostro corpo e non a credercene affrancati, vivendo sospesi in una minacciosa illusione. Penso alla Maria di Nazareth, sogno incredibile sognato da Dio, penso alla ragazza, che ancora non può sposarsi perché disoccupata. Alla casalinga che vive felice con suo marito, a suor Enza, che mi ha insegnato a sognare un mondo giusto, a suor Valentina dalla quale ho imparato a non avere paura di sfiorare un diverso da me, che pure sono diversa assai. Ho vissuto sempre con accanto questa femmina, la donna di Giuseppe il falegname… e non sconfino nel romanticismo, ce n’è già troppo nel mondo delle perfette sacerdotesse che frequento… con affetto. Ecco il punto, la mia Maria viveva sulla terra, una vita comune a tutti. La vedo la mia innamorata, chi sa quante volte è stata sovrappensiero, perché Peppino da più giorni in bottega non batteva chiodo. Chi sa a quante porte ha bussato chiedendo qualche giornata di lavoro per il suo Gesù. Come tutte le mogli, avrà avuto anche lei dei momenti di crisi nel rapporto con suo marito. E si! Se davvero ci credessimo, i profeti delle differenze, gli sceriffi della mano dura con i deboli, i cinici controllori del mare e delle frontiere, apparirebbero in tutta la loro miseria. Non so se ai tempi di Maria si adoperassero gli stessi messaggi d’amore, che le moderne figlie della cultura tecnologica del senza contatto incidono furtivamente sul telefonino. Sono fermamente convinta, che le adolescenti di Palestina si comportassero come loro. Un codice dovevano pure averlo per trasmettere ad altri quel sentimento che scuote l’anima di ogni essere umano. Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell’esistenza, in cui la felicità per un abito nuovo, gli slanci dell’amicizia, le lusinghe per un complimento, riempivano di significato le giornate. Immagino Giuseppe, che una sera, si fece coraggio e le dichiarò: “Maria, ti amo”. Lei gli rispose, veloce: “Anch’io”. Maria e con lei tutte le donne che ho incontrato, mi hanno insegnato a ricomporre le sceme dissociazioni con cui porto avanti, contabilità separate: una per il cielo, povera. L’altra per la terra, ricca di voci, ma anemica di contenuti. A beneficio di chi vuole impormi la sua volontà vi dico: “Amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi. Uscire da sé, dare senza chiedere. Desiderare la felicità dell’altro. Rispettare il suo destino e scomparire, quando ci si accorge di intralciare i suoi sogni”. D’altra parte, la mia Madonna non è stata neutrale. Si è schierata dalla parte dei discriminati dalla cattiveria umana e degli esclusi dalla forza del destino. Sul piano storico, ha fatto una precisa scelta di campo, ha deciso di giocare con la squadra che perde e ci ha rivelato che è partigiano anche Lui, visto che prende le difese degli umili e disperde i superbi nei pensieri del loro cuore; stende il suo braccio a favore dei deboli, ricolma di beni gli affamati e si diverte a rimandare i possidenti con un pugno di mosche in mano. I sommi sacerdoti, sempre pronti, mi diranno che sto scantonando troppo, ma Maria non è come certe madri che, per quieto vivere, finiscono con l’assecondare i soprusi dei figli. Non prende
posizione, e spera che un giorno, tutti ex oppressi ed ex oppressori, possano trovare finalmente la loro liberazione. Concludo facendo mie e spero vostre, le parole di don Tonino Bello: “Santa Maria, donna di parte, come siamo distanti dalla tua logica! Tu ti sei fidata di Dio e, come Lui, hai scommesso tutto sui poveri, affiancandoti a loro e facendo della povertà l’indicatore più chiaro del tuo abbandono totale in Lui, il quale ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti; ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti; ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono”. …Mettimi sulle labbra le cadenze eversive del Magnificat, per dare testimonianza di verità, di libertà, di giustizia e di pace. Napoli, 9 febbraio 2019
Economia Civile, Giustizia sociale e vita: alleanza possibile? ■Cultura ■Economia
Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Economia Civile, Giustizia sociale e vita: alleanza possibile? di Martina Tafuro La parola economia deriva dal greco, è composta da oikos (casa) e nomos (dividere, ripartire). Letteralmente significa: “regola che facilita il governo della casa” dove è l’equilibrio delle relazioni umane a creare la casa. L’economia dovrebbe essere lo strumento da utilizzare per realizzare il benessere e la felicità delle persone, alimentando le relazioni che rinforzano la loro vita e quella del loro ambiente. Non so se tutto questo, in questo nostro tempo, sia stato dimenticato. Il primo incubo da affrontare è quello della tecnologia sempre più invadente, che sembra destinata a sottrarci compiti e mansioni da svolgere e potesse portare alla distruzione dell’umanità. “La prima macchina intelligente che inventeremo sarà anche l’ultima cosa che ci sarà permesso d’inventare”, ha scritto Arthur C. Clarke, sceneggiatore con Stanley Kubrick di Odissea nello spazio, film del 2001. In definitiva, anche la fantascienza ha profetizzato la morte del lavoro, lavoro che non è mai stato uguale a se stesso. Le rivoluzioni agricole che si sono verificate dalle civiltà mesopotamiche ad oggi hanno trasformato il bisogno di manodopera, ma nello stesso tempo hanno reso i campi più fertili e dunque in grado di sfamare un numero maggiore di persone. La rivoluzione industriale dell’Ottocento ha sostituito sì gli operai con le macchine, ma ha pure dato nuovo impulso al commercio, aumentando l’occupazione nei servizi.
E’ fuori discussione che nessun tipo di progresso non abbia causato disagi, perché gli espulsi dal vecchio mondo del lavoro sono quasi sempre incapaci di cogliere le opportunità create dai nuovi settori. Oggi viviamo esattamente in questo mondo, sospeso tra la produzione come l’abbiamo conosciuta finora e l’automazione, i robot, le macchine che si guidano da sole, chi esce dal circuito dell’occupazione rischia di rimanere senza impiego per sempre. Mai come in questa fase c’è bisogno di istituzioni e persone che sappiano o almeno si preoccupino di armonizzare e guidare il cambiamento. E’ in questo contesto che bisogna pensare ad un’economia civile. E’ opportuno Un sistema economico basato sulla reciprocità, la gratuità e la fraternità, per sconfiggere la logica del profitto e dell’asservimento sociale alla concezione capitalista del mercato. Economia civile significa che una società giusta e eguale è il risultato di un mercato che opera attraverso processi in grado di generare la solidarietà da parte di tutti i soggetti. L’economia civile, secondo alcuni studiosi, è un modo d’intendere l’economia, sorto tra il Quattrocento ed il Cinquecento, per poi svilupparsi nel Settecento, fenomeno specificatamente italiano, essenzialmente napoletano e milanese. Il termine è certamente utilizzato nel 1754 da Antonio Genovesi, come titolo del volume delle sue Lezioni di commercio o sia d’Economia civile. Secondo Genovesi l’ordine sociale costituisce il risultato di un bilanciamento tra la forza concentrativa (auto-interessata) e la forza diffusiva (o di cooperazione). I principi fondativi dell’economia civile sono: I. La reciprocità. Posto che i beni e i servizi creano un rapporto relazionale nel rapporto che si instaura tra chi li eroga e chi li riceve, allora esiste anche una reciprocità che può rendere lo scambio personale e significativo: reciproco. II. La fraternità. Questo principio legittima e da forza alle diversità, siano esse culturali, religiose, etniche o altro, rendendole compatibili. La società fraterna permette a ciascuna singola persona di poter realizzare la propria personalità e la propria dignità, in un contesto di parità. La fraternità è un bene di legame, poiché creando gli spazi di relazione fra gli individui fa si che gli esseri umani liberi e uguali diventino anche persone. III. La gratuità. Qui non si tratta di essere altruisti o filantropi, ma si intende di trattare l’altro con rispetto, in un rapporto di reciprocità, accostandosi agli altri non cercando di usarli a nostro vantaggio. IV. La felicità pubblica. La ricerca della felicità è individuale e spesso egoistica, di contro la ricerca della felicità pubblica mette al centro del vissuto un’etica delle virtù che si realizza nella scoperta del bene comune. In questi tempi di crisi, è da sottolineare che la stessa ricerca individuale di felicità deve giocoforza prendere forma attraverso la dimensione sociale e relazionale, cioè felicità individuale e quella pubblica, sono indissolubili. V. La pluralità degli attori economici. L’economia civile permette di coinvolgere, nel gioco democratico, sia soggetti pubblici che privati, superando la dicotomia stato/mercato. Le attività di economia civile, accanto allo Stato e al mercato, danno impulso alle attività dei molteplici stakeholders in grado di dar voce alle istanze della società civile, insomma realizzare una democrazia deliberativa. In questo discorso trova spazio la Giustizia Sociale, tema al centro della Giornata Internazionale delle Nazioni Unite che si celebra il 20 febbraio di ogni anno. La giustizia sociale è un principio alla base della convivenza pacifica e prospera all’interno e tra le nazioni. Sosteniamo i principi della giustizia sociale quando promuoviamo l’uguaglianza di genere con i diritti delle popolazioni indigene e dei migranti. Promuoviamo la giustizia sociale quando rimuoviamo le barriere che le persone affrontano a causa di sesso, età, razza, etnia, religione, cultura o disabilità. Per le Nazioni Unite, la ricerca della giustizia sociale per tutti, significa promuovere lo sviluppo e la dignità umana. L’adozione da parte dell’Organizzazione internazionale del lavoro della
Dichiarazione sulla giustizia sociale per una globalizzazione equa è solo un esempio recente dell’impegno del sistema delle Nazioni Unite per la giustizia sociale. La Dichiarazione si concentra sulla garanzia di risultati equi per tutti attraverso l’occupazione, la protezione sociale, il dialogo sociale, i principi e i diritti fondamentali sul lavoro. Il tema scelto per il 2019 è: Se vuoi pace e sviluppo, lavoro per la giustizia sociale. Il 26 novembre 2007, con la Risoluzione A/RES/62/10, l’Assemblea Generale proclamò il 20 febbraio come Giornata Mondiale per la Giustizia Sociale ed invitò gli Stati Membri a dedicare questo giorno alla promozione di attività nazionali, coerenti con gli scopi e gli obiettivi del Summit Mondiale per lo Sviluppo Sociale e la 24a sessione dell’Assemblea Generale. La celebrazione della Giornata Mondiale per la Giustizia Sociale dovrebbe sostenere gli sforzi della comunità internazionale nell’eliminazione della povertà, nella promozione dell’impiego per tutti e del lavoro dignitoso, nell’uguaglianza di genere e nell’accesso al benessere sociale e alla giustizia per tutti. In conclusione, l’economia capitalistica vede la crescita infinita dell’economia come un obbligo. Tuttavia, niente in natura cresce per sempre, mentre l’economia civile nasce come scienza della pubblica felicità nel tentativo di legarla al bene comune o tutti sono felici in una nazione o non lo è nessuno, poiché la felicità di un popolo è un gioco di coordinamento. E’ importante la cooperazione di tutti…o di quasi tutti e allora lo sviluppo civile ed economico decolla. Se qualcuno fa il birbo, come scriveva Antonio Genovesi, restiamo tutti bloccati in varie trappole di povertà. Napoli, 18 febbraio 2019
La pubblica felicità e l’economia della ciambella. Per un mondo migliore. ■Cultura ■Economia
Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ La pubblica felicità e l’economia della ciambella. Per un mondo migliore. di Martina Tafuro La pubblica felicità di Luigino Bruni L’Europa settentrionale e meridionale è contrassegnata da marcate e profonde differenze culturali e economiche. Tale diversità ha radici nel conflitto tra la riforma protestante e la successiva controriforma cattolica, sorto cinque secoli fa. Lutero, Calvino e i riformatori furono gli apostoli di una spiritualità basata sull’etica del lavoro da cui dopo qualche secolo nacque il capitalismo moderno e il liberismo anglosassone. Il sud, cattolico e comunitario, diede vita all’Economia civile napoletana, italiana e latina del diciottesimo secolo. Il capitalismo si è concretizzato attraverso diverse anime, che hanno dato vita a diverse direzioni al mercato, all’impresa e all’economia. La cooperazione, le banche popolari, le imprese famigliari, il welfare-state, il socialismo, l’economia mista, la felicità pubblica, insieme al familismo amorale e l’evasione fiscale furono tratti specifici del capitalismo latino. La grande impresa, la finanza, la ricerca individuale della felicità e il liberismo furono quelli del capitalismo nordico e protestante. Il XXI secolo, però, è connotato da un forte appiattimento delle forme di economia, perché i valori e il genio del capitalismo anglosassone stanno diventando, grazie alla globalizzazione, i valori del mondo intero. Un processo di standardizzazione dell’impresa, dei mercati e della razionalità economica, che sta riducendo drasticamente la biodiversità economica, finanziaria e sociale della terra, e quindi la sua capacità di futuro. Non capiamo la crisi dell’Europa del Sud senza prendere sul serio lo smarrimento della sua anima economica e civile, del suo spirito del capitalismo. Luigino Bruni, l’autore di questo saggio, analizza le sfide fondamentali da utilizzare per leggere il futuro civile ed economico del modello europeo ed italiano: uguaglianza, consumo, lavoro, comunità, gratuità, felicità pubblica.
Parole antiche e nuove, che hanno formato il lessico della cultura europea, ma che a un certo punto sono state eclissate dalla frenesia dell’imitazione di modelli anglosassoni. Esse tuttavia possono e devono diventare parole di futuro, se vogliamo che l’Europa e l’Italia conservino una vocazione e un destino nell’economia del XXI secolo. La pubblica felicità. Economia politica e political economy a confronto, Luigino Bruni, Vita e Pensiero, anno 2018 L’economia della ciambella di Kate Raworth No! Qui non si parla di ricette e Kate Raworth non è una chef. Il modello economico della ciambella (Doughnut economy), suggerito da questa economista di Oxford, in L’economia della “ciambella”, sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, si propone di esporre in modo chiaro e scientifico le basi per lo sviluppo sostenibile. “Raggiungere lo sviluppo senza portare danni alla Terra”, ecco lo scopo della Doughnut Economy. Questo modello si sviluppa nello spazio di due confini: un confine interno (inner boundery) relativo alle dimensioni sociali ed un confine esterno (outer boundery) relativo ai limiti ambientali. All’interno di questi due confini si estende uno spazio che prende la forma di una ciambella in cui lo sviluppo sostenibile è possibile. Il confine interno è la dimensione sociale, spazio dove si sviluppa una società stabile che dovrebbe garantire a tutte le persone la disponibilità delle risorse di base, come il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria e l’energia, in modo tale che i diritti umani vengano pienamente rispettati. Il confine esterno delimita i limiti ambientali che comprendono l’utilizzo delle risorse naturali da parte dell’uomo, il quale non dovrebbe porre sotto stress i processi naturali della Terra causando, ad esempio, perdita di biodiversità e cambiamento climatico.
La dimensione ambientale forma un confine esterno, superato il quale si realizzano le condizioni di degrado ambientale. Più approfonditamente, la riflessione della Raworth parte dalla considerazione del fatto che il benessere umano dipende dal mantenimento delle risorse in un buono stato naturale complessivo, che non deve oltrepassare alcune soglie, dettate dalle necessità dei singoli individui di soddisfare alcune esigenze fondamentali per condurre una vita dignitosa e con le giuste opportunità. Le norme internazionali sui diritti umani hanno sempre sostenuto per ogni individuo il diritto morale a risorse fondamentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istruzione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale. L’economista inglese ci dice che, come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, una specie di tetto, oltre cui il degrado ambientale diventa inaccettabile e pericoloso per l’intera umanità, ne esiste uno interno al prelievo di risorse, denominato livello sociale di base, come un pavimento e scendere sotto il quale ci indica che la deprivazione umana diventa inaccettabile e insostenibile. Kate individua undici priorità sociali da prendere in considerazione, esse sono la disponibilità: del cibo, dell’acqua, dell’assistenza sanitaria, di reddito, dell’istruzione, di energia, di lavoro, del diritto di espressione, della parità di genere, dell’equità sociale e della resilienza agli shock.
Tra i diritti sociali fondamentali, la cosiddetta base sociale e i confini planetari ovvero i tetti ambientali, si crea una fascia circolare a forma di ciambella, sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità. Dalla combinazione dei confini sociali e universali nasce una prospettiva nuova di sviluppo sostenibile. E’ purtroppo vero che siamo ben lontani dal vivere all’interno della ciambella. E’ possibile vivere nei confini della Ciambella? La sfida da affrontare è certamente complessa, i confini sociali e planetari, nella realtà, sono tra loro interdipendenti, poiché i problemi ambientali possono alimentare la povertà e viceversa. Le politiche volte a rientrare entro i limiti ambientali possono, se mal progettati, spingere parte delle popolazioni a sfondare i confini del benessere sociale e viceversa. La sfida è creare economie che riescano a portare l’intera umanità nella Ciambella. Ossessionati dalla crescita infinita del PIL, abbiamo perso di vista che l’obiettivo è di progredire in modo stabile. La Raworth, ci dice che cinque, sono i fattori che determinano il funzionamento della Ciambella: la popolazione, la distribuzione, l’aspirazione, la Tecnologia e la Governance. In conclusione, la Ciambella di Kate è l’immagine che tratteggia le relazioni esistenti tra le tre dimensioni del benessere: economico, sociale e ambientale. E’ diventato impellente per l’umanità che queste tre dimensioni debbano essere raggiunte parallelamente. Questo nostro secolo ha bisogno di una nuova economia che come un fuoco ardente infiammi l’umanità di progettazione rigenerativa. E’ urgente creare una vera e duratura economia circolare, per restituire agli ominidi dalle dita opponibili il ruolo di partecipanti attivi ai processi ciclici della vita sulla Terra. Napoli, 25 febbraio 2019
Mendeleev, il rivoluzionario degli elementi. I 150 anni della Tavola periodica degli elementi. ■Cultura
Condividi su FacebookCondividi su TwitterCondividi su Google+ Mendeleev, il rivoluzionario degli elementi. I 150 anni della Tavola periodica degli elementi. di Martina Tafuro Correva l’anno 1860, siamo a Karlsruhe (Germania), qui il 3 settembre prende il via, il primo congresso scientifico internazionale di chimica. Al giorno d’oggi i simposi vengono organizzati di frequente e immaginare la vita accademica senza di esse è assai difficile, ma 159 anni fa non era così. Al centro del dibattito in corso a Karlsruhe, si misero in evidenza tre delegazioni e due visioni del mondo. Tra le tre rappresentanze spicca quella italiana, di cui fa parte il chimico Stanislao Cannizzaro, palermitano, che al congresso fa distribuire un proprio lavoro di filosofia chimica, frutto di una nota del 1857 comparsa sulla rivista Nuovo Cimento, è questo l’unico indizio delle riflessioni di Cannizzaro poi sfociate nella stesura del suo fondamentale Sunto di un corso di filosofia chimica. Il chimico palermitano aveva l’esigenza didattica di chiarire concetti e principi sui quali fino ad allora regnava la più assoluta confusione. Infatti egli affermò: “Io non ebbi veramente l’ambizione di proporre una riforma, non ebbi altro scopo che quello pedagogico”. È proprio la validità didattica della sua teoria a spingerlo a comunicarne i risultati al mondo scientifico. L’opera, pubblicata nel 1858, costituisce un fondamentale contributo ai fondamenti della chimica. Infatti per la prima volta viene formulata una precisa teoria atomica: basandosi sul principio di Avogadro, viene enunciata la regola, nota come regola di Cannizzaro, che permette la determinazione del peso atomico di un elemento chimico. Poi ci sono i tedeschi, tra i quali spicca il chimico Lothar Meyer. Il terzo gruppo era quello dei russi, tra i quali troviamo Aleksandr Borodin (più celebre come musicista) e Dmitrij Mendeleev. Lo studio delle proposte di Cannizzaro, colpisce sia Meyer che Mendeleev i quali capiscono che alcune proprietà degli elementi cambiano in maniera sistematica al crescere del peso atomico e che
quindi è possibile metterli in fila come le carte di un solitario, insomma intuiscono la periodicità delle loro caratteristiche. A questo punto si confrontano due visioni del mondo. Quella di Meyer che in linea con il pensiero della filosofia greca, assume che tutti gli elementi sono multipli dell’idrogeno, cioè del primo elemento, quello con numero atomico 1, quindi la materia è unica. Mentre per Mendeleev l’idea di una materia unica è un relitto del pensiero classico e quindi sorpassata. Il Congresso di Karlsruhe terminò il 5 settembre 1860, con il successo di Mendeleev che con la sua tavola periodica, basata sull’idea che gli elementi sono tutti diversi, questa intuizione segna la nascita della scienza moderna con il concetto di materia plurale. Passano altri nove anni e il primo marzo del 1869, Mendeleev proponeva la sua Tavola periodica degli elementi… l’immancabile poster che campeggia in tutte le aule scolastiche e in omaggio a questo straordinario lavoro l’Onu ha dichiarato il 2019 Anno internazionale della tavola periodica degli elementi.
E' da sottolineare che negli anni in cui visse Mendeleev si conoscevano solo 63 elementi e vi era il problema della loro sistemazione secondo uno schema logico. L’intuizione venne allo scienziato russo dalla sua grande passione per il gioco della carte e il gioco che di più preferiva era il solitario e proprio inventando un solitario chimico che gli venne l’idea. Mendeleev riportò su cartoncini il simbolo degli elementi conosciuti e il loro peso atomico, cioè il numero che si ottiene facendo la somma dei neutroni e dei protoni contenuti nel nucleo di ogni atomo e si mise a giocare con quei cartoncini ordinandoli e organizzandoli come si usa fare con le carte da gioco. Quel solitario, però, non gli riusciva come gli altri e dopo tre giorni e tre notti sconfortato gettò la spugna, come in un altro precedente storico avvenne il miracolo, Mendeleev in sogno ebbe la visione della tavola, di quella tavola che stava cercando, dove tutti gli elementi, ordinati in colonne e raggruppati in gruppi di elementi simili, mostravano “una evidente periodicità di proprietà”. Proprio pensando a questa periodicità lasciò nella sua tavola alcuni spazi vuoti che, secondo le sue previsioni, sarebbero stati occupati da elementi ancora da scoprire. La tavola periodica degli elementi all’inizio fu accolta con molto scetticismo, ma dopo qualche anno molti dovettero ricredersi. Infatti, nel 1875, il chimico Paul Émile Lecoq de Boisbaudran esaminando un metallo proveniente dai Pirenei, scoprì il Gallio, un metallo che andò a occupare, accanto all’alluminio, la casella vuota che Mendeleev gli aveva riservato e per il quale aveva pensato il nome di “Eka-alluminio”. Il peso atomico del Gallio (69.7) era molto simile a quello previsto da Mendeleev (68) e ciò dimostrava che la tavola funzionava.
Oggi gli elementi noti della tavola periodica sono 118, ma gli scienziati stanno cercando il 119 e il 120. Nel corso degli anni la tavola di Mendeleev ha subito un forte restyling, moltissime sono le versioni, e dalle forme più svariate. Una versione ha, persino, disposto gli elementi secondo uno schema che segue il tracciato della metropolitana di Londra. Grazie Dmitrij Ivanovič Mendeleev, che 150 anni hai donato all’umanità la tua Tavola, perché la tua scoperta ha dimostrato che la chimica è alla base di tutto il nostro mondo e sta all’umanità prendere coscienza che indirizzarla verso uno sviluppo sostenibile è indispensabile. Napoli, 4 marzo 2019