VITE STRAORDINARIE
ARTE TRA VIAGGIO ED ESPLORAZIONE Gianluca Berardi
XXXII Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze Palazzo Corsini, Firenze 24 settembre 2 ottobre 2022
Galleria Berardi, Roma 27 ottobre - 24 novembre 2022
Corso del Rinascimento, 9 - 00186 Roma Tel./fax +39 06 97606127 info@berardiarte.it - www.berardiarte.it
Ceroplasta messicano del XIX secolo Indio bravo particolare
www.ottocentoromano.it
Ringraziamenti
Giorgio Baghino
Valter Benedetti
Cesare Cabras eredi Giovanna Capitelli Jaime Cuadriello Antonio Di Battista Stefania Diamanti
Augusto Felici eredi Diego Gomiero Giulia Gomiero Stefano Grandesso Cleto Luzzi eredi Erika Hamnett e fratelli Oscar Iuzzolino Daniela Locatelli Erol Makzume Alessandro Marini Paolo Marpicati Carlo Montaboldi Duccio Pallesi Marcelo Paulo
Emanuele Piacenti Eugenia Querci Rita Rinaldi Pietro Romani Gianfranco Santucci Gianluca Scribano Cesare Trevigne
Associazione Antiquari d’Italia
Referenze fotografiche
@Archivio fotografico Civici Musei di Brescia Archivio S. Besso
Arte fotografica
Fortunato Della Guerra
L’editore è a disposizione per gli eventuali aventi diritto che non è riuscito a rintracciare
Progetto grafico e impaginazione: www.work.roma.it © 2022, Berardi Galleria d’Arte
Pag. 9 - PRESENTAZIONE
Un Grand Tour, al contrario Gianluca Berardi
Pag. 10 - GIOVANNI BATTISTA BELZONI
Un Indiana Jones ante litteram Elena Lago
Pag. 12 - IPPOLITO CAFFI
L’esperienza esotica tra sogno e realtà Antonella Dell'Ariccia
Pag. 14 - GIOVANNI RENICA
La notte, il mattino, il mezzogiorno: suggestioni luministiche in un viaggio nel Mediterraneo Sabrina Spinazzè
Pag. 18 - AMEDEO PREZIOSI
Vedutismo fotografico tra vero e pittoresco Alessandra Imbellone
Pag. 20 - ZAVERIO CALPINI
Archeologia ed etnografia in una raccolta messicana Eugenia Querci
Pag. 22 Le statuette di cera della collezione di Calpini María José Esparza Liberal
Pag. 36 - AUGUSTO FELICI
Uno scultore romano da Venezia in India, all’antica corte di Baroda Alessandra Imbellone
Pag. 40 - HERMANN CORRODI
Un “viaggiatore di successo” tra l’Italia e l’Oriente Teresa Sacchi Lodispoto
Pag. 42 - ACHILLE VERTUNNI "Il conte" della pittura a Roma Manuel Carrera
Pag. 44 - ODOARDO TOSCANI
Pittore e diplomatico: una “lanterna magica” dell’Oriente Elena Lago
Pag. 56 - CESARE BISEO
La gran luce vaporosa dell’Oriente Manuel Carrera
Pag. 58 - GIORGIO MIGNATY
Un pittore italo-greco a Firenze: un contributo al filoellenismo italiano Manuel Barrese
Pag. 60 - GUIDO BOGGIANI
Pittore ed esploratore nel Gran Chaco: viaggi di un artista nell’America meridionale Gianluca Berardi
Pag. 62 - GIOVANNI BATTISTA CASTAGNETO
A Rio de Janeiro: le marine brasiliane tra libertà gestuale e sintesi cromatica Elena Lago
Pag. 64 - ANGEL DELLA VALLE
Un pittore dei due mondi: dalle radici italiane al nazionalismo argentino Elena Lago
Pag. 66 - FAUSTO ZONARO Istanbul fin de siècle, un pittore italiano alla corte del sultano Teresa Sacchi Lodispoto Pag. 68 - LEONARDO DE MANGO
Il fascino del mondo arabo tra realtà e bozzettismo Manuel Barrese Pag. 70 - GALILEO CHINI
Il maestro del Liberty al nuovo Palazzo del Trono a Bangkok Neungreudee Lohapon
Pag. 72 - CLETO LUZZI
Da Roma alla corte del Re del Siam Manuel Barrese Pag. 74 - ROMUALDO LOCATELLI
Il fascino dell’Oriente: l’instancabile ricerca di un pittore in movimento Antonella Dell’Ariccia
Pag. 76 - GIULIO ARISTIDE SARTORIO
Un artista viaggiatore nella storia e nel mondo Francesco Maria Romani
Pag. 78 - ANGIOLO VANNETTI
Uno scultore intorno al mondo Antonella Dell'Ariccia
Pag. 80 - STEFAN BAKALOWICZ
Da Varsavia all’Egitto: un delicato fil rouge tra Antico ed esotico Gilda Soriente
Pag. 84 - CESARE CABRAS
Poesia di luce: uno sguardo libero sull’Alterità Gilda Soriente
Pag. 86 - JUANA ROMANI
L’assoluto presente di uno sguardo: una modella divenuta pittrice Gabriele Romani
Pag. 88 - UMBERTO COROMALDI Dal postribolo al cavalletto: l’arte come riscatto nella vita di Pan Yuliang Manuel Carrera
Pag. 90 - BIBLIOGRAFIA
Giovanni Renica
Il Mezzogiorno - Veduta della città di Atene particolare
Un Grand Tour, al contrario
Un amico a cui stavo esponendo l’idea di questa mostra un po’ distrattamente mi chiese se era l’ennesima mostra sul Grand Tour ed io mi ri trovai ad esclamare: “Eh no! Il contrario!!”. Non erano gli artisti di tutto il mondo che venivano in Italia per ricercare l’ispirazione in un mondo antico ormai perduto le cui vestigia erano però ancora in grado di suggestionare ed insegnare. Questa volta erano i maestri italiani che parti vano per esplorare il mondo, misurandosi con il paesaggio e l’etnografia locale con il metro dell’educazione artistica appresa in patria. Il di ciannovesimo secolo d’altronde è l’epoca nella quale un esercito di esploratori, poeti, fotografi e non da ultimo artisti si misurò con la scoperta di nuovi mondi, ancora in gran parte misteriosi ed inesplorati.
Icona quanto mai emblematica del viaggia tore avventuriero di quell’epoca non è un artista bensì quella sorta di Indiana Jones che fu Gio vanni Battista Belzoni - circense, esploratore, in ventore ed archeologo - di cui in mostra abbiamo un fascinoso dipinto inedito. Anche l’imprenditore Zaverio Calpini non fu un arti sta, ma trasferitosi in Messico alla metà dell’ot tocento si appassionò alla cultura locale riportando in patria, dopo trent’anni di perma nenza, un’importante collezione di archeologia e di oggetti etnografici. Per un artista il viaggio poteva costituire anche la ricerca di un’alterna tiva edenica alla città, e in questo senso venne interpretato da Romualdo Locatelli, che perso nalmente continua a rammentarmi Paul Gau guin, e da Guido Boggiani, quest’ultimo definito un “Ulisse moderno”. Entrambi trova
rono poi nell’iconografia esotica la formula per ricercare il successo, come fecero altri due ben noti pittori viaggiatori: Ippolito Caffi e Amedeo Preziosi. Il viaggio poteva anche trasformarsi in una prestigiosa occasione di lavoro: si pensi a Fausto Zonaro che divenne pittore di corte del sultano a Istanbul, allo scultore Augusto Felici a cui furono affidate le decorazioni della nuova residenza del Raja di Baroda in India, oppure a Galileo Chini che affrescò il palazzo reale di Rama V, re del Siam, oggi Thailandia. In altri casi le fonti iconografiche derivate da viaggi in paesi lontani divenivano fortunato prontuario per dipinti di sicuro appeal per i maestri legati all’élite, quali Hermann Corrodi e Giulio Ari stide Sartorio.
Il viaggio spesso trasformò la vita di questi artisti e intellettuali in una vicenda fuori dall’or dinario, in alcuni casi provocando anche una morte rocambolesca o misteriosa, come l’omi cidio di Boggiani per mano di un indigeno, l’improvvisa scomparsa di Locatelli in una fore sta o la malattia che consumò Belzoni nel ten tativo di raggiungere località dell’Africa ancora più pericolose e lontane. Precisamente la vita straordinaria che ne scaturisce è il fil rouge che lega questi personaggi a due donne pittrici che, pur avendo lasciato la loro patria in maniera de finitiva, non sono vere e proprie viaggiatrici: Pan Yuliang e Juana Romani. Due donne che con determinazione e talento fuori dal comune hanno raggiunto il successo lontano dalle città di origine.
Gianluca BerardiUn Indiana Jones ante litteram
Una vita davvero straordinaria quella di Gio vanni Battista Belzoni, viaggiatore, inventore, av venturiero, circense ed esploratore. Uomo dal multiforme ingegno, nasce a Padova nel 1778 e, nonostante le umili origini, sfrutta il suo precoce genio inventivo studiando idraulica a Roma. Nel 1803 giunge a Londra: un uomo dalla smisurata statura, dalla singolare forza e dai profondi occhi scuri si aggira tra le strade di Islington e trova fortuna lavorando nei circhi e nei teatri, ben pre sto conosciuto ai più come “The Great Belzoni”. Nei panni di Sansone Patagonico, porta sulle spalle più di dieci persone nel numero della pi ramide umana, ma è anche un “mago” che mette in scena fantastici giochi d’acqua.
Affascinante e intrepido, con la sua vita ro manzesca ha ispirato Goerge Lucas nella scrittura di Indiana Jones: insieme alla moglie Sarah, nel 1814, parte per Malta e poi si sposta in Egitto, lavorando per il pascià in qualità di esperto di idraulica. Ma è anche legato al console britannico Henry Salt, in cerca di tesori egizi da strappare ai francesi e da esporre al British Museum. Al Cairo, tra pericolose epide mie, odalische, moschee, gite sul Nilo e perlustrazioni nelle piramidi di Giza, viene incaricato di progettare una macchina idraulica per l’ir rigazione, che però verrà bocciata dal pascià. Un ri fiuto che suona come un’op portunità: l’instancabile curiositas e la passione per l’ignoto portano Belzoni al l’incontro più significativo, quello con l’archeologo Jo hann Ludwig Burckhardt,
che subito percepisce la sua sete di conoscenza e lo coinvolge nella complessa estrazione dalla sabbia tebana della colossale testa del Giovane Mnemone, conservata al British Museum, insieme ad altri suoi ritrovamenti, che spesso orgogliosa mente firmava. Un’impresa quasi impossibile, ma il meccanismo ideato da Belzoni funziona e segna l’inizio delle sue mirabolanti missioni ar cheologiche nella valle del Nilo, tra cui il ritro vamento del perduto accesso alla piramide di Chefren. Nonostante i suoi metodi ancora non scientifici e l’ingiusta fama di saccheggiatore, Bel zoni è stato il “modello dell’archeologia eroica, l’ultimo dei cercatori per caso” (Zatterin 2019, p. 96), animato dal puro piacere dell’indagine dei misteri preservati dalle piramidi, da cui poi sono nati preziosi diari di viaggio e di scavo. Tra le nu merose immagini che lo ritraggono, spicca l’ine dito dipinto di scuola francese eseguito nel 1822 probabilmente a Parigi, in cui è avvolto nel suo tipico turbante, col viso poggiato sulla mano in una posa melanconica, di certo insofferente alla statica vita urbana. Nel novembre del 1823, ri chiamato dalla leggendaria Timbuctu, parte per l’ultima impresa. Morirà solo un mese dopo in Nigeria, colto da febbri tifiche, emblematico epilogo della storia di un audace viag giatore.
G. Battista Cecchini, Giovanni Battista Belzoni. Celebre viaggiatore in Egitto, litografia, Università di Padova, Biblioteca dell’Orto Botanico
Scuola francese del XIX secolo
Ritratto di Giovanni Battista Belzoni
Olio su tavola, cm 55 x 48,8 Iscritto e datato sul retro: “Giovanni Battista Belzoni 1822”
L’esperienza esotica tra sogno e realtà
“L’esser fuori dal seno della società e dei pregiudizi è una cosa veramente gradevole: qui, qui so di es sermi dato solamente all’arte, e per essa vivo so lamente. […] Quando un artista può essere libero, come lo sono io adesso, si può anche in questo modo gustare qualche istante di felicità” (Scarpa 2016, p. 32).
Nelle righe scritte da Caffi all’amico Tessari du rante il viaggio in Grecia emergono i principali te mi della vicenda umana e artistica del pittore. La costante ricerca di libertà e la passione totalizzante per l’arte. Temi che saranno il fil rouge della sua intensa esistenza e che lo porteranno a muoversi instancabilmente tra l’Italia, l’Europa e il Vicino Oriente. E che infine saranno anche la causa della sua morte, avvenuta sul campo di battaglia a Lissa dove si trovava in prima linea per documentare gli eventi bellici.
Dopo una prima formazione tra Belluno e Pa dova, Caffi viene ammesso all’Accademia di Belle Arti di Venezia da cui però ben presto sente il de siderio di allontanarsi, insofferente ai rigidi dettami accademici. Nel 1832 si stabilisce a Roma dove, a contatto con le suggestioni della città, i monu menti e il fertile ambiente degli artisti stranieri, si va precisando il suo linguaggio. Inizia a dipingere e disegnare dal vero, indi viduando nella veduta e nello studio della luce la strada da percorrere, che lo porterà a creare i suoi indi scussi capolavori dai tagli scenografici e dalle infinite varianti di luce.
Il 5 settembre del 1843 Caffi si imbarca da Napoli per il tanto desiderato viag gio ad Atene e a Costanti
nopoli da cui proseguirà poi per la Siria, l’Armenia e la Palestina fino a raggiungere l’Egitto. Viaggia da solo (non è al seguito di viaggi istituzionali o spedizioni organizzate) in territori spesso perico losi, tanto che, dopo essere stato derubato più vol te, decide di indossare i costumi locali. È l’inizio di una nuova stagione artistica, in cui le opere ri velano un’adesione profonda ai soggetti rappre sentati, che siano i grandi spazi del deserto o le folle brulicanti dei mercati. Riempie, con minu ziosa attitudine documentaristica, album e taccuini di impressioni di viaggio, appunti, disegni, con l’intento di riportare ogni dettaglio utile alla com posizione delle sue opere (Romanelli 2005, pp. 69-71).
La Carovana nel deserto fa parte di un ciclo de corativo composto da quattro grandi dipinti (Ve duta di Costantinopoli , Veduta di Napoli , Foro Romano) fino a qualche anno fa considerati per duti, databili all’inizio del 1864 (comunicazione scritta A. Scarpa, 7 settembre 2017). È un’imma gine sospesa tra sogno e realtà, avvolta dalle ri frangenze arancio, gialle e viola della luce del tramonto.
Tornato in Italia, a Roma, Caffi, guidato dal suo desiderio di libertà e di avventura, compirà ancora una volta un’esperienza eccezionale: il volo sul pal lone aerostatico di Villa Borghese.
Antonella Dell'Ariccia
I. Caffi, Veduta panoramica di Costantinopoli, Berardi Galleria d'Arte
Ippolito Caffi (Belluno 1809 – Lissa 1866)
Carovana nel deserto Tempera grassa su tela, cm 176 x 255
Il 13 agosto 1839 Giovanni Renica si imbarcava da Ancona per un viaggio di circa dieci mesi nel Mediterraneo. L’artista si era già da tempo affer mato come uno dei più valenti vedutisti della scuola lombarda. Dopo aver appreso a Brescia il disegno prospettico dall’architetto Rodolfo Vantini, nel 1928 si trasferiva a Milano per seguire a Brera gli insegnamenti di Giovanni Migliara, maestro dal quale derivava l’ampio respiro della veduta e la cura del dettaglio, mentre attraverso il legame di amicizia con Giuseppe Canella le sue opere si arricchivano di sensibilità luministica e atmosfe rica. Dopo aver ritratto numerose località dell’Ita lia settentrionale e centrale, nel 1939 Renica veniva dunque coinvolto dal conte milanese Re nato Borromeo in un viaggio con lo scopo di do cumentare luoghi e costumi del Medio Oriente. Le date ripotate nei numerosi disegni hanno per messo di ricostruire con esattezza l’itinerario per corso (Anelli, 2003; Spetsieri Beschi, 2004): dopo essere passato per Corfù e aver navigato lungo il Peloponneso, il 30 agosto Renica giungeva ad Atene dove, successivamente alla visita di altre località della Grecia, avrebbe soggiornato ancora il 20 e il 21 settembre. Dal Pireo si dirigeva poi in Egitto, giungendovi il 25 settembre per rima nervi fino alla fine dell’anno. A gennaio il viaggio proseguiva ver so Oriente, con tappe in Palestina, Beirut, Ci pro, Rodi, Smirne, Co stantinopoli. Da qui, il rientro a maggio con soste a Malta, Messina e Napoli.
Il ricco corpus gra fico costituisce non so
lo uno straordinario reportage da cui l’artista avrebbe attinto per anni, come mostrano i molti dipinti eseguiti in atelier, ma anche una testimo nianza, nell’efficace dosaggio del segno a matita spesso arricchito da acquerello, di attente ricerche luministiche. È per l’appunto l’espressione della luce nelle diverse ore della giornata la protagonista di questi dipinti, come precisa l’artista nelle note sul verso. Per cui a rappresentare la Notte abbia mo una suggestiva veduta del porto di Ancona inondato dai riflessi della luna piena, cui fa da contrappunto il lume dell’edicola che rischiara i devoti in primo piano; nel Mezzogiorno i raggi del sole penetrano attraverso le nubi e illuminano potentemente l’Acropoli con la città di Atene a suoi piedi, allora appena un piccolo borgo, men tre il panorama si apre fino al mare e le macchiette al centro rivelano il meticoloso studio dei costumi locali. A rendere la sottigliezza della luce del Mat tino, con tutta la sua ricchezza di sfumature aran cio violacee, l’artista non poteva invece che scegliere una veduta della piena del Nilo, con tan to di piramidi sullo sfondo. Tre dipinti dunque non incorniciati insieme ma concepiti per formare un trittico in grado di esemplificare, attraverso i diversi stati del giorno, i momenti chiave di un viaggio che fece di Renica uno dei primi pittori orientalisti ita liani.
Sabrina SpinazzèG. Renica, Atene, veduta dal Nord, Brescia, Civici Musei, Gabinetto disegni e stampe
La notte, il mattino, il mezzogiorno: suggestioni luministiche in un viaggio nel Mediterraneo
Giovanni Renica (Montirone, Brescia, 1808 – Brescia 1884)
La Notte – Veduta della città di Ancona Olio tela, cm 34 x 48,5 sul telaio, su etichetta di carta: “La Notte –Veduta della Città di Ancona coi monti vicini; Il mare Adriatico bagna le sponde; in alto la fortezza; alle falde il borgo, scorgesi anche il Faro ed il luogo della quarantena. Sul piano anteriore una cappelletta giusta il Costume del paese con qualche contadino devoto. Quadro dal vero eseguito da Gio Renica nel 1843.”
Il Mattino – Veduta del Basso Nilo
Olio tela, cm 34 x 48,5 firmato e datato in basso a destra: “Gio Renica 1843”; sul telaio, su etichetta di carta: “Il Mattino – Veduta del Basso Nilo in istato di allagamento; in lontananza le piramidi del Cairo; sul fiume una barca secondo il costume del Paese. Quadro dal vero eseguito da Giovanni Renica nel 1843.”
Il Mezzogiorno - Veduta della città di Atene
Olio tela, cm 34 x 48,5 sul telaio, su etichetta di carta: “Il Mezzogiorno –Veduta della Città di Atene; in distanza le isole della Grecia Morea; alla diritta il Pireo ed il tempio di Teseo; alla sinistra il tempio di Giove ed il palazzo del Re Ottone che si sta erigendo. Il sole che penetra dalle nubi rischiara parte dell’Acropoli, luogo dei migliori monumenti. Quadro dal vero eseguito da Gio Renica nel 1843.”
Vedutismo fotografico tra vero e pittoresco
Pittore di genere, di vedute e di ritratti di pieno Ottocento, Amedeo Preziosi è una figura “di sno do” per via dei decenni densi di cambiamenti nei quali si trovò ad operare e anche della colloca zione geografica di gran parte della sua vicenda artistica. Trasferitosi a Costantinopoli dal 1842, egli fu infatti un’importante figura di riferimento per i viaggiatori occidentali, affermandosi tra il 1845 e il 1875 come il pittore di tematiche orien tali più popolare e richiesto in particolare da in glesi e francesi.
Nato a Malta Preziosi ebbe una formazione di matrice romana presso il maltese Giuseppe Hy zler, che a Roma era stato legato a Overbeck e i Nazareni. Intorno al 1840 si recò a Parigi con il fratello Léandro: mentre questi studiò fotografia, egli s’iscrisse all’Académie des Beaux-Arts e ma turò, su influenza di Daumier e di altri, l’interesse per lo studio dei caratteri della vita quotidiana. Studiando la sua produzione, della quale colpisce la disinibita mescolanza dei generi pittorici (quelli della veduta, delle tematiche popolari e del ritratto tipologico o “etnico”), Francesco Leone ha potuto mettere a fuoco le pratiche di bottega dell’artista, grazie alle quali riuscì a organizzare una produ zione moltiplicata delle sue opere andando in contro alle richieste di un pubblico sempre più vasto. Un altro aspet to messo a fuoco è l’utilizzo di dispositivi meccanici e strumenti ottici quali la macchi na fotografica, il pan tografo e la camera ottica per le sue vedu te (Leone 2011).
A Costantinopoli nel 1866, a palazzo
del sultano Abdülaziz, Preziosi conobbe il prin cipe Carlo I di Romania, che lo invitò a viaggiare al suo seguito e disegnare luoghi e costumi del Principato, cosa che l’artista fece nelle estati del 1868 e del 1869. L’acquerello qui presentato è datato all’ultimo giorno del secondo soggiorno rumeno, dal 30 maggio al 15 luglio 1869, docu mentato da un album di 90 acquerelli conservato presso il Museo Municipale di Bucarest, molti dei quali furono esposti nello stesso anno nel Museo Nazionale nel Palazzo dell’Università (Urechia 1869; Ionescu 2003). Il punto di vista riprende quello adottato nell’acquerello del 1 luglio 1868 nel quale Bucarest è veduta dalla collina di Filaret, dove proprio quell’anno sarebbe stata inaugurata la prima stazione ferroviaria rumena. Lo skyline della capitale si staglia netto dietro un primo pia no occupato da carovane di zingari, unendo fe licemente le due categorie estetiche solo in apparenza contrastanti di vero e pittoresco.
Alessandra ImbelloneA. Preziosi, Veduta di Bucarest da Filaret (1868), Bucarest, Muzeul National de Art al României
Amedeo Preziosi (Malta 1816 – Istanbul 1882)
AMEDEO PREZIOSI
Veduta di Bucarest
Matita nera e acquerello su carta avana, mm 290 x 440 Iscrizioni in basso a destra “Bucarest / da Filaretti / 15Juillet / 1869 / Preziosi”
Archeologia ed etnografia in una raccolta messicana
Possiamo solo immaginare quali intense emozioni si agitassero in un giovane di ventotto anni che, dopo giorni di navigazione oceanica, approdava in un porto messicano attorno alla metà del XIX secolo. Zaverio Calpini, nato nel 1820 a Vanzone (oggi provincia piemontese del Verbano-CusioOssola), aveva scelto con i fratelli Giovanni e Fran cesco di abbandonare il piccolo paese natale, incastonato nel lindo nitore alpino della Valle An zasca, per avviare dall’altra parte dell’Oceano un’impresa commerciale, la Casa Industriale Cal pini, fondata nel 1848 e dedita soprattutto alla vendita di strumenti ottici importati dall’Europa.
Un’iniziativa fortunata, che nel giro di pochi anni regala alla famiglia Calpini, e a Zaverio in par ticolare, uno status e una rispettabilità invidiabili. Calpini diviene personaggio in vista, anche in virtù del suo impegno sociale e civile: già nel 1850 è, con il fratello, tra i fondatori della Società di bene ficienza e nel 1861 riceve dal governo repubblicano di Benito Juárez la Medaglia d’oro al Valor Civile. La lunga presenza di Calpini in Messico è interval lata da ritorni in patria, come quando nel 1852 sposa Marietta Pirazzi: al suo rientro, assume il ruo lo di console onorario del Piemonte. Tale posizione gli offre la possibilità di frequentare le autorità e, immaginiamo, le élite culturali messicane ma anche, in particolare negli anni della Seconda guerra di intervento (1861-1867), quelle francesi, insieme a personalità della commissione scientifica inviata da Napoleone III per documentare la cultura e la storia locali (Taladoire 2017). Questo, unito all’intreccio di relazioni dovute agli scambi commerciali in cui è coinvolto (da Città del Messico, a Guadalajara, a Veracruz), favorisce l’accesso a un fiorente mercato di reperti erpetologici, mineralogici, ma soprattutto archeologici e etnografici, che inizia a raccogliere in una rilevante collezione.
Se è possibile che un primo impulso all’acqui sto di tali oggetti fosse nato da finalità commerciali, col passare del tempo entrano certamente in gioco altre e più elevate dinamiche. È infatti al suo de finitivo rientro in patria, nel 1867, che Calpini lega il proprio nome a due istituzioni museali pie montesi attraverso due donazioni: nel 1876 una importante raccolta di arte precolombiana al Mu seo Civico di Torino e nel 1889 un nucleo di re perti archeologici ed etnografici al Museo Civico di Domodossola (Musei Civici G.G. Galletti). Que st’ultimo lascito, in particolare, ci interessa, poiché include una serie di realistiche statuette in cera che fissano, con ricchezza di dettagli, un prezioso repertorio di tipi, mestieri e costumi messicani, unendo spunti antropologici e folclorismo.
Gli acquisti di Calpini appaiono frutto di una attenzione e di un’apertura culturali che ben si sposano con la solida immagine di sé che l’im prenditore costruisce all’estero e in patria: già Ca valiere della Croce dei SS. Maurizio e Lazzaro nel 1867, a Vanzone ricopre la carica di Sindaco per ben tre mandati, fino al 1886, godendo di un agio che gli permette di costruire come sua residenza un grande palazzo signorile; negli anni settanta si fa sostenitore della realizzazione della ferrovia dell’Ossola e più tardi del progetto del traforo del Sempione (1906).
Un abile imprenditore, dunque, un politico ma anche un uomo di cultura che, dall’osservatorio circoscritto della propria comunità locale – tuttavia ricca di intrecci e relazioni-, sceglie di legare il proprio nome a istituzioni nate da quel dibattito internazionale che mirava a fondere storia locale, nazionale ed extraeuropea nell’orizzonte più ampio della storia dell’umanità.
Eugenia Querci
Le statuette di cera della collezione di Calpini
Nel Messico dell’Ottocento emerse una produ zione artistica molto singolare: si tratta di statuine in cera di tipo popolare. La loro particolarità ri siede in tre aspetti: quello tecnico dell’utilizzazione della cera come materia prima; nel tema popolare, che costituisce un genere strettamente imparen tato con le correnti romantiche dell’epoca; nella localizzazione, poiché la grande maggioranza di queste si trova all’estero.
Nel corso del XIX secolo sono frequenti le testimonianze dei letterati nazionali che hanno elogiato l’abilità raggiunta dagli artigiani nell’ese cuzione di queste sculture, che furono esposte nei mercati internazionali diventando un pro dotto da esportazione insieme alla mercanzia trasportata dalle navi verso Amburgo, Londra, Bordeaux e New York, come la cocciniglia, la vaniglia, il pepe, e soprattutto l’argento; ma anche come bagaglio dei viaggiatori o degli stra nieri residenti in Messico che rientravano nel loro paese natale e le utilizzavano come souvenir o ricordo del loro soggiorno.
È questo il caso delle cere della collezione di Zaverio Calpini, che mise insieme un’importante raccolta di oggetti precoloniali e un’estesa colle zione di figure in cera che illustrano l’ampio ven taglio sociale della popolazione messicana del tempo.
Si distinguono nella raccolta tre gruppi di versi. Nel primo troviamo cinque sculture di buona fattura, molto vicine alle opere di Andrés López. Una di queste è l’acquaiolo, con il suo classico grembiule di cuoio e l’enorme anfora di argilla sulla schiena per trasportare l’acqua. Altro personaggio di città è il facchino, che ha ai piedi un pacco e che allo stesso modo indossa un grembiule e calzoni di cuoio. La terza figura è quella di una nativa americana che offre in giro
per la città i prodotti della campagna, con lo “scialle” allacciato davanti per caricare sulle spalle il suo bambino. In questa selezione di per sonaggi non poteva mancare il tlachiquero, nome dato a chi estrae l’idromele dall’agave, che fer mentando produce il pulque, una bevanda di ori gine precoloniale molto popolare in Messico. Infine troviamo un nativo americano a cavallo, guerriero che rimanda alle tribù del nord della República che saccheggiavano le popolazioni al confine. Il secondo gruppo è composto da tre sculture realizzate in stoffa e cera. Rappresentano gli indios bravos del nord, con le loro decorazioni facciali e i tatuaggi, i loro abiti scamosciati, op pure seminudi con pose molto espressive. Il terzo gruppo è quello dei tre venditori, che tra sportano sulla schiena una cesta di legno con di versi prodotti da vendere, e una donna con un cesto di vimini sopra la testa che probabilmente raffigura un’abitante della costa.
Il fascino di queste figure consiste in una testimonianza inestimabile che rende, con la scultura a tutto tondo, la diversità dei tipi (nei vestiti, nella fisionomia, nelle occupazioni) che animavano la vita quotidiana del Messico indi pendente.
María José Esparza Liberal IIE-UNAM Traduzione di Selene ChillaPer un appfrondimento: M. J. Esparza Liberal e I. Fernández, La cera en México. Arte e Historia México, Fomento Cultural Banamex, 1994.
Zaverio Calpini con la medaglia d'oro al Valor Civile in una foto d'epoca
VITE
Ceroplasta messicano (XIX secolo)
Indio bravo Scultura in cera e stoffa h cm 29
Andrés López (XIX secolo)
Nativo americano Scultura in cera h cm 28
Ceroplasta messicano (XIX secolo)
Indio bravo Scultura in cera e stoffa h cm 26
Ceroplasta messicano (XIX secolo)
Indio bravo Scultura in cera e stoffa h cm 29
Andrés López (XIX secolo)
Acquaiolo
Scultura in cera h cm 26
Andrés López (XIX secolo)
Tlachiquero
Scultura in cera h cm 26
Andrés López (XIX secolo)
Facchino
Scultura in cera h cm 28
Andrés López (XIX secolo)
Nativa americana venditrice
Scultura in cera h cm 25
Ceroplasta messicano (XIX secolo)
Venditore
Scultura in cera e stoffa h cm 26
Ceroplasta messicano (XIX secolo)
Venditrice
Scultura in cera e stoffa h cm 28
Ceroplasta messicano (XIX secolo)
Venditore
Scultura in cera e stoffa h cm 25
Ceroplasta messicano (XIX secolo)
Venditore
Scultura in cera e stoffa h cm 26
Uno scultore romano da Venezia in India, all’antica corte di Baroda
Figlio d’un sottufficiale della guardia papalina, Augusto Felici ebbe la sua prima formazione pres so il convento di S. Clemente a Trastevere, per poi proseguire presso l’Accademia di S. Luca, do ve vinse nel 1869 il secondo premio di disegno di nudo e nel 1871 il secondo premio di scultura, venendo anche segnalato con lode per l’esecuzio ne di disegni di nudo, e infine presso lo studio Tadolini Canova. Trasferitosi a Venezia entro il 1872, entrò a bottega presso il fonditore Besarel, e una volta autonomo aprì uno studio in campo Santa Margherita, poi trasferito sul Canal Grande grazie al successo ottenuto dalle sue sculture pres so un’importante clientela internazionale. Il de butto della sua florida attività espositiva risale al 1880, quando un gruppo di terrecotte e bronzi realizzati su suoi modelli dalla fonderia veneziana di Pasquale Arquati, che era anche antiquario, fu esposto nella sala delle arti applicate all’industria alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di To rino. La realizzazione di sei formelle allegoriche in marmo a decorazione del lo scalone costruito da Camillo Boito fra 1881 e 1886 per la residenza ve neziana del barone Fran chetti e di Sara Rotschild gli procurò grande fama. Fu grazie a queste che nel giugno 1887, quando il raja di Baroda (corte che fu riassorbita nel 1949 nello stato indiano del Gujarat) Sayajirao III fu a Venezia, l’architetto gine vrino Albert Fillion, suo consulente in Europa,
propose Felici come scultore di corte. Felici dettò una serie di condizioni fra le quali di viaggiare spesato in prima classe, un salario mensile di 2500 franchi e il permesso di tornare in Italia per l’estate e durante la stagione delle piogge. Il 16 dicembre 1889 si avviarono le pratiche per assu merlo come scultore di corte con un incarico di tre anni per eseguire “the statues of the indian subjects” per la nuova, grandiosa residenza reale di Laxmi Vilas, concepita in stile indo-saraceno con assonanze neogotiche per essere un simbolo del nuovo mondo che avrebbe dovuto sorgere dal connubio fra tradizioni europee e asiatiche (Kan nès 2015). Nei suoi cinque soggiorni a Baroda fra 1891 e 1896 Felici fu probabilmente il primo a raffigurare in scultura soggetti di vita indiana, dai dignitari della corte del raja ai tipi castali, in parte documentati in un album fotografico con servato presso gli eredi. Le fusioni furono eseguite tutte a Venezia. L’artista fu invitato a studiare oc casioni che avrebbero potuto ispirarlo, quali ad esempio il sa thamarao (combattimento di elefanti), o ritrarre il Sadhu, asceta di religione indù normal mente confuso con un fakiro.
Alessandra ImbelloneA. Felici, Sadhu, dispersa
Augusto Felici (Roma 1851 – 1946)
Ragazza indiana inginocchiata con anfora
Terracotta, cm 98 x 70 x 55
Note: iscritto al retro, all’interno della calotta cranica “21. 8bre. 1892. / A. Felici”
Fanciulla con un fiore in mano
Bronzo, cm 84 x 25 x 21 Firmato sulla base: “A. Felici Baroda 1893”
Fanciulla con un pomo in mano
Bronzo, cm 38 x 13 x 12
Firmato sulla base: “A. Felici”
Donna indiana che porta in capo una brocca
Bronzo, cm 94 x 36 x 30
Firmato sulla base: “Felici Baroda 1894”
Un “viaggiatore di successo” tra l’Italia e l’Oriente
Figlio del paesaggista svizzero Salomon, Her mann Corrodi è un artista fondamentalmente nordico, per il quale Roma e l’Italia costitui scono un’affascinante scenografia accesa dal sole caldo del Meridione e inondata dalla luce argentea della luna delle tiepide notti mediter ranee.
Il suo percorso formativo è costellato di viaggi, scoperte e relazioni. Dapprima la Svizzera per perfezionarsi sotto la guida di Calame e van Muyden, poi Parigi, dove già nel 1872 compare nei registri del mercante Goupil, ma soprattutto Londra. È nella capitale inglese che la sua pittura è accolta con maggiore entusiasmo. Introdotto dal ritrattista Winterhalter alla regina Vittoria e amichevolmente ricevuto nella casa di Alma Ta dema, intrattiene stretti rapporti con i principi di Galles. Nel 1876 scopre l’Oriente attraverso un lungo viaggio in Egitto, Terra Santa, Turchia e Mediterraneo Orientale. Le sue vedute ricercate da un pubblico d’èlite, sia di soggetto italiano sia orientale, sono costruite attraverso alcuni stilemi ricorrenti, come la dilatazione prospettica, l’in serzione di piccole figure, che rafforzano la mae stosità degli scenari, la magnificenza della natura e la solennità delle vestigie del passato.
Su invito di Alexandra di Danimarca, princi pessa di Galles, si reca nel 1878 a documentare Cipro, da poco passata sotto il controllo inglese in seguito alla guerra russo-turca.
I dipinti realiz zati durante que sto viaggio sono esposti nella pri mavera del 1879 a Londra presso la French Gallery ac compagnati da un
handbook con descrizione dei luoghi a firma dello stesso artista.
Negli anni Ottanta e Novanta Corrodi, ormai definitivamente affermato come artista interna zionale, mantiene due studi, uno a Roma, e l’al tro strategicamente aperto nel cuore della Mitteleuropa, prima a Baden Baden e poi a Hom burg, centri di villeggiatura della nobiltà euro pea. Coronamento della sua carriera è la mostra retrospettiva Selected Pictures and Studies of Italy and the East del 1902 presso la French Gallery, attraverso cui viene ripercorso un trentennio di viaggi ed esplorazioni, con quello stupore e me raviglia di fronte alla sontuosità della natura e alla fastosità dei monumenti del Meridione e dell’Oriente che il pittore condivideva con i suoi collezionisti. “La placida bellezza, la serenità dei cieli, la ricchezza dei tramonti, l’atmosfera pitto resca, il costante contrasto tra le antiche rovine e la freschezza della vegetazione, l’Italia di Byron più che del turista Cook” chiosava il quotidiano britannico “The Daily News” (The French Gal lery, 1902).
Progetto rimasto incompiuto sono gli Studi Cor rodi, che dovevano ospitare artisti e ambienti per mostre, destinati a divenire un luogo di incontro per l’aristocrazia europea di passaggio nella città eterna.
Teresa Sacchi LodispotoHermann Corrodi, Carovana nel deserto, Berardi Galleria d'arte
Hermann Corrodi (Roma 1844 – 1905) - -
Il Nilo a Bulaq - Il Cairo
Olio su tela, cm 80 x 160 Firmato in basso a sinistra “H. Corrodi Roma”
"Il conte" della pittura a Roma
“Il conte”: con questo soprannome era noto Achil le Vertunni, «per la nobiltà dell’origine, l’eleganza della persona, dei modi, degli abiti» (Levi 1906, p. 41), già negli anni della formazione accademica a Napoli. Trasferitosi a Roma nel 1853, cominciò a de dicarsi principalmente al paesaggio, elaborando una cifra stilistica di grande successo. Fu tra i pri mi a comprendere le potenzialità dei soggetti della campagna romana, a cui dovette molta della sua fortuna commerciale. All’Esposizione Nazionale di Firenze del 1861, nel pieno del dibattito critico sul raggiungimento di un linguaggio artistico uni tario, presentò Campagna romana, paesaggio e Ve duta delle paludi pontine (Napoli, Palazzo della Prefettura), opere che rivelano la sua personale interpretazione del vedutismo internazionale mo derno, da Constable a Troyon. La formula roman tica del paesaggio a perdita d’occhio, in cui la natura selvaggia si ammanta di calde luci crepu scolari, conquistò immediatamente il collezioni smo straniero. «Tutti conoscono il suo studio e le sue opere», scriveva l’architetto Raffaello Ojetti nel 1872: «i stranieri tutti che in Roma si recano ad ammirare le sue grandezze storiche, religiose, e artistiche, dal mode sto turista al ricco e potente sovrano non trascurano di visitare il paesista italiano, ed osservare con piacere il suo studio» (Ojetti 1872, p. 84). Tanto al ta era la richiesta di nuovi dipinti da parte degli avventori, da spingerlo a metter su bottega e affidarsi a
giovani aiutanti. Molti degli introiti li investiva poi nell’arredo del suo studio, una sorta di Wun derkammer che attirò la curiosità dei più raffinati collezionisti da ogni angolo del mondo. Lo studio di Vertunni in via Margutta, infatti, fu a lungo l’epicentro della più elegante mondanità capito lina, animato da balli e cene con ospiti d’eccezio ne: tra questi, persino il generale Ulysses S. Grant, già presidente degli Stati Uniti d’America, che vi fece visita nel 1878. In quello stesso anno, il Mi nistero della Pubblica Istruzione gli affidò l’inca rico di redigere una relazione sulla pittura italiana all’Esposizione Universale di Parigi.
Particolare apprezzamento riscossero le opere che realizzò in Egitto, dove soggiornò entro il 1875. Lì l’artista acquistò un gran numero di ma nufatti e arredi per il suo atelier, che l’“Evening Post” di New York arrivò a definire «più un mu seo d’arte che uno studio» (Evening Post 1878). Nel 1881, all’apice della sua carriera, la sua intera collezione fu venduta all’asta, per motivi tuttora oscuri (Querci 2012 e 2016). L’astro di Vertunni improvvisamente si andò spegnendo, consegnan dolo a un lungo, immeritato oblio.
La Salle arabe dello studio di Vertunni in via Margutta (dal catalogo della vendita del 1881)
Achille Vertunni (Napoli 1826 - Roma 1897)
Mercato al Cairo
Olio su tela, cm 107 x 60 Firmato e situato in basso a destra: “A. Vertunni Cairo”.
Note: il dipinto è accompagnato da un’importante cornice intagliata a motivi orientali
Pittore e diplomatico: una “lanterna magica” dell’Oriente
Duplice è la fisionomia dell’Oriente quale si pre senta nell’arte: c’è l’Oriente ricco, gemmato, sontuoso delle sultane, e l’Oriente povero dei fellah e dei be duini; c’è quello delle mille e una notti e quello del deserto. Sempre è la terra esuberante di luci e colori, è la terra feconda di poesia…” (Toscani 1883, p. 271). Così Odoardo Toscani introduceva i dipinti orientalisti di Ferrari, Biseo e Bertolla all’Esposizione Nazionale di Roma del 1883.
Nato a Roma nel 1859 e laureatosi in giurispru denza nel 1880, si arruola nel reggimento bersa glieri nel 1882. La carriera diplomatica e l’attività pittorica rappresentano il duplice aspetto della sua vicenda biografica: dopo aver presentato alcuni soggetti storici e militari, tra cui Crimea, 16 agosto 1855, all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, Toscani inizia la sua avventura tra il Norda frica e l’Oriente. Giunge come volontario a Tunisi nel 1885, quindi viene nominato vice console a Costantinopoli nel 1886 e a Patrasso nel 1893. Promosso regio console, si sposta al Cairo dal 1901 al 1904, concludendo la sua carriera a Smirne dal 1905 al 1914, anno della sua morte.
Dalla Tunisia alla Turchia, Toscani ha concepito un ricchissimo e quasi interamente inedito corpus di opere che consegnano una visione brillante di un Oriente catturato con immediatezza espressiva, sensibilità luministica e indagine introspettiva dell’altro. In qualità di console, come si legge nei suoi rapporti inviati al Ministero degli Affari Esteri del Regno, si ri vela un attento conosci tore dei popoli arabi, della loro economia,
delle vie di commercio e dei flussi migratori del Mediterraneo; esperienza che si scorge nella sua produzione pittorica, un vero e proprio reportage dal valore etnografico. Questo caleidoscopico mo saico di soggetti mai meramente descrittivi è co stituito da numerose tavolette eseguite dal vero: brani di paesaggio, tranche de vie e ritratti di una cangiante narrazione orientalista. “Perché dare la preferenza ad un tipo, ad una scena, ad un colore quando mille tipi, mille scene, mille colori tutti nuovi, tutti belli ugualmente mi danzavano da vanti agli occhi abbagliati, una ridda affascinante e non interrotta?” (Toscani 1889, p. 44). Sulla scia di De Amicis, Toscani, nel 1889, pubblicava il libro di viaggio Tunisi, “con lo scopo di scolpire un ri tratto della società araba […] nelle linee fugaci ma luccicanti del bozzetto” (Ermini 1890, p. 567).
Opera che aggiunge un nodale tassello alla sua percezione dell’Oriente come un formidabile uni verso costellato di palme, templi, piramidi, mina reti, moschee, ma anche di storie, volti, costumi.
La “terra feconda di poesia” non è quella delle fan tasie arabe con odalische, eroine romantiche e fu matori d’oppio, ma quella dell’umile eppure affascinante quotidianità del deserto, “confusione di persone e di cose […] insieme di colori super bamente pittorici” (To scani 1889, p. 17).
Elena LagoOdoardo Toscani in compagnia della guardia consolare Mohammed mentre dipinge in Tunisia, foto d'epoca (eredi dell'artista)
Odoardo Toscani (Roma 1859 – Smirne 1914)
ODOARDO TOSCANI
Tunisi
Olio su tavola, cm 26,5 x 16,5 firmato e locato in basso a destra: “O. Toscani Tunisi” Provenienza: eredi dell'artista
Tempio di Karnak in Egitto
olio su tela, cm 19 x 33 Provenienza: eredi dell'artista
Fuori dalla moschea
Olio su tavola, cm 24 x 32 firmato in basso a sinistra Provenienza: eredi dell'artista
ODOARDO
Bottega in un suk di Tunisi
Olio su tavola, cm 27 x 16,5 Provenienza: eredi dell'artista
VITE
Acquaiole sul Nilo
Olio su tela, cm 25 x 39,5 Provenienza: eredi dell'artista
Oasi nel deserto
Olio su tavola, cm 23 x 41,5 Provenienza: eredi dell'artista
Acropoli di Atene
Olio su tavola, cm 14 x 22 firmato in basso a sinistra: “O. Toscani” Provenienza: eredi dell'artista
Rovine di Pergamo in Turchia
Olio su tela, cm 20 x 34 Provenienza: eredi dell'artista
Moschea di Vaniköy sul Bosforo
Olio su tavola, cm 16,5 x 26,5 firmato in basso a sinistra: “O. Toscani” Provenienza: eredi dell'artista
Moschea del sultano Al Muyyad al Cairo
Olio su cartone, cm 20 x 33 Provenienza: eredi dell'artista
ODOARDO TOSCANI
Minareto al Cairo
Olio su tavola, cm 18 x 32,5 Provenienza: eredi dell'artista
Neve a Istanbul
Olio su tela, cm 13 x 21 Provenienza: eredi dell'artista
VITE
TRA VIAGGIO ED
Pastore tunisino
Olio su tela, cm 27, 5 x 16,5 firmato in basso a sinistra: “O. Toscani” Provenienza: eredi dell'artista
ODOARDO TOSCANI
La guardia del consolato di Tunisi Mohamed, guida di Toscani Olio su tela, cm 40,5 x 21,5 siglato in basso a sinistra: “O.T” Provenienza: eredi dell'artista
Moschea di Sidi-ben-Aja in Tunisia
Olio su tavola, cm 16 x 26 Provenienza: eredi dell'artista
Marabutto di fronte al mare tunisino
Olio su tavola, cm 16,5 x 26,5 Provenienza: eredi dell'artista
Arabi a cavallo verso Bab Sidi Abdallah
Olio su tavola, cm 16 x 27 Provenienza: eredi dell'artista
Fontana sotto le arcate nei pressi di Tunisi
Olio su tavola, cm 16 x 27
Provenienza: eredi dell'artista
La gran luce vaporosa dell’Oriente
Cesare Biseo è stato l’artista viaggiatore per eccel lenza, fin dagli esordi. Al percorso accademico preferì la formazione sotto l’ala del padre, il bre sciano Giovanni Battista Biseo: appena sedicenne, lo seguì a Parigi per collaborare alla decorazione del palazzo di Matilde Bonaparte. Rientrato a Ro ma, ottenne i suoi primi consensi con un affresco nel Caffè dei Convertiti (Imbellone 2011, p. 108). La svolta arrivò però nel 1868, quando fu invitato ad Alessandria d’Egitto dal chedivè Ismail Pascià, in occasione dell’apertura del Canale di Suez, per lavorare alla decorazione di alcuni palazzi istitu zionali. L’anno seguente si recò quindi al Cairo, dove gli furono commissionate le decorazioni del Teatro Reale. Fu un periodo di viva ispirazione, nel quale realizzò dipinti destinati decretare il suo successo commerciale e una grande quantità di studi e impressioni, a cui continuò ad attingere negli anni a seguire per realizzare composizioni di gusto orientalista. Grazie a un articolo d’epoca sappiamo che l’artista, poco dopo il soggiorno egiziano, entrò in contatto con la pre stigiosa galleria Goupil, alla quale vendette Una via inter na del Cairo, “quadretto all’ac quarello” (“Roma Artistica” 1872). Proprio con un acque rello, intitolato Un coro di re ligiose , si presentò alla sua prima mostra di cui si abbia notizia: non l’Esposizione Na zionale di Napoli del 1877, come finora riportato dalla bibliografia, bensì l’Esposi zione Universale di Vienna, di quattro anni precedente (Vienna 1873, p. 14, n. 2).
Cresciuta la sua fama con l’affermarsi della pit tura orientalista, nel 1875 si recò in Marocco per un’importante missione diplomatica. Anche lì eseguì un folto numero di studi, in parte acqui stati dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 1907. Osservando, tra questi, i ritratti muliebri, è possibile notare alcune affinità con il dipinto a olio qui presentato.
In Marocco, Biseo ebbe due compagni di viag gio d’eccezione: il pittore Stefano Ussi e lo scrit tore Edmondo De Amicis. L’amicizia con quest’ultimo portò a un fruttuoso rapporto di col laborazione, concretizzatosi nelle illustrazioni per i volumi Marocco (1877) e Costantinopoli (edizione del 1882).
Quando si presentò all’“Esposizione di Belle Arti in Roma” del 1883, con un unico grande di pinto, il pittore romano colpì un altro importante scrittore: Gabriele D’Annunzio. «Nella tela di Bi seo la gran luce vaporosa dell’Oriente illumina un biancheggiare di caffetta ni, un rosseggiare di fez», scrisse il vate in una recen sione: «i volti bruni delle donne ridono all’ombra dei larghi cappelli di paglia gial li, volti voluttuosi dalle lab bra umide, dalle molle iridi di velluto» (Andreoli 1996).
Manuel CarreraC. Biseo, Testa di giovane donna con pendenti alle orecchie, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Cesare Biseo (Roma 1843 – 1909)
Testa di giovane donna nella vegetazione Olio su tela, cm 62 x 50 Firmato in basso a destra “C. Biseo"
Un pittore italo-greco a Firenze: un contributo al filoellenismo italiano
Nell’Europa post-napoleonica, la rivoluzione greca (1821-1830) rappresentò un evento di grande importanza non solo politica ma anche simbolica. Infatti, con la fine della dominazione ottomana e la nascita dello Stato nazionale ellenico poté pla tealmente affermarsi, in quella che era considerata la culla della civiltà classica, il principio di auto nomia e di autodeterminazione dei popoli venuto in auge proprio durante la temperie romantica.
Il sentimento filoellenico si diffuse rapida mente anche nell’Italia preunitaria dove l’eroismo e l’abnegazione dei “fratelli” greci divenne un esempio da imitare per tentare di abbattere i si stemi politici ancien régime preesistenti (Risor gimento greco 1986). Un vero e proprio topos della pittura romantica ispirata ai moti indipen dentisti greci fu la morte del patriota Giorgio Bot zaris. Il sacrificio dell’eroe, caduto durante la battaglia di Karpenisi (1823), venne rappresen tato di frequente sia in Francia (Kosmadaki 2021, pp. 82-85) sia in Italia, ad esempio da Ludovico Lipparini e Filippo Marsigli.
La scelta di evocare Botsaris prima della fatale discesa in guerra fu, invece, meno comune. Il pit tore Giorgio Mignaty (de Gubernatis 1889, p. 301) – nato a Cefalonia e dunque intimamente legato alle vi cende rivoluzionarie della Grecia moderna – optò per effigiare il con dottiero tra le mura del monastero di Calabrita nell’atto di ricevere le armi consacrate dall’arcivescovo Ger manos, metropolita di Patrasso (No tizie diverse 1865). In linea con i dettami della grande pittura storica ottocentesca, Mignaty scelse di im paginare la scena secondo l’estetica del melodramma teatrale. All’origine
della composizione, infatti, poté in qualche modo influire la tragedia lirica in quattro atti Marco Bot zaris (1860), scritta dal poeta Giovanni Caccialupi e musicata da Pavlos Carrer (originario di Zante). Come documentato da un articolo apparso sul periodico inglese «The Atenaeum», il dipinto era visibile nello studio fiorentino del pittore già nel l’autunno 1863 ( Modern italian 1863); la tela, successivamente, venne esposta alla Promotrice di Belle Arti di Genova (Società Promotrice 1865, p. 18).
Sin dagli anni giovanili, Mignaty si era rivelato una figura cosmopolita gravitante attorno agli in tellettuali italiani e inglesi presenti a Cefalonia. Fu infatti grazie all’appoggio di Frederic Adam, alto commissario delle isole Ionie, che attorno al 1843 il pittore poté formarsi a Roma sotto la gui da di Tommaso Minardi (Fersi 1895). Stabilitosi poi a Firenze, divenne assieme alla moglie Mar gherita Albana (1827-1887) – sostenitrice degli ideali risorgimentali italiani, cultrice di poesia dantesca, appassionata di occultismo e corrispon dente del «Daily-News» – un punto di riferimento per la colonia angloamericana insediatasi lungo le rive dell’Arno.
Manuel BarreseL. Lipparini, La morte di Lambro Zavella (1840), collezione privata
Giorgio Mignaty (Cefalonia 1824 – Firenze 1895)
Marco Botzaris che riceve la spada benedetta dall’arcivescovo Germanos prima di combattere la battaglia per l’indipendenza greca
Olio su tela, cm 76 x 124 Iscrizione sul retro della cornice: “Mignaty”, “Firenze via dei”, “la battaglia… [illeggibile]” Esposizioni: Promotrice di Belle Arti di Genova del 1865, p. 18, n. 21 (prezzo 2500 lire)
Pittore ed esploratore nel Gran Chaco: viaggi di un artista nell’America meridionale
“In effetti, niente è più impressionante della vista di una dozzina di ragazzi robusti, alti, ben pro porzionati, i loro corpi interamente dipinti di ne ro, rosso, bianco e giallo, coperti da un brillante piumaggio, che ballano e cantano in mezzo al l’immensa foresta misteriosa” (G. Boggiani 1900). Lo stupore e l’incanto della danza indigena ripor tata da Guido Boggiani rende bene la sua folgo razione per i paesaggi della regione del Chaco e dei suoi abitanti, la cui conoscenza potè appro fondire tramite i due viaggi in Paraguay, nel 1887 e nel 1896. Il “mal del Gran Chaco” lo portò ad inoltrarsi nelle misteriose profondità di queste re gioni lungo il Rio Paraguay, dove collezionò avi damente gli oggetti degli indigeni, dai copricapi colorati ai pettini di corno, poi confluiti nelle col lezioni del Museo Pigorini, a realizzare fotografie di grande valore scientifico, a documentare con accurati disegni i loro tatuaggi, a scrivere due libri di grande rilevanza etnografica - I Ciamacoco (1894) e Viaggi di un artista in America meridio nale: I Caduvei (1895) - e non da ultimo a dipin gere grandi tele dove riportare il suo profondo senso di ammirazione per le immensità dei pae saggi locali. Personalità molto complessa dunque - Boggiani fu una sorta di Ulisse moderno, com merciante di pelli, fo tografo, studioso di lingue, biologo ed et nografo (La France sca 2014, p. 10)che si ispirò alla grandiosità del pae saggio locale per af fermarsi come pittore in patria dove inviò spesso quadri di grandi dimensioni a
soggetto paraguaiano: cito i diversi dipinti inviati alla promotrice di Genova del 1892 tra i quali Rio Barriego Alto Paraguay , l’emozionante Pan di zucchero del 1901 (Novara, Galleria d’arte mo derna Paolo e Adele Giannoni, Novara) e Sponde del Rio Paraguay esposto alla mostra nazionale di Torino del 1898. Quest’ultimo è senza meno rappresentativo del tentativo di Boggiani di sor prendere l’osservatore attraverso la solitudine grandiosa e il fascino immenso dei paesaggi su damericani - riportati sulla tela con una forza na turalistica e un pennellare agile memore del maestro Filippo Carcano - e tramite un’immedia tezza di tagli che anticipa quella delle fotografie di Sebastiao Salgado. Il tentativo di accedere alla seconda Biennale di Venezia del 1897 con un sog getto ambientato in Paraguay conferma la regia del pittore che affidava le sue ambizioni al fascino dei soggetti esotici. L’improvvisa e misteriosa mor te violenta avvenuta nel 1901 lungo la sua ultima spedizione in Paraguay - nel tentativo di inoltrarsi nelle esplorazioni il più possibile seguendo la sua “smania di vedere mondo e gente nuova, nuove terre e nuovi orizzonti” (Boggiani 1895) - ha poi tragicamente interrotto le sue ricerche.
Gianluca BerardiG. Boggiani Paesaggio del Paraguay (1891), collezione privata
Guido Boggiani (Omegna 1861 - Chaco (Paraguay) 1902)
Sponde del rio Paraguay
Olio su tela, cm 100 x 180 Firmato e datato in basso a destra: “G. Boggiani 97” Esposizioni: Esposizione nazionale di Torino del 1898, p. 89, n. 600 (prezzo 6.000 lire)
Giovanni Battista Castagneto, definito “o pintor do mar” (Maciel Levy 1982), si inserisce tra i massimi protagonisti del paesaggismo brasiliano. Proveniente da una famiglia genovese di marinai, parte alla volta di Rio de Janeiro nel 1874, ap pena ventitreenne. Dopo i primi e brillanti risul tati ottenuti con saggi storici all’Academia Imperial das belas artes, frequenta i corsi di pae saggio del tedesco Georg Grimm determinando una decisiva svolta nella sua formazione. La rot tura con l’Accademia compiuta dal maestro e la creazione della scuola di paesaggio dal vero - il Grupo Grimm - a Praia de Boa Viagem a Niterói, accelerano il percorso di Castagneto verso l’ela borazione di una pittura lontana dalle consuetu dini che, di fatto, rivoluzionerà la storia del paesaggismo brasiliano.
Il soggiorno a Tolone del 1890 contribuisce a svelare la sua natura di artista anticonvenzionale, del tutto insofferente alle regole prescritte: rien trato in Brasile l’estrema libertà gestuale e mate rica della pennellata e la tendenza quasi monocromatica della tavolozza diventano le componenti chiave della sua poetica. Facendo di una piccola imbarcazione il suo studio personale, Castagneto ha offerto la mutevolezza delle atmo sfere marine come leitmotiv della sua produ zione. Mentre ottiene un crescente successo alle
esposizioni di Rio e di San Paolo, dal 1896 sente l’urgenza di un’esistenza interamente dedicata alla pittura e al mare, senza interferenze con la vita urbana e con le esposizioni ufficiali.
L’isola di Paquetá diventa il suo rifugio in cui sperimentare un sempre più evidente processo di semplificazione formale. Gli ultimi anni sono quelli in cui l’artista maggiormente emana la sua sensibilità romantica: cielo, mare, lunghe distese di sabbia o solitarie barche si fondono in un gesto rapido e sintetico e le figure si riducono a imper cettibili profili che si uniscono all’atmosfera cali ginosa, in una “costellazione di piccoli dipinti autonomi e inspiegabilmente attraenti nella loro somiglianza” (Maciel Levy 1982, p. 51), eseguiti tra il 1896 e il 1900. Applicando i colori pieni su supporti spesso casuali, come coperchi in legno di scatole di sigari, Castagneto ha catturato gli impalpabili effetti della luce e la volubilità del ma re in una pittura ruvida di motivi fugaci, di “as soluta entropia” (Maciel Levy 1982, p. 51), che quasi evoca gli esiti dell’espressionismo astratto.
Trascorrendo gli ultimi anni come un artista anticonformista ai margini della società, mai na turalizzato brasiliano, non sentendo il bisogno di un’appartenenza geografica, ha saputo tra smettere tutto “il segreto, tutta l’estasi, tutta la poesia delle onde” (Gonzaga Duque 1888, p. 175).
A Rio de Janeiro: le marine brasiliane tra libertà gestuale e sintesi cromatica
G. B. Castagneto, Imbarcazione ancorata ad un molo (1898), collezione privata
Giovanni Battista Castagneto (Genova 1851 – Rio de Janeiro 1900)
L’isola di Paquetá – Rio de Janeiro - Brasile
Olio su tavola, cm 30 x 15 firmato e datato in basso a sinistra: “Castagneto 96”
Appartenente alla cosiddetta “Generazione degli anni Ottanta” (De Urgell 1990, p. 34), ovvero dei figli di immigrati italiani giunti a Buenos Aires intorno al 1840, Ángel Della Valle manifesta doti artistiche sin da ragazzo, introdotto dal padre co struttore ai primi rudimenti di disegno. L’appar tenenza a due luoghi, l’Italia e l’Argentina, così come la vena del pittore viaggiatore, si mostrano attorno al ventesimo anno di età: nel 1875, parte alla volta di Firenze per studiare in Accademia, dove sarà allievo e poi collaboratore di Antonio Ciseri. L’impostazione accademica della sua prima produzione – per la maggior parte ritratti inviati a Buenos Aires a partire dal 1878 – già si apre al l’osservazione del dato naturalistico e a una ge stione sciolta della tavolozza, aspetti che lo avvicinano all’amico Giovanni Muzzioli, giunto come lui a Firenze negli stessi anni.
Dopo aver partecipato con successo all’Expo sición Continental del 1882 con alcune opere di stampo romantico, rientra a Buenos Aires l’anno successivo. La decisiva maturazione di Della Valle è segnata dall’esecuzione della grande tela La vuel ta del malón del 1892, accolta come primo capo lavoro di arte nazionale: la sanguinosa conquista di Colombo è qui rap presentata dal punto di vista dagli indigeni del la pampa, che spesso facevano incursioni ne gli accampamenti dei conquistatori con raz zie e rapimenti. Nella trattazione della luce e della pennellata si scor ge la formazione fioren tina del pittore non solo attraverso la sensi
bilità cromatica e verista macchiaiola ma anche per la concitazione scenica dei pittori del Risor gimento. L’inequivocabile significato politico e ideologico di questa tela contraddistingue la pro duzione tarda di Della Valle, attivo nella creazione di una scuola pittorica argentina, non solo come artista, ma anche come insegnante all’interno della Sociedad Estímulo de Bellas Artes.
La sua sensibilità nei confronti della cultura locale si rivela nella narrazione della quotidianità argentina, dalle avventure dei gauchos erranti e dei loro agili cavalli, alle cavalcate degli indios nel deserto, alla raffigurazione della vasta pampa o dei territori andini. Nella tela che raffigura la Famiglia di impagliatori andini, Della Valle pro pone un soggetto insolito e di sapore etnografico. L’equilibrata gestualità dei personaggi, la pacata luminosità che riflette l’umida atmosfera delle Ande, la dignità delle pose fuggono da qualsiasi intento aneddotico e al contrario si avvicinano alla resa solenne dei soggetti campestri macchia ioli, suscitando una sottile nostalgia per un mon do incontaminato e folclorico. La radice italiana della pittura di Ángel Della Valle si lega dunque indissolubilmente alla storia popolare argentina.
Elena LagoUn pittore dei due mondi: dalle radici italiane al nazionalismo argentino
Á. Della Valle, L’indio nel deserto, collezione privata
Ángel Della Valle (Buenos Aires 1855 – 1903)
Famiglia di impagliatori andini
Olio su tela, cm 180 x 135 Firmato e situato in basso a sinistra: "A. Valle Bs Ays"
Istanbul fin de siècle, un pittore italiano alla corte del sultano
Narratore di storie, indagatore di tipi umani, viaggiatore curioso, Fausto Zonaro seppe dare un’interpretazione dell’Oriente scevra di ogni in tento fiabesco, prossima ai resoconti dei giorna listi-viaggiatori della fine dell’Ottocento.
Le radici dello studio antropologico dei co stumi e delle tradizioni popolari, soprattutto le gate alle religiosità, che costituiscono l’asse portante della sua produzione, affondano le ra dici nelle esperienze degli anni della formazione veneta e napoletana. Napoli, dove giunge dopo il 1880, costituisce una vera rivelazione: “l’incan tatrice sirena dei colori, Napoli che rivelò a me stesso l’essere artista, dove lottai con intensa fede, inebriato da quel cielo meraviglioso, […] attratto possentemente dai costumi del suo po polo […], dove del grande Domenico Morelli avevo la stima” (Dal Pino 2010, p. 17).
Dopo un immancabile soggiorno parigino sulle tracce dell’impressionismo, il 5 novembre 1891 Zonaro sbarca a Istanbul, sulla scorta dell’impres sione suscitata dalla lettura di Gautier e De Ami cis. Forte del suo bagaglio culturale, descrive il paesaggio lussureggiante che si rispecchia nell’ac qua attraverso una pittura di luce i cui modi lo accomunano a Ciardi e Favretto, ma sa anche ren dersi interprete di un popolo, che attraverso i suoi riti, la sua spiritualità e i suoi usi antichissimi e ancestrali si contrappone alle rigide regole e con venzioni della modernità. I suoi dipinti sono ac colti con entusia smo dal sultano Abdülhamid II. Nominato pittore di corte, conduce la sua ricerca su
due piani paralleli, realizzando sia opere di com mittenza ufficiale sia destinate al pubblico inter nazionale. Un linguaggio più formale è destinato ai ritratti e alle grandi tele di storia volute dal sul tano, che gli richiede anche i ritratti dei suoi fa miliari e gli consente di lavorare in luoghi consacrati generalmente inaccessibili.
Nel 1907, al culmine del successo, è celebrato con un lungo articolo in “Le Figaro Illustré”: “Le sue tele turche […] sono l’opera di un artista che […] ha messo il suo talento e la sua sapienza, il suo cuore e la sua mente, il suo pennello e i suoi colori al servizio della visione d’Arte raggiunta davanti a questa Natura, inesauribilmente pro diga dei tesori di una tavolozza immensa, sor prendente e costantemente rinnovata” (Thalasso 1907, p. 23).
Per un ventennio Zonaro è una figura chiave dell’alta società di Istanbul e raccoglie successi e soddisfazioni personali, bruscamente interrotti dal colpo di stato del 1909 e l’esilio di Abdülha mid II. Rientrato in Italia nel 1910, trova una nuova casa tra la terra e il mare a Sanremo, dove continua a lavorare, realizzando soprattutto ve dute, per quell’élite internazionale con cui aveva stretto salde relazioni.
Teresa Sacchi Lodispoto
Fausto Zonaro (Masi, Padova, 1854 – Sanremo 1929)
L’attacco
pastello su carta, cm 60 x 42 firmato in basso a destra: “F. Zonaro”
Il fascino del mondo arabo tra realtà e bozzettismo
Furono numerosi gli artisti italiani che, tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, scelsero di stabilirsi a Istanbul. Molti di questi –attratti dalle bellezze artistico-paesaggistiche del luogo e allettati dalle possibilità di guadagno of ferte dall’allora diffusa pittura “orientalista” – non solo si insediarono nella capitale dell’impero ot tomano diventando titolari di studi frequentati da una vasta clientela internazionale ma riusci rono anche ad assumere il ruolo di docenti presso l’Accademia di Belle Arti locale. È il caso, ad esem pio, di Salvatore Valeri, Pietro Bellò, Luigi Acqua rone e soprattutto di Fausto Zonaro che, tra le altre cose, ottenne l’ambita carica di pittore di corte del sultano Abdul Hamid II (Petruzzeli 2016).
Tra i pittori italiani che fecero fortuna a Istan bul è necessario ricordare Leonardo de Mango, artista d’origine pugliese ma formatosi a Napoli nell’orbita di Domenico Morelli ( Leonardo de Mango 2005). Giunto nell’antica Bisanzio nel 1883 dopo un temporaneo soggiorno a Beirut, si affermò in breve tempo come uno dei più prolifici e richiesti autori di turqueries tanto da venire ricordato – e lodato – dal critico Adolphe Thalasso nell’importante studio L’art ottoman. Les peintres de Turquie (1911). Nella capitale ottomana de Mango riuscì ad intercettare il gusto sia della cosmo polita borghesia sia del la folta rappresentanza diplomatica presente in città realizzando dipinti – spesso di dimensioni ridotte – rappresentanti scorci delle più pittore
sche strade di Istanbul.
Nel registrare il genius loci di diversi e sugge stivi angoli urbani, egli dipinse nel 1893 la pre sente veduta del quartiere di Scutari – in turco Üsküdar –, celebre per le sue innumerevoli fonti d’acqua. Lo scrupolo nel descrivere con atmosfere rarefatte e misteriose un frammento di vita quo tidiana di una terra lontana – si veda nella tela la donna velata intenta a rifornirsi d’acqua in primo piano – rientra pienamente nei canoni dell’eso tismo letterario portato alla ribalta in Italia so prattutto da Edmondo De Amicis con i libri Marocco (1876) e Costantinopoli (1877).
De Mango fu infatti abile nel tratteggiare la ci viltà araba nei suoi aspetti più caratteristici e, a ben vedere, stereotipati enfatizzando ora le emer genze urbanistico-architettoniche moresche (mi nareti, moschee), ora gli usi e costumi autoctoni. Il favore accordato a tali opere indusse l’artista ad impegnarsi nella produzione “in serie” di com posizioni sviluppate da studi dal vero e, a seconda del successo, riformulate di volta in volta in più versioni con varianti e modifiche iconografiche; ed è stata proprio l’attitudine a ritornare su sog getti già rodati, e di facile presa, a indurre la critica contemporanea a definire de Mango una sorta di “bambocciante” orienta lista (Fusco 1998, p. 118).
L. De Mango, Castello
Rumeliano - Istanbul, Berardi, Galleria d'arte
Leonardo De Mango (Bisceglie 1843 – Istanbul 1930)
Scutari
Olio su tela, cm 63 x 44 Firmato in basso a destra “L. de Mango 1893”
Il maestro del Liberty al nuovo Palazzo del Trono a Bangkok
Chini fu chiamato nel 1910 appositamente da Re Chulalongkorn (Rama V) ad eseguire le decora zioni del nuovo Palazzo del Trono presso la “Cit tadella Reale Dusit”. La sua costruzione, progettata nel 1907-8 da architetti torinesi, Mario Tamagno e Annibale Rigotti, durò fino al 1916, interrotta dalla Grande Guerra, ed è oggi il monumento più simbolico della modernizza zione siamese (Lohapon 2019, pp. 469-484).
Per il nuovo Palazzo del Trono erano previste pitture murali, sculture decorative ed altri orna menti di fattura europea, in marmo, stucco, legno, bronzo e persino lampadine elettriche. Questo ciclo decorativo doveva coprire uno spa zio architettonico a croce di circa 100 metri di lunghezza e 45 di larghezza (Lohapon 2018, p. 67), un cantiere ambizioso che si riferiva alla sto rica architettura europea e nello stesso tempo alla ricerca di modernizzazione e innovazione tecno logica.
L’artista, un esponente del Liberty, era allora ben noto anche per le decora zioni pittoriche, tra cui le opere alla Cupola del Padi glione centrale alla Biennale di Venezia (1909), “La Civiltà Nuova” narrata con un’aria monumentale. La Biennale venne spesso ricordata come il punto di partenza per que sta spedizione artistica dal l’Italia al Siam. Chini stesso riferì, nei suoi Ricordi (1949), che fu proprio quest’opera ve neziana a convincere il re ad invitarlo nel lontano Regno del Siam (Lohapon 2018, p. 65). A Bangkok, fu però il Mi
nistro dei Lavori Pubblici che propose il nome dell’artista a Sua Maestà e il re decise di acco glierlo al posto di Cesare Ferro, che pochi anni prima aveva realizzato le decorazioni pittoriche della sua nuova Residenza, Villa Amporn Sathan (Lohapon 2008, p. 35).
Ingaggiato, Chini si trasferì a Bangkok, e gli fu data come residenza “in un quartiere fresco e verdeggiante in riva al fiume... una sontuosa pa lazzina siamese” (Besso 1913, p. 30).
Allontanandosi dal consueto ambito europeo, l’artista si trovò immerso nell’Oriente oltrein diano in una città per lui esotica, ma cosmopo lita! Quell’orientalismo immaginario, allora realtà vissuta, si era arricchito nel suo linguaggio arti stico: oltre agli affreschi per la Corte, vi sono quadri dipinti a Bangkok (settembre 1911 – ago sto 1913). I ricordi del Siam rimasero presenti anche nelle opere più tarde, così come una fonte ricca di ispirazioni. Gli oggetti da lui raccolti nel Siam entrarono poi nelle produzioni artistiche, come nature morte e altro. Le Terme Berzieri e l’ex Grand Hotel des Thermes a Salso maggiore Terme, opere deco rative di Galileo, ricordano l’incontro con l’Oriente, un ri chiamo d’incanto!
Neungreudee Lohapon
Galileo Chini, Salvatore Besso e amici alla vecchia capitale del Siam ‘Ayutthaya’, 19 novembre 1911 (Archivio S. Besso)
Galileo Chini (Firenze 1873 – 1956)
La notte al Wat Phra Kaew - Bangkok
Olio su cartone, cm 79.5 x 65.5 Firmato in basso a sinistra: "G. Chini" Note: iscritto al retro “G. Chini, Bankok 1912, La notte al Watt Pha-Cheo; Prof: Galileo Chini via Roma 41 - Lido di Camaiore”
Da Roma alla corte del Re del Siam
Nei primi decenni del Novecento si è andata a radicare la consuetudine di far giungere in Siam – l’odierna Thailandia – artisti, architetti e inge gneri provenienti dall’Italia. Il regno siamese aveva infatti avviato un radicale processo di moderniz zazione che non solo modificò la facies urbani stico-architettonica del Paese ma determinò la circolazione di nuovi linguaggi artistici (Lohapon 2019). Sulla scia dei successi ottenuti a Bangkok da Galileo Chini – incaricato di affrescare il pa lazzo reale (1911-1913) – dal 1929 al 1932 Cleto Luzzi assunse il ruolo di professore di pittura della locale Accademia di Belle Arti.
Artista talentuoso ma, come molti autori attivi tra XIX e XX secolo, presto dimenticato dalla cri tica, Luzzi è stato “riscoperto” solo di recente at traverso un focus espositivo monografico focalizzato proprio sulla sua esperienza in Oriente (Cleto Luzzi 2018). Come testimoniato dall’unico breve contributo biografico ad oggi disponibile (Moreschini 2007), Luzzi si era formato in ambito accademico a Roma e, inizialmente, aveva trovato una propria dimensione nel campo della decora zione di edifici di culto (eseguì pale d’altare nelle chiese di San Claudio, San Giuseppe a Capo le Case, Santa Maria Margherita Alacoque e nel 1914 affrescò San Nicola de’ Prefetti). Probabilmen te fu proprio la non scontata dimestichezza con la pittura di respiro monumentale che spinse le autorità sia mesi a chiamarlo a Bangkok.
Il trasferimento in Oriente, di fatto, andò a modificare il registro
linguistico di Luzzi che, dal classicismo corretto ma poco originale impiegato nei primi lavori, ar rivò a sfoggiare uno stile più mosso e vibrante, maggiormente teso alla resa dei dati naturalistici e dei valori atmosferici. Come molti altri pittori “orientalisti” suoi contemporanei, Luzzi avvertì il fascino di ambientazioni e scenari inusuali che contribuì a trasfigurare sull’onda di un esotismo letterario e, a tratti, oleografico. Gli antichi mo numenti dell’allora esteso Regno del Siam– ad esempio le suggestive rovine di Ankor Wat, oggi in Cambogia – attrassero l’artista che realizzò scor ci paesaggistici colti in una immediatezza quasi fotografica. Tra le vedute dei templi di Bangkok nel 1929 ritrasse, sempre con pennellata accatti vante e istantanea, il sacro complesso di Wat Thepthidaram. La tela presenta sul verso un car tiglio riconducibile, verosimilmente, a una delle due retrospettive – organizzate a Roma presso il Palazzo delle Esposizioni (1956) e il Collegio Naz zareno (1958) – dedicate alla memoria di Luzzi, mostre di cui tuttavia non sono rintracciabili i ca taloghi.
L’artista rimase in Siam fino al 1932, anno in cui si verificò un colpo di Stato. Di nuovo in Italia tornò a occuparsi di arte sacra e fiancheggiò il re gime con opere inneg gianti alla retorica fascista.
Manuel BarreseCleto Luzzi (Roma 1884 – 1952)
Wat Thepthidaram
Olio su tela, cm 90 x 115,5 Firmato in basso a destra “Cleto Luzzi 1929”
Note: sul retro antico cartiglio di esposizione con titolo e nome dell'autore
VITE
Il fascino dell’Oriente: l’instancabile ricerca di un pittore in movimento
L’opera fa parte di quel nucleo di dipinti realizzati dall’artista durante il soggiorno balinese. Sono opere databili al 1939 che hanno come principale fonte d’ispirazione le figure femminili: fanciulle colte in ambientazioni intime o, come ne La ba linese, giovani danzatrici nei loro preziosi costumi. Il pittore ferma sulla tela una danzatrice Barong (danza sacra balinese) restituendoci, attraverso una materia pittorica densa, un’immagine dina mica e potente.
L’interesse per le ambientazioni esotiche e i co stumi dei popoli lontani aveva portato Locatelli a intraprendere il suo primo viaggio in Tunisia nel 1927 e a tornarvi nel 1930 (Rea, 1999). Sempre alla ricerca di nuove suggestioni, negli anni suc cessivi, il pittore attraversa l’Italia alla scoperta del mondo contadino (Sardegna, Abruzzo, Maremma, Veneto) fino a quando, nel 1934, si stabilisce a Roma. Qui entra in contatto con il vivace circolo culturale animato da Augusto Jandolo, nel cui stu dio di via Margutta organizza nel 1933 e nel 1938 due importanti personali, ottenendo la prestigiosa commissione di eseguire i ritratti dei figli del re Umberto di Savoia. Nonostante il crescente suc cesso e l’intensa attività di ritrattista di personalità di spicco, Locatelli decide di partire per le Indie orientali, accettando l’invito del governo olandese. Il 28 dicembre del 1938, accompagnato dalla mo glie Erminia, si imbar ca da Napoli per raggiungere Bombay, Singapore e poi ripar tire alla volta di Giava, dove apre uno studio e organizza due mo stre di grande risonan za. La ricerca di nuove fonti di ispirazione e
lo spirito inquieto lo portano a trasferirsi nel l’ncontaminata Bali: immerso completamente nella natura e nella vita locale, qui il pittore trova il suo paradiso, realizzando i capolavori più compiuti (Sgarbi, 2019).
A metà del 1940, a causa del difficile momento storico, i coniugi Locatelli sono costretti, in un clima di forte tensione, a lasciare Bali per spostarsi nelle Filippine.
Il pittore, instancabile, continua a viaggiare: Shanghai, Tokyo e nuovamente Manila, dove grazie alla conoscenza del cardinal Pacelli (ora divenuto papa), al quale a Roma aveva fatto un ritratto, gli si aprono molte opportunità. Con l’intercessione del generale Douglas MacArthur riesce a inviare a New York le opere rimaste a Bali e organizzare, nel 1941 presso la Douthitt Gallery di Manhattan, la sua prima mostra negli Stati Uniti.
L’invasione di Manila da parte dell’esercito giap ponese rende la vita del pittore via via più com plicata fino a quando non gli viene impedito sia di esporre che di dipingere.
La sua scomparsa improvvisa, avvenuta in cir costanze mai chiarite, il 24 febbraio del 1943 do po essersi addentrato nel bosco di Rizal, contribuisce a conferire un alone di mistero alla sua avventurosa vicenda artistica ed umana.
Antonella Dell’Ariccia R. Locatelli Scena africana (1930), collezione privataRomualdo Locatelli (Bergamo 1905 – Manila 1943)
La balinese (Danzatrice Barong)
Olio su tela, cm 128 x 117 Firmato in basso a destra: “Romualdo Locatelli”
Esposizioni: Douthitt Gallery, New York, 1941; Galeri Nasional Indonesia, Giacarta, 2019
Un artista viaggiatore nella storia e nel mondo
È il 10 settembre del 1924 quando la nave Italia approda a Port au Prince. Scopo della lunga e im pegnativa crociera istituzionale è quello di pro muovere il genio italiano in una sorta di fiera galleggiante in grado di mostrare prodotti dell’arte e dell’industria italiana in America Latina, dall’ar tigianato più raffinato di Fortuny, ai più innovativi risultati della scienza e della tecnologia dei motori d’aviazione. Sartorio viene nominato Commissario per le Belle Arti e questa per lui sarà un’occasione ulteriore, durata ben otto mesi, di immergersi in una travolgente e stimolante possibilità di con fronto con luoghi e culture esotiche. Il viaggio rappresenta per Sartorio un elemento centrale della sua attività pittorica perfettamente sintetiz zato dalle sue stesse parole “[…]mi prende una smania di partire e di veder altro da sembrare a me stesso una pazzia”(Damigella 2006, p.28) che restituiscono chiaramente la singolarità di un ac cademico, allora sessantaquattrenne, sempre desideroso di mettersi alla prova con le difficoltà che in quegli anni i viaggi dovevano comportare.
Già a partire dal suo impegno di retto negli anni della Grande Guerra le opere di Sartorio, presente nei luo ghi più caldi del conflitto, si aprono alla narrazione della realtà, facilitata spesso dall’utilizzo del mezzo foto grafico, quale supporto in grado di fornire un rapido appunto visivo da tradursi, in un secondo momento, in olii e pastelli di vivace immediatezza. Un occhio vigile, una spiccatissima sensibilità sono l’espressione di una diretta esperienza del mondo che si manifesta attraverso la creazione di opere capaci di restituire con notevole
efficacia la sua ansia di rappresentazione.
L’annotazione del luogo e della data, soprat tutto per i dipinti di viaggio, diventano espedienti in grado di fissare la cronaca dell’evento da inse rirsi nel reportage pittorico che si realizza, per la crociera del 1924, in centodiciassette opere tra Cuba, Messico, Brasile, Uruguay, Argentina, Bo livia, Venezuela, Panama e Colombia. L’ultimo suo lungo viaggio avverrà nel 1929, come ospite sulla nave militare Duilio, dove eseguirà opere straordinarie dedicate alla raffigurazione di navi, marinai e mare.
Il dipinto esposto in mostra trae ispirazione dalla sosta di due giorni ad Haiti, dal 10 al 12 settembre. Il taglio compositivo può facilmente lasciar pensare che sia stato fissato avvalendosi di un precedente scatto fotografico di cui non v’è alcuna traccia documentaria.
La trattazione materico-luminosa del dipinto trova diverse affinità con altre opere che ebbe occasione di realizzare nel corso del viaggio del 1919 in Egitto e Medio Oriente, ma ancora maggiori appaiono le suggestioni formali e poe tiche che il pittore svilupperà nelle successive visioni del periodo di Fre gene, in cui le rappresentazioni fami liari dei propri figli che giocano sulla spiaggia, saranno espresse con nuova felicità e straordinaria e luminosissima qualità cromatica.
G. A. Sartorio, Gioia di vivere, parte di un trittico (1927), collezione privata
Giulio Aristide Sartorio (Roma 1860 – 1932)
“I meticci”
Olio su tela incollata su cartone, cm 38 x 50 Firmato e datato in basso a destra: “Haiti i meticci 1924”
Esposizioni: Roma, I mostra nazionale d’arte marinara 1926, p. 39, n. 5; New York, Anderson Gallery 1927, s.p., n. 37; New York, Ainslie Gallery 1931
Uno scultore intorno al mondo
«Incontro Vannetti lung’Arno a Firenze. Pomeriggio di primavera […] Vai alle Cascine? No - Stasera parto per Shangai. Così mi risponde con quieta indiffe renza, come se andare in Asia fosse lo stesso che sa lire sul tram. Tranquillo parte e ritorna. Dalla Corea al Giappone, dall’Avana a Bengasi; e di nuovo nel suo studio fiorentino dove gli sembra non essersi mai mosso» (Nomellini 1932, p. 49). Così Plinio Nomellini descrive l’amico scultore restituendoci in poche battute l’aspetto più peculiare della personalità e della biografia dell’artista.
Formatosi all’Accademia di Belle Arti con Augu sto Rivalta, partecipa negli anni Dieci alle più im portanti mostre italiane ed europee. Negli anni Venti inizia la stagione dei grandi viaggi e degli incarichi istituzionali che lo porteranno alla realizzazione delle sue principali opere monumentali (Suggi 2020). A Shanghai esegue le decorazioni del palazzo del gior nale “North China Daily News”, a Singapore quattro statue colossali per la nuova stazione ferroviaria, a Tokyo i ritratti della famiglia e della corte imperiale e infine a Cuba il grandioso monumento al presidente Zayas. Agli inizi degli anni Trenta viene coinvolto dal regime (la politica coloniale è particolarmente at tenta agli artisti dediti al genere orientalista) nel progetto di ri modernamento della città di Tripoli: qui realizza la Fontana delle Gazelle (il cui modello è conservato nel Museo Fattori di Livorno) e il gruppo della Cro cefissione, dedicato alla memo ria dei marinai caduti nella conquista della Libia.
Del 1937 è l’importante so
dalizio tra l’artista e Panama: Vannetti è il primo scultore straniero ad esporre nello stato centroame ricano, dove ottiene le commissioni per i monumenti al filantropo dottor Herrick, al presidente Chiari e per il Monumento alla Madre a Colón.
Nonostante i frequenti viaggi, Vannetti partecipa at tivamente anche alla vita artistica nazionale e nel 1942, con il bronzo Atleta ferito, vince il primo pre mio di scultura alla Biennale di Venezia.
Proprio al 1942 è databile l’opera in mostra identi ficabile con il Ragazzo con serpe esposto al Premio Donatello a Firenze di quello stesso anno (Panzetta 2003, p. 949).
Raffinato animalista, privilegia i soggetti in mo vimento: il ragazzo viene raffigurato mentre “gioca” con un serpente, il corpo in equilibrio. Alla tensione degli angoli retti degli arti del fanciullo fa da con trappunto, come in una danza, il movimento sinuo so e avvolgente dell’animale.
È nella produzione di questi piccoli gruppi scul torei, bronzi, terrecotte, cere, con la raffigurazione di animali esotici e personaggi di culture lontane, sapientemente model lati, che l’artista raggiunge gli esiti più felici e originali (Del l’Ariccia 2002, pp. 42-43).
Antonella Dell’Ariccia
A. Vannetti
Notabile annamita, ubizazione sconosciuta
Angiolo Vannetti (Livorno 1881 – Firenze 1962)
Ragazzo con serpe Bronzo, h. cm 59 firmato e datato sulla base: “Angiolo Vannetti 194[…]” Esposizioni: Mostra di Palazzo Vecchio, Firenze, 1942
Da Varsavia all’Egitto: un delicato fil rouge tra Antico ed Esotico
Nato a Varsavia nel 1857, Stefan Bakałowicz si ritrova molto presto immerso nell’universo pit torico grazie a suo padre Wladislaw pittore di ge nere. Figlio d’arte, la madre è l’attrice teatrale Wiktoryna Bakałowiczowa, intraprende la propria formazione artistica nel 1874 con il paesaggista Wojciech Gerson proseguendo nel 1876 presso l’Accademia di Belle Arti di Varsavia. Tra il 1876 e il 1882 frequenta l’Accademia Im periale di Belle Arti a San Pietroburgo, ottenendo una borsa di studio che gli consente di trasferirsi prima a Parigi, divenendo allievo di Jules Lefèvre e poi a Roma (Manoscritto inedito eredi Bakalo wicz).
Sebbene la sua carriera artistica sia costellata da molteplici viaggi, è proprio nella città eterna che tornerà più volte, sino a scegliere di rimanerci per il resto della propria vita assieme a sua moglie Giuseppina Aloisi.
A Roma entra a far parte della cerchia di pittori polacchi, tra cui Henryk Siemiradzki, con il quale condivide il fascino per l’Antico e la predilezione per il genere neopompeiano, ambientato nella Roma dei Cesari.
Anche l’Esotico stimola l’ispirazione creativa dell’artista, subendo un’intensa fascinazione verso luoghi lontani, co me mostra l’opera di ambientazione indiana Sinfonia del mattino, così sugge stiva da sembrare dipinta de visu . Il suo primo viaggio risale al 1883 in Al
geria, seguito nel 1903 dalle esplorazioni in Egitto e Tripoli, da cui nasceranno una serie di opere come Ultime case di Tripoli sul mare, Sotto la Pira mide di Chefren, Testa di sudanese, presentate al l’Esposizione Coloniale di Parigi nel 1931, con notevoli consensi. Sono parte di tale corpus spic catamente orientalista, i cinque ritratti esposti in mostra: si tratta di giovani uomini egiziani, come suggerisce l’indicazione scritta in alto a destra del dipinto (Luqsor, ovvero Luxor, città sulla riva est del Nilo). L’attenzione ai dettagli ed anche un in teresse di tipo etnografico guidano la consapevo lezza dell’artista tale da ispirare la percezione dell’universo egizio (Humbert 1989). La sua pro duzione sia a tema esotico che quella ispirata al l’antica Roma, ha sempre un’alta qualità formale molto apprezzata sul mercato internazionale, in particolare in Russia dove l’artista continua negli anni ad inviare opere ai propri collezionisti. Dopo aver ottenuto un significativo successo sino ai pri mi del Novecento, lentamente si avvia al definito ritiro che avviene nel 1936. Muore a Roma nel 1947 all’età di novanta anni.
Gilda SorienteStefan Bakałowicz (Varsavia 1857 – Roma 1947)
Ritratto africano
Olio su tela, cm 38 x 26 firmato e datato in basso a destra : “St. BakałowiczTripoli - A • D • MCMXXIV”
VITE
Mohammed Abdullah
Olio su tela, cm 23 x 18 firmato in alto a sinistra : “St. Bakałowicz” Titolato, situato, datato in alto a destra “Mohammed Abdullah, Luqsor 1904”
Ritratto africano
Olio su tela, cm 23 x 19 firmato e datato in basso a destra: “St. Bakałowicz”
Ahmed Kelil
Olio su tela, cm 23 x 18 titolato, situato, datato e firmato in alto a destra: “Ahmed Kelil, Luqsor 28 Marzo 1904 St. Bakałowicz”
Poesia di luce: uno sguardo libero sull’Alterità
Artista di origine sarda, Cesare Cabras nasce a Monserrato nel 1886. Dopo essersi laureato pres so l’Accademia di Belle Arti a Roma nel 1912, prosegue la sua formazione artistica con Pietro Gaudenzi da cui mutua uno stile dal cromatismo delicato e di stampo verista (Demuro 1989).
Durante il primo conflitto mondiale avviene il suo rientro in Sardegna, nella città di Teulada: in questo periodo, tra il 1922 e il 1930, realizza una serie di opere denominate “Aie”, in cui ritrae la società contadina del Primo Novecento nel sud della Sardegna.
Ciò che guida il suo percorso artistico è però senz’altro, lo spirito viaggiatore, sancito dall’espe rienza significativa del 1934 quando viene scelto, insieme ad altri sette artisti, per offrire un racconto pittorico dell’avventura coloniale italiana in Libia (Pistolese 1934, pp. 335-336).
L’esperienza africana di Cesare Cabras trionfa con la partecipazione nel 1934 alla II Mostra In ternazionale d’Arte coloniale a Napoli, in cui espo ne quarantacinque opere all’interno della sezione Cirenaica.
La scelta tematica vede come protagonisti mol teplici soggetti tra cui venditori di tappeti e stoffe, oppure immagini di piazze del mercato, o di pal mizi e dromedari come nel caso di Arabo e dro medario (Narducci 1934).
Anche Paesaggio afri cano, esposta in mostra, fa parte di questa serie di dipinti di cui colpisce «quella luce africana che è inconfondibilmente propria del continente e in pari tempo una spe cialità dell’artista […] quella sensazione d’Afri
ca percepita attraverso una luce africana, bianca, implacabile» (Deplano 2017).
Il fil rouge che contraddistingue l’atto pittorico di Cesare Cabras è proprio la resa luministica de finita in questi termini dai critici del tempo: “Pa drone assoluto della gran luce africana, […] il bianco della luce è diventato trascendente e quasi materia di poesia” (Consiglio 1934).
Cabras si muove controcorrente, veicolando un tracciato dell’esperienza libica volto a raccon tare l’Alterità sia scevro dalle sovrastrutture del regime pregne di pregiudizi, sia depurato dai toni sognanti e favolosi tipici dell’Orientalismo. Offre uno sguardo sulla realtà pervaso di curiosità, enu cleando la possibilità di lasciare una testimonianza pura e autentica dell’Africa.
Al termine del conflitto mondiale Cabras rien tra in patria, stabilendosi di nuovo nella città natale.
Esprimendo chiaramente la propria avversione nei confronti delle correnti artistiche di quel mo mento, improntate in particolare sul Picassismo e Postcubismo, sceglie di allontanarsi in maniera definitiva tanto dalla critica quanto dagli espositori dell’epoca. Muore a Monserrato il 13 novembre del 1938.
Cesare Cabras Arabo con dromedario, collezione privata
Cesare Cabras (Monserrato 1886 – 1968)
CESARE CABRAS
Paesaggio africano
Olio su tavola, cm 66 x 50 firmato in basso a destra: “C. Cabras”; sul retro: “Seconda Mostra Internazionale d’Arte ColonialeNapoli - A. XII - XIII, Maschio Angioino - Napoli, Nome e cognome espositore Cesare Cabras”
Juana Romani è stata una delle pittrici più cono sciute della sua generazione nonché una di quegli “Italiani pariginizzati” (Vauxcelles 1907, p. 1) che, come Boldini e Zandomeneghi, hanno lavo rato a Parigi nella seconda metà del XIX secolo. Juana Romani nasce con il nome di Giovanna Ca rolina Carlesimo a Velletri nel 1867, da una fa miglia di lavoratori stagionali: il padre brigante abbandona presto la bambina, mentre sua madre, intrapresa una relazione con uno dei proprietari terrieri per cui lavora da bracciante, si trasferisce nel 1877 a Parigi, assieme al compagno e alla fi glia, dove già erano emigrate diverse famiglie ita liane impiegate perlopiù come modelli d’artista. All’età di sedici anni inizia a posare, facendosi co noscere per la propria resistenza fisica e intelli genza: durante i momenti di posa, Carolina – dal 1884 Juana Romani – matura l’idea di divenire lei stessa pittrice e, dopo aver studiato presso Fer dinand Roybet e Jean-Jacques Henner, vince la medaglia d’argento nella sezione italiana del l’Esposizione Universale del 1889. Da questo mo mento, fino alla brusca interruzione della sua carriera nel 1903, dipingerà principalmente sog getti femminili che alludono a personaggi della letteratura e della storia, a cortigiane e «maîtresses» (Stiegler 1899, p.2): donne e bambine abbigliate con tessuti che rievocano un passato indefinito. Il quadro Mina da Fiesole rientra nella serie delle «elucubrazioni» (Wipp 1897, p. 1) a cui la pittrice aveva abituato il suo pubblico già dal 1897: esposto al Salon del 1899 (n°1694) come proprietà di Henry Racine viceconsole d’Au stria-Ungheria a Menton, Juana
rappresenta una donna contemporanea che porta il nome dello scultore quattrocentesco Mino da Fiesole «di cui Madame Romani, per un capric cio, ha scelto e femminizzato il nome» (Alexandre 1899, p. 24). La passione per il tardo Rinasci mento e i viaggi in Europa portano Juana a raffi nare il proprio immaginario artistico in cui «l’accurata mediocrità o l’abilità meccanica della mano», come afferma, non deve mai «schiacciare la scintilla tremolante del fuoco sacro» (The art..of..the age 1902, p. 456), invocando, in una sorta di mistica dell’arte, una pittura «robusta» basata sul rapporto irrinunciabile con la modella all’interno dell’atelier. Arte e vita si fondono in un gioco continuo di allusioni erotiche tra i soggetti delle sue opere e lei stessa che fa pubblico voto di castità nel 1903. Diviene testimonial di pro dotti commerciali e, vivendo la mondanità pari gina, entra in contatto con i protagonisti dell’epoca come Antoine Lumière, padre degli in ventori del cinematografo, di cui diviene maestra di pittura. Dopo aver partecipato all’Esposizione Universale del 1900, la pittrice viene duramente contestata alla mostra internazionale di Venezia del 1901, momento in cui «la sua vivissima natura venne funestata dalla calunnia […] e ne fu così af flitta che la sua ragione ne venne turbata» (Caponi 1908, p. 411).
Internata nel 1906 a Ivry-surSeine, termina la sua esistenza nella clinica di Suresnes nel 1923
Gabriele RomaniInserto speciale in A. Proust, Goupil's Paris Salon of 1899, ParisNew York, Goupil & C°, 1899
L’assoluto presente di uno sguardo: una modella divenuta pittrice
Juana Romani (Velletri 1867 – Suresnes 1923)
JUANA ROMANI
Mina da Fiesole
Olio su tavola, cm 81 x 64 Firmato in alto a sinistra: “Juana Romani”; sul retro: “Tizianella / celle qui a aimé / le Titien” Esposizioni: Salon des artistes français del 1899
Dal postribolo al cavalletto: l’arte come riscatto nella vita di Pan Yuliang
Pan Yuliang (Yangzhou 1895 – Parigi 1977), pit trice e scultrice, è ritenuta una delle più impor tanti artiste cinesi del Novecento. La sua straordinaria esistenza non poteva che ispirare scrittori e registi (si pensi a Hua Hun o A Soul Haunted by Painting, libro di Shih Nan del 1984, da cui dieci anni dopo fu tratto l’omonimo film diretto da Huang Shuqin). Nata Chen Xiuqing, le fu cambiato il nome in Zhang Yuliang quando fu adottata dalla zia materna. A causa delle con dizioni di estrema povertà della famiglia, fu ven duta a un bordello e costretta alla prostituzione. Lì incontrò un funzionario doganale, Pan Zanhua, che se ne innamorò e la riscattò, pagando un’in gente somma per sottrarla al postribolo. Si spo sarono: la donna, quindi, cambiò nome per la terza volta, ora omaggiando il suo salvatore. In questa fase di vera e propria rinascita, Pan Yuliang entrò in contatto con il mondo dell’arte. Dopo aver frequentato l’accademia di Shanghai si trasferì in Europa, studiando dappri ma a Lione, poi a Parigi e in fine, vincitrice di borsa di studio, all’Accademia di Belle Arti di Roma. Qui frequentò i corsi di pittura di Umberto Coromaldi. Tornata in Cina, nel 1929 le fu offerta la cat tedra alla scuola d’arte di Shanghai: ebbe così inizio una florida carriera d’artista all’insegna della ricerca di emancipazione e modernità, che si interruppe solo nel 1937, quando si trasferì de finitivamente in Francia dopo la chiusura della scuola d’arte imposta dal governo cinese.
Prima della sua partenza per la Cina nel 1928, e con ogni probabilità entro il 1927, Coromaldi le fece due ritratti: uno glielo donò in ricordo del soggiorno italiano, l’altro rimase nel suo studio almeno fino al marzo del 1929, quando fu espo sto alla Galleria Scopinich di Milano (Biancale 1929, p. 18, n. 36), in una mostra che consacrava definitivamente il successo del pittore romano. In questo secondo ritratto, di recente ritrovamen to, Pan Yuliang posa indossando un elegante che ongsam, Pan Yuliang posa indossando un elegante cheongsam, l’abito tradizionale cinese, mentre nella mano sinistra tiene l’immancabile ventaglio.
Se confrontato con quello consegnato in dono a Yuliang, d’impostazione più convenzionale, questo ritratto a mezza figura sembra rivelare la volontà dell’artista di concedersi un divertissement, che nel soggetto esotico si allineasse alle atmo sfere del déco internazionale. Lo spirito divertito del ritratto è del resto confermato anche dal mo do in cui l’artista appone la sua firma, con una doppia iscrizione: in alto a destra con caratteri cinesi che cor rispondono alla traslittera zione di “Coromaldi”, e in alto a sinistra in maiuscolo, ma in verticale, a imitazione della scrittura dell’estremo Oriente.
Manuel CarreraDalla rivista “The Eastern Times Photo Supplement”, marzo 1928, n. 444, p. 4
Ritratto di Pan Yuliang
Olio su tela, cm 83 x 58
Iscrizioni: in alto a sinistra, in verticale: «COROMALDI»; in alto a destra: « » (traslitterazione cinese del nome “Coromaldi”). Sul retro: cartiglio con numero 36 (riconducibile all’esposizione di Milano del 1929).
Esposizioni: Umberto Coromaldi, Galleria Scopinich, Milano 1929
Umberto Coromaldi (Roma 1870 – 1948)
1863
Modern italian painters, in «The Athenaeum», 1863, 1881, pp. 649650. 1865
Notizie diverse, in “La Civiltà Italiana”, 1865, 15, p. 240.
Società Promotrice di Belle Arti in Genova. Anno XIV. Esposizione del novembre 1865. Catalogo degli oggetti esposti, Genova 1865, p. 18. 1869
V. A. Urechia, Expositiunea de Opere artistice de la Museu, în Adunarea National, nn. 17, 19, 6, 13 iulie 1869.
1872
R. Ojetti, Biografia di Achille Vertunni pittore, in “Roma Artistica”, vol. I, 1872, 11, pp. 81-84.
Attualità artistiche, in “Roma Artistica”, vol. I, 1872, 10, p. 76.
1873
Esposizione Universale di Vienna: catalogo delle Belle Arti Italiane, Vienna, Buonconto e Simonetti, 1873, p. 14.
1878
S. B., Italy at Paris, in “The Evening Post”, 1 maggio 1878.
1883
O. Toscani, La pittura all’Esposizione di Roma, in “La Rassegna italiana”, III, 1883, 1, p. 271.
1888
L. Gonzaga Duque, A arte brasileira. Pintura e esculptura, Rio de Janeiro, H. Lombaerts & C., 1888, p. 175.
O. Toscani, Tunisi, Torino, L. Roux e C. Editori, 1889, pp. 17, 44.
1890
F. Ermini, Rassegna della letteratura italiana, in “L’Arcadia. Periodico di scienze, lettere ed arti”, II, 1890, 1, pp. 566-567.
1895
G. Boggiani, Viaggi di un artista in America meridionale: I Caduvei, Torino, Loescher, 1895.
E. Fersi, Un pittore greco-italiano. Giorgio Mignaty, in «La Vita Italiana», X, 1895, pp. 341-344.
1897
Wipp, Bataille des confettis, in “Paris”, 21 maggio 1897.
G. Stiegler, Société des artistes français, in “L’Écho de Paris”, 1 maggio 1899 [suppl.].
1900
G. Boggiani, Compendio de Etnografìa Paraguayana Moderna (Continuacion), in “Rivista del Instituto Paraguayano”, III, 1900, 27, p. 63.
1902
The art..of..the age, in “Pearson’s Magazine”, XIV, 1902, 83, p. 456.
1889
A. De Gubernatis, Dizionario degli artisti italiani viventi, pittori, scultori e architetti, Firenze, Successori Le Monnier, 1889, p. 301.
1899
A. Alexandre, Société des artistes français, in “Figaro-Salon”, 1899, 1 [suppl.], p. 24.
The French Gallery: Interesting Corrodi Studies, “The Daily news”, 11 novembre, 1902. 1906 P. Levi L’Italico, Domenico Morelli nella vita e nell’arte. Mezzo secolo di pittura italiana, Roma-Torino, Roux e Viarengo 1906, p. 41.
1907
A. Thalasso, Fausto Zonaro. Peintre de S.M.I. le Sultan, “Le Figaro Illustré”, 203, 1907, 2, p. 23.
L. Vauxcelles, Le Salon des “divisionnistes” italiens, in “Gil Blas”, 5 settembre 1907.
1908 J. Caponi (Folchetto), Ricordi di Folchetto, Torino, Società Tipografico-editoriale nazionale, 1908, p. 411.
1913
S. Besso, Siam e Cina. L’incoronazione del Re del Siam. I Giorni della Rivoluzione Cinese, Roma, Tip. Editrice Nazionale, 1913, p. 30.
1929
Umberto Coromaldi, catalogo della mostra a cura di M. Biancale (Milano, Galleria Scopinich 16 – 31 marzo 1929), Milano, Rizzoli, 1929.
1932
Plinio Nomellini, Angiolo Vannetti, in Mostra dei pittori Enrico Gaudenzi, Alessandro Pandolfi, Giulio Cesare Vinzio e dello scultore Angiolo Vannetti, catalogo della mostra (Milano, Galleria Pesaro, 1932), Milano, 1932, p. 49.
1934
A. Consiglio, Opere d’arte dal Rinascimento ad oggi alla II Mostra internazionale d’arte coloniale, in “Corriere della Sera”, 30 settembre 1934.
G. Narducci, La Cirenaica e la Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale di Napoli, in “Cirenaica illustrata. Rivista mensile d’espansione coloniale”, III, 1934, 10.
G. E. Pistolese 1934, Panorama della II Mostra d’arte coloniale, in “L’Oltremare”, VIII, 1934, 9, pp. 335-336.
1982
C. R. Maciel Levy, Giovanni Battista Castagneto (18511900): o pintor do mar, Rio de Janeiro, Pinakotheke, 1982, p. 51.
1986
Risorgimento greco e filellenismo italiano. Lotte, cultura, arte, catalogo della mostra a cura di C. Spetsieri Beschi, E. Lucarelli (Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia, 25 marzo - 25 aprile 1986), Edizioni del Sole, Roma, 1986.
1989 S. Demuro, Luce, tono, ruralità nella pittura di Cesare Cabras. Opere dal 1934 al 1960, Cagliari, Stef, 1989.
J.M. Humbert, L’Egyptomanie dans l’art occidental, Courbevoie, Art Création Réalisation - ACR, 1989.
1990
G. De Urgell (a cura di), Ángel Della Valle, Buenos Aires, FIAAR, 1990, p. 34. 1996
A. Andreoli, F. Roncoroni (a cura di), Gabriele D’Annunzio: scritti giornalistici 1882-1888, vol. I, Milano, Mondadori, 1996, p. 106. 1998
M.A. Fusco, Lo sguardo della Mezzaluna. Pittori italiani a Costantinopoli nell’Ottocento, Roma, Semar, 1998. 1999 Dalle Orobie al Maghreb, Gli Orientalisti bergamaschi, catalogo della mostra a cura di F. Rea (Lovere, Atelier del Tadini, 25 aprile - 29 agosto 1999), Lovere, Accademia Tadini, 1999.
2002
A. Dell’Ariccia (a cura di), Nel segno della tradizione, pittori e scultori in Italia 19001950, catalogo della mostra, Roma, Kalinea antichità, 2002, pp. 42 43.
2003
L. Anelli, Il viaggio sul Nilo di Giovanni Renica (1839-1840): dipinti e disegni, in L’Ateneo e la description de l’Egypte, a cura di L. Faverzani (Atti della giornata di studio, Brescia, 9-10 aprile 1999), Brescia, Ateneo di Brescia, 2003, pp. 151-181.
A. S. Ionescu, Preziosi in Romania, Bucuresti, Noi Media Print, 2003.
A. Panzetta, Nuovo Dizionario degli Scultori Italiani dell’Ottocento e del Novecento, Torino, Ad Arte, 2003, p. 949.
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C. Spetsieri Beschi, La Grecia nelle immagini di Giovanni Renica (18391940), Brescia, Ateneo di Brescia, 2004.
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Leonardo de Mango 1843-1930. Dalla Puglia a Istanbul, catalogo della mostra a cura di E. Mazkume (Istanbul, Istituto Italiano di Cultura, 23 novembre 2005 - 15 gennaio 2006; Bari, Pinacoteca Provinciale, 18 febbraio - 31 marzo 2006), Istanbul, YKY, 2005.
G. Romanelli, Disegni e taccuini, in Caffi, Luci del Mediterraneo, catalogo della mostra a cura di A. Scarpa (Belluno, Palazzo Crepadona, 1 ottobre 2005 – 22 gennaio 2006; Roma, Museo di Roma Palazzo Braschi, 15 febbraio – 2 maggio 2006), Milano, Skira, 2005, p. 69-71.
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L. Moreschini, Cleto Luzzi. Un pittore romano da rivalutare, in “Lazio Ieri e Oggi”, XLIII, 2007, 513, pp. 246-248.
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G. La Francesca, Guido Boggiani, un Ulises de fines del 800, in El Circolo imperfecto. Guido Boggiani: aproximaciones a la figura del viaje, catalogo della mostra a cura di T. Escobar (Centro de Artes Visuales Museo del Barro, agosto 2014), Asunción, 2014, p.10.
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M. Zatterin, Il gigante del Nilo: storia e avventura del grande Belzoni, l’uomo che svelò i misteri dell’Egitto e dei faraoni, Milano, Mondadori, 2019, p. 96. 2020
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N. Lohapon, The encounter between Italy and Siam at the dawn of the twentieth century: Italian artists and architects in the modernising Kingdom of Siam, in “Modern Italy”, 24 (special issue Italianerie: Transculturality, Cocreation and
2021 P. Kosmadaki, “Au profit des Grecs”, Paris, 1826: l’éclosion romantique à l’exposition philhellène, in Paris-Athènes. Naissance de la Grèce moderne 1675-1919, catalogo della mostra a cura di J.L. Martinez (Parigi, Louvre 30 settembre 2021 - 7 febbraio 2022), Parigi, Hazan, 2021, pp. 8285.
ATTILIO SE LVA
SERGIO SE LVA
disponibile in galleria il catalogo della mostra
Renato
Arturo Noci
exhibition catalogue is available in the gallery
QUADRI
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Prosegue la catalogazione delle opere di Francesco Paolo Michetti a cura dell'Archivio dell'Ottocento Romano.
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