Umberto Carrara

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Questo libro è dedicato alla memoria di mio padre vissuto nella solitudine della sua ossessione creativa, e a mia madre Irma, che è sempre stata per lui l’unico tramite verso il mondo e la vita. Maurizio


Si ringraziano Ornella Bramani Ignazio Bresciani Virgilio Fidanza Simone Facchinetti Eugenio Gritti Attilio Pizzigoni Giuseppe Riva Vito Sonzogni


UMBERTO CARRARA SCULTURE 1953-2000

Ossessioni quotidiane

testi di Mario Botta Franco Marcoaldi Antonella Serafini con uno scritto di Attilio Pizzigoni fotografie di Virgilio Fidanza

GAL L E R IA C E R IBE L L I

Lubrina Editore



L’atelier di Umberto Carrara a Bergamo Mario Botta

La visita all’atelier di un artista schivo e silenzioso come Umberto Carrara, posto accanto alla sua casa-cortile dentro la città di Bergamo, rivela inevitabilmente anche i segni della sua prematura scomparsa. Gli spazi di lavoro pazientemente modellati nel tempo dentro i vani della fattoria-deposito, sono ora orfani dello sguardo e dell’attenzione che riservava loro l’artista. I luoghi dell’abitare sono sempre testimoni fedeli dello spirito di coloro che vi hanno vissuto. Con gli amici che mi accompagnano entriamo con qualche difficoltà dalla porta scricchiolante nell’atelier e subito si rimane colpiti dalla fissità degli oggetti e delle sculture di gesso allineati, appena velati da uno strato di polvere. Lungo le pareti, scaffali di ferro mostrano su più livelli i calchi e le sculture e, al centro dello spazio, alcuni tavoli sono stracolmi di strumenti, di oggetti, terrecotte e legni che occupano l’intero piano disponibile. A terra, altre sculture ed imballaggi lasciano liberi unicamente i percorsi di camminamento; si ha l’impressione che l’atelier risulti interamente avvolto dal lavoro di una vita che deve essere costata impegno e solitudine. Le opere che sfilano ora di fronte al nostro sguardo si presentano come figure astratte, pagine scolpite di una grande enciclopedia di immagini e di invenzioni, pazientemente ricercate attraverso un linguaggio che sfocia in una poetica neoplastica che sonda i misteri e le forme proprie ad un’articolazione fra due volumi. Si resta sorpresi dalla molteplicità delle figure finali che emergono da questa indagine che trasmette forte intensità attraverso una logica compositiva con ritmi e immagini di una nuova bellezza. Le articolazioni di queste sculture diventano archetipi nei quali riconosciamo la nostra stessa identità che ora ricolleghiamo a sentimenti e memorie di un tempo irrimediabilmente smarrito. Proseguendo nella visita, man mano che la sorpresa iniziale generata da quel mondo di immagini si affievolisce, lo sguardo viene attratto da quelle opere che maggiormente irradiano una forza iconica: quelle che si offrono con figurazioni totemiche. Si resta immobili ad ammirarle per qualche istante, poi gli stimoli di lettura si moltiplicano e nella mente ritorna l’insieme di quelle sculture sugli scaffali, disposte senza un

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ordine prestabilito ma in grado di instaurare fra loro un continuo colloquio con arricchimenti reciproci. Risiedono in questo confronto fra le differenti opere l’interesse e il fascino di questa visita-incontro, dove la poetica dell’insieme prevale sulla particolarità dell’opera, quasi a ricordare come l’esperienza di una vita sia più forte di quella delle singole avventure. All’interno della pluralità degli approcci scultorei e dei differenti materiali usati (gesso, terracotta, legno, bronzo) si evidenzia in Carrara la costante di un tema che costituisce il fulcro della sua attenzione compositiva e dentro il quale l’artista ha lavorato per un’intera vita: quello dell’articolazione fra le parti, quello della cerniera o dello snodo fra due corpi distinti. In ogni opera è presente un raffinato gioco di equilibri fra le parti piene e quelle vuote, vi è una costante complementarietà che si tramuta visualmente in tensione spaziale. È da questo confronto che nascono immagini iconiche, talune con riferimenti a forme organiche altre a composizioni meccaniche o razionali. Ma le figure plastiche finali, al di là delle percezioni, indicano all’osservatore un aspetto sorprendente che sposta l’interpretazione da un fatto formale ad un piano concettuale. L’artista infatti, in tutte le sue opere nega la funzione originaria dello snodo con il movimento. Le opere vengono fissate dentro la materia e l’immagine dell’articolazione che ha generato l’opera emerge unicamente come memoria, priva della propria funzione. È questa una decontestualizzazione dei significati che esegue l’artista, dove il movimento originario si presenta come puramente simbolico. Umberto Carrara, attraverso la composizione plastica, attua un rovesciamento dei ruoli: le opere (snodo o articolazione) prive del loro movimento diventano metafore dove il modello si trasforma esso stesso in una nuova realtà. I valori plastici svuotati della loro funzione si trasformano in narrazioni poetiche composte da fragili equilibri e delicate geometrie. Sono trascorsi pochi decenni da quando questi temi (le opere di Léger, Arp, Wotruba e altri artisti) sono stati trattati dalle avanguardie come interpretazioni di speranze future, quando la prospettiva di uno sviluppo tecnico-industriale risuonava ancora come progresso per l’uomo. Dopo appena qualche decennio Carrara ci indica che non possono esistere ulteriori illusioni, svanite le utopie di vite migliori ora resta solo la certezza del fatto poetico, in grado di evocare sentimenti di pura immaginazione.

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La melanconia dello scultore Franco Marcoaldi

«Noi scultori siamo invidiosi della pittura, che ha tutto sottomano. Ci sentiamo circoscritti, poveri. Allegria di una muta di cani che escono dal canile, la mattina. Così i pittori. Il pittore prepara la cassetta e va fuori all’aria. Dispone di tutti gli aspetti del mondo, prati, alberi, nuvole, monti, luci, ombre, riflessi. Noi, scultori, in quella puzzerella dello studio di scultura. Tristezza dei nostri studi: qualcosa di funerario, di anatomico, nessuna vitalità». Con la sua consueta, franca brutalità, Arturo Martini esprimeva così le ragioni della congenita ‘melanconia dello scultore’. E proprio queste sue parole mi sono tornate alla mente visitando gli spazi di via Bronzetti, a Bergamo, in cui operava Pipi Carrara. Quasi che quei luoghi rappresentino la perfetta raffigurazione plastica di quanto Martini intendeva dire. Non ho conosciuto Carrara di persona, ma l’accatastamento delle sue opere in una sorta di gigantesco archivio polveroso e disordinato, risultava quanto mai eloquente: quell’artista era prigioniero della sua creazione. Poi, conversando amabilmente a tavola con il figlio e la nuora e la moglie di Pipi, che aveva cucinato per noi un coniglio superbo, indimenticabile, quel sentimento istintivo si è confermato in una precisa visione del mondo: Carrara era schiavo della sua ossessione. Asservito ad essa nella più completa solitudine, in una sorta di volontario esilio dal mondo, manifestato dal totale disinteresse ad esibire le sue opere. Questo dialogo a distanza con l’ombra dell’artista bergamasco, me lo ha reso subito ‘simpatico’, nel senso più profondo del termine. Pensare che in un mondo come il nostro, governato dagli equivoci del successo e dal diktat auto promozionale, sia vissuto un uomo capace di chiamarsi fuori dalla propria attività professionale di modellatore per dedicare i decenni finali della propria vita esclusivamente all’arte, in modo totalizzante, mi ha aperto il cuore. Quell’uomo doveva essere speciale. E pertanto la sua opera andava osservata con un occhio, per l’appunto, simpatetico. Perché nasceva da un vero tormento, da un’urgenza autentica, da una tensione reale, vissuta in profondità. Cominciamo allora col dire che il lavoro di Carrara è difficilmente catalogabile. Può certo echeggiare altri artisti, ma se si colloca quell’opera in un preciso contesto stori9


co, e si torna alle brevi, rapsodiche apparizioni pubbliche della fine anni Cinquanta, allora ha ragione Attilio Pizzigoni nello scrivere che essa appare distante tanto dal neofigurativismo, quanto dallo sperimentalismo informale. Ci aiuterebbe di più, semmai, fare riferimento a un’originale ‘poetica della macchina’. Macchina intesa come meccanismo, congegno, dispositivo, organo. Ma anche come vincolo, istituzione, gabbia, ordigno. Soprattutto, direi, vincolo. Non per caso l’elemento più ricorrente delle sue opere in gesso, legno, cotto, marmo, bronzo, è la cerniera. Ovverosia, la serratura, il giunto, l’incastro, il ganghero, l’articolazione. Un celebre frammento di Archiloco afferma che «la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande»; frammento che lo storico delle idee Isaiah Berlin ha poi utilizzato per dividere i pensatori, gli scrittori e gli uomini in genere, tra coloro che «riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente e articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi dicono –, e coloro, dall’altra parte, che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contradditori». Ebbene, in questa ipotetica ripartizione del genere umano, non v’è dubbio che Pipi Carrara sia un ‘riccio’ a pieno titolo. Perché a dispetto di ulteriori, differenti soggetti che pure compaiono nel suo iter artistico (penso ad esempio a certi efficacissimi bronzi che raffigurano animali), il tema è uno solo. E uno solo il cruccio: come dare forma scultorea a quella ‘cerniera’ che può via via assumere le vesti della responsabilità vincolante, oppure convertirsi in meccanismo di costrizione, di prigionia: mentale e fisica. E’ qui che si evidenzia la peculiarità dell’opera di Carrara, è qui che si scopre il senso più profondo del suo modo di percorrere lo stretto sentiero di un’arte, che non è immediatamente assimilabile né all’astrattismo né al figurativismo. Nella sua ricerca, e mi tornano di nuovo in mente le parole di Martini, si avverte il bisogno di aderire al concreto, ma dal momento che i valori essenziali sono forme pure, che non si sposano a nessuna immagine preesistente, quei valori si presentano come fantasmi, che finiscono per intimidire l’artista. Di tali forme e di tale ‘spavento’ lo scultore bergamasco dà conto attraverso opere che riflettono il variare dei suoi umori, delle sue sensazioni, dei suoi pensieri. Perché sarebbe sbagliato leggere questi suoi lavori in una chiave tutta e soltanto dolorosa, negativa. A volte, al contrario, quelle opere restituiscono l’idea di un homo faber che ha saputo oliare bene il meccanismo che lega tra loro diversi ‘pezzi’ di materia, e dunque di esistenza. E in quei casi si avverte un sentimento di apertura, luminosità, gioia. Ma non si può neppure dimenticare il sentimento opposto: quando la cerniera si fa chiodo, addirittura chiodo infil10


zato nella carne. Come accade nelle bellissime crocefissioni in argento, vicine per intonazione alle spietate immagini di Grünewald, che non vanno viste come un capitolo a sé stante, ma come parte integrante – se non addirittura conclusiva – di un rovello interiore che non conosce pace e non sopporta sosta. Sì, la visita al laboratorio di via Bronzetti mi è rimasta impressa nella memoria e negli occhi. Girare per quegli spazi di fascinosa mestizia, stracolmi di bozzetti, gessi, disegni, opere finite oppure lasciate a metà, mi ha fatto immaginare un uomo solo e silenzioso che ogni mattina si trova di fronte alla stessa, terribile montagna da scalare: come si può dare forma a un’idea? Come si può restituire attraverso la materia una ferita della mente e dell’anima? Concentrato su quest’unica, irresolubile domanda, Pipi Carrara non aveva tempo per preoccuparsi del pubblico, dei critici, del mercato. Tutte le sue energie erano concentrate su quella dolorosa aporia, e sul conseguente, inevitabile fallimento a cui va incontro ogni opera d’arte che ambisca davvero a essere tale. Perciò gli si attaglia perfettamente la frase, semplice e definitiva, pronunciata a suo tempo da Samuel Beckett. Il dovere dell’artista è uno solo: provare, provare, provare. Più ancora: «fallire di nuovo, fallire meglio».

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L’ossessione e l’idea Antonella Serafini

La vicenda artistica e umana di Umberto Pipi Carrara è assimilabile a quella di altri artisti suoi coevi, che hanno scelto l’isolamento a fronte di una realtà che appariva loro troppo manichea e al contempo troppo aggressiva nel pretendere scelte di schieramento, sia stilistiche sia politiche. In Italia, negli anni della ricostruzione post bellica delle città e delle coscienze, in ambito artistico si assiste alla creazione di una sorta di spartiacque fra presunta ortodossia ed eresia cui fa seguito, negli anni Sessanta, il formarsi di gruppi che invitano ad una gestione collettiva della ricerca: da un lato si tende a socializzare l’arte, dall’altro a legittimare la sua astraibilità dalle contese contingenti. In tali contesti la difficoltà per chi, come Carrara, persegue una ricerca autonoma aumenta in proporzione alla sua inclassificabilità. Carrara inizialmente non si esime dal confronto ma le polemiche suscitate in ambito cittadino dalla mostra del Gruppo Bergamo a cui partecipa nel 1958, con contestazioni fatte tout court all’arte contemporanea, lo portano a chiudersi a riccio e a trasformare la sua arte in una vicenda privatissima, unica consolazione e fors’anche difesa da una “pazzia” che altrimenti lo avrebbe posseduto. Egli tuttavia, pur rimanendo per oltre trent’anni chiuso nel suo studio, è riuscito a intercettare e dialogare con alcune delle principali correnti dell’arte del XX secolo. I riferimenti ad alcuni grandi artisti quali Lipchitz, Wotruba, Archipenko, Pevsner, che Attilio Pizzigoni fa in uno scritto su Carrara del 2000, dimostrano che le antenne del nostro artista erano alte e in grado di captare il “sentire” della sua epoca, di portarvi il suo contributo anche se con la probabile consapevolezza che sarebbe stato riconosciuto postumo. L’interesse oggi per la sua produzione risiede nel fatto che essa concorre a contornare in modo più definito il clima di un’epoca e i suoi risultati creativi. Fra le numerose eco che rispondevano ora ai richiami di neonate avanguardie ora a nuove interpretazioni di quelle storiche, Carrara si pone per lunghi periodi in deliberato confronto con un soggetto unico da scrutare e indagare e a cui affidare ogni propria energia e sentimento. L’atteggiamento dello scultore nei confronti dei suoi ingranaggi congelati non è tanto dissimile da quello di Giorgio Morandi verso le bottiglie

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replicate all’infinito, da quello di Giuseppe Capogrossi assillato da alfabeti primordiali, da quello di Lucio Fontana e dei suoi tagli. “Vado a lavorare”. Così ripeteva ogni giorno ritirandosi nello studio dove rimaneva rispettando gli orari di un artigiano, dell’artigiano che era stato prima di diventare artista. Il suo progetto è evidente e i disegni sono fonte fondamentale per capire la genesi e lo sviluppo della sua ricerca. Innanzi tutto ci mostrano come fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta egli avesse già concepito tutte le forme che poi realizzerà nei decenni successivi in gesso, legno, ferro, bronzo, terracotta, marmo. Essi danno conto di una indagine che si svolge per progressive eliminazioni di tutto quanto è inessenziale o ininfluente per raggiungere il nucleo, la radice della struttura, il pattern. Uno studio attento e comparato fra le sculture e i disegni sarà necessario per delinearne la cronologia, qui solo tracciata, non tanto per stabilire criteri di “progresso” quanto invece la ricorrenza e l’alternanza dei temi dell’artista; temi che da un lato accomunano esseri umani e macchinari, dall’altro si soffermano ora sulla fissità di un meccanismo bloccato, ora sul momento della trasformazione. Solo apparentemente siamo di fronte a una costante replica, fin anche ossessiva per certi aspetti, di uno stesso soggetto, siamo invece davanti a rigorosi passaggi che consentono di arrivare all’essenziale della forma indagata, per poi ripartire con un’altra indagine istruita con il medesimo criterio. La scelta dei materiali, pur non del tutto esente da ragioni economiche, si pone come ricerca della natura corrispondente: meglio il legno che, quasi come un ossimoro, si contrappone alla rigidezza dell’incastro? oppure il marmo che ne esalta la graniticità? oppure il ferro che ne è il naturale elemento? oppure ancora il bronzo? Carrara indaga e ragiona su cosa tenga insieme il corpo umano, un meccanismo, un’idea, cerca analogie. Apre i corpi come un anatomopatologo, la sorta di massacro che compie sulla figura umana n.16 trova giustificazione nella esplorazione necessaria alla sua trasformazione in insieme di incastri. Forse non è un caso che una delle prime variazioni sul tema abbia avuto come oggetto un rinoceronte, più precisamente quella sorta di macchina da guerra che fu il rinoceronte immaginato da Dürer. Il rinoceronte è paradigma di una struttura massiccia e intangibile, un incastro indistruttibile di potenza e di massa, di carne e di ossa, un carroarmato vivente del quale Carrara lentamente, per passaggi successivi come nella risoluzione di una equazione, disvela il segreto della forza. Vediamo l’animale 14



trasformarsi in volumi e linee forza senza tuttavia smarrirne la riconoscibilità: il muso, siamo nel 1957, è già un ingranaggio e un anno prima, nel 1956, le figure umane erano già robotiche. Analogamente, e qui il risultato finale si estremizza, accade ad una figura umana simbolo quale il Crocifisso. In una serie di disegni eseguiti nel 1960 (successivamente composti in sequenza dall’autore in un unico pannello) Carrara ci dà conto del processo di analisi effettuata sul Cristo nella sua traduzione geometrica, processo che gli consentirà poi di arrivare nella elaborazione scultorea a costruirlo con le sole giunture essenziali. L’incastro non è l’unico tema, per quanto vasto, della produzione di Carrara, vi sono altre suggestioni derivate dall’osservazione della materia (del reale) e qualora volessimo attribuire a queste forme allegorie emotive siamo di fronte a sentimenti diversi, non solo emozioni bloccate da un perno immobile ma anche fugaci anarchie. Certamente quando il meccanismo è bloccato appare una prigione definitiva (n. 29, 55, 85) claustrofobica (n. 52, 83, 115) ma c’è anche l’evasione (n. 51, 53, 54, 112) e la fuga (n. 39). Se è indubbio che n. 15 e n. 96 sono indagine all’interno di una forma e di un “corpo”, n. 40 e 46 sono un abbraccio? n. 28 e 47 una coppia? n. 89 una sorta di amplesso? Non è difficile credere di riconoscere questi soggetti anche se è arbitrario farlo in quanto non sappiamo se fosse questo lo scopo dell’autore. Eppure siamo tentati di dare interpretazioni… n. 91 è l’inizio di metamorfosi come n. 90, n. 28 ci appare addirittura una danza, in ogni caso sono in antitesi con le strutture bloccate di n. 57, 59, 65, anche con ferma grazia come n. 60; il movimento talvolta è sofferto come n. 54 quasi una tragica dissoluzione. Per quanto la sua tendenza ad isolarsi lo abbia reso come un naufrago nell’isola del suo studio, l’eco della contemporaneità, come abbiamo visto, lo raggiunge. Mentre dentro, con furia certosina, Carrara cerca e indaga negli ingranaggi e nei meccanismi, fuori César accartoccia “resti” della nostra civiltà. Mentre Tinguely dà nuova vita e nuovi movimenti grotteschi e surreali agli “avanzi” industriali, Carrara immobilizza, mummifica, paralizza, quasi volesse avvertire di una minaccia. Se la figura lo conduce prima a fisionomie africaneggianti e matissiane e poi a corpi che risentono delle volumetrie di Arp, il confronto con le geometrie sembra essere l’unico in grado di portarlo al traguardo prefissato. In attesa di accurati studi, che si spera possano far seguito a questa prima analisi e certificare il percorso compiuto passo dopo passo, noi oggi avvaloriamo le scelte del16


l’artista osservando la complessa raccolta delle opere conservate nel suo atelier, seguendo le analogie delle forme e i successivi passaggi dall’una all’altra, fino a giungere alle realizzazioni dell’ultimo periodo, una sorta di summa di quanto già scandagliato, eseguite con minor ansia forse e maggiore concentrazione su valenze estetiche. La linearità di un meccanismo ridotto all’essenziale, al minimo degli elementi necessari al suo implacabile funzionamento, doveva apparire al Nostro come la realizzazione, per un pittore fiammingo, della nitidezza di un celeste immoto, esattamente quale appare in un determinato istante nel cielo, uno solo, che accomuna alba e tramonto, per la ricerca del quale vale la pena di spendere una vita. E torniamo dunque a immaginare Umberto Carrara, Pipi, nei suoi giorni che solo apparentemente sembrano tutti uguali, dove i disegni si susseguono quali fogli di un diario di ricerca, su cui in certi periodi appuntava date precise, giorno, mese, anno, finché gli appariva quel celeste che tanto andava cercando. In quei diari fatti di volumi e ombre, figure e scomposizioni, solo una volta appare una parola, una sola: “Incognita”. Non conosciuta. Forse era davvero solo la “x” dell’equazione che andava svolgendo sottoforma di disegno, forse la risposta alle domande del pastore errante.

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SCULTURE 1953-2000



1. Donna in piedi, 1953 bronzo, cm 72 x 18 x 15


2. Donna seduta, 1953 bronzo, cm 41,5 x 16 x 25



3. Nudo, 1953 bronzo, cm 48 x 14 x 13


4. Nudo, 1953 bronzo, cm 48 x 14 x 13


5. Testa, 1954 bronzo, cm 40 x 20 x 33


6. Testa, 1957 bronzo, cm 54 x 22 x 333


7. Senza titolo, 1955 gesso, cm 6 x 29 x 10


8. Senza titolo, 1957 gesso, cm 8 x 25 x 6


9. Rinoceronte, 1957 bronzo, cm 20 x 38 x 12


10. Rinoceronte, 1957 bronzo, cm 16 x 26 x 8,5


11. Rinoceronte, 1957 bronzo, cm 16 x 30 x 10,5


12. Rinoceronte, 1957 bronzo, cm 16 x 27 x 7,5


13. Rinoceronte, 1957 bronzo, cm 12 x 19 x 9


14. Rinoceronte, 1957 bronzo, cm 7 x 14 x 5,5


15. Figura, 1958 gres, cm 34 x 9 x 9


16. Teschio, 1957 gres, cm 22 x 15 x 17


17. Crocifisso, 1957 gres, cm 58 x 64 x 18


18. Crocifisso, 1957 gres, cm 80 x 59 x 14


19. Gatto, 1958 bronzo, cm 52 x 18 x 44



20. Vela, 1959 bronzo, cm 45 x 65 x 50


21. Vela, 1959 bronzo, cm 45 x 60 x 30


22. Senza titolo, 1960 gesso, cm 39 x 30 x 6


23. Bucranio, 1959 gres, cm 25 x 40 x 30


24. Figure, 1960 gres, cm 31 x 25 x 16


25. Crocifissione, 1960 gres, cm 28 x 25 x 14


26. Senza titolo, 1963 gesso, cm 40,5 x 31,5 x 7


27. Senza titolo, 1963 gesso, cm 43,5 x 34,5 x 10


28. Senza titolo, 1963 bronzo, cm 54 x 30 x 18


29. Senza titolo, 1965 bronzo, cm 23 x 7,5 x 5


30. Senza titolo, 1965 legno, cm 30,5 x 11 x 5,5



31. Senza titolo, 1965 legno, cm 65 x 13,8 ∅


32. Senza titolo, 1965 legno, cm 40 x 12 x 8


33. Senza titolo, 1966 legno, cm 80 x 13,8 ∅


34. Senza titolo, 1966 legno, cm 26 x 75 x 5


35. Paolo VI, 1967 terracotta, cm 20 x 11 x 8



36. Senza titolo, 1968 legno, cm 55 x 40,5 x 13,5



37. Senza titolo, 1970 gesso, cm 25 x 19 x 8


38. Senza titolo, 1970 gesso, cm 46 x 31 x 8


39. Senza titolo, 1970 bronzo, cm 9 ∅


40. Senza titolo, 1970 bronzo, cm 11 ∅


41. Senza titolo, 1970 legno, cm 63,5 x 63,5 x 6,5



42. Senza titolo, 1972 gesso, cm 36 ∅ x 6


43. Senza titolo, 1970 legno, cm 72 ∅ x 12


44. Senza titolo, 1972 gesso, cm 44 x 47 x 10,5


45. Senza titolo, 1972 gesso, cm 56 x 48 x 11


46. Senza titolo, 1973 bronzo, cm 36 x 13 x 11


47. Senza titolo, 1973 bronzo, cm 26 x 15 x 5


48. Senza titolo, 1973 bronzo, cm 17 x 17 x 8


49. Senza titolo, 1973 bronzo, cm 29,5 x 24 x 4


50. Senza titolo, 1974 bronzo, cm 31 x 18,5 x 5



51. Senza titolo, 1974 bronzo, cm 22,5 x 28 x 20


52. Senza titolo, 1974 bronzo, cm 23,5 x 29,5 x 6,5


53. Senza titolo, 1974 bronzo, cm 36 x 11,5 x 10


54. Senza titolo, 1975 bronzo, cm 45,5 x 16 x 15


55. Senza titolo, 1974 bronzo, cm 26 x 20 x 8,5


56. Senza titolo, 1975 gesso, cm 28 x 17 x 9


57. Senza titolo, 1976 gesso, cm 13 x 14 x 18


58. Senza titolo, 1977 gesso, cm 17 ∅ x 4,5


59. Senza titolo, 1977 gesso, cm 34 x 10,5 x 3,5


60. Senza titolo, 1976 gesso, cm 41 x 13 x 8


61. Senza titolo, 1978 gesso, cm 10,5 ∅ x 4


62. Senza titolo, 1979 gesso, cm 15 ∅ x 4


63. Senza titolo, 1978 gesso, cm 30 x 43 x 8


64. Senza titolo, 1978 bronzo, cm 31 x 31 x 25


65. Senza titolo, 1978 gesso, cm 16 ∅ x 5


66. Senza titolo, 1979 gesso, cm 22,5 ∅ x 4


67. Senza titolo, 1979 gesso, cm 43 x 23 x 18


68. Senza titolo, 1979 gesso, cm 45 x 29 x 20


69. Senza titolo, 1979 gesso, cm 17,5 ∅ x 6


70. Senza titolo, 1979 gesso, cm 66,5 x 17 ∅


71. Senza titolo, 1979 gesso, cm 66,5 x 17 ∅


72. Senza titolo, 1979 gesso, cm 56 x 19 x 12


73. Senza titolo, 1980 terracotta, cm 18 x 32 x 13


74. Senza titolo, 1980 terracotta, cm 17 x 25 x 17


75. Senza titolo, 1980 gesso, cm 57 x 16 x 20


76. Senza titolo, 1980 gesso, cm 22 x 56 x 26


77. Senza titolo, 1980 gesso, cm 11 x 34 x 12,5


78. Senza titolo, 1980 gesso, cm 10 x 43,5 x 16


79. Senza titolo, 1980 gesso, cm 8 x 50 x 5


80. Senza titolo, 1980 gesso, cm 8 x 41 x 12


81. Senza titolo, 1980 gesso, cm 13 x 35 x 15



82. Senza titolo, 1980 gesso, cm 30 x 26 x 3


83. Senza titolo, 1981 gesso, cm 37 x 30 x 10


84. Senza titolo, 1981 gesso, cm 7 x 33 x 16


85. Senza titolo, 1981 gesso, cm 10 x 70 x 23


86. Senza titolo, 1981 gesso, cm 13 x 22 x 10


87. Senza titolo, 1981 gesso, cm 21 x 30 x 16


88. Senza titolo, 1982 terracotta, cm 34 x 36 x 10


89. Senza titolo, 1982 terracotta, cm 25 x 25,5 x 6,5


90. Senza titolo, 1982 terracotta, cm 20 ∅ x 6


91. Senza titolo, 1985 terracotta, cm 25 ∅ x 7


92. Senza titolo, 1982 gesso, cm 18 x 23 x 23


93. Senza titolo, 1985 gesso, cm 17,5 x 18 x 5,7


94. Senza titolo, 1982 gesso, cm 19,5 x 18,5 x 13


95. Senza titolo, 1982 gesso, cm 21,5 x 18,5 x 13


96. Senza titolo, 1985 gesso, cm 16 x 23 x 16,5


97. Senza titolo, 1986 gesso, cm 23 x 23 x 23


98. Senza titolo, 1987 gesso, cm 28 ∅ x 10


99. Senza titolo, 1987 gesso, cm 42 ∅ x 12


100. Senza titolo, 1986 gesso, cm 10 x 15 x 10


101. Senza titolo, 1987 gesso, cm 29 x 58,5 x 37


102. Senza titolo, 1987 gesso, cm 51 ∅ x 13



103. Senza titolo, 1987 marmo, cm 17 ∅


104. Senza titolo, 1988 marmo, cm 19,5 ∅ x 12


105. Senza titolo, 1996 gesso, cm 22 x 17 x 15


106. Senza titolo, 1996 terracotta, cm 38 x 37 x 12


107. Senza titolo, 1996 terracotta, cm 30 x 18 x 24


108. Senza titolo, 1996 terracotta, cm 36 x 20 x 23


109. Senza titolo, 1996 terracotta, cm 23 ∅ x 13


110. Senza titolo, 1997 terracotta, cm 40 x 30 x 10


111. Senza titolo, 1997 terracotta, cm 48 x 22 x 10


112. Senza titolo, 1997 terracotta, cm 22 x 15 x 17


113. Senza titolo, 1998 terracotta, cm 47 ∅ x 8


114. Senza titolo, 1998 terracotta, cm 50 x 40 x 9


115. Senza titolo, 1997 gesso, cm 37 x 36 x 3


116. Senza titolo, 1999 terracotta, cm 35 ∅ x 5


117. Senza titolo, 1998 terracotta, cm 42 x 29 x 7


118. Senza titolo, 1998 terracotta, cm 40 x 40 x 17


119. Senza titolo, 1997 terracotta, cm 28 x 28,5 x 6


120. Senza titolo, 2000 terracotta, cm 32,5 x 32,5 x 8




Umberto Carrara Fotografia di Maurizio Carrara


Le sculture di Pipi Carrara Attilio Pizzigoni

Pipi Carrara è uno scultore anomalo, non foss’altro che per il prolungato rifiuto a voler mostrare in pubblico le sue opere, preoccupato soltanto di lavorare ininterrottamente. Fino ad oggi, per molti decenni, egli ha infatti continuato a produrre e ad accumulare sculture, modelli, calchi e fusioni nei depositi del suo incontenibile laboratorio di Via Bronzetti a Bergamo, indifferente ai richiami della mondanità e alle lusinghe della critica, e alle sollecitazioni di quanti lo invitavano ad organizzare esposizioni delle sue opere. Solo l’età avanzata e l’insistenza degli affezionati amici lo hanno convinto a presentare alcune delle sue numerosissime ed inedite sculture in alcuni rari e preziosi momenti espositivi, occasioni che tuttavia ci hanno offerto solo un’idea inevitabilmente limitata della qualità e della mole delle centinaia di opere che egli ha prodotto nel fecondo isolamento di molti decenni. In realtà nella sua professione d’artista andrebbe registrata una breve ma luminosa stagione di pubbliche apparizioni, quando, alla fine degli anni Cinquanta, espose in diverse occasioni, sia solo che con i giovani artisti che facevano riferimento al “Gruppo Bergamo”. Fu allora che venne anche invitato a tenere una personale alla milanese Galleria Selezione di via Brera, presentato dal critico Tito Spini che fu in quegli anni il suo padrino e sostenitore. Spini era stato peraltro l’animatore e il cardine proprio di quel “Gruppo Bergamo” in cui si erano raccolte allora, in una sorta di sodalizio artistico e culturale, le personalità più vive di quella scuola bergamasca che si era formata e consolidata negli anni della decennale presenza di Achille Funi alla direzione dell’Accademia Carrara. Mi piace poi ricordare qui che la primissima personale del Carrara, tenutasi proprio nella galleria del Gruppo Bergamo, fu accompagnata da un breve scritto dell’architetto Pino Pizzigoni, padre di chi ora scrive, e che era stato il suo insegnante di prospettiva sui banchi dell’Accademia Carrara. Fu proprio nella mostra del 1958 alla Galleria Bergamo che provocò polemiche e prese di posizione sulle pagine del quotidiano cittadino. La sua libera adesione ai linguaggi postcubisti di Lipchitz, di Wotruba, di Laurens e di Archipenko, sembrava ancora inadatta ad essere recepita senza difficoltà dal mondo un po’ chiuso della provincia. Anche perché la sua ricerca formale appariva difficilmente catalogabile, ugualmente distante com’era dalle proposte neo-figurative, neorealiste o picassiane che fossero, come dagli

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sperimentalismi linguistici delle avanguardie materiche ed informali postbelliche. La sua è infatti una dimensione essenziale costruttiva, in lui c’è una evidente tensione verso una sintesi espressiva e plastica della forma, sia essa quella di un corpo umano o di un giunto anatomico, calco di una macchina antropizzata o sezione di una crescita biologica, l’analisi strutturale di un’articolazione o una fantastica interpretazione meccanica della natura. Sono questi soltanto alcuni dei probabili aspetti attraverso i quali possiamo avvicinarci a leggere la sua proteiforme originalità creativa. Centinaia di opere ordinate in infiniti scaffali, casse di bozzetti, di plastici, gessi di ogni dimensione, dalle più minute a quelle gigantesche, testimoniano chiaramente quanto sia distante la vicenda artistica di Pipi Carrara da quella di un dilettante o di chi abbia praticato la scultura solo per uno sfogo intellettualistico, conducendo invece questa attività creativa nella dimensione consapevole e febbrile di una pratica artistica continua e quotidiana, di una circostanziata e ininterrotta meditazione sulla forma e sulle ragioni compositive della natura, dei corpi, delle macchine. L’abilità di modellatore, il virtuosismo esecutivo, forse sono stati il suo drammatico limite: la consapevolezza di una manualità plastica eccezionale, incapace di trovare al di fuori di sé ogni possibilità di confronto. Ed è stata proprio questa eccezionalità che ha accompagnato il Carrara su un sentiero di solitudine, che lo ha condotto a cercare sempre di più isolato in se stesso i modi di una ricerca personale, indifferente ad ogni confronto con le tendenze culturali e intellettualistiche della modernità. Una sublime e tragica abilità esecutiva, un entusiasmo cieco a ogni lusinga del mondo, sono il limite e la grandezza della sua ricerca artistica, di un atteggiamento creativo che ha una radice profonda nella tradizione di una città come Bergamo, dove arte e artigianalità, sensibilità plastica ed emotiva, sentimento poetico e struttura della forma, sono confluite senza soluzione di continuità dalla tradizione artigiana in quella artistica. La personalità di Giacomo Manzù ne è a questo proposito l’esempio più alto, non solo per l’universale notorietà dalla sua figura, ma proprio perché in lui è evidente questo peculiare carattere della cultura artistica bergamasca dove la proposta formale e il messaggio poetico si basano prima di ogni altra cosa sul dato fondativo comune della padronanza esecutiva. Come per il Manzù anche per il nostro Carrara possiamo affermare che la matrice originaria della loro creatività non è costituita da una “scuola”, o da una tradizione “d’arte colta”, ma sta invece proprio in quel retroterra culturale dell’artigianato minore di stuccatori e decoratori, di marmisti e di ebanisti, di cui oggi si sta perdendo non solo il ricordo, ma anche la grande capacità esecutiva. Di questa cultura artigiana, che non significa folklore ma alta tecnologia del fare artistico, è figlio al pari di Manzù anche il nostro Carrara. A tredici anni già lavorava nella bottega paterna costruendo e perfezionando nel lavoro la

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sua abilità di modellatore. Il padre, che aveva a sua volta continuato il mestiere famigliare del nonno marmista, ampliando l’attività produttiva verso le nuove tecnologie dei calcestruzzi ornamentali e delle decorazioni in cemento che sempre più andavano soppiantando l’uso della pietra negli elementi costruttivi e nelle facciate della nuova architettura modernista a cavallo del secolo, aveva raccolto nella sua bottega proprio quella consapevolezza costruttiva degli stuccatori e dei gessisti che si era tramandata per secoli dal Sei al Settecento fino all’Ottocento; e non è un caso che proprio in quel laboratorio, vediamo formarsi i maggiori scultori del novecento bergamasco, il Manzù stesso che aveva iniziato proprio qui la sua formazione giovanile, e l’Elia Ajolfi, figlio di un marmista-scultore che fu persino socio nell’attività del padre del nostro Pipi Carrara. Così il giovane Umberto, che i familiari chiamarono fin da piccolo con l’affettuoso diminutivo di Pipi, anche per distinguerlo dal padre che portava lo stesso nome, iniziò giovanissimo il suo apprendistato di scultore, o meglio di “modellatore” in gesso. Più tardi Pipi Carrara, anche frequentando i corsi dell’Accademia con Achille Funi, amplierà molto le sue conoscenze: non rimarrà estraneo alle ricerche e alle opere della cultura figurativa novecentesca. Le immagini di Tatlin e di Gabo, di Kupka e di Pevsner, di Balla, di Delaunay e di Duchamp, riecheggiano nelle sue sculture; si potrebbe persino percorrere la vicinanza della sua ricerca plastica con le proposte di quella tradizione costruttiva che parte da Moholy-Nagy per piegare verso gli accenti surrealisti di Calder, o verso quelli più sottilmente ironici di Munari; e persino ricostruire improbabili parentele con le proposte di Schöffer, di Takis o del giovane Colombo, con le forme impeccabili di Jean Harp, con i legni e le pietre antropomorfiche dell’argentina Alicia Penalba, con le anatomie fantastiche della ungherese Marta Pan, perfino con alcune esperienze di Tinguely o di César. Tutto ciò certo ci farebbe sicuramente comprendere come la scultura di Pipi Carrara possa stare alla pari con le poetiche e proposte plastiche che hanno attraversato la cultura internazionale del Novecento artistico, ma per valutare pienamente l’opera del Carrara tutto ciò non può bastare, perché è necessario inquadrarla negli anni della sua formazione artigianale nella bottega-laboratorio del padre, e leggerla nel filtro di quella consapevolezza tecnica che costituisce appunto il limite grandioso del suo lavoro. Si dice infatti che un artista si riconosca dai suoi limiti, dalle sue libertà e dai suoi difetti, che non sono quelli dei più. Ecco, di Pipi Carrara, che ha speso la vita ad inseguire l’equilibrio dei volumi nello spazio, a creare forme dal nulla, partendo soltanto da se stesso, dalla materia sapientemente manipolata e da pure condizioni di forma, noi oggi riconosciamo il grande valore artistico, che è anche un valore umano, esistenziale, evocativo di una conoscenza e di una dimensione dell’immaginario che deve aprire ancora nuove strade al futuro dell’arte.

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Umberto Carrara, detto Pipi, è nato a Bergamo l’11.08.1925 e morto il 24.01.2008. Terzo figlio di una famiglia di gessisti-stuccatori, ha frequentato l’Accademia Carrara con Achille Funi alla fine degli anni quaranta e ha lavorato in importanti opere di architettura, come il nuovo Seminario Vescovile di Bergamo con l’architetto Vito Sonzogni. Questa è la prima mostra antologica nella prospettiva di una futura catalogazione delle opere, che la Galleria Ceribelli ha iniziato recentemente.




Stampa Castelli Bolis Poligrafiche, Cenate Sotto dicembre, 2010 ISBN 978 88 7766 420 4 Š Lubrina Editore, Bergamo, 2010





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