JAN FABRE Knight of the Night
JAN FABRE Knight of the Night a cura di / curated by
Bruno Corà Fotografie di / Photos by
Claudio Abate
Le citazioni in catalogo sono tratte dal Giornale notturno di Jan Fabre pubblicato da Cronopio Edizioni, Napoli 2013 The quotes in the catalogue are taken from the Night Diary by Jan Fabre published in French at L’Arche, Paris 2012
Galleria Il Ponte - Firenze 2 ottobre - 18 dicembre 2015
Ronchini Gallery - London 11 febbraio 2016 - 19 marzo 2016
© copyright 2015 per l’edizione Gli Ori 51100 Pistoia - Via L. Ghiberti, 6 tel +39 0573 22607 www.gliori.it info@gliori.it Galleria Il Ponte 50121 Firenze - Via di Mezzo, 42/b tel +39 055240617 fax +39 0555609892 www.galleriailponte.com info@galleriailponte.com Ronchini Gallery 22 Dering Street Mayfire London W1S1AN tel +44 (0)2076299188 www.ronchinigallery.com info@ronchinigallery.com ISBN: 978-88.7336- 583-9
Voglio esprimere la mia gratitudine a Luciano e Massimo Maggini che, attraverso la loro profonda passione per l’arte contemporanea, hanno reso possibile la mostra Knight of the Night e questo libro. Fondamentale è stato anche il contributo dell’intero staff di Jan Fabre, che si è reso disponibile a curare con grande professionalità questo progetto in tutti i suoi dettagli. Durante il lungo periodo di preparazione e anche adesso, i miei pensieri sono spesso rivolti verso un amico prematuramente scomparso, Mauro Panzera, fine critico d’arte e compagno di lungo corso nel mondo dell’arte contemporanea, che molti anni or sono mi ha per la prima volta avvicinato all’arte di Jan Fabre.
I would like to express my gratitude to Luciano and Massimo Maggini, whose deep passion for contemporary art have made the Knight of the Night exhibition and this book possible. The contribution of all Jan Fabre’s staff, with their great openness, professionalism and care over all the details of this project, has also been fundamental. Throughout the lengthy preparation, as now, my thoughts often turn to my untimely departed friend, Mauro Panzera, fine art critic and longterm companion in the world of contemporary art, who introduced me to the art of Jan Fabre for the first time many years ago. Andrea Alibrandi
Progetto / Project
Andrea Alibrandi Lorenzo Ronchini Organizzazione e coordinamento Organisation and coordination
Joanna De Vos Coordinamento tecnico e allestimento Technical coordination & Installation
Sven Tassaert Conservazione delle opere Preservation of the works
Mikes Poppe Bastioni, Firenze
Impaginazione grafica Page setting and graphics
Alessio Marolda Redazione editoriale Editorial team
Nino Goyvaerts Federica Del Re Traduzione in inglese Translation into English
Karen Whittle Realizzazione editoriale Publishers
Gli Ori, Pistoia
Lara Facco, Milano
Impianti e stampa Plates and printing
Ufficio stampa interno Internal press office
Pag. 52 Ritratto di Fabre / Portrait of Fabre
Ufficio stampa / Press Office
Susanna Fabiani
Tipografia Bandecchi & Vivaldi, Pontedera (PI) Foto di Stephan Vanfleteren / Photo by Stephan Vanfleteren
JAN FABRE Knight of the Night
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Bruno CorĂ Jan Fabre: il cavaliere di un umanesimo a venire
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Bruno CorĂ Jan Fabre: the knight of a future humanism
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Knight of the Night
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Indice delle opere / Index of Works
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Ilaria Bernardi Jan Fabre: nota biografica
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Ilaria Bernardi Jan Fabre: Biographical Note
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Selezione bibliografica / Selected Bibliography
Jan Fabre Il cavaliere di un umanesimo a venire
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embrerebbe aver tenuto conto di quanto Lucio Fontana aveva affermato nel Manifiesto Blanco (1946) – “la ragione non crea” – Jan Fabre durante l’intero arco della sua attività, sino ad oggi. E aver attuato in pieno, direi perfino sviluppato, quel cruciale pensiero del Maestro italo-argentino quando nello stesso scritto dichiarava: «Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. È necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo».1 Effettivamente sono pochi gli artisti contemporanei che possono vantare, come Fabre, non solo di aver realizzato quel “cambiamento” e aver “superato” ogni steccato tra forme espressive compreso il teatro, ma soprattutto di voler contribuire con incursioni nell’irrazionale e con radicalità di gesti al processo di trasformazione di un pensiero dualistico che ha tenuto in scacco per qualche millennio l’umanità esitante dinanzi ad antinomie apparentemente insolubili e invece dissolte con la semplice presa di coscienza dell’universale, ininterrotto mutamento di ogni forma della materia. Nella IX Elegia duinese Rilke aveva peraltro chiaramente enunciato l’irrevocabilità del mutamento di ogni cosa: «questo fugace che stranamente ci concerne. Di noi, i più fugaci. Ogni cosa una volta, solo una volta. Una volta e mai più. E noi pure una volta. Un’altra mai più.».2 Così è meno folle di quanto possa apparire alla prima lettura la sua affermazione: «Voglio diventare quello di cui vivo, diventando quello che voglio modificandomi, liberandomi di sensazioni ed emozioni ormai note, cercando un corpo nuovo.». Una tale possibilità – da artista – egli sa che è attuabile, anzi la stessa enunciazione di volontà avvia quel processo. Nella drammaturgia di vita che Fabre traccia con quelle proposizioni si colgono talune concezioni e diversità di attitudini estetiche da cui traggono origine le dinamiche e le opere nuovamente osservabili in questo episodio espositivo. Knight of the Night La magica sonorità del titolo con cui Fabre compendia la sua irruzione sulla scena artistica di Firenze e Londra, dovuta all’omofonia knight – night, ha già tutto l’epos poetico di una affabulazione cavalleresca la cui simulazione avviene dichiaratamente a carte scoperte ma non per questo in modi meno attraenti. Fabre è una nostra vecchia conoscenza. A Prato nel 1994-95, al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci si era già potuto misurare la sua straordinaria versatilità e l’ingente bagaglio di esperienze di disegno a penna biro Bic e di elaborazioni plastiche a base di scarabei, che fornirono un esauriente profilo della sua incisività visiva dopo le affermazioni riscosse in teatro, le quali, già da sole, gli avevano assicurato una notorietà in Belgio ma anche in Italia e altrove. Quando il comune amico Jan
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Hoet lo invitò a Gent a esporre presso il Museum Van Hedendaagse Kunst (1985) una selezione di circa trecento disegni, in essa figuravano anche quelle ‘biro’ che tracciavano le azioni del suo De macht der theaterlijke dwaasheden (Il potere della follia teatrale, 1984) andate in scena già nel giugno dell’anno precedente al Teatro Goldoni per la Biennale di Venezia, suscitando accoglienze entusiastiche, discussioni e sconcerto per la densità ritmica delle azioni e per la temporalità, già proverbiale dei suoi spettacoli, estesa a oltre cinque ore. (Conservo ancora la pubblicazione dello spettacolo consegnatami a Gent da Fabre, con l’annotazione del suo telefono e indirizzo di Anversa). Dei suoi disegni, realizzati con la penna biro Bic blu, Fabre aveva scritto: «Il mio teatro è ciò che il mio disegno non sarà più e il mio disegno è ciò che il mio teatro diventerà (…) sento che sono me stesso e un altro (...)».3 D’altronde Jan Hoet aveva scritto in catalogo: «(...) io credo che il bisogno di espressione e l’esigenza interiore di manifestarsi fisicamente possono raggiungere un tale grado d’intensità e di pulsioni passionali che in realtà il problema dell’arte diviene completamente superfluo. È certamente così nel caso di Jan Fabre in cui i disegni recano la traccia visibile di un vissuto intensamente connesso.».4 Conoscenza vecchia dunque ma tuttora sorprendente che Knight of the Night rinnova inducendo a compiere una serie di considerazioni prima inespresse. Se Stefan Hertmans aveva messo in risalto il valore della metafora nell’arte paraentomologica di Fabre, analizzando l’influenza esercitata da Jean-Henri Fabre, scienziato francese entomologo suo antenato dedicatosi allo studio degli insetti, su Fabre giovane teatrante e artista, Bart Vertschaffel, dal canto suo, individua nei lavori sino ad allora compiuti il mondo degli insetti come similitudine del Teatro della Vita: «Violenza, amore, morte, decadenza, lavoro, ordine, disciplina, crudeltà, timore e bellezza – dichiara il critico – non si diluiscono, forze primordiali, nel magma elementare, sono entità indipendenti».5 Nel mondo degli insetti, insomma, la natura si teatralizza e il teatro dal canto suo diventa natura. Ma Jan Fabre non si è dedicato ossessivamente alla conoscenza della vita degli insetti solo per coglierne quei comportamenti o i loro attraenti e sublimi attributi esteriori, come le policrome corazze o le vertebrate antenne per le sue creazioni, dal disegno alla scultura, al teatro, ma soprattutto dopo opportune considerazioni comparative per calarsi, come uno speleologo, nelle profondità oscure dell’interiorità dove, per tutti, l’animalità ancora serpeggia nell’inconscio e dove la coscienza seguita a porre domande e a reclamare mancanze. Tallonato dalla fugacità della vita e dalle incessanti richieste di placare l’ansia metamorfica che esige un ‘corpo nuovo’, non ha avuto altra scelta che intensificare il combattimento con se stesso per modificare “sensazioni ed emozioni ormai note” e appartenenti al corpo abituale. Siamo al più arduo e al più fantasmagorico duello; anzi, all’autocombattimento: il Lancillotto di Fabre, isolato in un oscuro ambiente, sferra fendenti e cala il brando su un invisibile altro se stesso, per una tenzone che lo vedrà dopo ore di colpi a vuoto, a terra, esausto ma unico superstite nella sfida senza vincitori né vinti, in assenza di Artù e di Ginevra. Eppure, ciò che è apparso nelle immagini non è vano, è l’opera a cui Fabre ha dedicato la sua esperienza e la sua passione, dunque un fatto poetico. Faccio mie in sostegno di un tale giudizio le mirabili considerazioni di Carmelo Bene: «Non si dà attore che non sia di là del raccontare altro dire che scrive. / Dunque attore e poeta son tutt’uno. / Nella “poesia” composita un “poeta” può non essere attore, così come in un teatro del composito, un “attore” può non essere poeta. / Ma abbiamo
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ammesso la “composizione” estranea affatto alla poesia del dire. Dunque il poeta è necessariamente attore, come Jekill è Hyde (il suo nascondersi) e non uno dei due un travestimento dell’altro a turno. Chi sulla scena non è poeta non è attore.».6 Fabre, che è l’uno e l’altro, con veggenza premonitrice nel suo diario degli anni Ottanta annota: «Sono forse un cavaliere errante e lunatico / che crede nella bellezza?» (Anversa, 7 giugno 1981) e una settimana più tardi ribadisce: «Disegno forti e castelli / sin da ragazzo. / Sogno di possedere un castello. / E di riportare in auge la tradizione cavalleresca. / E di non innalzare più la passione salvatrice, che è angoscia / ma di sconfiggerla, di annientarla.» (Anversa, 14 giugno 1981). Infine afferma con fede: «Torneranno i tempi della cavalleria. / (Combattere per una giusta causa).» (Anversa, 4 ottobre 1985).7 Si ignora il motivo per cui Fabre si sia voluto identificare nel cavaliere del ciclo bretone arturiano protagonista del poema di Chrètien de Troyes (XII secolo, Lancelot ou le chevalier à la charrette) che secondo una delle numerose ‘vulgate’ sul suo conto finisce per divenire eremita, protettore dei poveri trascorrendo da predicatore la sua lunga vecchiaia. Ma, ancorché la scelta appaia significativa, si può ritenere che essa, per l’esigenza di identificazione, sarebbe potuta cadere su altri cavalieri di cui la letteratura cortese e quella successiva, fino al Cinquecento, ha fornito esempi non meno epici, come il Rinaldo, giovane paladino del poema di Torquato Tasso, o l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, o infine l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Probabilmente necessità di struttura e unità narrativa come di poetica e libertà inventiva hanno mosso le intenzioni di Fabre. Ciò che appare più importante è il nodo esistenziale che sembra emergere. Una volontà di cambiare pelle e vita, insomma di sognare un’altra avventura. Alla base di ciò vi è il corpo da rimettere a nuova prova e la metamorfosi da affrontare. Aveva colto nel segno chi, in occasione della mostra “Passage” al Museo di Arte Contemporanea di Anversa (1997) aveva individuato negli strumenti offerti dalle riflessioni sul corpo di Husserl e di Merleau-Ponty, entrambe fenomenologiche, una via critica praticabile tra i molti dedali in cui l’opera di Fabre rischiosamente invita. Dopo aver individuato il brano di Merleau-Ponty «sia che si tratti del corpo altrui o del mio proprio corpo, ho un solo modo di conoscere il corpo umano: viverlo e cioè far mio il dramma che lo attraversa e confondermi con esso. Io sono dunque il mio corpo, per lo meno nella misura in cui ha un’esperienza, e reciprocamente il mio corpo è come un soggetto naturale, come un abbozzo provvisorio del mio essere totale»,8 Mauro Panzera aveva infatti scritto: «Fabre trasforma il corpo in tema direttamente artistico, mezzo e fine della propria attività, principio e fine del proprio mondo. Assumere un corpo come un mondo. L’osservazione degli insetti e l’abbandonarsi al loro potere fascinatorio – orrore e meraviglia – sono assolutamente originari per Fabre. Lo stupore per il loro essere è la nascita di un mondo fantastico. Anche disegnare è conoscere, disegnare centinaia di insetti, reali e fantastici, metamorfosi immaginarie, conduce alla comprensione profonda della metamorfosi naturale, conduce alla comprensione del corpo nella sua immensa capacità e potenza.».9 Dopo quella anticipatrice lettura e osservando il nucleo di opere esposte a Firenze e Londra, si può azzardare un ulteriore passo ermeneutico: lo struggimento di Lancillotto, le ‘vanitas’ che hanno tra i denti volatili impagliati o la frusta, il cranio attraversato da chiavi, i Pantser, 1997 (schinieri, gambali, bracciali, corazze ricoperti di scarabei rilucenti e policromi), il Salvator Mundi, 1998 con l’eloquente scheletrica colonna vertebrale non sono forse gli emblemi inequivocabili, quasi reperti di
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un’archeologia del post-umano precocemente annunciata da Fabre sin dalla fine degli anni Settanta? Si tratterebbe in questo caso del versante fondativo di quella estetica che in Fabre si è già da tempo tramutata in etica e in desiderio e volontà di un altro grado della propria vita immaginaria e reale, come gli appunti del suo diario riferiti a Lancillotto sembrano suggerire: «...il cavaliere della disperazione ha trionfato su se stesso. (Mentre scrivo il mio ego fluttua nel soggiorno. Di tanto in tanto devo tirar giù il mio ego, come un palloncino, e rificcarmelo dentro.) Sarà una notte bella e lunga.» Se così è, gli si addicono i versi di Ovidio dedicati a Dedalo in atto di preparare le ali per Icaro: «Dixit et ignotas animum dimittit in artes naturamque novat».10 Gioiello, Monte Santa Maria Tiberina, settembre 2015
Bruno Corà
1 Lucio Fontana, Manifiesto Blanco. 2 Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, a cura di Franco Rella, BUR, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2008, p. 91. 3 Jan Fabre, in Jan Fabre – Tekeningen, catalogo della mostra presso il Museum Van Hedendaagse Kunst, Gent, 3 maggio – 16 giugno 1985. 4 Jan Hoet, ibid. 5 Bart Verschaffel, Il mondo degli insetti, in Jan Fabre – Questa pazzia è fantastica, catalogo della mostra presso Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, 19 novembre 1994 – 23 gennaio 1995, p. 12. 6 Carmelo Bene, Della poesia a tetro, in Carmelo Bene – Sono apparso alla Madonna, Longanesi & C., Milano 1983, p. 152. 7 Jan Fabre, brani inediti del suo diario pubblicati in italiano per la prima volta in questo catalogo della mostra. 8 Il brano citato di Maurice Merleau-Ponty si trova alla fine della Prima Parte della Fenomenologia della percezione, ultima pagine, righe 25-31. 9 Mauro Panzera, Bodies of Bodies (in a labyrinth), in Jan Fabre – Passage, catalogo della mostra presso il MuHKA, Museum Van Hedendaagse Kunst Antwerpen, 19 settembre – 2 novembre 1997, pp. 85-90. 10 «Così parlò e si dedicò a un’arte ancora sconosciuta e mutò le leggi di natura», in Ovidio – Metamorfosi (a cura di Nino Scivoletto), Libro VIII, 188-189, UTET, Torino 2000, pp. 384-385.
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Jan Fabre The knight of a future humanism
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an Fabre would seem to have taken into account what Lucio Fontana had affirmed in the Manifiesto Blanco (1946) – ‘reason does not create’ – throughout his whole artistic career to date. And to have fully implemented, or I would even say developed, that crucial thought by the Italo-Argentian maestro, when in the same text he declared: ‘We need a change in essence and form. We need to go beyond painting, sculpture, poetry and music. A greater art is needed in keeping with the demands of the new spirit’.1 In effect, there are few contemporary artists who can boast, like Fabre, not only to have achieved that ‘change’ and to have ‘gone beyond’ that picket fence dividing the forms of expression, including theatre, but above all to want to contribute with forays into the irrational and with radical gestures to the process to transform a dualistic thought that has kept humanity in a condition of stalemate for some millennia, as it hesitated before apparently insoluble antinomies. Antinomies then dissolved simply by gaining awareness of the universal, endless alteration of every form of matter. In the IX Duino Elegy Rilke had moreover clearly expressed the inevitability of change: ‘this fleetingness that strangely entreats us. Us, the most fleeting. Once for each thing, only once. Once, and no more. And we, too, only once. Never again.’2 Hence his affirmation is less mad than it may appear upon first glance: ‘I want to become what I live from, becoming what I want by changing myself, freeing myself from now familiar sensations and emotions, seeking a new body.’ Such a possibility – as an artist – he knows is feasible, indeed, the process is started by merely uttering the idea. In the dramaturgy of life traced by Fabre in those propositions, we grasp some conceptions of the diverse aesthetic aptitudes giving rise to the dynamics and works which can be seen once again in this exhibition. Knight of the Night The magical resonance of the title which Fabre uses to sum up his eruption onto the artistic scene in Florence and London, thanks to the homophony of knight – night, already has all the poetical epos of a chivalrous tale. And its open simulation, cards laid on the table, makes it no less attractive. Fabre is an old acquaintance of ours. At Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci in Prato in 1994-95, we had already come face to face with his extraordinary versatility and huge baggage of experience in his Bic ballpoint pen drawings and plastic elaborations based on scarabs, in an exhaustive profile of his visual clout after his success at the theatre, which, alone, had given him a certain notoriety not just in Belgium, but also in Italy and elsewhere too. When our common friend Jan Hoet invited him to Ghent to hold an exhibition at the Museum Van Hedendaagse Kunst (1985) of a selection of around three hundred drawings, they also included those in Bic ballpoint pen which traced the actions of his De macht der theaterlijke dwaasheden
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(The power of theatrical madness, 1984). Already staged in June of the previous year at the Teatro Goldoni as part of the Venice Biennale, it had aroused an enthusiastic reception, as well as discussion and bewilderment over the densely rhythmic actions and, lasting for over five hours, the already proverbial length of his performances. (I still have the publication of the performance which Fabre gave to me in Ghent, with the note of his telephone number and address in Antwerp). Of his drawings, made using a blue Bic ballpoint pen, Fabre had written: ‘My theatre is what my drawing will no longer be and my drawing is what my theatre will become (…) I feel that I am myself and someone else (...)’.3 Besides, Jan Hoet had written in the catalogue: ‘(...) I think that the need for expression and the interior necessity to manifest itself physically can achieve such a degree of intensity and passionate impulses that in reality the problem of art becomes completely superfluous. This is certainly the case of Jan Fabre whose drawings show the visible trace of an intensely connected life experience.’4 So, an old acquaintance, but surprisingly Knight of the Night is still new to us. It causes us to make a series of as yet unexpressed considerations. While Stefan Hertmans may have highlighted the value of the metaphor in Fabre’s para-entomological art by analysing the influence exercised on the young performer and artist by his forebear Jean-Henri Fabre, French scientist and entomologist who devoted himself to studying insects, for his part Bart Verschaffel identifies the world of insects depicted in his works to date as a simile for the Theatre of Life. ‘The primordial forces of violence, love, death, decadence, work, order, discipline, cruelty, fear and beauty,’ declares the critic, ‘are not diluted in the elementary magma, they are independent entities’.5 In the world of insects, in short, nature becomes theatre, and on its part theatre becomes nature. Yet Jan Fabre did not devote himself obsessively to the life of insects to solely grasp those behaviours and their attractive and sublime exterior attributes, such as the multicoloured shells or the bony antennae for his creations, from drawing to sculpture, to theatre. Above all, after fitting comparative considerations, he would climb down, like a speleologist, into the dark caverns of the inner self where everyone’s animal nature still slithers in the unconscious and where the conscience follows on, asking questions and protesting against shortcomings. Tormented by the fleetingness of life and the incessant requests to placate the metamorphous anxiety demanding a ‘new body’, he had no other choice but to intensify the fight with himself to modify ‘now familiar sensations and emotions’ belonging to the habitual body. We are at the most gruelling and most phantasmagorical duel; or rather, self-combat: Fabre’s Lancelot, isolated in a dark place, launches blows and brandishes his sword against another invisible self, in a clash that will see him, after hours of empty blows, on the ground, the exhausted but sole survivor in the contest without winners or losers, in absence of Arthur and Guinevere. And yet, what appeared in the images is not vain, it is the work to which Fabre devoted his experience and his passion, and hence a poetic fact. In support of this judgement, I shall make the admirable considerations of Carmelo Bene my own: ‘There is no actor who beyond recounting what is said by others does not write himself. / Hence actor and poet are one and the same. / In composite ‘poetry’ a ‘poet’ may not be an actor, as in composite theatre, an ‘actor’ may not be a poet. / But we have admitted that ‘composition’ is wholly extraneous to the poetry of saying. So the poet is necessarily an actor, like Jekyll is Hyde (his hiding himself) and one of the two is not a disguise of the other in turn. He who on the stage is not a poet is not an actor.’6
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Fabre, who is one and the other, notes in his 1980s diary with prophetic foresight: ‘Am I a moody, wandering knight / who believes in beauty?’ (Antwerp, 7 June 1981) and a week later repeats: ‘I have been drawing forts and castles / since I was a child. / I dream of owning a castle. / And restoring the traditional chivalry. / And no longer glorifying that saving passion, fear, / but defeating it, destroying it.’ (Antwerp, 14 June 1981). Finally, he trusts: ‘The age of chivalry will return. / (Fight for a good cause.)’ (Antwerp, 4 October 1985).7 We do not know why Fabre wanted to identify himself with the character of the knight from the Breton Arthurian cycle in the poem by Chrètien de Troyes (12th century, Lancelot ou le chevalier à la charrette) who, according to one of the numerous ‘Vulgates’ on his account, ends up becoming a hermit, protector of the poor, spending his long old age as a preacher. But, although the choice appears significant, we can consider that, in the need for identification, it could have fallen upon other knights of which the courtly and subsequent literature up to the sixteenth century gave no less epic examples, such as Rinaldo, young paladin in the poem by Torquato Tasso, or Orlando innamorato by Matteo Maria Boiardo, or lastly Orlando furioso by Ludovico Ariosto. Fabre’s intents were probably prompted by the necessity of structure and narrative unity as well as poetics and freedom of invention. What appears more important is the existential crux that seems to emerge. A will to reinvent himself and his life, in short to dream another adventure. At the basis of this the body, to be put to a new test and face the metamorphosis. Those who, on occasion of the ‘Passage’ exhibition at the Museum of Contemporary Art in Antwerp (1997), had singled out the tools offered by both Husserl and MerleauPonty’s phenomenological reflections on the body, as a practicable critical route through the many labyrinths into which Fabre’s work riskily invites us, had hit the mark. Indeed, after pinpointing the passage by Merleau-Ponty, ‘Whether it is a question of another’s body or my own, I have no means of knowing the human body other than that of living it, which means taking up on my own account the drama which is being played out in it, and losing myself in it. I am my body, at least wholly to the extent that I possess experience, and yet at the same time my body is as it were a “natural” subject, a provisional sketch of my total being’, 8 Mauro Panzera had written: ‘Fabre transforms the body into a theme that is directly artistic, the means and end of his own activity, the beginning and end of his own world. To assume the body as a world in itself: observing insects and abandoning himself to their fascinating power – horror and marvel – are absolutely innate with Fabre. The amazement at their being is the birth of a fantastic world. Drawing too is to know, drawing hundreds of insects, real and imaginary, imaginary metamorphoses, leads to a profound understanding of natural metamorphosis, to an understanding of the body in its immense capabilities and power.’9 After reading this and observing the group of works on display in Florence and London, one could hazard a further hermeneutic step: the destruction of Lancelot, the ‘Vanitas’ with stuffed birds or a whip between their teeth, the Pantser, 1997 (shin, leg, arm guards, suits of armour covered in shiny, multi-coloured scarabs), the Salvator Mundi, 1998 with the eloquent skeletal backbone, are they not perhaps the unmistakable emblems, relics almost, of an archaeology of the post-human announced precociously by Fabre since the end of the 1970s? In this case it would be the founding element of that aesthetic which in Fabre had already transformed into
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ethic some time ago, and into desire and will for another level of his own imaginary and real life, like the notes in his diary on Lancelot seem to suggest: ‘...the knight of desperation has triumphed over himself. (As I write my ego is floating in the sitting room. Every so often I have to pull my ego down, like a balloon, and stuff it back in). It will be a beautiful and long night.’ If this is so, the verses that Ovid dedicates to Dedalus as he prepares the wings for Icarus are quite fitting: ‘Dixit et ignotas animum dimittit in artes naturamque novat’.10 Gioiello, Monte Santa Maria Tiberina, September 2015
Bruno Corà
1 Lucio Fontana, Manifiesto Blanco. 2 Rainer Maria Rilke, Duino Elegies: A Bilingual Edition, translated by Edward Snow, New York, North Point Press, 2001, p. 49. 3 Jan Fabre, in Jan Fabre – Tekeningen, catalogue of the exhibition at Museum Van Hedendaagse Kunst, Ghent, 3 May – 16 June 1985. 4 Jan Hoet, ibid. 5 Bart Verschaffel, Il mondo degli insetti, in Jan Fabre – Questa pazzia è fantastica, catalogue of the exhibition at Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, 19 November 1994 – 23 January 1995, p. 12. 6 Carmelo Bene, Della poesia a tetro, in Carmelo Bene – Sono apparso alla Madonna, Milan: Longanesi & C., 1983, p. 152. 7 Jan Fabre, previously unpublished excerpts from his diary, in Italian for the first time in this exhibition catalogue. 8 The quoted passage from Merleau-Ponty is found at the end of the First Part of Phenomenology of Perception, London: Routledge and Kegan Paul, 1962, p. 198. 9 Mauro Panzera, Bodies of Bodies (in a labyrinth), in Jan Fabre – Passage, catalogue for the exhibition at MuHKA, Museum Van Hedendaagse Kunst Antwerpen, 19 September – 2 November 1997, pp. 85-90. 10 ‘So then to unimagined art / He set his mind and altered nature’s laws’, in Ovid – Metamorphoses (version by A.D. Melville), Book VIII, 188-189, Oxford World’s Classics, p. 177.
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Anversa, 7 giugno 1981 Sono forse un cavaliere errante e lunatico che crede nella bellezza?
Antwerp, 7 June 1981 Am I a moody, wandering knight who believes in beauty?
Anversa, 14 giugno 1981 Disegno forti e castelli sin da ragazzo. Sogno di possedere un castello. E di riportare in auge la tradizione cavalleresca. E di non innalzare piÚ la passione salvatrice, che è angoscia, ma di sconfiggerla, di annientarla.
Antwerp, 14 June 1981 I’ve been drawing forts and castles since I was a child. I dream of owning a castle. And restoring the tradition of chivalry. And no longer glorifying that saving passion, fear, but defeating it, destroying it.
Anversa, 8 agosto 1981 Vorrei ‘mettere in scena’ la storia come ricordo dell’epoca in cui ancora esisteva la storia. Vorrei portare l’armatura, la spada, lo scudo. Vorrei essere un cavaliere, per poter riabilitare la manifestazione tradizionale della virilità.
Antwerp, 8 August 1981 I want to ‘stage’ history as a remembrance of the time when history still existed. I want to wear the armour, the sword, the shield. I want to be a knight so that the traditional expression of virility is permissible again.
Anversa, 4 ottobre 1985 Torneranno i tempi della cavalleria. (Combattere per una giusta causa.)
Antwerp, 4 October 1985 The age of chivalry will return. (Fighting for a good cause.)
Rotterdam, 8 novembre 1991 Talvolta sto sulla torre come un cavaliere. Come un vero stratega, per difendere il mio castello. (E mi sento al sicuro nel mio forte interiore.)
Rotterdam, 8 November 1991 Sometimes I stand on the tower like a knight. Like a true strategist defending my castle. (And I feel safe in my inner fortress.)
Adelaide, 21 marzo 1986 Ăˆ notte. Sono e mi sento solo. La mia solitudine è un’armatura e uno scheletro esteriore.
Adelaide, 21 March 1986 It is night. I am, and feel, alone. My loneliness is plate armour and an exoskeleton.
Adelaide, 27 marzo 1986 Mi piace essere il nemico. Cerco sempre un’opposizione. Non voglio essere uguale al nemico. Voglio combattere solo contro i giganti.
Adelaide, 27 March 1986 I love being the enemy. I always search for areas of resistance. I do not want to be a match for my enemy. I only want to fight against giants.
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Parigi, 2 novembre 1983 Devo scrivere nel mio giornale notturno! Così il mio cranio può raffreddarsi e il cervello rimettersi a posto. Qui posso scrivere pensieri che non avrei il coraggio di esprimere ad alta voce. Qualche volta fantastico. Sulla gloria e l’onore che vorrei. La gloria e l’onore che soltanto un signore della guerra visionario può conquistare. Una vittoria sul campo di battaglia insanguinato. E poi morire per ultimo? Pervenire a un glorioso rigor mortis. Un bell’alibi per avallare l’esistenza.
Paris, 2 November 1983 Writing in my night diary is a must! Then my skull can cool down and my brain can untangle itself. Here I can write thoughts I wouldn’t dare to speak aloud. Sometimes I fantasize. About the fame and honour I seek. The fame and honour that can only be won by a visionary warlord. A victory on the blood-soaked battlefield. And then to be the last to die? To achieve a glorious rigor mortis. A beautiful alibi to give life validity.
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Anversa, 28 febbraio 2004 Oggi, in una stanza interamente dipinta di nero del Troubleyn/Laboratorium, ho combattuto per 4 ore con l’armatura e la spada contro un avversario immaginario (o era contro me stesso?) Alla fine della performance non riuscivo più a piegare le dita per il freddo né a raccogliere la mia spada. ... Ma Lancillotto (il titolo della mia performance) nei prossimi giorni per prima cosa si leccherà le ferite e recupererà. Il cavaliere della disperazione ha trionfato su se stesso. (Mentre scrivo ciò il mio ego fluttua nel soggiorno. Di tanto in tanto devo tirar giù il mio ego, come un palloncino, e rificcarmelo dentro.) Sarà una notte bella e lunga.
Antwerp, 28 February 2004 Today, in a room in the Troubleyn Laboratory painted entirely black, I fought for 4 hours with a sword in a suit of armour against an imagined other (or was I fighting myself?). By the end of the performance, my fingers were so cold I could no longer bend them, and couldn’t pick up my sword. ... But first Lancelot (the title of my performance) will lick his wounds and recover over the next few days. The knight of despair has triumphed over himself. (As I write this my ego is starting to float around the living room. I occasionally have to pull my ego back down like a balloon and put it back inside me.) It will be a long and fine night.
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Senza titolo / Untitled, 1994
Scarabeo rinoceronte in assetto di guerra (serie: Metamorfosi) / Rhinoceros beetle in state of war (series: Metamorphoses), 1992
penna biro Bic e acquerello su carta Bic ballpoint pen and watercolor on paper 158,5x152 cm
penna biro Bic e acquerello su carta Bic ballpoint pen and watercolor on paper 236x150 cm
Senza titolo / Untitled, 1994
Teschio con le chiavi dell’Inferno Skull with the Keys of Hell, 2013
penna biro Bic e acquerello su carta Bic ballpoint pen and watercolor on paper 233x150 cm
composizione di elitre di coleotteri gioiello, poliuretano, ferro mixture of jewel beetle wing-cases, polymers, iron 23x21x20 cm
Teschio con gazza ladra / Skull with Magpie, 2001
Armatura (Pettorale) Armour (Breast), 1997
composizione di elitre di coleotteri gioiello, poliuretano, uccello impagliato mixture of jewel beetle wing-cases, polymers, stuffed bird 39x23x34 cm
coleotteri gioiello su filo metallico Jewel beetles on iron wire 50x36x24 cm
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Armatura (Pettorale) / Armour (Breast), 1997
Armatura (Braccio) / Armour (Arm), 1997
coleotteri gioiello su filo metallico jewel beetles on iron wire 46x41x22,5 cm
coleotteri gioiello su filo metallico jewel beetles on iron wire 67x21,5x21,5 cm
Teschio con frusta / Skull with Whip, 2013
Armatura (Gambale) / Armour (Leg), 1997
composizione di elitre di coleotteri gioiello, poliuretano, cuoio mixture of jewel beetle wing-cases, polymers, leather 90x49x22 cm
coleotteri gioiello su filo metallico jewel beetles on iron wire 81x29x21 cm
Salvator Mundi, 1998
Senza titolo – Autroritratto Untitled - Self-Portrait, 1988
Buprestidi, ferro, ossa, poliuretano, capelli d’angelo Buprestids, iron wire, angel’s hair, bones 50x20x40 cm
cibachrome 160x122 cm esemplare unico / original and unique work
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Lancelot, 2004, super-16 mm film, 8’ 17’’
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Jan Fabre Nota biografica
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in dai suoi esordi Jan Fabre, nato nel 1958 ad Anversa dove ancora oggi vive e lavora, ha condotto una ricerca che, attraverso riferimenti a dimensioni spazio-temporali differenti e mediante la creazione di un personale universo costellato di molteplici figure simboliche, mira a scoprire il segreto della bellezza, recuperando il sapere archetipico e primitivo ormai perduto dalla società odierna. Per farlo, utilizza una pluralità di media capaci di visualizzare le idee fondative della sua arte: la centralità del corpo nei suoi aspetti fisiologici, intellettivi e simbolici; il primato del disegno quale strumento di conoscenza del corpo; e la possibilità di interscambio (o metamorfosi) tra arte e scienza, uomo e animale, vita e morte. Dopo aver studiato ad Anversa all’Istituto Municipale di Arti Decorative e Artigianato e all’Académie Royale des Beaux-Arts, nella seconda metà degli anni Settanta Fabre intraprende la sua vita come artista visivo, scrittore, regista, coreografo e scenografo teatrale. Nel 1976, ad Anversa, realizza le sue prime performances, seguite poi da azioni come Money Performance (1980), durante la quale scrive con le ceneri della cartamoneta prestata dagli spettatori le parole “ART”, “money” e “honey”, per svolgere una riflessione sulla mercificazione dell’arte. Risale al 1980 il suo primo spettacolo (Theatre written with a K is a tomcat) che esplora la possibile materializzazione di un testo scritto, capace di trasformarsi di volta in volta in elemento grafico, linguaggio parlato e atto dello scrivere a macchina il copione recitato. Convinto che l’arte sia una sorta di rito collettivo da svolgere mediante il corpo, Fabre ha sviluppato le sue pièces teatrali fino a This is theatre as it was to be expected and foreseen (1982, della durata di otto ore) e The power of theatrical madness (1984, della durata di quattro ore, presentato in occasione della Biennale di Venezia), che ha rappresentato il suo definitivo riconoscimento internazionale. Portando un corpo reale, un tempo reale e un’azione reale sul palcoscenico, ha cambiato il linguaggio del teatro in ogni parte del mondo. Dal 2012 le due pièces sono riproposte da una generazione di attori e danzatori più giovane che, grazie alla sua propensione per la velocità e i nuovi media, le rende forse ancora più radicali di quanto non fossero. Mount Olympus. To glorify the cult of tragedy, a 24-hour performance, ha avuto la sua prima mondiale al Berliner Festspiele, nel luglio 2015. È un progetto monumentale e dal forte impatto visivo nonché concettuale, che prevede la messa in scena di trenta performers e di quattro generazioni e che, dopo oltre trent’anni di esperienza, ripropone e amplifica ogni aspetto del teatro di Jan Fabre. Le sue performances teatrali sono perlopiù basate su figure vitali e trasgressive che, dominate dall’istinto e dall’irrazionalità che la società ci ha negato, rivelano le inclinazioni primordiali dell’essere umano. Nonostante l’importanza conferita alla performance e al teatro, che lo conduce parallelamente alla realizzazione di films (Lancelot, 2004), fin dai suoi inizi i punti di partenza di Fabre sono stati la scrittura e il disegno, che ha sviluppato con uno
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specifico metodo di lavoro basato sull’utilizzo ossessivo e ripetuto della penna a sfera Bic blu. Tale metodo trae ispirazione dalla teoria dell’“Ora blu” formulata dal noto entomologo Jean-Henri Fabre per indicare il momento di passaggio tra la notte e il giorno, quando gli insetti notturni si ritirano e i diurni si risvegliano, quando tutto si fonde e si trasforma. In questo ciclo di opere dagli anni Settanta agli anni Novanta, Jan Fabre utilizza l’inchiostro blu della penna biro, per disegnare su stoffa, carta, fotografie, oggetti, pareti e persino su un’intero castello (Tivoli, 1990). In linea con la dimensione metamorfica intrinseca al concetto di “Ora blu”, Fabre si è anche dedicato al disegno utilizzando i propri liquidi corporei, al fine di evocare uno svuotamento e dunque un’inevitabile trasformazione di sé. Nel 1978, in My body, my blood, my landscape, disegna con il sangue per sottendere al sacrificio dell’artista volto al raggiungimento di una creazione autentica. Nel corso degli anni, disegna inoltre con lo sperma, l’urina, le lacrime, il sudore per alludere al corpo fluido e alla sua energia vitale e creativa. Basandosi sullo studio del mondo animale, la teoria dell’“Ora blu” lo conduce ad utilizzare quali elementi d’immagine alcune specie animali, conferendo loro una valenza simbolica: la tartaruga, per la sua corazza, è simbolo della protezione dal mondo esterno e al tempo stesso una pietra oracolo; il gufo è invece l’animale-feticcio, simbolo di saggezza, di chiaroveggenza e messaggero della morte. I veri protagonisti dell’universo artistico di Fabre sono tuttavia gli insetti: in particolare i coleotteri e soprattutto lo scarabeo stercorario. Non avendo subito grandi variazioni nel corso dei secoli, lo scarabeo è da considerarsi il guscio delle memorie più antiche della storia dell’umanità, oltre ad essere per tradizione simbolo di morte e al contempo di metamorfosi. Non a caso le elitre dei coleotteri gioiello costituiscono la più imponente installazione permanente dell’artista (Heaven of delight), che nel 2002 ha infatti rivestito l’intero soffitto della sala degli specchi del Palais Royal di Bruxelles, i cui colori cangiano continuamente al riverberarsi della luce. Attraverso questa opera Fabre ha cercato di visualizzare la capacità cangiante del reale, riflettendo sul concetto di perpetuo mutamento, sullo sconfinamento tra la vita e la morte, tra uomo e animale, tra luce e ombra, tra sogno e incubo, tra bellezza e orrido. Ad essere sempre messo in scena nei suoi lavori è l’attimo in cui avviene un cambiamento nel reale: attraverso media diversi, Fabre effettua un mutamento del visibile (fogli, tele, oggetti, corpi, ma anche spazi pubblici come il Musée de la Chasse et de la Nature di Parigi - La Nuit de Diane, 2007 - e lo ZOO di Anversa – A tribute to Mieke, the tortoise e A tribute to Janneke, the tortoise, 2012). Alla stregua di un alchimista, trasforma così tutto ciò che tocca, facendogli perdere materialità e innescando per empatia un cambiamento anche nella mente dello spettatore. Da qui l’interesse per il cervello, considerato la parte più “sexy” del corpo, divenuto soggetto centrale di alcune mostre quali Anthropology of a Planet (Palazzo Benzon, Venezia, 2007), From the Cellar to the Attic. From the Feet to the Brain (Kunsthaus, Bregenz, 2008; Arsenale Novissimo, Venezia, 2009) e Pietas (Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, Venezia, 2011). Ulteriori importanti personali attraverso cui l’artista ha confermato la posizione di rilievo da lui assunta all’interno del panorama artistico internazionale, sono: Homo Faber (KMSKA, Anversa, 2006), Hortus/Corpus (Kröller-Müller Museum, Otterlo, 2011) e Stigmata. Actions & Performances 1976-2013 (MAXXI, Roma, 2013; M HKA, Anversa, 2015). La sua famosa serie L’ora blu (1977–1992) è stata esposta
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al Kunsthistorisches Museum a Vienna (2011), al Musée d’Art Moderne di SaintÉtienne (2012), e al Busan Museum of Art (South Korea, 2013); la serie dei mosaici intitolata Tribute to Belgian Congo (2010–2013) e Tribute to Hieronymus Bosch in Congo (2011–2013) sono state già esposte al Palais des Beaux-Arts a Lille (2013) e al PinchukArtCenter in Kiev (2013). Fabre è inoltre il primo artista contemporaneo ad aver esposto da vivente al Louvre (L’ange de la métamorphose, Parigi, 2008) e ad essere stato invitato a tenere una grande personale (prevista per il 2016) al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Il 18 novembre 2015 la Cattedrale di Nostra Signora di Anversa ospiterà una sua scultura in bronzo di Jan Fabre, The man who bears the cross (2015). È la prima volta in più di cento anni che un’opera d’arte viene acquistata dalla Diocesi e sarà installata in relazione diretta con la Deposizione dalla Croce di Peter Paul Rubens (1611-1614). Torino, settembre 2015
Ilaria Bernardi
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Jan Fabre Biographical Note
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ince his debut, the aim of Jan Fabre’s research – artist born in 1958 in Antwerp where he still lives and works today – has been to discover the secret of beauty. While referring to different dimensions of space and time and creating a personal universe occupied with a multitude of symbolic figures, he has sought to retrieve the archetypal and primitive knowledge that present-day society has now lost. To do this, he uses a range of media capable of visualising the ideas behind all of his artistic activity: the centrality of the body in its physiological, intellectual and symbolic aspects; drawing’s leading role as the tool to know the body; and the possibility of interchange (or metamorphosis) between art and science, man and animal, life and death. After studying in Antwerp at the Municipal Institute of Decorative Arts and Crafts and at the Royal Academy of Fine Arts, Fabre undertook his passionate life as a visual artist, theatre maker and author in the second half of the 1970s. Antwerp, 1976, provided the stage for his first performances, later followed by daring actions such as Money Performance (1980), during which he wrote the words “ART”, “money” and “honey” with the ashes of cash lent by the spectators in order to reflect on the commodification of art. His first theatrical performance dates from 1980 (Theatre written with a K is a tomcat), exploring what a written text could materialise into: a graphical element, spoken language or the act of typewriting the recited script. Convinced that art is a sort of collective rite to carry out through the body, Fabre developed theatre productions such as: This is theatre as to be expected and foreseen (1982, lasting eight hours) and The power of theatrical madness (1984, lasting four hours, presented on occasion of the Venice Biennial), which were his definitive international breakthrough. Bringing real body, real time and real action to the stage those works changed the idiom of the theatre throughout the world. Since 2012 the two creations were re-enacted by a younger generation of actors and dancers and the current penchant for speed and the new media makes it perhaps even more radical today than it was before. Mount Olympus. To glorify the cult of tragedy, a 24-hour performance had its world premiere at the Berliner Festspiele in July 2015. It’s an exceptional and monumental project, in which thirty performers and four generations appear on stage, who display every dimension of his theatre work after more than thirty years of experience. Jan Fabre’s theatre performances are mainly based on vital and transgressive figures which, dominated by the instinct and irrationality that society has denied us, reveal mankind’s most primordial inclinations. Despite the importance given to performance and theatre, which has also led him to make films (Lancelot, 2004), right from the first years Fabre’s starting point is writing and drawing. He has researched the medium of drawing and developed amongst others a specific work method based on the obsessive and repeated use of the blue Bic ballpoint pen. This method draws inspiration from the “Hour Blue” formulated
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by renowned entomologist Jean-Henri Fabre, to indicate the moment of the passage between night and day, when the nocturnal bugs retire and the daytime insects wake up, when everything blends together and transforms. In this cycle of works from the seventies to the nineties Jan Fabre uses the blue ink of the ballpoint pen to draw on fabric, paper, photographs, objects, walls and even on an entire castle (Tivoli, 1990). In line with the metaphorical dimension intrinsic to the “Hour Blue” concept, Fabre has also devoted himself to drawing with his own bodily liquids, in order to evoke an emptying and therefore inevitable transformation of the self. In 1978, in My body, my blood, my landscape, he drew with his blood to underline the artist’s sacrifice in order to achieve authentic creation. Over the years, he has also drawn with sperm, urine, tears and sweat to allude to the fluid body and its vital and creative energy. Basing himself on studying the animal world, the “Hour Blue” has led him to use some animal species as elements of his images, giving them a symbolic value: the tortoise, for its shell, is the symbol of protection from the outside world and an oracle stone; the owl is instead the graven animal, symbol of wisdom, farsightedness and messenger of death. The true protagonists of Fabre’s artistic universe are nevertheless insects: in particular beetles, and above all the dung beetle. Not having undergone any great variations over the centuries, the scarab can be considered the holder of the most ancient memories of the human history, as well as by tradition the symbol of death and at the same time of metamorphosis. It is no coincidence that the wingcases of the jewel beetle made up the artist’s most impressive permanent installation (Heaven of Delight) which in 2002 covered the whole ceiling of the Hall of Mirrors in the Royal Palace in Brussels, their colours changing continually with the reflection of the light. Throughout his oeuvre, Fabre has tried to visualise reality’s capacity to change, reflecting on the concept of perpetual change, and the overlap between life and death, man and animal, light and shade, dream and nightmare, beauty and ugliness. His works always stage the moment when a change in reality takes place: Fabre changes the visible through different media (sheets, canvases, objects, bodies, but also public spaces such as the Musée de la Chasse et de la Nature in Paris - La Nuit de Diane, 2007 – and the Antwerp ZOO – A tribute to Mieke, the tortoise and A tribute to Janneke, the tortoise, 2012). Like an alchemist, he thus transforms everything he touches, making it lose its material aspect, by empathy prompting a change in the mind of the spectator too. His interest in the brain, considered the most sexy part of the body, stems from here too, and so it becomes the central subject of some exhibitions such as Anthropology of a Planet (Palazzo Benzon, Venice, 2007), From the Cellar to the Attic. From the Feet to the Brain (Kunsthaus, Bregenz, 2008; Arsenale Novissimo, Venice, 2009) and Pietas (Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, Venice, 2011). Other important solo exhibitions in which the artist has confirmed his leading position on the international artistic scene are: Homo Faber (KMSKA, Antwerp, 2006), Hortus/Corpus (Kröller-Müller Museum, Otterlo, 2011) and Stigmata. Actions & Performances 1976-2013 (MAXXI, Rome, 2013; M HKA, Antwerp, 2015). His famous The Hour Blue series (1977-1992) has been shown at the Kunsthistorisches Museum in Vienna (2011), the Musée d’Art Moderne in Saint-Étienne (2012), and the Busan Museum of Art (South Korea, 2013); the series of mosaics entitled Tribute to Belgian Congo and Tribute to Hieronymus Bosch in Congo (2011-2013) have already been exhibited at the Palais des Beaux-Arts in Lille (2013) and the PinchukArtCentre in Kiev (2013).
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Jan Fabre is also the first living contemporary artist to have exhibited at the Louvre (L’ange de la métamorphose, Paris, 2008) and to have been invited to hold a large scale solo show (scheduled for 2016) at the Hermitage Museum in Saint-Petersburg. November 18 2015 the Cathedral of Our Lady in Antwerp officially welcomes Jan Fabre’s bronze sculpture The man who bears the cross (2015). It’s the first time in more than 100 years a work of art is acquired by the Diocese and it will be installed in direct relation with The Descent from the Cross by Peter Paul Rubens (1611-1614). Turin, September 2015
Ilaria Bernardi
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Exhibition catalogues (selection) - Dercon, Chris, et. al., Homo Fabere, Bornem, Cultureel centrum Ter Dilf, 1981 - Brijs, Lief, Jan Fabre / Vrienden, Hasselt, Provinciaal Museum, 1984 - Fabre, Jan, Jan Fabre: Biennale di Venezia: Comunità Fiamminga del Belgio, s.l., Commissariaat-Generaal voor de Internationale Culturele Samenwerking, 1984 - Visser, Tijs, Jan Fabre: Tekeningen, Ghent, Imschoot, 1985 - Fabre, Jan, The Forgery of the Secret Feast, Antwerp, Fabre, 1985 - Bohez, Rom, Veerle Van Durme & Norbert De Dauw, Signaturen, Ghent, Museum voor Hedendaagse Kunst, 1988 - Verschaffel, Bart, Jan Fabre: hé, wat een plezierige zottigheid, Antwerp, Galerie Ronny Van de Velde, 1988 - Coucke, Jo, Jan Fabre: modellen 1977-1985, Otegem, Deweer Art Gallery, 1988 - Coucke, Jo, Jan Fabre: een skulptuur – vijf tekeningen, Otegem, Deweer Art Gallery, 1988 - Bohez, Rom (ed.), Open mind (gesloten circuits), Milan, Fabbri, 1989 - Coucke, Jo, et. al., Tekeningen, Modellen & Objekten. Jan Fabre, Ostend, PMMK, Antwerp, Galerie Ronny Van de Velde & co, 1989 - Christos, Joachimides M. & Norman Rosenthal (ed.), Metropolis. International Art Exhibition Berlin 1991, New York, Rizzoli, 1991 - Hoet, Jan, Irony by vision: René Magritte, Marcel Broodthaers, Panamarenko, Jan Fabre, Tokyo, Watari-Um: Museum of Contemporary Art, 1991 - Stehr, Werner (ed.), Materialien zur Documenta IX: ein Reader für Unterricht und Studium, Stuttgart, Cantz, 1992 - Schneider, Eckhard (red.), Jan Fabre, Hannover, Kunstverein Hannover, 1992 - Coucke, Jo, Jan Fabre: een portret, Otegem, Deweer Art Gallery, 1992 - Fabre, Jan, Het graf van de onbekende computer, Diepenheim, Kunstvereniging Diepenheim, 1994 - De Baere, Bart, Germano Celant et. al., Jan Fabre. Der Leimrutenmann / The Lime Twig Man, Städtische Galerie Stuttgart, Stuttgart, 1995 - Bex, Florent (ed.), Passage, MuHKA – Museum van Hedendaagse Kunst, Antwerp, 1997 - Genichiro, Marugame, Jan Fabre: Angel and Warrior – Strategy and Tactics, Marugame Genichiro-Inokuma Museum of Contemporary Art, Kagawa, 1997 - Fuchs, Rudi & Jan Hoet, La pittura fiamminga e olandese, Milan, Bompiani, 1997 - Coucke, Jo, Een ontmoeting/Vstrecha: a meeting: Jan Fabre & Ilya Kabakov, Otegem, Deweer Art Gallery, 1998 - Hunt, Royden, Jan Fabre: Battlefields & Beekeepers, Otegem, Deweer Art Gallery, 1999 - Visser, Tijs, Jan Fabre: Engel und Krieger: Strategien und Taktiken, Nordhorn, Köttering, 1999 - Celant, Germano, et. al., Umbraculum: a place in the shadow away from the world, to think and work, Otegem, Deweer Art Gallery, 2001 - Hertmans, Stefan, Jan Hoet, et.al., Gaude succurrere vitae, S.M.A.K. – Stedelijk
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Finito di stampare nel settembre duemilaquindici dalla tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera per i tipi de Gli Ori di Pistoia in occasione della mostra Jan Fabre Knight of the Night organizzata dalla Galleria Il Ponte, Firenze