Carol Rama, Trentacinque opere 1942 - 1997

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Carol Rama: la poesia medium per la pittura Bruno Corà

Anche se non ho conosciuto personalmente Carol Rama, ma solo casualmente intravisto in età avanzata e tra altre persone il suo inconfondibile viso, la cui fronte recava la celebre corona dell’ormai argentata treccia di capelli, l’impresa di riflettere sulla sua opera è possibile ma obbliga a confrontarsi con una serie di passaggi che hanno caratterizzato l’arte della seconda metà del XX secolo e fino all’inizio di questo XXI che – dalla rapidità con cui trascorre – sembra anche più ‘breve’ del precedente. Olga Carol Rama infatti è artista che obbliga a prendere in considerazione, nel bene e nel male, il peso del ‘vissuto’ nella formazione dell’opera. Aver incontrato, aver conosciuto e frequentato Carol Rama può, senza dubbio, aver fatto la differenza, nell’impatto con la sua opera, rispetto a chi non abbia avuto questa esperienza. Poiché, certamente, ripeto, la scossa di uno sguardo, d’un gesto, di una frase pronunciata a bruciapelo senza decantazioni o filtri epurativi di ogni tipo ha potuto senz’altro integrare o illuminare una percezione della persona, un suo disegno, un suo dipinto, un suo assemblage, concludendo in modo unico e inconfondibile la forma sensibile delle sue creazioni. Ma adesso che il suo essere “vasto e inesplorato” (Vergine) è fisicamente assente, dissolto nella sparizione lasciandoci solo di fronte alla sua opera, la domanda un tempo sospesa nei suoi confronti “Ma chi è, in verità, Olga Carol Rama” (Vergine) non può che rivolgersi anche all’opera, al netto della sua influente presenza. Ma cosa è, in verità, l’opera di Carol Rama? Questa domanda, che in realtà si potrebbe formulare anche per altri artisti che, mentre si esprimevano mettendo in gioco anche la loro persona – Beuys, Chiari, Gilbert & George, Kantor, Klein, Manzoni, Merz e altri –, influenzavano fortemente la percezione dell’opera, oggi ci obbliga a un lavoro ermeneutico assai più rischioso e insidioso, si potrebbe dire ‘senza rete’, poiché l’opera risulta avvolta da una diversa temperatura, spogliata del riverbero del suo artefice e, se non inerte o più fredda, sicuramente penalizzata da una perdita di epos mitico e anche di aura. Cosa che non avviene, nello stesso grado di orfanità, per altri artisti, dei quali è stato ben definito, da loro stessi, il limite invalicabile tra mitografia personale, identità e opera. Questa pura e semplice considerazione, anziché togliere importanza o senso al repertorio della produzione di un’artista come Rama, invita, al contrario, a osservare e apprezzare il suo lavoro da una diversa distanza critica. È evidente che la frequentazione assidua con Rama di Edoardo Sanguineti o Massimo Mila o Albino Galvano o Corrado Levi o Lea Vergine, o Paolo Fossati o Marco Vallora o altri, ha fornito


al loro pensiero e alla loro penna straordinarie motivazioni ed esperienze che non potranno appartenere mai a chiunque non ne abbia condiviso giorni, occasioni o perfino anni di vita. A un più articolato novero di altre problematiche, il lavoro e la vita di Carol Rama rimettono al centro di una riflessione su di esse anche l’importante ma controverso carattere dell’ “arte al femminile”, della valenza indiscutibilmente efficace delle relazioni interpersonali ai fini di difesa e sostegno dell’opera, della fede e costanza irriducibile nella propria vocazione artistica e perfino del mutare ciclico dello Zeitgeist nella vita longeva di un artista il cui lavoro, ignorato o quasi in uno scorcio d’epoca, nel successivo può divenire emblematico o perfino esemplare. Affronterò questi punti, nel tentativo tutt’altro che semplice di cercare di assegnare oggi all’opera di questa artista un’appartenenza ideale, se non per fini classificatori, almeno dal punto di vista poetico. Se si dovesse, infatti, elaborare un’analisi del suo linguaggio invero mutevole (non diversamente da taluni altri), anche a partire dal repertorio di opere esposte in questa occasione presso la galleria Il Ponte di Andrea Alibrandi a Firenze, come già è apparso evidente ad altri prima di questa mia disamina, si deve prendere atto che la produzione di Carol Rama ha attraversato negli anni di esordio 1930-40 le modalità di un espressionismo istintivo, e successivamente le modalità del concretismo torinese, per poi, negli anni Cinquanta, aderire all’Informale e in seguito, a un certo “tachisme” sfociato nel bricolage (Sanguineti) e in un materismo al confine con il poverismo, per tornare da ultimo a un neo-espressionismo di tipo transavanguardista. Se questo inquieto attraversamento di modalità linguistiche così diverse non fosse accompagnato da una vitalità genuina, risolutiva di drammi personali, di difficili cambiamenti di condizione umana o dell’ambiente che l’ha circondata, da autentiche ossessioni e passioni, si potrebbe pensare di trovarsi al cospetto di una personalità artistica incline all’eclettismo, ma non sembra che sia così. Una più radicale ragione esistenziale e poetica ha guidato i suoi rischiosi e talvolta drammatici passi d’artista e di donna nel ‘mettersi in salvo’, incurante delle attribuzioni che avrebbero investito la sua opera, ma con la determinazione invece che è appartenuta alla generazione che avrebbe affermato l’azione e la coscienza femminista e che avrebbe compiuto il più importante passo storico verso l’affrancamento della propria vocazione creativa in seno alla società del tardo capitalismo e verso il globalismo, negli ultimi trent’anni del secolo scorso. Artiste come Georgia O’Keeffe, Louise Nevelson, Louise Bourgeois, Meret Oppenheim, Carla Accardi, Maria Lassnig e Carol Rama, per fare solo alcuni nomi, con o senza militanza diretta nei grandi movimenti del femminismo europeo e internazionale, hanno rappresentato l’identità creatrice della donna rendendosi di fatto punte emblematiche dei processi trasformativi del costume e della cultura, in ogni latitudine. Nel presentare alcuni disegni realizzati da Carol Rama tra il 1937 e il 1941 e alcune opere del biennio 1978-79 presso la Galleria Martano a Torino, nel 1979, Albino Galvano, primo esegeta dell’artista, riassumendo i drammi, i turbamenti, le paure, le ribellioni, le derive e le difficoltà del cammino


di Carol Rama, scrive: «Certo un’infanzia e una adolescenza segnata da incomprensioni […] sin d’allora, impatti dall’esterno e pressioni istintive si facevano subito immagine, si esternavano in sigle che ne esteriorizzavano ed esorcizzavano i poteri disgregatori. Perché l’importante non è d’essere arroncigliata dai demoni – continua Galvano – ma di impedire che l’aggressione diventi spartizione e distruzione. Ci si salva, almeno sul piano intellettuale e sociale, se il centro resiste. Ed il centro resiste solo se si fa lavoro, aggancio al concreto della materia, il foglio su cui si scrive o si disegna, la pietra che si scolpisce, l’organizzazione cui ci si dedica. Per Carol furono fogli, matite, acquarelli, fu l’ambizione di affermarsi, ad arginare le forze centrifughe, le tensioni dispersive».1 Dicevo che non si può ritenere eclettico il percorso di Carol Rama e allora si deve individuare l’aspetto distintivo delle pulsioni motrici del suo agire. Qualcuno che l’ha frequentata e ha scambiato esperienze di lavoro con lei avrebbe perfino auspicato che si dovesse fare luce piuttosto che sul rapporto vitaambiente-arte, e dunque sul ‘vissuto’, semmai sulla pura valenza dell’elaborazione linguistica dell’opera di volta in volta seguita da Rama. E credo che l’aspettativa sia giusta e debba essere soddisfatta. Risulta, infatti, che Rama avesse una straordinaria capacità di attrarre a sé, interessandole al proprio lavoro, teste ‘pensanti’ straordinarie e persone influenti a ogni livello del sociale. E non è difficile constatare quanto ciò sia vero. Ma può bastare questa facoltà per affermare il lavoro di un artista? In parte, indubbiamente, poiché tale capacità ha pur il suo valore e il suo peso. Ma proprio in considerazione della qualità dei suoi interlocutori ed estimatori si deve convenire che costoro si sono appassionati a quanto di meglio e più profondo la sua arte ha dato e ancora oggi rappresenta. Riassumerlo in breve non è facile né possibile, soprattutto dopo le numerose intense e autorevoli letture compiute sinora (Galvano, Sanguineti, Mila, Levi, Vergine, Fossati, Briganti, Manganelli, Vallora). Ma proviamoci. Ciò che si evidenzia in Rama, allora, è che, superati gli anni dell’adolescenza, l’interesse per la poesia abbia costituito un’ancora di salvezza e un potente stimolo induttivo alla sintesi, all’osservazione minuta e individuale di ogni cosa, ogni sentimento, ogni dettaglio della vita quotidiana. Aggrapparsi alla poesia come strumento guida che pone le domande essenziali ed esige la nudità semplice del vero nella realtà. Interrogata da Lea Vergine sulle sue letture, infatti, Rama afferma: «Solo le poesie […] mi permettono di fissare l’attenzione su sette o otto parole, alzarmi e andare a lavorare e poi riprendere e così via».2 La poesia inoltre attinge nel pozzo della memoria che per Rama è un altro giacimento da cui estrarre oggetti, situazioni, affetti, ricordi graditi e spiacevoli, ma anche ossessioni e incubi, soprattutto desideri da rendere reali e da appagare. Dal punto di vista del desiderio, la parabola di Rama mi ricorda quella di un poeta come Sandro Penna, sconcertante per quanto innocente e dirompente in senso lirico. Se si assume questo denominatore comune come filo rosso per ‘leggere’ la sua variegata adesione a tensioni linguistiche assai diverse, molte sue elaborazioni e scelte si rivelano del tutto comprensibili. Ciò a partire proprio da quanto aveva colto Galvano a proposito del sodalizio sopravvenuto negli anni tra il 1950 e il 1960 con Edoardo Sanguineti, dopo quello precedente esistito con lui stesso.


Scrive infatti Galvano: «Ora è Sanguineti appunto a puntualizzare il significato delle cose più recenti di Carol Rama. Non è un caso e non è un fatto di cronaca locale torinese. Era giusto che la pittrice che, in mezzo alle riserve e alle avare approvazioni […] era andata avanti con accanita sofferenza […] fosse intesa dalla individualità più qualificata della generazione nuova, trovasse il topografo delle sue tormentate tortuosità di intimo scavo, nel poeta labirintico e laborintico […]. Ma, se ha un significato – seguita Galvano – il persistere di un itinerario nel gioco delle vicende e delle mutazioni, dovremo riconoscere l’incontro tra Carol Rama e Edoardo Sanguineti come una precisa indicazione sul senso dell’attuale situazione della cultura».3 Se l’osservazione-intuizione di Galvano è puntuale – come credo – e se si presta l’ascolto anche a quanto dichiara in più circostanze Rama stessa: «L’ho conosciuto nel ‘46 e da allora non ci siamo più persi di vista. Devo molto alla sua stima», non sarà vano tener conto sia della produzione poetica di Sanguineti, segnatamente dal punto di vista dell’elaborazione delle sue frasi poetiche, della costruzione dei suoi versi, della modalità associativa delle sue proposizioni, della sua “geometrica visceralità” (Fagiolo dell’Arco), così come del lavoro critico da lui svolto nell’opera di Rama. Aver presente questa attività ultima quando interpreta le ‘macchie’ di Rama abitate da oggetti come esemplare azione di bricolage non è da considerarsi più significativo di quanto lo sia la struttura di un suo componimento poetico, sensibilmente analogo per regole e modi a quelli seguiti da Carol Rama nel ‘gioco’ senza soluzione della sua mutevole pittura che – come ha acutamente rilevato ancora Maurizio Fagiolo – «se aveva una regola era quella di non averne nessuna».4 Il sodalizio con Sanguineti, più di quello con altri, fornisce dunque una possibile chiave nella formazione della produzione linguistica di Rama, almeno dal momento del loro incontro. Ma si potrebbe supporre anche il contrario? Non lo escluderei, anche se al problema bisognerebbe dedicare un serio lavoro e un tempo che non è quello a disposizione in questa circostanza. Prima del 1950, la pittura di Rama riflette turbamenti, angosce, ma anche desideri e fantasie erotiche ritenute licenziose ancorché non prive del pathos e dell’inquietudine giovanile. Negli anni Cinquanta, invece, la Rama segue «gli sviluppi di ricerca in direzione informale del gruppo di artisti della generazione di mezzo di estrazione concretista: Galvano, Scroppo, Parisot, Levi Montalcini, Davico. La scelta di questi artisti di avvicinarsi al MAC […] era stata un tentativo di soluzione chiara e coerente per uscire dalla confusione degli espressionismi e dei postcubismi degli anni del dopoguerra […] Anche la pittura di Carol Rama è lontana da schemi astratti rigidi, privilegiando piuttosto una dimensione fantastica individuale, che lascia spazio a un’estrosità d’invenzione anche all’interno di tramature liberamente geometriche...».5 Rama mostra di comprendere – pur nel percorso che la distingue – l’importanza di essere partecipe delle vicende e dei movimenti del suo ambiente artistico torinese, scongiurando in tal modo il suo possibile isolamento.


La mostra presso Il Ponte a Firenze Se, nella mostra di Firenze, degli anni Quaranta sono presenti disegni a matita come Senza titolo, 1942 e Senza titolo, 1944, di suggestiva impronta espressionista, e tecniche miste o stampe come Senza titolo, 1944 acquaforte ascrivibile al ciclo delle “Parche”, decisamente espressionista e di rilevante immediatezza e affabulazione allucinata sul piano figurale, ma anche empiricamente risolte sul piano tecnico, degli anni Cinquanta sono presenti ben tre esempi di quella spazialità geometrica immediatamente distintiva dell’adesione di Rama al MAC torinese: il Senza titolo, 1951, olio su tela con le forme quadrilatere munite di appendici lineari recanti una partizione cromatica evocante semplici campiture araldiche, disposte a configurare una spazialità curva disorientante; la Composizione n. 1, 1954, olio su tela dalla scansione spaziale a base di monocromie verticali difformi blu, nero e zone più chiare puntualizzate da motivi quadrilateri a delimitare le zone monocromatiche; e infine il Senza titolo, 1954, tempera su carta, matrice originale per un’opera litografica edita dalla Librogalleria Salto di Milano, sede del MAC lombardo. Le morfologie disegnate di questa tempera rivelano l’attitudine frequente in quel periodo nelle composizioni di Rama di congiungere tra loro con una appendice lineare le forme stesse. Il nucleo più cospicuo di opere di Rama esposte a Firenze, se si eccettua una “macchia” Senza titolo, 1964, definita da Sanguineti bricolage, è tuttavia quello compreso nella decade degli anni Settanta ove si riconoscono le tecniche miste a base di collages e gomme, di gomme e pastelli o oli su tela, di tecniche miste o di gomme su capote e di collages a base di gomma di pneumatici su vari supporti. È un repertorio articolato e spesso sorprendente, mai esuberante come negli anni giovanili, ma piuttosto prudente. Vi si distinguono Spazio anche più che tempo, 1971, definito da gomme e olio su tela, Luogo e segni, 1974, tecnica mista su tela da capote, il Senza titolo, 1976, camera d’aria, pneumatico e gomma su tela da capote e infine Senza titolo, 1976 tecnica mista, collage e gomma su carta. Con il dittico Senza titolo, 1978 a base di cuoio e camere d’aria su tela da capote si rende plausibile riferire l’insieme di questi lavori, pur con diversa immaginazione, idea di spazio, impaginazione e perfino materie, all’esperienza di libertà conquistata da Burri e divenuta territorio praticabile per ogni altro artista. «Col che – scrive Fossati – abbiamo esattamente percorso un buon tratto di pittura dal dopoguerra […] in compagnia di una scatenata Carol Rama, scatenata a far da sé e a sovvertire le gerarchie di ognuno dei tratti di arte contemporanea in questione, astrattismo più o meno concretista, informale, oggettualismi pop, ecc. (senza scordare in ogni caso i sacchi di un Burri)».6 Nell’ultimo nucleo di lavori in mostra a Il Ponte – siamo a volo d’uccello tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta – Rama si rituffa o quasi nel suo originario mondo degli esordi, ma con diverso immaginario e, ritengo, con minore innocenza, maggiore capacità di amministrare le proprie ossessioni, ormai più controllabili per un dato anagrafico e di consumata autoanalisi. Nei


disegni si ridà spazio ai corpi nudi, alle scarpe-feticcio e ad altri fantasmi probabilmente mai sopiti o, al contrario, a cui si può ricorrere infine in modo quasi automatico e familiare. Sono opere su carta da parati o su carte già munite di disegni prestampati, prassi comune anche ad Arnulf Rainer, ma anche disegni di estrema semplicità e linearità, come quelli appartenenti alla serie degli “Idilli” dell’anno 1993 e seguenti. A leggere i versi del componimento poetico di Sanguineti “Politecnico” del novembre 1983 (ma anche da altri) si potrebbe dire che è Sanguineti a ricavare i suoi versi dai disegni, dalle tecniche miste o dal bricolage di Carol Rama, completando in tal modo l’affermazione già espressa per Rama, secondo cui in entrambi la pulsione generativa della loro arte è la poesia; scrive Sanguineti: «Con la pancarte “leçon de vol”, cancello Archivi vivi di soffitte fitte, Rotolo in mappe, a tappe, utile uccello: Onde di sponde tonde, in ronde, ritte, Legano lingue: tronco, ad arte, gli arti, Rovesciato fiorito, in arie fritte: Ahi le scarpe, e gli spacchi, e i tacchi, e i parti Morti, e i quartieri, e i cimiteri ...».7 Entrambi, Rama e il cantore dei suoi lucidi deliri, disposti a essere travolti dai flussi alluvionali delle catastrofi immaginarie e linguistiche del secolo XX, sedotti e inebriati dalla libertà dell’arte che autorizza ogni infrazione di qualsivoglia regola ma esigendone di nuove. Per Carol Rama la salvezza è derivata dall’aver posto in quel centro cui ci si dedica, se si ha l’ambizione di affermarsi, la poesia e la ‘gentilezza’ innata, che le hanno garantito un’anarchia immaginaria sostenuta dall’alfieriano motto “Volli, sempre volli, fortissimamente volli”.

1. Albino Galvano, in catalogo Carol Rama. 12 opere 1937/1941. 7 opere 1978/79, Galleria Martano, Torino 1979; ripubblicato in Carol Rama, a cura di Paolo Fossati, catalogo mostra Circolo degli Artisti, 7 marzo - 23 aprile 1989, Umberto Allemandi & C., Torino, pp. 99-102. 2. Carol Rama, L’angoscia è un trip, colloquio con Lea Vergine, “Vogue Italia”, 8 ottobre 1983. 3. Albino Galvano, Prefazione per Carol, in Carol Rama, catalogo mostra Galleria Stampatori, Torino 1964; ripubblicato in Carol Rama, a cura di Paolo Fossati, cit., p. 94. 4. Maurizio Fagiolo dell’Arco, Carol Rama, catalogo mostra Galleria LP220, Torino, maggio 1975; ripubblicato in Carol Rama, catalogo mostra Sagrato del Duomo, Milano, 29 maggio - 28 luglio 1985, ed. Mazzotta, Milano, pp. 61-62. 5. Francesco Poli, “Gli anni dell’informale a Torino”, in L’informale in Italia, catalogo mostra a cura di Renato Barilli e Franco Solmi. Comune di Bologna - Galleria d’arte moderna, Bologna, giugno-settembre 1983, Nuove Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano 1983, pp. 61-62. 6. Paolo Fossati, “Piccolo omaggio a Carol Rama”, in Carola Rama, a cura di P. Fossati, cit., p. 20. 7. Edoardo Sanguineti, “Politecnico”, in Carol Rama - Opere 1983, catalogo Galleria Giancarlo Salzano, Torino, dicembre 1983 - febbraio 1984, p.s.n.


Carol Rama: poetry as a medium for painting Bruno Corà

Although I did not know Carol Rama personally – I just caught a casual glimpse of her unmistakeable face in her old age, in a group of people, her forehead crowned by the famous, then silvery plait of hair – it is still possible to reflect on her work. However, it is quite an undertaking, one which obliges you to dwell on the series of passages that took art through the second half of the twentieth century up to the beginning of the twenty-first, a century which is passing by so quickly that it seems even ‘shorter’ than the last. Olga Carol Rama is indeed an artist who, for better or for worse, obliges you to consider the significance of ‘experience’ in the formation of an oeuvre. There is no doubt that having met, known and frequented Carol Rama, or not, can make a difference in the impact that her work has on you. Of course, the jolt given by a gaze, a gesture, a sentence uttered point-blank, no holds barred, with no purifying filters of any kind, could add to or cast light on your perception of her person, her drawings, paintings or assemblages, enabling you to draw a unique and unmistakable conclusion on the sensibility of her creations. But now that her “vast and unexplored” being (Vergine) is physically absent, now that she has dissolved, disappeared, leaving us alone before her work, without her influential presence the question “But who is Olga Carol Rama really?” (Vergine) once proffered to her has to be addressed to her work too. But what is Carol Rama’s work really? The hermeneutic work required by this question, which in reality could also be asked of other artists – Beuys, Chiari, Gilbert & George, Kantor, Klein, Manzoni, Merz and others – who expressed themselves by also exposing their persona, thereby strongly influencing the perception of their work, is now a much more risky and insidious affair. One might say that we are working ‘offline’, since the temperature surrounding her oeuvre is different now, stripped of the reflections from its maker, and, even if it is not inert or colder, it is definitely penalized by a loss of epic myth and aura. And the same cannot be said, at least not to the same degree, for other artists when they leave their life’s work orphaned, as they themselves clearly defined the unbreachable limit between personal mythography, identity and work. Instead of taking away importance or sense from the repertoire of an artist like Rama, this pure and simple consideration on the contrary invites you to observe and appreciate her work from a different critical distance. It goes without saying that Edoardo Sanguineti or Massimo Mila or Albino Galvano or Corrado Levi or Lea Vergine, or Paolo Fossati or Marco Vallora or others’ assiduous frequentation of Rama


lent their thought and pens extraordinary motives and experiences that could never belong to anyone who had not shared days, occasions or even years of their lives with her. The work and life of Carol Rama put the importance as well as the controversy of a series of matters at the centre of reflection on a vaster set of other issues. These include: women’s art; the unquestionable efficacy of interpersonal relations in the defence and support of art; the unerring faith and constancy in an artistic vocation; and even the cyclical changes in Zeitgeist in the long life of an artist whose work was more or less ignored in one era, to become emblematic, exemplary even, in the next. I will deal with these points in the anything but simple attempt to try to place this artist’s work in an ideal category, not so much to classify it, but to seek for it a poetic belonging at least. Indeed, to make an analysis of Carol Rama’s truly variable language (in which she is not alone and which also reflected in the repertoire of works on display in this occasion at Andrea Alibrandi’s galleria Il Ponte in Florence), as has already been evident to others before me, one has to consider the succession of artistic currents in that time. From her debut in the 1930s and 40s, her production went through a phase of instinctive Expressionism, and thereafter Turinese Concretism to then subscribe to the Informel movement in the 1950s. After that, she followed a certain “Tachisme” which resulted in her bricolages (Sanguineti) and a Materialism bordering on Arte Povera, before finally returning to a trans-avantgarde Neo-expressionism. Were this restless crossing of such diverse linguistic modes not accompanied by a genuine vitality, resolving personal dramas as well as difficult changes in the human condition or in the environment that surrounded her, and by authentic obsessions and passions, one might think that we were in the presence of an artistic personality inclined towards eclecticism. However, it seems that this is not the case. It was a more radical existential and poetic reason that led to the risky and at times dramatic steps she took as an artist and a woman to ‘save herself’. She did not care about the attributions that would hit her work, but forged ahead with the determination of a generation that within a late capitalist society that was heading towards globalism, in the last 30 years of the past century would assert feminist action and consciousness and that would fulfil the most important historical step towards freeing women’s creative vocation. Women artists like Georgia O’Keeffe, Louise Nevelson, Louise Bourgeois, Meret Oppenheim, Carla Accardi, Maria Lassnig and Carol Rama, to name just a few, whether directly militant in the big movements of European and international feminism or not, represented women’s creative identity. And so they became emblematic points in the processes transforming customs and culture at all latitudes. In his presentation of some drawings made by Carol Rama between 1937 and 1941 and some works from the period 1978-79 at Galleria Martano in Turin in 1979, Albino Galvano, the artist’s first fan, sums up the dramas, the turmoil, the fears, the rebellions, the straying and the difficulties of Carol


Rama’s life: “Of course [after] a childhood and teenage years marked by incomprehension […] from then on, impacts from the outside and instinctive pressures immediately became images, they manifested themselves in a style that externalized and exorcised their powers of disintegration. Because the important thing is not being twisted by the demons,” continues Galvano, “but preventing the aggression from becoming division and destruction. We can be saved, at least on the intellectual and social level, if the centre resists. And the centre only resists if we work, hang onto the concreteness of the matter, the sheet we write or draw on, the stone we sculpt, the organization we dedicate ourselves to. For Carol it was sheets, pencils, watercolours, it was the ambition to make a name for herself, to stem the centrifugal forces, the dispersive tensions”.1 I was saying that Carol Rama’s career cannot be deemed eclectic and so we need to identify what sets the instincts driving her action apart. Someone who frequented her and exchanged work experiences with her might even hope that rather than on the relationship between her life, environment and art, and therefore her ‘life experience’, light would be cast on the pure significance of the language that Rama adopted in each work. And I think that they are right and this expectation should be met. Indeed, it appears that Rama had an extraordinary capacity to attract extraordinary “thinking” heads and influential people at all levels of society, and to interest them in her work. And it is not difficult to see how true that is. But is this ability enough to affirm an artist’s work? Without doubt it is in part, since this capacity has its own value and significance. But owing to the quality of her contacts and admirers, it has to be agreed that they fell in love with the best and most profound message that her art gave and still represents today. It is neither easy nor possible to sum up her work in brief, above all after the numerous intense and authoritative interpretations given to it hitherto (Galvano, Sanguineti, Mila, Levi, Vergine, Fossati, Briganti, Manganelli, Vallora). But I will try. So, what stands out in Rama is that, after her teenage years, her interest in poetry formed a lifeline and a powerful stimulus that led her to sum up, and to make a meticulous and individual observation of every thing, every feeling, every detail of daily life. She grasped poetry as a guiding tool which asked essential questions and demanded the simple naked truth of reality. Indeed, as Rama asserted when questioned by Lea Vergine about her reading: “Only poems […] allow me to fix my attention on seven or eight words, to get up and go to work and then start again, and so on and so forth”.2 Furthermore, poetry draws from the well of memory, which for Rama is another store from which objects, situations, affections, pleasant and unpleasant memories can be extracted, as well as obsessions and nightmares, and above all desires to make real and satisfy. In terms of desire, Rama’s parable reminds me of that of a poet like Sandro Penna: disturbing in its innocence and explosive in the lyrical sense. If this common denominator is taken as the red thread to follow to ‘read’ her varied adherence to quite different linguistic currents, many of her elaborations and choices prove to be totally


comprehensible. For example, this can be seen in Galvano’s intuition concerning the friendship which developed between the 1950s and 1960s with Edoardo Sanguineti, after the previous friendship with Galvano himself. As Galvano writes: “Now it is Sanguineti who is clarifying the meaning of Carol Rama’s most recent things. It’s no coincidence and it’s no local Turin news story. It was right that the painter who, in the midst of all the reservations and mean approvals […], had doggedly carried on […], was understood by the most highly qualified of the new generation, and had the labyrinthine poet of the Laborintus map her tormented and twisted inner delving […]. But,” Galvano continues, “if there is meaning in persisting along a certain road in the game of events and flux, we must acknowledge that the meeting between Carol Rama and Edoardo Sanguineti is a precise indication of the sense of the current situation of culture.”3 If Galvano’s observation/intuition is right – as I believe it is – and if we listen to what Rama herself declares in several circumstances: “I met him in 1946 and since then we’ve never lost sight of each other. I owe a lot to his regard for me”, there will be some point in taking account both of Sanguineti’s poetic production, in particular in terms of how he drafts his poetic phrases, constructs his verses, associates his propositions, his “geometrical viscerality” (Fagiolo dell’Arco), and of the critical work he performs in Rama’s artwork. If we are to bear in mind this last activity, his interpretation of Rama’s object-inhabited “stains” as an exemplary action of bricolage is not to be considered more significant than the structure of one of his poetic compositions. Indeed, the rules and modes he uses are significantly similar to those followed by Carol Rama in the never-ending ‘game’ of her changing painting in which, as Maurizio Fagiolo again sharply observed, “if she had a rule, it was that there were none”.4 More than her friendship with others, her bond with Sanguineti therefore provides a possible key to the formation of the languages of Rama’s production, at least from the moment they met. But might one also suppose the contrary? I would not rule it out, even though the matter would require serious work and an amount of time which we do not have on this occasion. Before 1950, Rama’s painting reflects turmoil, anguish, but also desire and erotic fantasy which, while deemed licentious, is not without a youthful pathos and restlessness. Instead, in the 1950s, Rama followed “the developments in the direction of Art Informel in the research of the group of middlegeneration artists of Concretist extraction: Galvano, Scroppo, Parisot, Levi Montalcini and Davico. These artists’ choice to approach the MAC […] had been an attempt to find a clear and coherent solution and leave behind the confusion of the post-war currents of Expressionism and post-Cubism […] Carol Rama’s painting is also a long way off rigid abstract models, instead preferring a fantastic individual dimension which leaves room for ingenious invention even within freely geometrical patterns...”.5 Rama shows that, albeit within a freestanding career, she understands the importance of taking part in the events and movements of her artistic circle in Turin. Hence, she staves off possible isolation.


The exhibition at Il Ponte gallery in Florence The exhibition in Florence contains a wide range of works starting with pencil drawings such as Senza titolo, 1942 and Senza titolo, 1944, with their evocative Expressionist stamp, and mixed techniques or prints such as the very much Expressionist Senza titolo, 1944 etching, part of the “Parche” series of works, whose figures tell a hallucinatory story with both great immediacy, but also great empirical resolve at the technical level. On display from the 1950s are no fewer than three examples of the immediately distinctive geometric spatiality resulting from Rama’s adherence to the MAC current in Turin: Senza titolo, 1951, oil on canvas, whose quadrilateral shapes bear linear appendices and simple blocks of colour reminiscent of heraldry, spaced out in disorientating curves; Composizione n. 1, 1954, oil on canvas, in which the space is divided up into uneven vertical strips of blue, black and lighter areas, with a scattering of quadrilateral motifs on the edges of the monochrome areas; and lastly Senza titolo, 1954, tempera on paper, the original pattern for a lithographic work published by Librogalleria Salto in Milan, the headquarters of the Lombard MAC. The morphologies drawn by this tempera reveal Rama’s frequent habit in that period of combining the shapes in her compositions with a linear appendage. Excepting a “stain” (Senza titolo, 1964) defined by Sanguineti as bricolage, the most notable set of Rama’s works on display in Florence nevertheless date from the 1970s. Here we can recognize mixed techniques based on collages and rubber, rubber and pastels, or oil on canvas, mixed techniques or rubber on capote canvas and collages based on tyre rubber on various backgrounds. It is a complex and often surprising repertoire, never exuberant like in her youth, but quite prudent. Standing out are Spazio anche più che tempo, 1971, defined by rubber and oil on canvas, Luogo e segni, 1974, mixed technique on capote canvas, Senza titolo, 1976, inner tube, tyre and rubber on capote canvas, and lastly Senza titolo, 1976, mixed technique, collage and rubber on paper. With the diptych Senza titolo, 1978, based on leather and inner tubes on capote canvas, despite their different conception, idea of space, layout and even materials, it becomes plausible to refer this set of works to the freedom conquered by Burri, which had become practicable terrain for all other artists. “With this,” writes Fossati, “we have followed the exact path of a good stretch of painting from the post-war period […] in the company of a frenzied Carol Rama, so frenzied as to make her own and overturn the hierarchies of each of the currents of contemporary art in question, namely, more or less Concrete or Informel Abstract art, Pop Objectualism, etc. (in any case, without forgetting a certain Burri’s sacks) ...”.6 In the last set of works on display at Il Ponte gallery – on a course from the end of the 1970s to the 1990s – Rama (almost) dives back into the original world of her debut, but with a different set of images and, I believe, with less innocence and a greater ability to control her obsessions owing to her age and past self-analysis. She again gives her drawings over to naked bodies, shoe fetishes


and other likely never buried phantoms, or, on the contrary, phantoms which she can return to at last in an almost automatic and familiar manner. They are works on wallpaper or on paper with pre-printed designs, a practice also shared by Arnulf Rainer, but also extremely simple and linear drawings, such as those belonging to the “Idilli” series from 1993 onwards. On reading the verses of the Polytechnic poem composed by Sanguineti in November 1983 (but from others too) it might be said that it is Sanguineti who obtains his verses from Carol Rama’s drawings, mixed techniques and bricolages. And so, the assertion already expressed by Rama that the force generating their art is poetry comes the full circle. Sanguineti writes: Clutching the placard “leçon de vol”, I erase Alive archives of packed attics, I Roll in charts, by phases, useful bird: Ondules of round shores, circuitous, erect, Link tongues: deliberately I lop limbs, Resupine, blooming, in hot airs: Ah the shoes, and the slits, and the heels, and the dead Motherings, and the districts and the graves....7 Both Rama and the chanteur of her clear-headed delirium are willing to be overcome by the floods of the twentieth century’s imaginary and linguistic catastrophes, seduced and drunk on the freedom of art that allowed all the rules to be broken but demanded new ones. Carol Rama’s salvation came from having placed at the centre of her striving and ambition the poetry and innate ‘elegance’ which ensured her an imaginary anarchy supported by the motto of Alfieri “I wanted, I always wanted, I wanted so intensely”.

1. Albino Galvano, in the catalogue Carol Rama. 12 opere 1937/1941. 7 opere 1978/79, Galleria Martano, Turin 1979; republished in Carol Rama, edited by Paolo Fossati, exhibition catalogue Circolo degli Artisti, 7 March – 23 April 1989, Umberto Allemandi & C., Turin, pp. 99-102, own translation. 2. Carol Rama, L’angoscia è un trip, interview with Lea Vergine, “Vogue Italia”, 8 October 1983, own translation. 3. Albino Galvano, “Prefazione per Carol”, in Carol Rama, exhibition catalogue Galleria Stampatori, Turin 1964; republished in Fossati, ed., Carol Rama, p. 94, own translation. 4. Maurizio Fagiolo dell’Arco, Carol Rama, exhibition catalogue Galleria LP220, Turin, May 1975; republished in Carol Rama, exhibition catalogue Sagrato del Duomo, Milan, 29 May – 28 July 1985, Mazzotta, Milan, pp. 61-62, own translation. 5. Francesco Poli, “Gli anni dell’informale a Torino”, in L’informale in Italia, exhibition catalogue edited by Renato Barilli and Franco Solmi. Comune di Bologna - Galleria d’arte moderna, Bologna, June-September 1983, Nuove Edizioni Gabriele Mazzotta, Milan 1983, pp. 61-62, own translation. 6. Paolo Fossati, “Piccolo omaggio a Carol Rama”, in Fossati, ed., Carol Rama, p. 20, own translation. 7. Edoardo Sanguineti, “Polytechnic” in Edoardo Sanguineti. Carol Rama, Luigina Tozzato and Claudio Zambianchi eds, Franco Masoero, Turin, 2002, originally published as “Politecnico” in Carol Rama – Opere 1983, catalogue Galleria Giancarlo Salzano, Turin, December 1983 – February 1984.


Carol Rama e il rifiuto che si trasforma in desiderio Ilaria Bernardi

Sebbene il critico d’arte Paolo Fossati asserisse che Carol Rama “s’iscrive nel Novecento da regina”, il primo riconoscimento pubblico dell’operato dell’artista è arrivato solo nel 2003 con l’attribuzione del Leone d’oro alla Biennale di Venezia, seguita nel 2010 dal conferimento del premio alla carriera da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano su invito della romana Accademia di San Luca. Successivamente, soprattutto in anni recenti, grazie a numerose mostre e pubblicazioni nonché all’ampia e importante attività svolta dall’Archivio a lei dedicato, Carol Rama è ormai molto conosciuta sia in Italia sia all’estero, ma in verità il suo lavoro rimane ancora oggi non troppo diffusamente e approfonditamente indagato come invece meriterebbe. A mio avviso, una delle ragioni risiede nella da sempre esistita tendenza ad accentrare l’attenzione sulla sua personalità eccentrica e sugli aneddoti legati alla sua vita piuttosto che sul suo lavoro. Il suicidio del padre causato dal fallimento della sua fabbrica, il conseguente ricovero della madre in un ospedale psichiatrico, la demenza della nonna, il laboratorio di protesi dello zio, le frequentazioni con Felice Casorati, Andy Warhol, Man Ray, la censura della prima mostra nel 1945 e numerosi altri aneddoti, veri o inventati, hanno da sempre magnetizzato l’interesse della critica distogliendolo però dalle opere, che invece sarebbe necessario analizzare come frutto non tanto di una donna con il proprio vissuto, quanto di una pittrice capace di mantenere una costante originalità all’interno di una molteplicità di linguaggio. Come scrisse Albino Galvano nel 1964, “Carol Rama non ebbe la vita facile. Faceva troppo comodo a tutti considerarla come una donna intelligente e avvincente, come una perfetta e ardita padrona di casa, come modello di stile femminile audace e aggiornato e ‘anche’ come pittrice interessante”. Ciò che in queste pagine ci si propone pertanto di portare a sviluppo è un’analisi focalizzata esclusivamente sulle opere di Carol Rama, cercando di indagarne i significati e di contestualizzarle nel periodo storico-artistico durante il quale sono state concepite. Solo così facendo la reale valenza della sua eccentricità può essere portata alla luce. Un’eccentricità che, a mio avviso, non risiede tanto nella ormai nota attitudine caratteriale dell’artista né nella sua vita privata, quanto nell’aver prediletto ciò che risiede ‘fuori dal centro’ (“eccentrico” deriva infatti dal latino ex-centrum), ovvero lo scarto inteso come materiale di riuso ma soprattutto come sezione isolata di un corpo. In altri termini, è nel concetto psicoanalitico di feticcio, come simbolo di qualcosa di assente o perduto, di lasciato fuori scena e dunque ‘fuori dal centro’, che risiede la grande e impareggiabile eccentricità di Carol Rama.



In psicoanalisi il termine feticcio si riferisce a oggetti che, attraverso meccanismi di simbolizzazione, assumono valenze sessuali quali sostituti dell’oggetto d’amore mancante o di cui si è privati. È Sigmund Freud ad aver per la prima volta connesso il feticcio alla paura della castrazione che si manifesta durante la prima infanzia, quando il bambino maschio scopre che la donna non possiede il pene e, divenuto consapevole di quella assenza nonché della possibilità di perderlo, inizia a compensarlo con oggetti inanimati ai quali attribuisce un significato erotico al fine di rendere concretamente presente l’elemento potenzialmente mancante ma essenziale per la sua vita. “Le cose, dunque, sono andate così”, scrive Freud: “il maschietto si è rifiutato di prendere cognizione di un dato della propria percezione, quello attestante che la donna non possiede il pene. No, questa cosa non può essere vera giacché, se la donna è evirata, vuol dire che egli stesso è minacciato nel proprio possesso del pene”; pertanto il feticcio “è il segno di una vittoria trionfante contro la minaccia di evirazione e una protezione contro quella minaccia” (S. Freud, Feticismo, 1927); il lutto dell’assenza e della perdita si trasforma così in fonte di ‘piacere erotomaniaco’. Il feticcio è dunque l’oggetto della rimozione: vi si proietta un vissuto minaccioso o eccessivamente idealizzato e temuto; rappresenta in forma concreta, visibile, palpabile qualcosa di immateriabile e inattingibile, ma con un potere intrinseco, quasi catartico. In tutte le opere di Carol Rama, i corpi nudi, maschili e femminili, sovente mutilati o ridotti a singole parti anatomiche (lingue rosse e appuntite, occhi, piedi), le protesi ortopediche, le dentiere, le scarpe, i serpenti, le rane, i lettini di contenzione, le sedie a rotelle, le gomme tattilmente simili alla pelle umana, sono da considerarsi feticci alla stregua delle altrettanto ricorrenti immagini di falli e di vagine. Sono infatti ‘oggetti fallici’ della disperazione, del dolore, della lontananza e dell’abbandono in quanto, grazie alla pittura, ritualizzano ed erotizzano quei sentimenti in ‘oggetti del piacere’ capaci di esorcizzare e rimuovere tutte le paure. L’assidua e compresente tematizzazione della morte e dell’erotismo nel lavoro di Carol Rama sembra pertanto trovare origine e senso nel concetto psicoanalitico del feticcio atto a convertire il profondo lutto in intenso piacere. Per tante ragioni, i corpi dipinti dall’artista sono sofferenti e patologici ma al tempo stesso orgasmatici; il mito è sempre un ricordo che, in quanto tale, implica il dolore per qualcosa di perduto, ma al tempo stesso è una piacevole estasi allucinatoria per qualcosa che potrebbe essere; thanatos ed eros si uniscono attraverso la vitalità della pittura. È proprio grazie alla compresenza degli opposti, intrinseca al concetto psicoanalitico di feticcio, che la pittura di Carol Rama appare al contempo nevrotica ed emotiva, funerea e vitalistica, dolorosa e sarcastica. Al fine di comprendere in profondità il suo lavoro è quindi necessario partire dalla sua ossessione per il rifiuto, per l’oggetto isolato, scartato, fuori dal centro, focalizzando l’attenzione sui momenti salienti del percorso artistico di Carol Rama e sulle immagini ricorrenti che hanno permesso al dolore immateriabile e inattingibile da lei vissuto di divenire fetizzato, ovvero forma concreta, visibile, palpabile e idealizzata. In altri termini, è necessario portare in luce ciò che nelle sue opere permette al sentimento di rifiuto di trasformarsi in desiderio.


Gli anni Trenta e Quaranta (tavv I-III) I due disegni a matita Senza titolo rispettivamente del 1942 e del 1944, di impronta espressionista, così come l’acquaforte Senza titolo del 1944 ascrivibile al ciclo delle “Parche”, risultano esemplificativi della prima produzione di Carol Rama nella quale rientrano anche gli acquerelli dada-surrealisti e al contempo affini alla Secessione viennese, realizzati in quegli stessi anni ma pubblicati nel 1979 sul catalogo della Galleria Martano. Negli anni Trenta e Quaranta, Carol Rama, senza il supporto di alcuna formazione accademica, inizia a sperimentare un tratto disegnativo alquanto fine, atto a far vibrare i contorni degli elementi iconografici delineati sul foglio da disegno, nella totale assenza di una loro collocazione spaziotemporale. Quel sottile tratto ritrae corpi nudi, maschili e femminili, sovente mutilati o ridotti a singole parti anatomiche (ad esempio a un volto, oppure ad appuntite lingue rosse), spesso circondati da protesi ortopediche, o costretti in lettini di contenzione, oppure colti nell’atto della masturbazione e a ricercare piacere nel proprio corpo. Si percepisce un’anarchia nel disegno così come nelle movenze alluse dalle figure rappresentate, alle quali spesso si uniscono o si sostituiscono palette, pennelli da barba, scopini da water, pissoirs, scarpe e dentiere presentati quali feticci del corpo. Nelle tre opere esposte alla galleria Il Ponte, la rudezza dei soggetti ascrivibile nella produzione dell’artista di quegli anni, è decantata in un’accentuata eleganza compositiva. Estranei alle tendenze artistiche del momento, questi lavori lasciano intravedere una grande maturità tecnica e di ideazione, derivata probabilmente dai numerosi dolori vissuti nell’infanzia che tuttavia Carol Rama fin dai suoi esordi è capace di trasformare in forza sentimentale, vampiresca, eretica e anche ironica. Gli anni Cinquanta (tavv IV-VI) Il Senza titolo del 1951, Composizione n. 1 del 1954 e il Senza titolo del 1954 costituente la matrice della litografia edita dalla Librogalleria Salto di Milano, rivelano il repentino mutamento nell’operare di Carol Rama avvenuto durante la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. Forme quadrangolari nere, bianche o colorate, dotate di prolungamenti lineari, scandiscono ritmicamente lo spazio evocando un movimento centrifugo disorientante. Queste opere sono il frutto dell’adesione dell’artista al MAC, Movimento d’Arte Concreta, teorizzato da Gillo Dorfles e fondato nel 1948 a Milano da un gruppo di intellettuali e artisti, tra cui Bruno Munari, Mario Nigro, Attanasio Soldati, i quali, rivolgendo lo sguardo verso le più recenti ricerche europee, promuovono un’arte aniconica ma profondamente distante dall’astrattismo storico del primo Novecento. Anziché ridurre la realtà esterna all’essenza di forme, colori, materie, ritmi, rapporti, il MAC si propone di delineare sul supporto forme-colore svincolate dalla realtà esterna


e da qualsiasi significato simbolico, ma frutto dell’immaginazione e dell’elaborazione inventiva di ogni artista i cui modelli di riferimento devono essere rintracciati nel Costruttivismo russo, nel Bauhaus tedesco e soprattutto nell’opera matura di Piet Mondrian. Carol Rama si inserisce nel MAC, ma rimanendone una figura ‘fuori dal centro’: delinea infatti composizioni geometrico-lineari fluttuanti nello spazio, in salita o in discesa, rinvianti alle composizioni di Paul Klee e campite con alcune delle tonalità ‘simboliche’ che diverranno ricorrenti nella sua produzione successiva, in particolare il bianco quale elemento di ordine, pulizia e potere, posto in contrasto con il nero che per l’artista costituisce la più straordinaria cromia perché preparatorio ed evocativo della morte. Gli anni Sessanta (tavv VII-IX) Se nelle opere afferenti al MAC la spazialità risulta soltanto allusa dal movimento delle formecolore delineate sul foglio o sulla tela, nel Senza titolo del 1964, nel Senza titolo del 1967 definito da Sanguineti Bricolage, in Perdonami le congiunzioni del 1969, così come in tutti i lavori realizzati negli anni Sessanta, lo spazio diviene vero e proprio protagonista grazie al recupero della tradizione novecentesca del bricolage. Cannule vaginali, biglie, siringhe, colla vinavil, chicchi di riso, unghie, chiodi, capelli, occhi di vetro, pellicce di animali, fili di ferro, costellano il supporto disegnativo e pittorico, trasformando l’antinaturalismo geometrico del MAC in astratto e armonico accrochage di materiali industriali. Le macchie esplose di colore di derivazione informale, così come i numeri e le parole che si intravedono e si intersecano con occhi di vetro e gli altri manufatti organici o inorganici succitati, catturano il nostro sguardo grazie alla loro struttura ritmica interna. L’oggetto, quale elemento fisico circoscritto, una volta inserito nell’opera, pur rimanendo ‘cosa’, diventa esso stesso colore e forma. Assume pertanto un significato simbolico, un potere intrinseco, altro da sé. A permetterlo è la tecnica del bricolage che, come sosteneva Sanguineti, rinvia alla modalità di pensiero caratteristica della società primitiva descritta dal libro Il pensiero selvaggio di Lévi Strauss (tradotto in Italia nel 1964) nella quale si attribuiva una valenza sacrale e magica a oggetti inanimati, di uso quotidiano. Gli anni Settanta (tavv X-XXVI) Durante gli anni Settanta Carol Rama dà un’ulteriore svolta al suo lavoro, optando per tecniche miste, soprattutto collages di gomme e pastelli o oli su tela, oppure collages di gomme su capote, altresì collages di gomme di pneumatici associate a supporti di varia natura. Il ricordo della matericità ‘sofferente’ dei Sacchi di Alberto Burri, si unisce ora alla necessità di autobiografismo e


simbolismo: la gomma da lei utilizzata, ad esempio, è da intendersi quale vivo ricordo dell’azienda del padre (che produceva biciclette) e del dolore derivante dal suo fallimento, ma al contempo quale evocazione della superficie della pelle umana, delle viscere, di membri afflosciati e di parti anatomiche con tutto il loro intrinseco portato erotico-sensuale. Le camere d’aria segnate dall’uso, le guarnizioni in gomma e tutti gli altri elementi costituenti i collages degli anni Settanta sono utilizzate in sostituzione del colore: possono tendersi in strisce levigate aderenti alla tela per produrre, per differenza cromatica, diversi spessori di profondità (come nella serie Spazio più che tempo), oppure possono sporgere, facendosi scultura, mediante un gancio in metallo, evocante forse il ferro modellato adoperato da Pablo Picasso per appendere gli stracci per asciugare i pennelli e che Picasso stesso le donò. Gli anni Ottanta e Novanta (tavv XXVII-XXXIX) Nei lavori realizzati negli anni Ottanta e Novanta, ultimo nucleo di opere esposte alla galleria Il Ponte, Carol Rama si riavvicina alla sua produzione degli esordi, tornando alla figurazione, ma trasformando l’impeto dirompente dei suoi inizi in una più controllata gestione delle proprie ossessioni. Si tratta di disegni di estrema semplicità e linearità, ma soprattutto di disegni su carta da parati o su carte prestampate, usati come supporto, spesso capovolti rispetto al verso dell’opera finita col risultato di un evidente contrasto tra la linearità e la precisione del segno sul foglio a stampa e quello mosso delle figure ivi delineate dall’artista. Rane, uccelli, falli, angeli, lingue, animali fantastici e totemici costellano e invadono molteplici progetti tecnici di architetti e ingegneri al fine di sovrapporre l’anarchia e il disordine dell’arte di Carol Rama alla cultura ordinata e controllata veicolata da quei progetti medesimi. Tali figure, così come quelle presenti nei lavori dell’artista degli anni Trenta e Quaranta, sono da considerarsi feticci, ossia portatori di una sessualità intrinseca ma dirompente. Ad esempio, la lingua è l’ultimo organo a invecchiare e per Rama è quindi legata al sapere, al sogno e al desiderio; il serpente è veicolo di un comportamento erotico (esce sovente dalla vagina) ed è pertanto esaltazione della felicità derivante dal sesso; la rana, essendo a sangue freddo, diminuisce invece quell’impeto; la mucca della serie La mucca pazza è alter ego dell’artista che si identifica con l’animale ammalato i cui spasmi sono sintomo di malattia, ma somigliano al contempo a impulsi orgasmatici. Queste opere, così come l’intera produzione di Carol Rama, giunta al termine nel 2007, possono dirsi frutto di una sorta di ‘impazzimento’ volontario e inguaribile derivato dalle proprie manie e dai propri dolori, nella consapevolezza che essi costituiscono non solo la preziosissima e insostituibile fonte da cui l’arte può nascere, ma anche l’unico modo per restituire alla donna la libertà del


desiderio. Se infatti ne L’origine du monde di Courbet il corpo femminile è ridotto a mero strumento per il prosieguo della specie, ovvero a una vagina colta in primo piano, inerte e in attesa dell’uomo, Carol Rama, attraverso le sue opere, restituisce alla donna la testa omessa dalla scena nel dipinto del pittore francese – e con essa la soggettività propria di un essere pensante e sensibile –, sovente aggiungendo all’immagine della vagina una lingua che fuoriesce da essa. Carol Rama, dai suoi inizi fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2015, ha pertanto avuto il grande merito di sostenere, promuovere e rendere possibile la riappropriazione da parte della donna della sua corporalità e soprattutto della sua necessità del desiderio.

Bibliografia di riferimento: Besson G., Carol Rama casta sfrontata stella, Prinp Editore, Torino 2012. Bonito Oliva A., Carol Rama dal presente al passato, 1994-1936, Bocca editori, Milano 1994. Curto G. e Verzotti G., a cura di, Carol Rama, Skira editore, Milano 2004. Galvano A. e Sanguineti E., Carol Rama, Galleria Stampatori, Torino 1964. Fossati P., Carol Rama, 12 opere 1937-1941. 7 opere 1978-1979, Galleria Martano, Torino 1979. Fossati P., a cura di, Carol Rama, Umberto Allemandi & C., Torino 1989. La Passione secondo Carol Rama, catalogo della mostra (Torino, GAM, 16 ottobre 2016-5 febbraio 2017), a cura di Paul B. Preciado e Teresa Grandas, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2016. Le stanze di Carolina 1939-1994, testi di Fossati P., Trento D. con una nota biografica di Perosino M. e una poesia di Sanguineti E., Nuovagrafica, Carpi 1995. Mundici M. C., a cura di, carolrama, Charta, Milano 1998. Mundici M. C. e Ghiotti B., Carol Rama. Il magazzino dell’anima, Skirà, Milano 2014. Tozzato L. e Zambianchi C., Edoardo Sanguineti, Carol Rama, Franco Masoero Edizioni d’Arte, Torino 2002. Trento D., Verifica purovisibilistica su Carol Rama, in carolrama, Franco Masoero Edizioni d’Arte, Torino 1999. Vallora M., Carol Rama. L’occhio degli occhi. Opere dal 1937 al 2005, Skirà, Milano 2008. Vergine L., L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Mazzotta, Milano 1980, poi riedito con ampliamenti e una nota finale dell’autrice da il Saggiatore nel 2005. Vergine L., a cura di, Carol Rama, Mazzotta, Milano 1985. Wetzel A., a cura di, Catalogo ragionato dell’opera incisa, Franco Masoero Edizioni d’Arte, Torino 2006.



Carol Rama and Rejection that Transforms into Desire Ilaria Bernardi

Even though the art critic Paolo Fossati affirmed that Carol Rama “is written into the twentieth century as a queen”, the first public acknowledgement of the artist’s work only arrived in 2003 with the attribution of the Golden Lion at the Venice Biennale, followed in 2010 by the award for lifelong achievement conferred by the President of the Republic Giorgio Napolitano upon invitation of Rome’s Accademia di San Luca. Successively, above all in recent years, thanks to numerous exhibitions and publications as well as the extensive and important activities carried out by the Carol Rama Archive, she is now very well known both in Italy and abroad. However, in truth her work has not yet been devoted the extent of in-depth investigation that it deserves. In my opinion, one of the reasons for this is the tendency, which has always existed, to centre attention on her eccentric personality and anecdotes linked to her life rather than her actual work. Her father’s suicide caused by the bankruptcy of his factory, her mother’s consequent admittance to a psychiatric hospital, her grandmother’s dementia, her uncle’s prosthesis workshop, her frequentation of Felice Casorati, Andy Warhol and Man Ray, the censure of her first exhibition in 1945 and numerous other anecdotes, true or otherwise, have always attracted the interest of the critics. Nevertheless, this has distracted them from the works themselves, which, instead, should be analysed as the fruit not so much of a woman’s life experience, but of a painter capable of maintaining constant originality within a range of different languages. As Albino Galvano wrote in 1964, “Carol Rama did not have an easy life. It was too convenient for everyone to consider her an intelligent and captivating woman, a perfect and intrepid lady of the house, a model of audacious and au fait female style and ‘also’ an interesting painter”. Hence, what I propose to do in these pages is to develop an analysis focussed exclusively on Carol Rama’s works, while trying to investigate their meanings and put them into the context of the historical and artistic period when they were conceived. This is the only way that the real value of her eccentricity can be brought to light. Hers is an eccentricity which, in my opinion, does not lie so much in the artist’s now renowned character nor in her private life, as her predilection for what dwells ‘outside the centre’ (“eccentric” indeed derives from the Latin ex-centrum), namely, the discard in the sense of material to be reused but above all of isolated sections of a body. In other words, it is in the psychoanalytical concept of fetish, as the symbol of something missing or lost, left offstage and therefore ‘outside the centre’, that Carol Rama’s great and incomparable eccentricity resides.


In psychoanalysis, the term fetish refers to objects which, through symbolization mechanisms, assume a sexual nature as substitutes for the object of love that is missing or has been stripped away. It is Sigmund Freud who first connected the fetish to the fear of castration shown during early childhood when the male child discovers that women do not possess a penis. Hence, aware of that absence as well as the possibility of losing it, he starts to compensate for this with inanimate objects to which he attributes an erotic meaning. As a result, he gives a concrete presence to the potentially missing element that is nevertheless essential for his life. As Freud writes, “What happened, therefore, was that the boy refused to take cognizance of the fact of his having perceived that a woman does not possess a penis. No, that could not be true: for if a woman had been castrated, then his own possession of a penis was in danger”. Hence, the fetish “remains the token of triumph over the threat of castration and a protection against it” (S. Freud, Fetishism, 1927) and the mourning for that absence and that loss transforms into a source of ‘erotomaniac pleasure’. The fetish is therefore the object of disavowal: a threatening or excessively idealized and feared life experience is projected onto it; it gives concrete, visible, palpable form to something intangible and inaccessible but with an intrinsic almost cathartic power. In all of Carol Rama’s works, the naked bodies of men and women, often mutilated or reduced to single parts of the anatomy (pointed red tongues, eyes, feet), orthopaedic prostheses, dentures, shoes, snakes, frogs, restraint beds, wheelchairs, tyres with a similar feel to human skin, are to be considered fetishes in the same way as the equally as recurrent images of phalluses and vaginas. They are indeed ‘phallic objects’ of desperation, pain, distance and abandonment since, thanks to the painting, they ritualize and eroticize these feelings into ‘objects of pleasure’ capable of exorcising and removing all the fears. The assiduous and compresent theme of death and erotism in Carol Rama’s work therefore seems to originate and find sense in the psychoanalytical concept of the fetish which can convert a deep mourning into intense pleasure. For many reasons, the bodies painted by the artist are pained and pathological but orgasmic at the same time; the myth is always a memory that, as such, implies pain for something lost, but at the same time it is a pleasant hallucinatory ecstasy for something that could be; Thanatos and Eros combine through the vitality of the painting. It is precisely thanks to the compresence of opposites, intrinsic to the psychoanalytical concept of fetish, that Carol Rama’s painting appears at the same time neurotic and emotional, funereal and vital, painful and sarcastic. For an in-depth understanding of her work it is therefore necessary to start from her obsession with rejection, with the isolated, discarded, off-centre object. And so we must focus our attention on the salient moments in Carol Rama’s artistic career and on the recurring images that allowed the intangible and inaccessible pain that she experienced to become fetishized, that is, to take on concrete, visible, palpable and idealized form. In other words, light needs to be cast on what enables the feeling of rejection to transform into desire in her works.


The 1930s and 40s (tavv I-III) The two Senza titolo pencil drawings, from 1942 and 1944 respectively, with their Expressionist stamp, as well as the Senza titolo etching from 1944, ascribable to the “Parche” series, are exemplary of Carol Rama’s early production. This period also includes the Dada-Surrealist and at the same time Viennese Secession-style watercolours made in those same years but published in the Galleria Martano catalogue in 1979. In the 1930s and 40s, without the support of any academic training, Carol Rama started to experiment a quite delicate drawing style, able to make the edges of the iconographic elements drawn on the paper quaver in the total absence of a location in space or time. These thin lines depict naked bodies, of men and women, often mutilated or reduced to single parts of the anatomy (for example, a face, or pointed red tongues), often surrounded by false limbs, or forced into restraint beds, or caught in the act of masturbating and seeking pleasure in their own bodies. An anarchy can be felt in the drawing as well as in the alluded movement of the depicted figures, often accompanied or replaced by palettes, shaving brushes, toilet brushes, urinals, shoes and dentures presented as fetishes of the body. In the three works on display at Il Ponte gallery, the crudeness of the subjects in the artist’s production from those years is filtered into a highly elegant composition. Outside the artistic trends of the time, these works display a great maturity of technique and ideas which probably derives from the numerous painful episodes the artist experienced in her childhood. Nevertheless, right from the start Carol Rama is able to transform all of this into sentimental, vampiresque, heretical and also ironic power. The 1950s (tavv IV-VI) The Senza titolo from 1951, Composizione n. 1 from 1954 and Senza titolo from 1954 form the basis for the lithograph published by Librogalleria Salto in Milan and reveal the rapid change in Carol Rama’s work at the end of the 1940s and start of the 1950s. Black, white or coloured quadrangular shapes, with linear extensions, rhythmically break up the space, creating a disorientating centrifugal movement. These works are the result of the artist’s adherence to the MAC, Movimento di Arte Concreta (Concrete Art Movement). Theorized by Gillo Dorfles, this movement was founded in 1948 in Milan by a group of intellectuals and artists, amongst whom Bruno Munari, Mario Nigro and Attanasio Soldati, who turned their eye towards the most recent European research to promote a non-iconic form of art that at the same time distanced itself from the historical abstract currents of the early twentieth century. Instead of reducing the outside reality to an essence of shapes,


colours, materials, rhythms and relationships, the MAC set out to design coloured shapes released from the outside reality and from any symbolic meaning which were instead the fruit of the artists’ imagination and inventiveness. As models of reference, these artists drew from Russian Constructivism, the German Bauhaus movement and above all the mature work of Piet Mondrian. Carol Rama becomes part of the MAC but remains an ‘off-centre’ figure. She creates geometrical and linear compositions that float in space, go up and down, but refer back to the compositions of Paul Klee. They are filled with some of the ‘symbolic’ colours that would become recurrent in her subsequent production, in particular white as an element of order, cleanliness and power, in contrast to the black – for the artist the most extraordinary colour – which prepares for and evokes death. The 1960s (tavv VII-IX) While in her MAC school works spatiality is only alluded to by the movement of the coloured shapes outlined on the paper or canvas, in the Senza titolo from 1964, Senza titolo from 1967, defined by Sanguineti as Bricolage, Perdonami le congiunzioni from 1969, and all the works made in the 1960s, space takes the leading role thanks to her reclamation of the twentieth-century tradition of bricolage. Vaginal cannulas, marbles, syringes, glue, grains of rice, fingernails, nails, hair, glass eyes, animal fur and wire constellate the background of the drawing or painting, transforming the MAC’s geometrical anti-naturalism into an abstract and harmonic tangle of industrial materials. Our gaze is captured by the internal rhythm of the exploded stains of colour of Informel derivation, as well as by the numbers and words that can be made out, overlapping with the glass eyes and other abovementioned organic or inorganic objects. Once inserted in the work, despite remaining a ‘thing’, the object, as a circumscribed physical element, itself becomes colour and shape. Hence, it takes on a symbolic meaning, an intrinsic power. It becomes other from itself. All this is enabled by the bricolage technique, which as Sanguineti maintained, draws from the way of thinking characteristic of primitive society in which a sacred and magical meaning was given to inanimate objects of everyday use as described in the book The Savage Mind by Lévi Strauss (translated into English in 1966). The 1970s (tavv X-XXVI) During the 1970s Carol Rama switched her work again, opting to use mixed techniques, above all collages of rubber and pastel or oil on canvas, or collages of rubber on capote canvas, or collages of tyres associated with various kinds of background. The memory of the ‘suffering’ material in Alberto Burri’s Sacchi is now united with the need for autobiographism and symbolism: the rubber that she uses for example, is to be seen as a vivid memory of her father’s company (who produced


bicycles) and the pain deriving from his bankruptcy, but at the same time as an evocation of the surface of human skin, the bowels, limp members and parts of the anatomy with all their intrinsic erotic and sensual capacity. Worn inner tubes, rubber seals and all the other elements making up the 1970s collages are used in substitution of colour: they may be stretched out in smooth strips clinging to the canvas, the different shades producing different depths and thicknesses (such as in the series Spazio più che tempo), or they might stick out, becoming a sculpture, thanks to a metal hook, perhaps evoking the modelled iron used by Pablo Picasso to hang up the rags to dry his paintbrushes, which Picasso himself gave to her. The 1980s and 90s (tavv XXVII-XXXIX) In the works made in the 1980s and 90s, the last set on show at Il Ponte gallery, Carol Rama returns to her beginnings. She returns to figuration, but the explosive impetus of her debut is transformed into a more controlled management of her obsessions. These drawings are extremely simple and linear, but above all they are made on a background of wallpaper or pre-printed paper, which is often turned the other way up to the finished work. Hence, this causes an evident contrast between the linearity and precision of the marks on the printed page and the blurred figures drawn on them by the artist. Frogs, birds, phalluses, angels, tongues, fantastic and totemic animals dot and invade many technical designs of architects and engineers thus superimposing the anarchy and untidiness of Carol Rama’s art onto the tidy and controlled culture expressed by those designs. These figures, like the ones present in the artist’s work from the 1930s and 40s, are to be considered fetishes, that is, bearers of an intrinsic but explosive sexuality. For example, the tongue is the last organ to age and for Rama it is therefore linked to knowledge, dreaming and desire; the snake conveys erotic behaviour (often emerging from the vagina) and it therefore exalts the happiness deriving from sex; the frog, with cold blood, instead reduces that impetus; the cow in the series La mucca pazza is the alter ego of the artist, who identifies with that diseased animal whose spasms are the symptom of illness, but at the same time resemble orgasmic shudders. Having arrived at the end of 2007, like all of Carol Rama’s production, these works can be said to be the result of a sort of voluntary and untreatable ‘madness’ deriving from her obsessions and her pain. She knows that they do not just constitute a precious and irreplaceable source from which art can be born, but that they also provide the only way to give women back the freedom of desire. Indeed while in Courbet’s L’origine du monde the female body is reduced to a mere tool for the continuation of the species, that is, a vagina depicted close up, inert and waiting for a man,


through her works Carol Rama restores the head of the woman left out of the scene in the French painter’s picture – and with that the subjectivity of a thinking and sensitive being – and often adds a tongue coming out of the image of the vagina. From her beginnings to her death in 2015, Carol Rama’s great merit was that she supported, promoted and made it possible for women to regain their corporality and above all the necessity of desire.

References: Besson G., Carol Rama casta sfrontata stella, Prinp Editore, Turin 2012. Bonito Oliva A., Carol Rama dal presente al passato, 1994-1936, Bocca editori, Milan 1994. Curto G. and Verzotti G., eds, Carol Rama, Skira editore, Milan 2004. Galvano A. and Sanguineti E., Carol Rama, Galleria Stampatori, Turin 1964. Fossati P., Carol Rama, 12 opere 1937-1941. 7 opere 1978-1979, Galleria Martano, Turin 1979. Fossati P., ed., Carol Rama, Umberto Allemandi & C., Turin 1989. La Passione secondo Carol Rama, exhibition catalogue (Turin, GAM, 16 October 2016 - 5 February 2017), edited by Paul B. Preciado and Teresa Grandas, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2016. Le stanze di Carolina 1939-1994, texts by Fossati P., Trento D. with a biographical note by Perosino M. and a poem by Sanguineti E., Nuovagrafica, Carpi 1995. Mundici M. C., ed., carolrama, Charta, Milan 1998. Mundici M. C. and Ghiotti B., Carol Rama. Il magazzino dell’anima, Skirà, Milan 2014. Translated into English as Inside Carol Rama. Tozzato L. and Zambianchi C., Edoardo Sanguineti, Carol Rama, Franco Masoero Edizioni d’Arte, Turin 2002, bilingual edition. Trento D., Verifica purovisibilistica su Carol Rama, in carolrama, Franco Masoero Edizioni d’Arte, Turin 1999. Vallora M., Carol Rama. L’occhio degli occhi. Opere dal 1937 al 2005/The Eye of Eyes. Works from 1937 to 2005, Skirà, Milan 2008, bilingual edition. Vergine L., L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Mazzotta, Milan 1980, then republished with extensions and a final note by the author by Il Saggiatore in 2005. Vergine L., ed., Carol Rama, Mazzotta, Milan 1985. Wetzel A., ed., Catalogo ragionato dell’opera incisa, Franco Masoero Edizioni d’Arte, Turin 2006.



Carol Rama, Polaroid di Andy Warhol.


Nota Biografica Carol Olga Rama, detta Carol Rama, nasce a Torino nel 1918. Inizia a dipingere ancora adolescente senza avere alcuna formazione accademica, ma stimolata dalla frequentazione di importanti protagonisti del milieu culturale torinese, italiano e internazionale, tra i quali Felice Casorati, Edoardo Sanguineti, Massimo Mila, Albino Galvano, Carlo Mollino, Paolo Fossati, Carlo Monzino, Luciano Berio, Eugenio Montale, Andy Warhol, Man Ray. In seguito a episodi familiari dolorosi, tra i quali le cure psichiatriche della madre e il probabile suicidio del padre, la sua arte diviene un modo per esorcizzare sofferenza e paure interiori. Accostatasi inizialmente alla visionarietà del surrealismo, poi a Dubuffet e all’art brut, per in seguito aderire alle ricerche astrattiste del MAC-Movimento d’Arte Concreta nei primi anni Cinquanta e alla poetica dell’object trouvé negli anni Sessanta-Settanta, fino ai cicli di opere più recenti (l’ultimo suo lavoro risale al 2007) sviluppa un percorso del tutto personale e autonomo, adottando materiali, temi e stili diversi capaci di dar voce al suo universo onirico caratterizzato da un’iconografia provocatoria, sospesa tra trasgressione, eccentricità, autobiografismo ed erotismo esplicito. La sua prima mostra personale risale al 1945 alla Galleria Faber di Torino (leggenda vuole che venisse chiusa dalla polizia per oscenità), alla quale seguono numerose altre occasioni espositive in gallerie private torinesi, prima tra tutte la Galleria La Bussola (1957, 1959, 1960, 1971), italiane (tra cui: Galleria Luciano Anselmino, Milano 1976; Galleria Dell’Oca, Roma 1987; Galleria Sprovieri, Roma 1994-95) ed estere (incluse: Galleria Lutrin, Lione 1966; Esso Gallery, New York 1997; Galérie Anne de Villepoix, Parigi 2002; Isabella Bortolozzi Galerie, Berlino 2009, 2012). Dopo aver partecipato alla mostra itinerante sulle grandi artiste del Novecento, “L’altra metà”. dell’avanguardia, curata da Lea Vergine, esponendo alcuni acquerelli della fine degli anni Trenta presentati per la prima volta nel 1979 alla Galleria Martano di Torino, nel 1985 ottiene la sua prima ampia mostra antologica in spazio pubblico al Sagrato del Duomo di Milano, allestita da Achille Castiglioni e curata dalla stessa Lea Vergine. Questa mostra, assieme alla sala personale alla 45a Biennale di Venezia nel 1993 a cura di Achille Bonito Oliva allestita da Corrado Levi, e all’antologica allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1998 (poi all’ICA di Boston) a cura di Maria Cristina Mundici, ne avviano la conoscenza internazionale. Il grande riconoscimento pubblico arriva con il conferimento del Leone d’oro alla carriera nel 2003, in occasione della 50a Biennale di Venezia, con il prestigioso Premio Presidente della Repubblica attribuitole nel 2010 da Giorgio Napolitano, e con importanti mostre antologiche e retrospettive, tra le quali nel 2004 l’ampia antologica a cura di Guido Curto presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (poi al Mart di Rovereto e al Baltic Museum di Gateshead), nel 2008 l’antologica al Palazzo Ducale di Genova a cura di Marco Vallora, e più recentemente l’esposizione itinerante “The Passion According to Carol Rama” (2015-16) presentata al Museu d’Art Contemporani di Barcellona, al Museée d’Art Moderne de la Ville de Paris, all’Espoo Museum of Modern Art in Finlandia, all’Irish Museum of Modern Art di Dublino, e alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Il consenso internazionale è poi consolidato nel 2017 grazie all’importante mostra a lei dedicata tenutasi al New Museum di New York, a cura di Helga Christoffersen e Massimiliano Gioni, realizzata a due anni dalla sua morte avvenuta il 24 settembre 2015, a 97 anni, nella casa-studio torinese in via Napione.


Biographycal note Carol Olga Rama, better known as Carol Rama, was born in Turin in 1918. She started to paint when she was still a teenager. Self-taught, she was stimulated by frequenting important figures on the cultural scene in Turin, Italy and the world, amongst whom Felice Casorati, Edoardo Sanguineti, Massimo Mila, Albino Galvano, Carlo Mollino, Paolo Fossati, Carlo Monzino, Luciano Berio, Eugenio Montale, Andy Warhol and Man Ray. Following distressing family episodes, including her mother’s psychiatric treatment and her father’s probable suicide, her art became a way of letting go of her inner suffering and fears. After initially approaching Surrealist visions, then Dubuffet and Art Brut, she followed the abstract research of the MAC (Movimento d’Arte Concreta) in the early 1950s and the objet trouvé trend in the 1960s and 70s. Up to the most recent series of works (her last work was from 2007), she went on to develop a totally personal, independent path, using different materials, topics and styles to express her dream-like universe featuring provocative images suspended between transgression, eccentricity, autobiography and explicit erotism. Her first solo exhibition, at Galleria Faber in Turin, dates from 1945 (legend has it that it was closed down by the police for obscenity). This was followed by numerous other exhibition opportunities in private galleries in Turin, principally at Galleria La Bussola (1957, 1959, 1960, 1971), around Italy (amongst which: Galleria Luciano Anselmino, Milan 1976; Galleria Dell’Oca, Rome 1987; Galleria Sprovieri, Rome 1994-95) and abroad (including: Galerie Le Lutrin, Lyon 1966; Esso Gallery, New York 1997; Galerie Anne de Villepoix, Paris 2002; Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin 2009, 2012). After taking part in the touring exhibition on the great artists of the twentieth century, L’altra metà. dell’avanguardia, curated by Lea Vergine, displaying some watercolours from the end of the 1930s (presented for the first time in 1979 at Galleria Martano in Turin), in 1985 she obtained her first large anthological exhibition in a public space at the Sagrato del Duomo in Milan, organized by Achille Castiglioni and curated by the same Lea Vergine. This exhibition, together with the personal exhibition at the 45th Venice Biennale in 1993 curated by Achille Bonito Oliva and mounted by Corrado Levi, and the anthological exhibition at the Stedelijk Museum in Amsterdam in 1998 (then at the ICA in Boston) curated by Maria Cristina Mundici, won her fame at international level. Her great public accolade arrived in 2003 with the Golden Lion for Lifetime Achievement, awarded on occasion of the 50th Venice Biennale, followed by the prestigious President of the Republic Prize awarded to her by Giorgio Napolitano in 2010. Important anthological and retrospective exhibitions have also been dedicated to her work, amongst which the great anthological exhibition curated by Guido Curto at the Fondazione Sandretto Re Rebaudengo in 2004 (then at Mart in Rovereto and at the Baltic Museum in Gateshead), in 2008 the anthological exhibition at the Palazzo Ducale in Genoa curated by Marco Vallora, and more recently the touring exhibition “The Passion According to Carol Rama” (2015-16) presented at the Museu d’Art Contemporani in Barcelona, the Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, the Espoo Museum of Modern Art in Finland, the Irish Museum of Modern Art in Dublin, and the Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea in Turin. Her international fame was then consolidated in 2017 thanks to the important exhibition dedicated to her at the New Museum in New York, curated by Helga Christoffersen and Massimiliano Gioni, two years after her death on 24 September 2015, at the age of 97, in her home-studio in Via Napione.


Indice delle tavole / Index of Works I Senza titolo, 1942, matita su carta / pencil on paper, 14,2x24,2 cm II Senza titolo, 1944, matita su carta / pencil on paper, 19x24 cm III Senza titolo, 1944, acquaforte / etching, 140x110 mm, stampata su carta Fabriano / printed on Fabriano paper, 50x35 cm, es. 2/3 IV Senza titolo, 1951, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 50x40 cm V Senza titolo, 1954, china e pastello su carta / ink and pastel on paper, 33,1x11,5 cm (originale per una delle sette opere litografiche inserite nella cartella / original for one of the seven lithographic works included in the folder, ed. Salto, Milano, 1955, tirata in 100 es.) VI Composizione n. 1, 1954, olio su tela / oil on canvas, 109x80 cm VII Senza titolo, 1964, tecnica mista e collage su carta / mixed media and collage on paper, 48x33 cm VIII Senza titolo (Bricolage), 1967, tecnica mista e collage su carta / mixed media and collage on paper, 57x46,5 cm IX Perdonami le congiunzioni, 1969, tecnica mista e collage su tela / mixed media and collage on canvas, 100x100 cm X Senza titolo, 1970, gomme e penna feltro su tela / tires and felt pen on canvas, 50x30 cm XI Spazio anche piĂš che tempo, 1971, gomme e olio su tela / tires and oil on canvas, 120x150 cm XII Anmlettered, 1974, filo refe su tela / thread on canvas, 24x24 cm XIII Luogo e segni, 1974, gomme e tecnica mista su tela da capote / tires and mixed media on canvas of hood, 110 x100 cm XIV Senza titolo, 1974, gomme su carta / tires on paper, 22,5x20 cm XV Senza titolo, 1975, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 20x22,5 cm XVI Senza titolo, 1975, gomme e tecnica mista su cartoncino / tires and mixed media on cardboard, 50x27,5 cm XVII Senza titolo, (anni ‘70), gomme, tecnica mista e collage su cartoncino / tires, mixed media and collage on cardboard, 55x33 cm XVIII Senza titolo, 1976, gomme, tecnica mista e collage su cartoncino / tires, mixed media and collage on cardboard, 50x34 cm XIX Senza titolo, gomme su tela da capote su tavola / tires on canvas of hood on wood panel, 71x101,5 cm XX Senza titolo, 1976, gomme, tecnica mista e collage su cartoncino / tires, mixed media and collage on cardboard, 23,3x37,5 cm


XXI Senza titolo, 1976, gomme, tecnica mista e collage su tela da capote / tires, mixed media and collage on canvas of hood, 60x60 cm XXII. Senza titolo, 1978, gomme, tecnica mista e collage su carta / tires, mixed media and collage on paper, 50,3x64,6 cm XXIII Senza titolo, 1978, gomme, tecnica mista e collage su cartoncino / tires, mixed media and collage on cardboard, 48x64,5 cm XXIV Senza titolo, 1979, penna feltro su carta / felt pen on paper, 21x14 cm XXV Andrea?, 1939-79, tecnica mista su pagina di taccuino / mixed media on notebook page, 29x20,2 cm XXVI Senza titolo, 1979, tecnica mista su pagina di taccuino / mixed media on notebook page, 29,5x20,5 cm XXVII Senza titolo, 1989, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 25x34 cm XXVIII Senza titolo, 1992, tecnica mista su carta da parati / mixed media on wallpaper, 22,5x33 cm XXIX Senza titolo, 1992, tecnica mista su carta da parati / mixed media on wallpaper, 29,5x20 cm XXX Senza titolo, 1992, tecnica mista su carta da parati / mixed media on wallpaper, 23x34 cm XXXI Senza titolo, 1992, tecnica mista su carta da parati / mixed media on wallpaper, 23x34 cm XXXII Senza titolo, 1993, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 24x33 cm XXXIII Senza titolo, 1993, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 24x33 cm XXXIV Senza titolo, 1993, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 23x33 cm XXXV La corona di Keaton, 1994, gomme, tecnica mista e collage su cartoncino / tires, mixed media and collage on cardboard, 50x69 cm XXXVI Senza titolo, 1993, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 24x33 cm XXXVII Senza titolo, 1995, tecnica mista su papiro / mixed media on papyrus, 36x46 cm XXXVIII Senza Titolo, 1997, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 17,5x24,5 cm XXXIX Senza titolo, 1997, tecnica mista su carta / mixed media on paper, 24x33 cm



I



II



III



IV



V



VI



VII



VIII



IX



X



XI



XII



XIII



XIV



XV



XVI



XVII



XVIII



XIX



XX



XXI



XXII



XXIII



XXIV

XXV



XXVI



XXVII



XXIX

XXVIII

XXX



XXXI



XXXII

XXXIII

XXXIV

XXXV



XXXVI



XXXVII



XXXVIII

XXXIX



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