HIDETOSHI NAGASAWA
LA SCULTURA DEGLI ANNI SETTANTA
NAG ASA WA
HIDETOSHI NAGASAWA La scultura degli anni Settanta
Bruno CorĂ
HIDETOSHI NAGASAWA La scultura degli anni Settanta
H I D E TO S H I N A G A S A W A La scultura degli anni Settanta a cura di / curated by
Bruno Corà
GALLERIA IL PONTE - FIRENZE 1 marzo - 10 maggio 2019
Si ringrazia la famiglia Nagasawa tutta, Kimiko, Ryoma e Tae per la loro disponibilità e la fondamentale collaborazione, che insieme a quella di Valeria Belvedere hanno reso possibile questa mostra e il volume che la correda. / Thanks go to the whole Nagasawa family, Kimiko, Ryoma and Tae, for their helpfulness and fundamental collaboration, which, together with that of Valeria Belvedere, made this exhibition and the accompanying volume possible.
Ufficio stampa / Press office Susanna Fabiani Crediti Fotografici / Credits Anzaï Torquato Perissi Redazione editoriale / Editorial team Enrica Ravenni Federica Del Re Traduzione in inglese / English traslation Karen Whittle Grafica / Page setting and graphics Alessio Marolda Impianti e stampa / Plates and printing Tipografia Bandecchi & Vivaldi, Pontedera (PI)
© copyright 2019 per l’edizione Gli Ori 51100 Pistoia - Via L. Ghiberti, 6 tel +39 057322607 www.gliori.it info@gliori.it Galleria Il Ponte 50121 Firenze - Via di Mezzo, 42/b tel +39 055240617 fax +39 0555609892 www.galleriailponte.com info@galleriailponte.com per i testi gli autori ISBN 978 88 7336 755 0
Sommario / Summary
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Hidetoshi Nagasawa. La scultura degli anni Settanta: nascita dello spazio di tensione di Bruno CorĂ
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Hidetoshi Nagasawa. 1970s Sculpture: birth of the space of tension by Bruno CorĂ
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Opere / Works
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Opere in mostra / Works in the exhibition
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Nota biografica
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Selected Biography
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Indice / Index
Bruno Corà
Hidetoshi Nagasawa. La scultura degli anni Settanta: nascita dello spazio di tensione.
L’arte, con i suoi più dotati autori, è generosa! E lo conferma l’episodio davvero straordinario di questa mostra di opere di Hidetoshi Nagasawa alla galleria Il Ponte di Firenze, dedicata specificatamente agli anni Settanta della sua creazione, a poco meno di un anno dalla scomparsa di questo grande Maestro. Egli, come Kounellis, come Twombly, e come pochi altri, dopo aver scelto di vivere e lavorare in Italia, assumendone nel proprio universo immaginario tradizioni estetiche, modalità concettuali, metodi operativi, senza rinunciare a quelli delle proprie radici della cultura asiatica e giapponese, ha dato prova di riuscire a metabolizzare entrambe le sorgenti poetiche orientali e occidentali convogliandole in una lingua plastica tra le più intensamente motivate e convincenti della seconda metà del XX secolo. Una accanto all’altra, negli ambienti del Ponte si possono così ammirare alcune opere scelte di quella decade determinante dell’intera azione di Nagasawa, distintesi nel segnare l’avvio di un’invenzione artistica magistrale, che non ha conosciuto flessioni o perdita d’intensità e integrità lungo l’arco di mezzo secolo. Nel 1966 Nagasawa, partito per il suo leggendario viaggio in nave dal Giappone a Bangkok, nel proseguire poi in bicicletta verso ovest e l’Occidente, fatti migliaia di chilometri e attraversate decine di frontiere – della Thailandia, Malesia, Singapore, India, Pakistan, Afghanistan, Persia, Iraq, Giordania, Libano, Siria, Turchia – arriva infine a Istanbul. Qui, mosso dall’ascolto della musica di Mozart da una radiolina, varcata la soglia del Bosforo per entrare in Europa – nonostante il suo programma fosse quello di tornare a casa – continuato il viaggio attraverso la Grecia e l’Adriatico per giungere in Italia, a Milano, non aveva certo potuto immaginare che l’inaspettato furto della sua bicicletta, avvenuto dopo una notte trascorsa dormendo all’aperto, avrebbe segnato il suo destino e l’inizio di una ‘vita nova’ in Italia, piena di avventure, incontri e prodigi d’arte che recano ormai il suo nome. Quali che siano state le vicende che anzitempo hanno ritardato l’estesa conoscenza della sua azione, sottovalutato il grado di pregnanza della sua lezione o reso possibile una distrazione critica (salvo qualche caso)1 non esente da responsabilità, verso il suo lavoro, è tuttavia ormai inarrestabile il processo di crescita e apprezzamento conoscitivo della sua arte, nonché del riconoscimento di essa a livello italiano e internazionale. Questo nuovo appuntamento presso la galleria Il Ponte – nonostante la sua fatale assenza – dopo la sua personale del 2005 nei medesimi ambienti di via di Mezzo, quand’egli aveva direttamente provveduto all’installazione del grande legno Interferenza, 2005, offre l’occasione di meditare e ammirare la germinale apparizione dei primi lavori di scultura di questo vero grande artista. Appare dunque saggia e provvidenziale l’azione intrapresa da Andrea Alibrandi nell’aver voluto dedicare un primo sguardo retrospettivo a una parte dell’opera che nell’insieme non solo si conferma di livello poetico e artistico compiutamente esemplare, ma che, osservata nei suoi iniziali pronunciamenti e principi fondativi, rivela una visione e un’apertura esteticopoetica fecondissime a cui le più giovani generazioni oggi e ancora a lungo potranno guardare per trarne forti suggestioni e regole preziose. LE OPERE DEGLI ANNI SETTANTA E LA NASCITA DELLO SPAZIO DI TENSIONE DI NAGASAWA
1. È ben nota l’assiduità di studiosi come Toshiaki Minemura in Giappone e Jole De Sanna in Italia, autori che hanno sviluppato numerose riflessioni storico-critiche sull’opera di Nagasawa, peraltro ben documentate nel Catalogo ragionato delle opere (dal 1968 al 1996) di Caterina Niccolini, edito da De Luca, Roma, 1997.
Nonostante che la concezione temporale a cui Nagasawa si è sempre attenuto nella sua opera sia stata di tipo diverso dal tradizionale paradigma lineare passato-presente-futuro, in questa riflessione relativa ai lavori presenti in mostra, per praticità, si seguirà un’osservazione rispondente alla loro realizzazione cronologica. In tal senso, l’opera Pulverize, 1969, che precede 7
ogni altra tra quelle riunite in questa esemplare raccolta dedicata al decennio degli anni Settanta, chiude anche idealmente il periodo delle attività di questo Maestro a base di performances e di videoregistrazioni propense, in quegli anni, a manifestarsi in un ‘presente’ tanto incisivo e repentino quanto effimero in senso repertuale e parco nel lasciare tracce fisiche. Così, l’opera Pulverize, 1969, coerente con quella koiné epocale, emblematica di una sensibilità rivolta a un riduzionismo smaterializzante, si compone essenzialmente di due parti: una, resa fotograficamente, rappresentando un oggetto considerato, collocata sul muro entro una cornice con vetro, e l’altra mediante un contenitore di vetro posato in terra e collegato al quadro con una catenella; sul barattolo, munito di relativa targhetta esplicativa, appaiono scritti i dati: “Cloth Bucket, 400 gr. h. 28 cm Ø 25 cm – Pulverize ...” nonché data e indirizzo del luogo di realizzazione dell’opera. In questo lavoro e in altri all’insegna dello stesso processo di incenerimento della fisicità materica, Nagasawa mostra di considerare i materiali e gli oggetti con la loro storia. Nonostante egli poi abbia bruciato tutto, ha conservato il contenuto della combustione sotto forma di ceneri. Malgrado il materiale e gli oggetti abbiano subito un cambiamento di stato, egli ne ha preservato l’energia e la memoria. Le opere definite “Pulverize” si possono considerare come le prime creazioni di scultura di Nagasawa, a cui seguiranno nuove esperienze sempre più rivolte a dar corpo a una nozione di plasticità scaturita dalla volontà di realizzare un’opera la cui parte semantica fosse esito di gesti semplici, col minor materiale possibile e in cui ciò che non appare ha maggiore evidenza di ciò che appare. Si manifesta in questo frangente dell’esperienza di Nagasawa la preoccupazione primaria di realizzare, in ogni modo, attraverso azioni e gesti, un’opera facilmente comunicabile. In quegli atti, un’implicita intenzione di dar risalto alla contraddizione tra annullamento e negazione dell’oggetto e la conservazione della memoria del gesto compiuto sembra muovere la volontà di Nagasawa. Ma non minore è la sua intenzione di visualizzare la trasformazione della materia o di un oggetto da uno stato fisico a un altro attraverso l’impiego del fuoco. Se “fotografie e cenere” raccontano l’estinzione di oggetti usati da Nagasawa durante il viaggio in bicicletta dal Giappone all’Europa, dopo averli fotografati a grandezza naturale e poi bruciati e conservati senza ossigeno perché non si modificassero più, con procedimenti diversi egli s’inoltra nel dominio di una scultura basata su metodi interessati all’inevidenza, appresi nel giovanile tirocinio comportamentale a seguito dell’adesione artistica alla poetica del gruppo Gutai. Saranno opere all’insegna della tautologia, come Firma, 1970, riproducente la sola scrittura della firma dell’artista, o come Linea, 1971, ottenuta tracciando su tessuto una linea nera e montando l’elaborato su supporto di legno al fine di conferire nuova fisicità e contenuto alla sua plasticità. «Il mio lavoro consiste nel cercare uno spazio di tensione all’interno degli oggetti dove l’intelligenza non è sufficiente; per questo è necessario anche usare l’intuizione che riconduce a una dimensione antica totale ormai dimenticata»2. Con questo essenziale principio – esercitando l’intuizione – fondamento della filosofia Zen e dell’intero pensiero orientale, Nagasawa, dopo aver attraversato la stagione concettuale, le prassi tautologiche e altre esperienze connesse all’impiego del corpo e dei media fotografici e cinematografici idonei a documentare le proprie azioni, rende finalmente concreta la sua nuova opera – Oro di Ofir, 1971 – che diviene caposaldo e spartiacque di tutta l’opera plastica successiva, segnando con essa un termine che consente il superamento di ogni concettualità precedente, di ogni residuale 8
2. Hidetoshi Nagasawa, in L. Haller, intervista a Nagasawa, in Flash Art. 37, Milano, novembre 1972, pp.10-11.
3. Hidetoshi Nagasawa, in C. Niccolini, Nagasawa – tra cielo e terra, Catalogo ragionato delle opere dal 1968 al 1996. cit., p. 15. 4. Hidetoshi Nagasawa, La conoscenza rovesciata, a cura di J. De Sanna, Nike s.a.s., Segrate, Milano 2000, p.85. 5. La Sacra Bibbia, Primo Libro dei Re, 9, 26-28, Edizioni Paoline, Roma 1980, p. 296.
permanenza nel campo della congettura visiva e passando alla realizzazione di una nuova lingua scultorea esito di una spazialità decisamente più elementare. «Volevo fare un gesto – racconta Nagasawa – da cui nascesse una scultura. Dovevo partire da un gesto, dal senso del toccare, dal contatto con la materia, per creare qualcosa […] come il gesto di un dio. Ma volevo che fosse più chiaro e più semplice possibile, allora ho pensato di creare una cosa dal vuoto, ho toccato l’oro con le mie mani ed è nato Oro di Ofir.»3 In altra circostanza egli dichiara: «L’opera è d’oro. Non si può vedere lo spazio interno alle mani. Io volevo toccare dove non si vede. Poi, quando le mani si aprono, questo spazio non c’è più. Si può toccare ma non vedere e viceversa»4. Le due forme materialmente equivalenti allo spazio interno delle sue mani chiuse a pugno, pertanto entità invisibili, lo rendono epifanicamente visibile, fornendo una prima manifestazione dello spazio di tensione interno ai corpi, alle cose, agli oggetti che, seppur in molti casi invisibile, non può essere considerato inesistente. L’annuncio che Nagasawa formula con Oro di Ofir, ha conseguenze dirompenti in rapporto a molta estetica minimalista e concettuale coeva, poiché contribuisce a rimettere al centro dell’elaborazione artistica non solo il pensiero ma anche la materia e la manualità necessaria a trasformarne le forme, riaprendo una prospettiva che sembrava essersi chiusa. Poche le proposizioni plastiche in quel tempo rivolte, come quella di Nagasawa, a dare forma alla dimensione dell’invisibile, ma tra esse, certamente degna di menzione è quella di Giovanni Anselmo, impegnato sullo stesso fronte di sensibilizzazione di quella dimensione, con opere come Invisibile, 1970, costituita da due lingotti di acciaio di cui si ha la possibilità di osservare nello spazio solo quello recante la scritta “visibile”, in assenza dell’altro su cui sono incise le lettere “in”, resto della parola dislocato altrove e quindi possibile solo da immaginare. L’Oro di Ofir, 1971, con la sua denominazione carica di echi storico-biblici, apre simultaneamente un varco nella potenzialità di risonanza temporale dell’opera. D’ora in avanti, infatti, Nagasawa, spinto dal desiderio di approfondire la sua conoscenza delle fonti della cultura occidentale, ricorre spesso nelle sue opere a titoli provenienti dalle sue letture di grandi poemi o componimenti storici, sorti nei paesi dell’area mediterranea e non solo. In questo caso lo spunto proviene dalla lettura del primo libro biblico dei “Re”, dove si ricorda che «Il re Salomone costruì anche una flotta ad EzionGheber, cioè in Elat, sulla riva del Mar Rosso nella regione di Edom. Chiram inviò sulle navi i suoi servi, marinai che conoscevano il mare, insieme con i servi di Salomone. Andarono in Ofir, ove presero quattrocentoventi talenti di oro e li portarono al re Salomone»5. La tuttora incerta ubicazione di Ofir conferiva alla nuova creazione di Nagasawa un’alea mitica della quale non restò indenne la riflessione dell’esegeta maggiore di Nagasawa, Minemura. Egli infatti affermò che la materia, la tecnica della fattura, l’elaborazione manuale di Nagasawa, l’essenza e la tematica mitica «contravvennero all’arte del Mono-Ha, proclamando il potenziale sublime dell’espressione metaforica della deviazione stilistica sculturale». L’Oro di Ofir inoltre stimola fortemente anche gli artisti Toya e Kurokawa, personalità ritenute ‘faro’ nella scultura giapponese degli anni Ottanta. L’anticipazione linguistica della nuova opera di Nagasawa si rivela dunque quale sensibile innovazione sulla stessa scena artistica giapponese. Nello sviluppo della concezione spaziale intrapresa da Nagasawa trovano luogo altre indagini che portano a definire morfologie come Gomito, 1972 e Mani, 1972, entrambe misurazioni antropologiche alle quali fanno seguito 9
Cornice, 1972 e Nudo, 1972, mentre Un’altra metà, 1972, in bronzo e pietra, mette in rilievo l’identità della forma nel senso dell’integrazione di parti di materia diversa. Sia Gomito, sia Un’altra metà appartengono a una contenuta schiera di versioni rispettivamente dalle diverse misure ma realizzate con gli stessi materiali. È assai probabile, in particolare, che le versioni di Un’altra metà abbiano avuto origine dal lavoro ideativo della Colonna, 1972 uno dei capolavori della scultura di Nagasawa negli anni Settanta. L’estesa forma serpentina, infatti, composta da ben undici sezioni di marmo, comprende lo Statuario, il bianco di Carrara chiaro, il bianco di Carrara scuro, il rosa Portogallo chiaro e il rosa Portogallo scuro, il giallo di Siena, il gialletto di Verona, il Chiampo rosso, la breccia Viola, il Verde cipollino e nuovamente lo Statuario. Esemplare nel dar corpo a «un passaggio da un modo d’essere ad un altro, la Colonna è il corso di un fiume in marmo, capovolto. Ogni punto d’acqua di un fiume non mantiene le stesse relazioni con un altro punto nel flusso che si rigenera continuamente; così i punti di marmo che formano la Colonna non hanno alcuna relazione materiale storica, ogni sezione proviene da fonti tra loro lontane, ma la relazione è di risonanza, ogni sezione combacia perfettamente con la successiva e la precedente, e una estremità del tratto considerato combacia con la reciproca all’altra estremità. Come l’acqua non ha inizio e non ha fine»6. L’Oro di Ofir e la Colonna chiamano entrambi in causa la nozione di “Ma”, un tema costante o meglio un’essenza non trascurabile, per la sua pregnanza nell’opera e nel pensiero stesso di Nagasawa e inerente l’intera cultura orientale. Come lo “Spazio-Tempo” in Oriente si identifica in un ‘vuoto’, così il “Ma” è la relazione sempre presente tra le cose, lo spazio di tensione vicino o distante che le rende interdipendenti, connesse, non separabili ancorché distinte. Esemplificativamente, “Ma” è ciò che sta in mezzo, come una pausa tra due suoni, come un intervallo di spazio, ma anche come suono unico prodotto dalle mani in un applauso. Prodotto tra l’una e l’altra mano, quel suono è tra loro in ogni senso inseparabilmente, come entità spazio-temporale ovunque in atto. Ma è Nagasawa stesso a fornirne le più persuasive caratteristiche. A proposito della Colonna afferma: «Si tratta di undici pezzi di marmo, tutti di colori diversi, provenienti da luoghi diversi e lontani, distanti tra loro anche centinaia di chilometri, io li ho messi vicini. Ho messo gli undici marmi l’uno di seguito all’altro, mantenendo sempre un intervallo di un centimetro. In quel piccolo spazio si chiude la distanza dei loro viaggi e la loro storia»7. Sovente Nagasawa ha dichiarato che il momento migliore per il sopraggiungere delle idee e delle intuizioni nella sua mente è nello stato di dormi-veglia cioè in quel tempo che precede la caduta nel sonno ma in cui ancora si è svegli. Anche il dormi-veglia emblematizza il “Ma” tra i due stati della realtà e dell’irrealtà. Una condizione di sospensione, un vuoto che si manifesta come topos naturale del “Ma” si rivela altresì come elemento basilare nell’opera di Nagasawa. La presenza-assenza è d’altronde l’entità che recano altre sue opere. Presentazione al tempio, 1974 ne è esempio riferibile come d’après atipico di dipinti pressoché coevi tra loro di Giovanni Bellini e Andrea Mantegna. In questo lavoro di Nagasawa si sostanzia, con il rilevamento e la ricollocazione di centinaia di punti riferibili alle due storiche tele su due panneggi usati da Nagasawa, la diversità dei numerosi dettagli appartenenti alle celebri pitture e il quid dirimente la storica disputa tra i due grandi artisti in ordine alla priorità temporale di invenzione delle due opere. Ne ha la meglio una paradossalità e una sollecitazione dell’immaginario che, quale sistema annotativo di Nagasawa, precede il lavoro di altri artisti emuli a lui contemporanei. 10
6. L. M. Venturi, “Da un originale di fiume ad altre forme di realtà“, in catalogo mostra personale Nagasawa, presso Galleria Arte Borgogna, Milano, marzo aprile 1974, p.s.n. 7. Hidetoshi Nagasawa, in Caterina Niccolini,cit., p. 17.
8. Hidetoshi Nagasawa, La conoscenza rovesciata, cit., p. 90. 9. In questa mostra, l’allestimento di Viti di Baghdad, 1975 nell’ambiente chiuso della galleria non consente la dinamica che l’opera è in grado di esprimere all’aperto, ma le ragioni sono ovvie e strettamente rispondenti all’opportunità di una rivisitazione storica. 10. Maurizio Calvesi, “Il tempio di carta”, in Nagasawa – Carta, catalogo mostra Galleria Arco d’Alibert, Roma, CAM Editrice, febbraio 2004. 11. Hidetoshi Nagasawa, “Cucinare la carta”, in La conoscenza rovesciata, cit., pp. 24-25.
In Viti di Baghdad, 1975, baldacchino antiretorico inversamente dialettico con l’opera di Bernini in San Pietro a Roma e invece sintonizzato con la versione realizzata dall’amico Fabro (Baldacchino, 1980), Nagasawa più esplicitamente ora si confronta con ambienti en plein air, considerando nell’opera anche l’azione mutevole di elementi naturali che la circondano, come ad esempio la luce solare. Rinvenute in campagna parti di due tronchi di vite, Nagasawa le riproduce numerose volte con una fusione in bronzo, sino a ottenere i quattro sostegni del suo baldacchino. Al centro del baldacchino ricoperto da un tessuto di seta sorretto dalle viti contorte vi è la metà di un sasso; l’altra metà è fuori. Dichiara Nagasawa: «A mezzogiorno l’ombra cade sulla metà che è sotto la tela, alle tre l’ombra tocca l’altra metà: la distanza è di tre ore di luce. Camminando tra le due parti tu non puoi passare in mezzo al sasso»8. L’annotazione sottolinea la condizione originaria di quest’opera destinata all’aperto, sotto la luce solare, una volta di più mettendo in risalto la peculiarità dell’opera d’arte concepita per un determinato luogo9. In Rotolo, 1979, calco e successiva fusione in bronzo dorato di un “enorme fagiolo (un seme di metri 1,20) trovato in Brasile” il baccello fuoriesce dai rami della pianta anch’essa sbalzata in bronzo su un rotolo egualmente di bronzo come se la sua storia fosse pronunciata direttamente dal rotolo che la racconta. Ciò che rende unica questa scultura è l’abnormità della dimensione della manifestazione naturale, la quale rivela che la realtà è assai più stupefacente di quanto si possa immaginare. Il ‘prodigio’ a cui gli occhi assistono davanti a questo lavoro genera quei sentimenti di stupefazione e meraviglia che auspicabilmente l’opera d’arte dovrebbe sempre suscitare. Infine, la mostra esibisce ben quattro opere realizzate da Nagasawa con la carta tra il 1976 e il 1977. Sono tra le prime elaborate con intento plastico e considerando la carta come materiale in sé, anziché come supporto a disegni e progetti. Se nella lavorazione della carta l’Oriente eccelle, Nagasawa con essa si dimostra – senza esagerazione – un virtuoso, per quante originali forme egli vi ha ricavato nel corso degli anni. Nel 2003, in una ripresa dell’attività della galleria romana Arco d’Alibert fu chiesto a Nagasawa di realizzare delle opere in carta. Al momento dell’allestimento della mostra egli rivestì l’intero ambiente della galleria compreso il soffitto, con numerosi grandi fogli in rotoli di carta Fabriano – in sintonia con le Coreografie, 1975 di Fabro (Ambiente delle Italie, Galleria Stein) – e con opere in carta giapponese collocate una vicino all’altra come metope, creando un fregio continuo e trasformando la grande aula in un laico tempio dove «Oriente e Occidente si incontrano nella fantasia di un “tèmenos” tradotta in carta»10. Peraltro, in una conversazione sull’uso della carta, Nagasawa non lascia dubbi sulla sua concezione nell’elaborarla: «... non intendo trovare una maniera nuova nell’interpretazione di un materiale, ma prepararlo ad assumere tanti differenti sapori restando se stesso […] per me la carta è uguale a qualsiasi altro materiale […] Non è vero che della carta ho un’esperienza maggiore del marmo o del legno […] Con ogni materiale che non conosco ho paura, voglio affrontarlo, voglio vincere, però ci vuole tempo, perché prima di tutto bisogna studiarlo»11. Le opere in carta presenti in mostra a Firenze (lavoro di carta - cucito, 1976, lavoro di carta - intreccio, 1976, lavoro di carta - rete, 1977 e lavoro di carta - triangolo, 1977) recano ognuna un diverso principio di resa plastica nei modi di occultare, ispessire, sezionare, annodare, sovrapporre, tagliare; qualità di azioni che fanno vivere il materiale senza volerlo superare e snaturare. Nel percorso sin qui accennato attraverso le opere in mostra sono venuti alla ribalta temi, principi e metodi di una scultura a cui Nagasawa fornirà 11
continue prove di progressivi approfondimenti. La sua azione, al contrario del comportamento avanguardista volto a estendere orizzontalmente le esperienze in una continua conquista di latitudini sperimentali, si esplica verticalmente, approfondendo i gradi conoscitivi di alcuni fondamenti propri a diverse eppur comunicanti tradizioni. Nagasawa, quando necessario, non rinuncia a rivedere i rapporti con una tradizione, ma compie tale atto anche per continuare ad averli, magari approfondendoli. Egli non ha mai alienato le proprie radici orientali, ma ha reso possibile a sé il confronto con quelle del paese occidentale d’adozione: l’Italia. L’innesto, da lui attuato in se stesso, ha prodotto una coscienza dell’arte con aperture straordinarie nella scultura, ma anche nel pensiero poetico ed estetico di essa. La sua convinzione della necessità d’intervenire sulla materia, conoscendone prima a fondo le proprietà e munendosi di adeguate tecniche per trasformarla secondo le proprie intuizioni e idee, è uno degli insegnamenti fondamentali della sua opera. Non si dà concezione dell’opera senza l’idea che ne decide anche l’esito; per Nagasawa è altresì basilare studiare e avvicinarsi alla conoscenza delle regole della realtà non solo con la ragione, ma soprattutto con l’intuizione. Se lo scultore non lavora solo su ciò che vede ma su ciò che deve accadere, a maggior ragione deve aprirsi alla dimensione dell’invisibile di cui la realtà è in gran parte costituita. Chiunque sia stato una volta in Giappone e abbia visitato il giardino karesansui (giardino secco) di Ryoan-ji a Kyoto non può dimenticare d’aver contato tra le zolle del pettinato terreno le quattordici pietre osservabili contemporaneamente da tutti i punti di vista, mentre, in realtà, in quello stesso spazio le pietre sono quindici: ce n’è sempre una, ovunque ci si sposti, che si cela alla nostra vista. La mirabile creazione dell’antico giardiniere evoca il principio che non esiste solo ciò che si vede, ma anche l’invisibile ai nostri occhi. Nagasawa è anche l’artista che ci ha consegnato la nozione del Tempo Zero, quale dimensione istantanea del vivere nel presente. Con esso, istante ed eternità grazie a un’apertura della mente possono concentrarsi in un momento, frequente nel dormi-veglia, in cui si schiudono varchi di rivelazione del reale. La coscienza, inoltre, che deriva dal sapere connesse tra loro realtà anche distanti, rispondente alla nozione di “Ma”, quale spazio-tempo tra le cose, lo ha distinto tra gli artisti della sua generazione, munendolo di un’inclinazione alla metafisica che gli ha permesso di spingersi a progettare e realizzare la scultura ‘antigravitazionale’. Liberare il lavoro da ogni pesantezza, cercare la leggerezza, è uno degli obiettivi della sua scultura. Nella decade degli anni Settanta si assiste alla formazione e al consolidamento di esperienze che nei decenni successivi dell’attività di Nagasawa lo renderanno capace di consegnare una serie di capolavori in Italia, in Giappone e in altre parti del mondo esemplari per equilibrio, grazia, forza e vigore poetico. La riflessione postuma sulla sua opera, dopo averne seguite in vita le gesta epiche, dietro le sue orme, è appena iniziata. Febbraio 2019
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Bruno Corà
Hidetoshi Nagasawa. 1970s Sculpture: birth of the space of tension
Art, with its most talented exponents, is generous! And this is confirmed by the truly extraordinary exhibition of works by Hidetoshi Nagasawa at Galleria Il Ponte in Florence, specifically dedicated to his 1970s oeuvre, at just under a year since the great maestro’s death. Like Kounellis, Twombly, and few others, after choosing to live and work in Italy and absorbing its aesthetic traditions, conceptualities and operating methods in his imaginary universe, without forgetting those of his own roots in Asian and Japanese culture, he proved he could metabolize both Eastern and Western poetic sources, conveying them into one of the most intensely motivated and convincing plastic languages of the second half of the twentieth century. Thus, alongside each other at Galleria Il Ponte we can admire some works chosen from that decade which was determining for all of Nagasawa’s action. It was an outstanding period that marked the beginning of a masterful artistic inventiveness, which stood firm, not losing any intensity or integrity over a whole half century. In 1966 Nagasawa set off on his legendary journey by ship from Japan to Bangkok, then continuingwestwards by bike. After covering thousands of kilometres and crossing tens of borders – into Thailand, Malaysia, Singapore, India, Pakistan, Afghanistan, Persia, Iraq, Jordan, Lebanon, Syria andTurkey – he finally arrived in Istanbul. Here, moved by listening to the music of Mozart on a portable radio, he traversed the Bosporous strait to enter Europe. So, despite his plans to return home, he continued on his way through Greece and across the Adriatic to reach Italy. In Milan, he would neverhave imagined that the unexpected theft of his bicycle, after a night spent sleeping outdoors, would mark his destiny and the beginning of a ‘new life’ in Italy, full of adventures, encounters and prodigious artworks that now bear his name. Whatever the past events that delayed the widespread recognition of his action, undervalued the significance of his teaching or somewhat irresponsibly distracted the critics (except in some cases)1 from his work, now there is no stopping the growth of knowledge and appreciation of his art, as well as its recognition in Italy and abroad. This new appointment at galleria Il Ponte – despite his fatal absence – after his solo exhibition in 2005 in the same premises in Via di Mezzo, when he had personally installed the great wooden Interferenza, 2005, offers the opportunity to meditate on and admire the germination of the first works of sculpture by this truly great artist. Therefore, Andrea Alibrandi seems to have undertaken a wise and providential action in wanting to dedicate a first retrospective glance at one part of his oeuvre. It is a part that altogether not only confirms his exemplary poetic and artistic level, but which, when observing its initial pronouncements and fundamental principles, reveals an extremely fertile vision and an aesthetic-poetic openness to which the youngest generations today and for a long time still can look so as to extract strong emotions and precious guidance. THE WORKS OF THE 1970S AND THE BIRTH OF NAGASAWA’S SPACE OF TENSION
1. The dedication of scholars such as Toshiaki Minemura in Japan and Jole De Sanna in Italy, authors who have drawn up numerous historical and critical reflections on the work of Nagasawa, is well known. Moreover, it is well documented in the catalogue raisonné of works (from 1968 to 1996) by Caterina Niccolini, published by De Luca, Rome, 1997.
Even though the conception of time which Nagasawa always kept to in his work was different from the traditional linear paradigm of past-present-future, in this reflection relating to the works present in the exhibition, for practical reasons, my observations will follow their chronological realization. As such, the work Pulverize, 1969, which predates all of the others in this exemplary collection dedicated to the decade of the 1970s, also draws a line under the maestro’s period of activities based on performances and video recordings when he was inclined to present himself in a “present” that was as incisive 13
and immediate as it was evanescent and sparing in leaving behind a relic or physical trace. So, in line with the language of the time and emblematic of a sensitivity towards a dematerializing reductionism, the work Pulverize, 1969, essentially comprises two parts: one, rendered photographically, representing a considered object, positioned behind glass on a frame on the wall, and the other through a glass container placed on the floor and linked to the picture with a chain; the jar, with relative explanatory label, bears the details: “Cloth Bucket, 400 g, h. 28 cm, Ø 25 cm – Pulverize ...” as well as the date and address of the place where the work was created. In this work and others featuring the same process of turning the physical matter into ash, Nagasawa shows that he considers the materials and objects with their history. Even though he then burnt everything, he preserved the contents of the combustion in the form of ash. Even though the material and the objects had undergone a change of state, he preserved their energy and memory. The “Pulverize” works can be considered Nagasawa’s first sculptural creations. They would be followed by new experiences increasingly aimed at giving shape to a notion of plasticity prompted by the desire to make a work whose semantic part is the upshot of simple gestures, using the smallest possible amount of material. What is more, these works highlight what does not appear more than what does. This period of Nagasawa’s work shows his primary concern with creating a work that is easy to communicate, in whichever way, through actions and gestures. These acts seem to be moved by Nagasawa’s implicit intention to highlight the contradiction between the object’s annulment and negation and the preservation of the memory of the gesture carried out. But no less significant is his intention to visualize the transformation of the matter or an object from one physical state to another through the use of fire. If “photographs and ash” recount the extinction of objects used by Nagasawa during his bike journey from Japan to Europe, after taking lifesize photographs of them and then burning and preserving them without oxygen so that they would undergo no further change, he then takes up different procedures. And so he enters the domain of sculpture based on methods concerned with non-appearance, which he had learnt as a young artist finding his feet in the Gutai group. They would be works based on a tautology, like Firma, 1970, which reproduces just the artist’s signature, or Linea, 1971, which is formed by a black line traced on fabric then assembled on a wooden support in order to give new physicality and contents to its plasticity. “My work consists of seeking a space of tension inside objects where intelligence is not enough; this is why we also need to use intuition, which leads back to a now forgotten, total ancient dimension.”2 With this essential principle – exercising intuition – foundation of Zen philosophy and all Eastern thought, after going through a conceptual period, tautological praxes and other experiences connected to use of the body and photo and cinematographic media suited to documenting his actions, Nagasawa finally makes his new work real with Oro di Ofir, 1971. It becomes the milestone and watershed of all his subsequent plastic work. It marks an endpoint that enables him to go beyond all previous conceptuality, all remains in the field of visual conjecture, to pass to the realization of a new sculptural language as the outcome of a very much more elementary spatiality. “I wanted to make a gesture,” Nagasawa recounts, “which could give rise to a sculpture. I had to start from a gesture, the sense of touch, contact with the material, to create something … like the gesture of a god. But I wanted it to be as clear and simple as possible, so I thought of creating a thing from 14
2. Hidetoshi Nagasawa, in L. Haller, interview with Nagasawa, in Flash Art. 37, Milan, November 1972, pp.10-11.
the emptiness, I touched the gold with my hands and that’s how Oro di Ofir came into being.”3 In another circumstance he declares: “The work is made of gold. You can’t see the space inside your hands. I wanted to touch where you cannot see. Then, when the hands open, this space is no longer there. You can touch but not see and vice versa.”4 The two forms materially equivalent to the space inside his hands closed in a fist are therefore invisible entities. They make it manifestly visible, providing a first manifestation of the space of tension inside bodies, things and objects which, albeit invisible in many cases, cannot be considered inexistent. The announcement that Nagasawa formulates with Oro di Ofir had explosive consequences on a lot of the minimalist and conceptual aesthetics of the time, since it helped to put not only thought but also the matter and handiwork necessary to transform its shapes back into the centre of the artistic piece. It reopened a perspective that seemed to have been closed. At that time few plastic propositions were aimed, like that of Nagasawa, at giving shape to the dimension of the invisible. However, of these, one certainly worthy of mention is the work of Giovanni Anselmo, who was also engaged on the same front of raising awareness of that dimension. His works include Invisibile, 1970, comprising two steel ingots of which only the one with the word “visible” written on it can be observed in space. The other, bearing the rest of the word “in”, is found elsewhere and therefore can only be imagined. Oro di Ofir, 1971, its name echoing history and the Bible, at the same time paves the way to the work’s potential to appeal in time. Indeed, from henceforth, driven by the desire to expand his knowledge of the sources of Western culture, Nagasawa often gave his works titles taken from great poems or historical compositions he had read from countries of the Mediterranean area and beyond. In this case, the cue comes from reading the first book of Kings in the Bible, which reminds us that “King Solomon also built a fleet of ships at Eziongeber, which is near Elath, on the shore of the Gulf of Aqaba, in the land of Edom. King Hiram sent some experienced seamen from his fleet to serve with Solomon’s men. They sailed to the land of Ophir, and brought back to Solomon more than fourteen thousand kilogrammes of gold.”5 The still unknown location of Ophir gave Nagasawa’s new creation a mythical uncertainty which also affected the reflection of Nagasawa’s greatest exegete, Minemura. Indeed, he asserted that the matter, the technique used on it, Nagasawa’s manual treatment of it, the essence and the mythical theme “contravened the art of Mono-Ha, proclaiming the sublime potential of metaphorical expression possessed by the stylistic deviation of sculpture”. Furthermore, Oro di Ofir greatly stimulated the artists Toya and Kurokawa too, personalities considered “beacons” in Japanese sculpture of the 1980s. The language anticipated in Nagasawa’s new work therefore proves to be an important innovation on the same Japanese art scene.
3. Hidetoshi Nagasawa in the above-mentioned C. Niccolini, Nagasawa – tra cielo e terra, catalogue raisonné of the works from 1968 to 1996, p. 15. 4. Hidetoshi Nagasawa, La conoscenza rovesciata, edited by J. De Sanna, Nike s.a.s., Segrate, Milan 2000, p.85. 5. The Good News Bible, I Kings 9, 26-28, Collins, Swindon 1976, p. 343.
As Nagasawa developed his conception of space, his other investigations led to the creation of morphologies such as Gomito, 1972 and Mani, 1972, both sizing up with the anthropological sphere. These were followed by Cornice, 1972 and Nudo, 1972, while Un’altra metà, 1972, in bronze and stone, highlighting the identity of the shape by integrating parts of different matter. Both Gomito and Un’altra metà belong to a small series of versions each with different measurements but made with the same materials. It is quite probable, in particular, that the versions of Un’altra metà originated from the work that went into devising Colonna, 1972, one of the masterpieces of Nagasawa’s 1970s sculpture. The long serpentine form is made of no fewer than eleven sections of marble, including Statuario, 15
pale Carrara White, dark Carrara White, pale Rosa Portogallo and dark Rosa Portogallo, Siena Yellow, Verona Yellow, Chiampo Red, Breccia Violet, Cipollino Green and again Statuario. Exemplifying “a passage from one way of being to another, the Colonna is the course of a marble river, the wrong way up. No point of water in a river keeps the same relations with another point in the flow, which is continually regenerated; so the points of marble that form the Colonna have no historical material relationship, all the sections come from distant sources from each other, but the relationship reverberates, each section fits perfectly with the one either side of it, and one end of the stretch in consideration fits with the same at the other end. Like water, it has no beginning and no end.”6 Oro di Ofir and Colonna both call into question the notion of “Ma”, a constant theme or rather an essence non-negligible due to its significance in the work and in the very thinking of Nagasawa, and inherent to the whole of Eastern culture. Just as “Space-Time” means a ‘void’ in the East, in the same way “Ma” is the ever-present relationship between things, the near or distant space of tension that makes them interdependent, connected, not separable yet distinct. As an example, “Ma” is what is in the middle, like a pause between two sounds, like an interval in space, but also like the single sound produced by hands applauding. Produced between one hand and the other, that sound is inseparably between them in every sense, like space-time entities at play everywhere. But it is Nagasawa himself who provides its most persuasive characteristics. On the Colonna he states: “They are eleven pieces of marble, all of different colours, from different and distant places, even hundreds of kilometres away from each other. I put them close together. I put the eleven pieces of marble one after the other, always keeping a one-centimetre gap between them. That small space encloses the distance of their journeys and their stories”.7 Nagasawa has often declared that the best time for ideas and intuitions to come to mind is when he is on the verge of falling asleep. This stage of semi-wakefulness also emblemizes the “Ma” between the two states of reality and unreality. In the same way, a condition of suspension, a void that appears as the natural topos of the “Ma” also proves to be a basic element in Nagasawa’s work. Besides, presence-absence is the entity betrayed by other works of his. Presentazione al tempio, 1974, is an example that can be deemed an atypical appropriation of the almost contemporary paintings by Giovanni Bellini and Andrea Mantegna. By revealing and repositioning hundreds of dots referring to the two historical canvases on two used sheets, this work by Nagasawa substantiates the difference between numerous details belonging to the famous paintings and what settled the historic dispute between the two great artists as to which of the two works came first. What wins the day is a paradoxicality and arousal of the imaginary which, like Nagasawa’s system of annotation, predates the work of other contemporary artists who emulated him. Viti di Baghdad, 1975 is an anti-rhetorical canopy inversely dialectical to the work of Bernini in Saint Peter’s in Rome but in sync with the version made by his friend Fabro (Baldacchino, 1980). In it, Nagasawa now more explicitly tackles the outdoors, as he also considers the changing action of the natural elements, such as sunlight, on the work. Having found parts of two vine trunks in the countryside, Nagasawa casts and reproduces them numerous times in bronze until he obtains the four supports for his canopy. In the centre of the silk-covered canopy held up by the twisted vines is half a stone; the other half is outside. Nagasawa declares: “At midday the shadow falls on the half that is under the fabric, at three the shadow touches the other half: the distance is three light hours. When walking between the two 16
6. L. M. Venturi, “Da un originale di fiume ad altre forme di realtà”, in the catalogue for the solo Nagasawa exhibition at Galleria Arte Borgogna, Milan, March April 1974, s.n. 7. Hidetoshi Nagasawa in C. Niccolini, Nagasawa, p. 17.
parts, you can’t pass through the middle of the stone”.8 The note underlines the original condition of this work, designed for the outdoors, in the sunlight, once again highlighting the distinctive nature of the artwork devised for a particular place.9 In Rotolo, 1979, cast subsequently set in gilt bronze of an “enormous bean (a 1.20-metre seed) found in Brazil”, the pod comes out of the branches of the plant embossed in bronze on a roll also made of bronze as if its tale were pronounced directly by the storytelling roll. What makes this sculpture unique is the abnormal size of the natural element, which reveals that reality is a lot more astonishing than one might think. The ‘prodigy’ seen when contemplating this work generates those feelings of amazement and wonder that it is hoped a work of art should always arouse. Lastly, the exhibition displays no less than four paper works made by Nagasawa between 1976 and 1977. They are among the first ones created with a plastic intention, considering paper as a material in itself, rather than as the medium for drawings and designs. If the East excels in papercraft, Nagasawa demonstrates – and this is no exaggeration – that he is a virtuoso, owing to quite how many original forms he has made from the material over the years. When the Roman gallery Arco d’Alibert reopened in 2003, Nagasawa was asked to make some paper works. When he set up the exhibition, he covered the whole gallery, including the ceiling, with numerous large rolled-up sheets of Fabriano paper – in harmony with the Coreografie, 1975 by Fabro (Ambiente delle Italie, Galleria Stein) – and with works made of Japanese paper positioned close to each other like metopes, creating a frieze and transforming the great hall into a secular temple where “East and West meet in the fantasy of a ‘temenos’ translated into paper”.10 Besides, in a conversation on the use of paper, Nagasawa leaves no doubt as to his conception of papercraft: “... I don’t set out to find a new manner of interpreting a material, but to prepare it to conjure up lots of different flavours while remaining itself (…) for me paper is the same as any other material (…) It’s not true that I have more experience of paper than marble or wood (…) I’m afraid of all materials that I don’t know, I want to tackle them, win, but it takes time, because first of all you have to study them.”11 The paper works present in the exhibition in Florence (lavoro di carta cucito, 1976, lavoro di carta - intreccio, 1976, lavoro di carta - rete, 1977 and lavoro di carta – triangolo, 1977) each contain a different plastic principle in their rendering, in how they hide, thicken, are sectioned, knotted, overlapped, cut. Without wanting to supersede or misrepresent the material, the different actions bring it to life.
8. Hidetoshi Nagasawa, La conoscenza rovesciata, p. 90. 9. In this exhibition, the Viti di Baghdad, 1975, was set up inside the gallery. This prevented the dynamic that the work can express in the open air, but the reasons for this are obvious owing to the fact that the space cannot change to suit the work. 10. Maurizio Calvesi, “Il tempio di carta”, in Nagasawa – Carta, catalogue of the exhibition at Galleria Arco d’Alibert, Rome, CAM Editrice, February 2004. 11. Hidetoshi Nagasawa, “Cucinare la carta” in La conoscenza rovesciata, pp. 24-25.
In his journey outlined thus far through the works on show, topics, principles and methods have come to light which Nagasawa would continue to test and progressively investigate in his sculpture. Contrary to avant-garde behaviour which strove to extend its experiences in a horizontal fashion, continually looking to conquer a vaster experimental plane, his action extends vertically, deepening his knowledge of some foundations belonging to different and yet communicating traditions. When necessary, Nagasawa does not fail to review the relations with a tradition, but he does so also in order to continue these relations, and perhaps even deepen them. He never discarded his Eastern roots, but allowed himself to compare them with those of his Western country of adoption: Italy. By grafting together these different backgrounds, in his art he produced a consciousness with an extraordinary openness not only in his sculpture, but also in his poetic and aesthetic way of thinking it. His conviction of the necessity to intervene on the matter, first of all through an in-depth knowledge of its properties and then through 17
suitable techniques to transform it according to his intuitions and ideas, is one of the fundamental lessons of his work. There is no conception of the work without the idea that also decides its outcome; for Nagasawa it is equally as fundamental to study and approach knowledge of the rules of reality not only with reason, but above all with intuition. If sculptors work not only on what they see but on what has to happen, it is all the more necessary for them to open up to the dimension of the invisible which forms a large part of reality. Whoever has been to Japan and has seen the karesansui (dry landscape garden) of Ryoan-ji in Kyoto cannot forget having counted 14 stones – the number that can be seen at the same time from any viewpoint – set out in the neatly combed soil, while, in reality, the space contains 15 stones: there is always one, whichever position you are in, that is hidden from view. The ancient gardener’s enchanting creation evokes the principle that it is not only what we see, but also what is invisible to our eyes that exists. Nagasawa is also the artist who gave us the notion of Time Zero, the instantaneous dimension of living in the present. With this and an open mind, instant and eternity can be concentrated in one moment, as is frequent in the state of semi-wakefulness, when the gateways revealing the real unclose. Furthermore, his consciousness deriving from the knowledge that even distant realities are connected, responding to the notion of “Ma” as the space-time between things, made him stand apart from the artists of his generation. Inclining him towards metaphysics, it allowed him to go so far as to design and make ‘anti-gravitational’ sculpture, freeing his work from all heaviness, in the search for weightlessness. In the decade of the 1970s, we can see the formation and consolidation of experiences that in the following decades of Nagasawa’s activity would enable him to deliver a series of masterpieces in Italy, Japan and other parts of the world of an exemplary equilibrium, grace, strength and poetic vigour. After following the epic gestures made during his lifetime, the posthumous reflection on his work, in his footsteps, has just begun. February 2019
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Vorrei vivere come un antico ‘trovatore’, anche perché mi piace molto viaggiare. In ogni posto cerco di trovare un rapporto, di scoprire un legame. I’d like to live like an ancient ‘troubadour’, also because I love travelling. Everywhere I go I try to find a relationship, to discover a bond.
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1. Toccata, 1970-72*
2. Oro di Ofir, 1971*
3. Viaggio, 1971
4. Ruota, 1971
5. Dante, Leonardo, Michelangelo, 1971
6. Isola, 1972
7. Bastone, 1972
8. Mani, 1972
9. Due cerchi, 1972
10. Colonna, 1972* Louisiana Museum, Danimarca, 1974
10. Colonna, 1972, XXXVI Biennale di Venezia, Venezia, 1972*
11. Un sasso, 1972
12. Un’altra metà, 1972
13. Nudo, 1972
14. Volterra ’73, Volterra, 1973
15. Piroga, 1973, 16. Pastorale, 1974, L’Attico, Roma, 1975
17. Macchia di cera, 1974
18. Macchia di cera, 1974
19. Linee di matita, 1974
20. Lavoro di carta - Filato, 1976
21. In medio virtus, 1975, L’Attico, Roma, 1975
22. Nicchia, 1975, L’Attico, Roma, 1975
23. Porta, 1975, L’Attico, Roma, 1975
24. Viti di Bagdad, 1975, Convento di San’Agostino, Bergamo, 1981*
25. Mano, 1976
26. Tegola, 1977
27. Mare, 1978
I. Lavoro di carta - Cucito, 1976
II. Lavoro di carta - Intreccio, 1976
III. Lavoro di carta - Rete, 1977
IV. Rotolo, 1979
V. Linea, 1971
VI. Presentazione al tempio, 1974
VII. Pulverize - Cloth Bucket, 1969
VIII. Un’altra metà, 1972
IX. Oro di Ofir, 1993 X. Gomito, 1972
XI. Firma, 1970
XII. Lavoro di carta - Triangolo, 1977
XIII. Colonna, 1972
XIV. Viti di Bagdad, 1975
Nota Biografica
Hidetoshi Nagasawa nasce in Manciuria (da genitori giapponesi, ivi trasferitisi per il lavoro del padre, medico militare) il 30 ottobre del 1940. Durante il conflitto mondiale con l’attacco dell’Unione Sovietica la famiglia è costretta a fuggire in Giappone, vicino a Tokyo. In questi difficili anni minati dalla guerra, Nagasawa frequenta la scuola secondaria dove si avvicina all’arte contemporanea aprendosi ai gruppi d’avanguardia (Neo-Dada) e in particolar modo scoprendo l’attività del gruppo Gutai (di cui ammira la creatività, la libertà di espressione attraverso le loro Azioni e la novità del linguaggio – con ogni mezzo si può esprimere l’idea – in opposizione alla tradizionale cultura accademica dell’ambiente artistico giapponese) visitando le loro ripetute Esposizioni Indipendenti organizzate al Museo di Tokyo dal giornale Yomiuri News Paper fino al 1964. Nel 1963 si laurea al corso di Architettura e Interior Design e in seguito lavora in uno studio di design di un grande magazzino e poi in uno studio di architettura. Nel 1966 inizia il suo – quanto mai fondamentale e per la sua vita e per la sua arte – viaggio in bicicletta attraverso l’Asia toccando Bangkok, la Malesia, Singapore, l’India, il Pakistan, l’Afghanistan, la Persia, l’Iraq, la Giordania, il Libano, la Siria, la Turchia. Dall’Oriente all’Occidente, dalla Grecia all’Italia, da Brindisi a Napoli, Roma, Firenze e Milano, dove nel 1967 si conclude la sua irripetibile avventura (tipicamente zen: non proporsi dove arrivare, ma far tesoro di ogni esperienza vissuta per il raggiungimento del profondo sé – che per l’artista si sublimerà con la pratica dell’Arte). Negli anni Sessanta a Milano si respira un clima di stimolante fervore artistico (l’esperienza dell’operato di Manzoni, di Fontana, e ora dell’Arte Povera) al quale non si sottrae Nagasawa che, trasferendosi nel quartiere operaio di Sesto San Giovanni, entra in contatto con artisti come Castellani, Fabro, Nigro, Trotta, Ongaro. In particolar modo stringerà una forte amicizia con Fabro. Dal 1968 il lavoro di Nagasawa procede senza interruzioni creando i Solidi di plexiglas, gli Oggetti manipolati, le Azioni nella campagna lombarda. Nello stesso anno prende parte all’Art Festival di Anfo – Brescia – insieme al Gruppo Torinese (Marisa Merz, Getulio Alviani, Nanda Vigo). Dei primi anni Settanta sono le prime personali, a Milano (Gallerie Lambert, Galleria Toselli), Roma (Gallerie L’Attico, Arco d’Alibert), Torino (Galleria Christian Stein) in cui l’artista rivela un suo percorso che si inserisce nell’ambito dell’Arte Concettuale passando dai video alle parole, concepite come elemento visivo, incise su lastre metalliche. In questi anni prende corpo anche una vera e propria produzione scultorea, con l’impiego dell’oro, del marmo, del bronzo. Nel 1972 partecipa alla XXXVI Biennale di Venezia e sviluppa un importante rapporto di lavoro con Ardemagni della galleria milanese Arte Borgogna che cura il catalogo della mostra tenuta da Nagasawa a Basilea dello stesso anno, Internationale Kunstmesse Art 3 ’72, con testi di Pierre Restany e Gianni Schubert. Questo decennio e il successivo vedono l’artista cimentarsi con successo in una produzione vasta e varia per temi (l’impronta del corpo, lo spazio, il tempo), mezzi di espressione, materiali (legno, ferro, cera, carta, bambù). Riscopre il valore della manualità e la scultura si espande su scala spaziale, risolvendosi in vera e propria creazione di “luoghi” (tra i soggetti ricorrenti, dimore, stanze, porte, muri, recinti, barche, paraventi). I riferimenti alla cultura orientale si accentuano; il tema del viaggio come passaggio tra diverse realtà, il bilico delle sue opere tra visibile e invisibile, la materialità della scultura che si rende leggera e trasparente sono condizioni determinanti nella manifestazione del proprio linguaggio. Conseguentemente, gli impegni espositivi nazionali e internazionali in personali e collettive, in spazi pubblici: 1978, Firenze, Palazzo Strozzi; 1982 e ’88, Biennale di Venezia; Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna 113
e privati: 1981, Galleria Sperone, Torino; 1988, Valeria Belvedere, Milano (con la quale intesse un rapporto artistico costante con esposizioni nel 1990, 1992, 1993, 1996). Si susseguono Documenta di Kassel (1992), Biennale di Venezia (1993) – con sala monografica nel Padiglione Italiano – International Exhibition Center di Tokyo (1995, Giardino delle Sette Fontane, il primo giardino realizzato dall’artista), Fattoria di Celle di Pistoia (Iperuranio) e Fondazione Mirò di Palma di Mallorca (1996, Jardin), Palazzo della Triennale di Milano e Palazzo Pretorio di Certaldo (2001, Giardino della casa del tè), Palazzo delle Stelline di Milano (2002), Il Caffè Letterario di Modena (2003), Galleria Arco d’Alibert (2004) e Nuova Pesa di Roma e galleria Il Ponte di Firenze con la mostra Interferenza (2005). Nel 2006 partecipa alla XII Biennale Internazionale di Scultura di Carrara ed espone presso la Torre di Guevara di Ischia. Nel 2008 realizza l’opera Giardino rovesciato per il parcomuseo della Villa medicea La Magia a Quarrata (Pistoia). Tra le mostre degli ultimi anni si ricorda Nagasawa. Dove tende Aurora, organizzata fra il 2009 e il 2010 in Giappone a Saitama (Kawangoe City Museum / The Museum of Modern art), Osaka (The National Museum of Art), Kanagawa (The Museum of Moder Art) e Nagasaki (Prefectural Art Museum); Nel segno della Croce, Galleria San Fedele (Milano, 2010); Hidetoshi Nagasawa, MACRO (Roma, 2013); Hidetoshi Nagasawa, CAMUSAC (Cassino, 2014, a cura di Bruno Corà); Sette Anelli, Renata Fabbri arte contemporanea (Milano, 2015); Vortici, Palazzo Ducale (Mantova, 2016); Galleggiamento, Galleria Adalberto Catanzaro (Bagheria 2017, a cura di Bruno Corà); Hidetoshi Nagasawa. La scultura degli anni ‘70, Galleria Il Ponte (Firenze, 2019, a cura di Bruno Corà). Le sue opere sono nelle collezioni del Solomon R.Guggenheim Museum di New York, Middelheim Muse, Anversa, e Giappone (National Museum of Modern Art, Osaka; Museum of Contemporary Art, Hiroshima; Municipio Adachi-ku, Tokyo; Contemporary Art Center, Mito). Muore a Milano nel marzo del 2018.
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Selected Biography
Hidetoshi Nagasawa was born in Manchuria on 30 October 1940 (his parents were Japanese and had moved there because of his father’s work; he was an army doctor). During World War Two, the Soviet Union’s attack meant that they had to flee to Japan, to near Tokyo. In these difficult years, tainted by the war, Nagasawa went to secondary school where he learned about contemporary art, opening up to contemporary groups (Neo-Dada) and discovered the activities of the Gutai group: he admired their creativity, their freedom of expression through their Actions and their new language – by which one could express an idea with any means – totally opposed to the academic cultural tradition of the Japanese artistic milieu. He visited their many Independent Exhibitions organized at the Tokyo Museum by the Yomiuri Newspaper until 1964 In 1963 he obtained a degree in Architecture and Interior Design and straight away began working in the design studio of a department store and later in an architect’s studio. In 1966 he began his bicycle trip – fundamental for his life and for his art – across Asia, passing through Bangkok, Malaysia, Singapore, India, Pakistan, Afghanistan, Persia, Iraq, Jordan, the Lebanon, Syria, and Turkey. From East to West, from Greece to Italy, from Brindisi to Naples, Rome, Florence and Milan, where in 1967 his unrepeatable adventure came to an end. It had been typically Zen: don’t think about the arrival, but treasure every experience you live through in order to reach your most profound being; for the artist this would be exalted by the practise of Art. During the Sixties in Milan there was an atmosphere of stimulating artistic fervour (the work of Manzoni, of Fontana and later of Arte Povera), which Nagasawa was keen to join in. He moved to the working-class neighbourhood of Sesto San Giovanni, and came into contact with artists such as Castellani, Fabro, Nigro, Trotta, and Ongaro. He formed a particularly strong friendship with Fabro. From 1968 Nagasawa’s work went forward strongly; he created Perspex Solids, manipulated Objects, and created Actions in the countryside in Lombardy. In the same year he took part in the Anfo Art Festival (near Brescia) with the Turin Group (Marisa Merz, Getulio Alviani, Nanda Vigo). The early Seventies saw his first personal shows, in Milan (Lambert, Toselli Galleries), Rome (L’Attico, Arco d’Alibert Galleries) and Turin (Galleria Christian Stein), in which the artist revealed a personal journey which can be inserted into the sphere of Conceptual Art passing from video to words, conceived as visual elements, engraved onto metal sheets. During those years Nagasawa undertook the production of many works of sculpture, using gold, marble and bronze. In 1972 he took part in the 26th Venice Bienniale and developed an important working relationship with Ardemagni from the Milanese gallery; he curated the catalogue for the show that Nagasawa had that year in Basel: Internationale Kunstmesse Art 3 ’72, with text by Pierre Restany and Gianni Schubert. This and the following decade saw the artist consolidate his work with a vast production touching on various themes (the imprint of the body, space, time), means of expression, materials (wood, iron, wax, paper, bamboo). He rediscovered the value of handicrafts, and his sculptures expanded in space, becoming true creations of “places” (among recurring themes are those of dwellings, rooms, doors, walls, enclosed spaces, boats and screens). The references to Oriental culture became accentuated; Nagasawa’s artistic language hinges on various themes: that of travel as a passage between different realities, the balance between visible and invisible, and the materiality of sculpture which becomes light and transparent. Nagasawa has taken part in many Italian and international exhibitions, both personal 115
and collective, in public spaces: 1978, Florence, Palazzo Strozzi; 1982 and ’88, the Venice Biennale; Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna and private shows: 1981, Galleria Sperone, Turin; 1988, Valeria Belvedere, Milan (with which he interweaves a constant artistic relationship with exhibitions in 1990, 1992, 1993, 1996). These were followed by the Documenta show in Kassel (1992), the Venice Biennale (1993) – with a monographic room in the Italian pavilion – the Tokyo International Exhibition Center (1995, The Garden of the Seven Fountains, the first garden project of the artist), the Fattoria di Celle in Pistoia (Hyperuranium) and the Miró Foundation in Palma di Mallorca (1996, Garden), Palazzo della Triennale in Milan and the Palazzo Pretorio in Certaldo (2001, The Garden of the Tea House), Milan’s Palazzo delle Stelline (2002), Modena’s Caffè Letterario (2003), Rome’s Galleria Arco d’Alibert (2004) and Nuova Pesa (2005) and Il Ponte gallery in Florence (Interferenza). In 2006 he took part in the 12th Biennale Internazionale di Scultura di Carrara and he exhibited at the Torre di Guevara on Ischia . In 2008 he made the work Giardino rovesciato for the museum park at the Medici villa La Magia in Quarrata (Pistoia). Among the exhibitions in recent years, Nagasawa. Dove tende Aurora, organized between 2009 and 2010 in Japan, in Saitama (Kawangoe City Museum / The Museum of Modern Art), Osaka (The National Museum of Art), Kanagawa (The Museum of Modern Art) and Nagasaki (Prefectural Art Museum); Nel segno della Croce, Galleria San Fedele (Milan, 2010); Hidetoshi Nagasawa, MACRO (Rome, 2013); Hidetoshi Nagasawa, CAMUSAC (Cassino, 2014, curated by Bruno Corà); Sette Anelli, Renata Fabbri arte contemporanea (Milan, 2015); Vortici, Palazzo Ducale (Mantova, 2016); and Galleggiamento, Galleria Adalberto Catanzaro (Bagheria 2017, curated by Bruno Corà); Hidetoshi Nagasawa. The sculpture of the 70s, Galleria Il Ponte (Florence, 2019, curated by Bruno Corà). His works feature in the collections of the Solomon R. Guggenheim Museum in New York, the Middelheim Museum in Antwerp, and in Japan (the National Museum of Modern Art, Osaka, the Museum of Contemporary Art, Hiroshima, the Adachi-ku municipal hall, Tokyo and the Contemporary Art Center, Mito). He died in Milan in March 2018.
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INDICE DELLE OPERE / INDEX OF WORKS
Indice / Index
1. Toccata, 1970-72, Azione (Frames da video In TV OUT 1 videotape di Luciano Giaccari, marzo 1972, Videoteca Giaccari, Varese)
2. Oro di Ofir, 1971 oro (24 K) 3,5x3,5x8 cm ciascuno (2 elementi) foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
3. Viaggio, 1971 carta e inchiostro di china, 85x110 cm (9 fogli) foto di Roberto Marossi
4. Ruota, 1971 marmo e rame, 70x70x15 cm foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
5. Dante, Leonardo, Michelangelo, 1971 bronzo, 133x43x3 cm (3 elementi) foto di Giancarlo Baghetti
6. Isola, 1972 bronzo, 58x30x10 cm foto di Anzaï
8. Mani, 1972 lastra di bronzo (recto e verso), 48x49 cm foto di Giancarlo Baghetti
13. Nudo, 1972 bronzo130x5x5 cm foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
7. Bastone, 1972 marmo e corda, 180x5ø cm foto di Roberto Marossi
9. Due cerchi, 1972 bronzo, 70ø cm ciascuno (2 elementi) foto di Anzaï
10. Colonna, 1972 marmo, 30x700x30 cm foto di Anzaï e foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa * vedi tav. XIII
11. Un sasso, 1972 marmo, 30x50x23 cm foto di Giancarlo Colombo
12. Un’altra metà, 1972 pietra e bronzo, 18x26x18 cm
14. Volterra ’73 alabastro, 30x500x80 cm (installazione temporanea) foto di Enrico Cattaneo
15. Piroga, 1973 legno di castagno, ferro e corda di cuoio, 50x400x60 cm foto di Anzaï e Mimmo Capone
16. Pastorale, 1974 legno di castagno e ferro, 192x80x10 cm foto di Mimmo Capone
17. Macchia di cera, 1974 carta, cera e inchiostro, 96x67 cm foto di Torquato Perissi
18. Macchia di cera, 1974 carta, cera e inchiostro, 90x60 cm foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
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19. Linee di matita, 1974 matita su carta, 80x60 cm (rovesciare dx sn) foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
20. Lavoro di carta - Filato, 1976 carta, 250x170 cm foto di Giovanni Ricci
21. In medio virtus, 1975 marmo e stoffa, 2 elementi 186x35x35 cm e 184x34x34 cm foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
22. Nicchia, 1975 bronzo, gesso e marmo, 150x80x50 cm foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
23. Porta, 1975 legno di cirmolo, 200x120x20 cm foto di Claudio Abate
24. Viti di Bagdad, 1975 bronzo, marmo e seta, 300x167x167 cm foto di Giancarlo Baghetti * vedi tav. XIV
25. Mano, 1976 cera, gesso e legno, 20x137x40 cm foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
26. Tegola, 1977 marmo, 8x26x33 cm foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
27. Mare, 1978 bronzo, 63x54x13 cm foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa
INDICE DELLE OPERE IN MOSTRA / INDEX OF EXHIBITION WORKS I Lavoro di carta - Cucito, 1976 carta, 160x100 cm foto di Torquato Perissi
II Lavoro di carta - Intreccio, 1976 carta e polvere di carbone, 156x102 cm foto di Torquato Perissi
III Lavoro di carta - Rete, 1977 carta, 167x85 cm foto di Torquato Perissi
IV Rotolo, 1979 bronzo e oro, 100x161x25 cm foto di Torquato Perissi
V Linea, 1971 tela, inchiostro di china, chiodi e legno, 80x50 cm foto di Torquato Perissi
VI Presentazione al tempio, 1974 stoffa e occhielli in metallo, 180x250 cm foto di Torquato Perissi
VII Pulverize - Cloth Bucket, 1969 fotografia, legno, ferro, cenere e barattolo di vetro, 160x45x20 cm foto di Torquato Perissi
VIII Un’altra metà , 1972 pietra e bronzo, 6x36x11 cm foto di Torquato Perissi 118
X Oro di Ofir, 1993 oro (24 K) 3,5x3,5x8 cm ciascuno (2 elementi) foto di Torquato Perissi
X Gomito, 1972 bronzo, 22x15x10 cm foto di Torquato Perissi
XI Firma, 1970 acciaio inossidabile, 13x28 cm foto di Torquato Perissi
XII Lavoro di carta - Triangolo, 1977 carta, 84x61 cm foto di Torquato Perissi
XIII Colonna, 1972 marmo, 30x700x30 cm foto di Torquato Perissi
XIV Viti di Bagdad, 1975 bronzo, marmo e seta, 300x167x167 cm foto di Torquato Perissi
INDICE DELLE IMMAGINI / INDEX OF IMAGES p. 2 Oro di Ofir, 1971, foto di Kimiko e Hidetoshi Nagasawa pp. 44-45 Hidetoshi Nagasawa lavora alla Piroga, Milano, 1974, foto di Anzaï pp. 108-109 Nagasawa nel suo studio, Sesto San Giovanni, Milano, 1974 foto di Anzaï pp. 110-111 Nagasawa, Kounellis, Milano, 1974, foto di Anzaï p. 112 Nagasawa nello studio di Sekine, Tokyo, 1978, foto di Anzaï
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO / REFERENCE BIBLIOGRAPHY Per ricerche più approfondite su Hidetoshi Nagasawa o maggiori dettagli sulle singole opere, si rimanda alle seguenti pubblicazioni / For further research on Hidetoshi Nagasawa or more details on the single works, please see the following publications: - Toshiaki Minemura, Nagasawa: Ombra di angelo, Ibaraki-ken Mitoshi : Mito Geijutsukan Gendai Bijutsu Sentā, 1994 - Caterina Niccolini. Nagasawa tra cielo e terra, Catalogo ragionato delle opere dal 1968 al 1996, De Luca Editori d’Arte, Roma, 1997 - Jole de Sanna, Nagasawa, Fondazione Mudima, Milano, 2003 - AA.VV., Nagasawa. Dove tende aurora, Japan, 2009 - Hidetoshi Nagasawa. Ombra verde, a cura di Bruno Corà, Aldo Iori, Quodlibet, Macerata, 2013
NOTA / NOTE Le opere contrassegnate con (*) sono presenti in mostra. The works marked with (*) are present in the exhibition.
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Finito di stampare nel febbraio duemiladiciannove dalla tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera per i tipi de Gli Ori di Pistoia in occasione della mostra Hidetoshi Nagasawa. La scultura degli anni Settanta organizzata dalla galleria Il Ponte, Firenze