Alla conquista del Polo Nord

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LA STORIA ALCHEDELL’AFROAMERICANOTACIUTAARRIVÒPERPRIMOPOLONORD P hili PP e N essma NN roma N zo ALLA CONQUISTA DEL POLO NORD

UAO Universale d’Avventure e d’Osservazioni

Philippe Nessmann Alla conquista del Polo Nord traduzione dal francese di Sara Aggazio, Chiara Licata e Martina Mancuso a cura della Fusp - Fondazione Unicampus San Pellegrino dello stesso autore: LaTutankhamonnottediPompei ISBN 978-88-3624-666-3 Prima edizione italiana agosto 2022 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2026 2025 2024 2023 2022 © 2022 Carlo Gallucci editore srl - Roma Titolo dell’edizione originale francese: Vers les mers glacées du pôle Nord Pubblicato per la prima volta nel 2014 da Flammarion - Paris, Francia Testi e disegni © 2014 Flammarion disegni di copertina: Federico Milella Gallucci e il logo sono marchi registrati Se non riesci a procurarti un nostro titolo in libreria, ordinalo su: galluccieditore.com Il marchio FSC® garantisce che questo volume è realizzato con carta proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile e da altre fonti controllate, secondo rigorosi stan dard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Forest Ste wardship Council®) è una Organizzazione non governativa in ternazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, proprietari forestali, industrie che lavorano e com merciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su https://ic.fsc.org/en e https://it.fsc.org/it-it Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.

Philippe Nessmann (Saint-Dié-des-Vosges, 1967) ha sempre coltivato tre pas sioni: la scienza, la storia e la scrittura. Dopo una laurea in Ingegneria e un ma ster in Storia dell’arte, si è dedicato alla divulgazione, in particolare come autore di libri per ragazzi. Gallucci ha pubblicato i suoi romanzi Tutankhamon e La notte di Pompei

romanzo ALLA CONQUISTA DEL POLO NORD LA STORIA TACIUTA DELL’AFROAMERICANO CHE ARRIVÒ PER PRIMO AL POLO NORD P hili PP e N essma NN

Ai miei genitori

A un tratto una goccia d’acqua caduta dal cie lo mi è atterrata in fronte. L’ho asciugata con un

NewIntroduzioneOrleans,1903

Prima di addentrarci nella storia vera e pro pria, vorrei raccontarvi un piccolo aneddoto. Era il 1903. Lavoravo come facchino su un treno. Durante una lunga sosta a New Orleans ho colto l’occasione per visitare la città. Il clima era soffocante e le stradine erano inva se da acquaioli, carretti trainati da cavalli, musicisti ambulanti, mendicanti. Era un gran vociare in ogni dove, con quello strano accento del Sud degli Stati Uniti. Al primo piano delle case di le gno, sui balconi di ferro battuto, alcune donne stendevano il bucato o pulivano la verdura.

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Dato che avevo fame, ho fatto il giro e ho aspet tato sotto la pioggia battente che aprisse la finestra. L’ho guardato per qualche secondo: capelli biondi, occhi azzurri, pelle bianca, labbra rosa.

Le mie gambe nere mi avevano fatto attraversare

dito,8 ho alzato la testa e ho visto un grosso nuvolone nero. Pochi istanti dopo una pioggia tropi cale si abbatteva sulla città, ripulendo la strada da venditori, musicisti e mendicanti.

Visto che era mezzogiorno, sono entrato in una locanda per ripararmi e mangiare un bocco ne. Era immersa nel buio. C’era puzza di birra. «Non sai leggere?!» Era un omone con un grembiule bianco e l’aria arrabbiata.«Sietechiusi?» ho chiesto io. Mi ha spinto fuori e mi ha indicato un cartello affisso sulla porta: “Vietato l’ingresso ai negri e ai cani”.«Per te c’è la finestra laterale».

«Vuoi il mio ritratto, per caso?» «No, solo un panino». Che potevo fare? Ribellarmi? Aveva ragione lui: sono un negro. I miei occhi neri avevano visto più posti di quanti ne avrebbero mai visti i suoi.

tutta la Groenlandia. E, più di una volta, durante le spedizioni precedenti, le mie mani nere aveva no salvato i compagni bianchi da morte certa. Ma sono un negro, nipote di uno schiavo. E nel Sud degli Stati Uniti avevo solo un diritto: tacere. «Tieni!» mi ha detto lanciandomi il panino. «Mezzo dollaro!» Gli ho dato una banconota da uno. Mi ha ri sposto che non aveva il resto. Bagnato fradicio, mi sono allontanato a denti stretti. Non potevo fare nulla. Ma sapevo che presto avrei fatto qualcosa di grande. Presto il comandante Peary mi avreb be chiesto di accompagnarlo in una nuova spedizione nell’Artico. Presto, ne ero certo, saremmo stati i primi al mondo a raggiungere il Polo Nord. Un negro al Polo! I neri degli Stati Uniti avrebbe ro finalmente potuto alzare la testa ed essere fieri, fieri di essere neri. Il tizio della locanda ha urlato alle mie spalle: «E vedi di non tornare più! Qui i negri non li vogliamo!»Nonmisono neanche girato.

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primo Groenlandia, estate 1908

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La storia vera e propria è iniziata cinque anni dopo, nell’estate del 1908.

Capitolo

«Matt… Vieni a vedere, figliolo!» Era il comandante Peary. Nonostante avessi quarantadue anni e lui solo dieci più di me, continuava a chiamarmi affettuosamente “figliolo”.

«Matthew!… Matthew!» Sentendomi chiamare, ho appoggiato la pialla sul banco e ho mollato il pattino della slitta che stavo realizzando. Col dorso della mano ho spaz zato via i trucioli di legno impigliati al maglione, poi sono salito sulla scaletta metallica che portava al ponte della nave.

I baffoni rossi non riuscivano a nascondere un

11 abbozzo di sorriso, e dietro le sopracciglia arruffate brillavano due occhietti grigi. Si appoggiò con tutto il corpo al parapetto della Roosevelt: «Guarda, ci siamo! Di nuovo…» Mi appoggiai con i gomiti al parapetto. A tribordo grossi blocchi di ghiaccio galleggia vano sul mare e, appena dietro, si tratteggiava il profilo di una terra: la Groenlandia. La costa sel vaggia sembrava quasi sgretolata, modellata dalle tempeste. Enormi falesie rocciose cadevano a picco sul mare. In mezzo alle fortezze inespugna bili, i ghiacciai si sbriciolavano impercettibilmen te, riversando nell’oceano un esercito di blocchi di ghiaccio.Lapurezza dell’aria offriva al paesaggio colori splendenti, mai visti altrove: il bianco sfavillante degli iceberg, le venature azzurrine dei ghiacciai, il rossiccio della roccia screziata di arenaria gialla, il verde intenso dei prati e, oltre le falesie, lonta no all’orizzonte, il candore immacolato delle nevi perenni.Sareirimasto ore e ore ad ammirare quella terra. E dire che la conoscevo a memoria e che ci ero legato come se ci fossi nato: era la settima volta in diciassette anni che accompagnavo Robert Pea

Con discrezione abbassai gli occhi verso il ponte di legno della Roosevelt, poi verso le scarpe orto pediche del comandante. Due dita, i mignoli, ecco cosa gli era rimasto. Ma una volontà ferrea, irremo

ry12 nelle regioni polari. In passato avevo provato gioie immense, come nel 1892 quando, dopo un ambizioso raid in slitta fino al Nord della Gro enlandia, il comandante era riuscito a dimostrare che si trattava di un’isola e non di un continente. Il ritorno a New York era stato trionfale: la gente era entusiasta delle nostre avventure artiche. Ma quella regione ostile era stata anche teatro di episodi più dolorosi. L’obiettivo delle ultime due spedizioni, dal 1898 al 1902, poi dal 1905 al 1906, era stato la conquista del Polo Nord –due tragici fallimenti. Durante il primo tentativo, mentre camminavamo sfiniti nella neve a 50 gradi sottozero, Peary non aveva tenuto conto del fred do che gli logorava i piedi. Una sera, togliendosi gli stivali, aveva tutte le dita nere e dure. Conge late. Il responso del medico della spedizione era piombato come una mannaia: “Bisogna amputare”. “È lei il dottore” si era limitato a rispondere Peary “ma me ne lasci quanto basta a reggermi in piedi e camminare fino al Polo!”

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vibile continuava ad animare quel corpo mutilato: la volontà di essere il primo uomo a raggiungere il Polo Nord! Un’incredibile forza d’animo. «Borup!» esclamò il comandante. «Vieni a ve dere!»Ungiovanotto dalla folta chioma attraversò il ponte e ci raggiunse. George Borup, ventitré anni e un viso da ragazzino, era il più giovane della spedizione. Aveva finito l’università e partecipava alla sua prima esplorazione. Il comandante l’ave va reclutato per la sua resistenza fisica: era cam pione di «Borup,corsa.abbiamo raggiunto il Nord-Ovest della Groenlandia. Abbiamo appena oltrepassato la linea immaginaria che separa il mondo civilizzato dal mondo artico…» Il comandante perlustrò con lo sguardo la costa«Ormaiselvaggia.la civiltà è alle nostre spalle. Non può più esserci d’aiuto. Ci stiamo inoltrando in un universo ostile dove dobbiamo sopravvivere gra zie alle nostre «Comandante,capacità»cosaintende quando dice…» Delle urla interruppero Borup. Delle urla stridenti!

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Un minuto dopo risalii dalla stiva con un fascio di armi. Adesso i kayak erano vicinissimi alla Roosevelt. Le urla si moltiplicavano. Borup, parecchio agitato, prese un fucile e con trollò che fosse carico. «Ma… e le pallottole?!…»

I kayak urtarono la Roosevelt. Due uomini afferrarono le cime che pendevano e si arrampica rono sullo «Comandante!»scafo. gridò Borup. «Non ci sono…» Peary gli tolse il fucile di mano e, sorridendo, lo rassicurò:«Learmi ci serviranno più tardi. Per adesso, stai a guardare…»

Gli uomini corsero verso i kayak e li spinsero in acqua. Puntarono verso di noi. Borup, sconcertato, si girò verso Peary. Il ra gazzo cercava di intuire una reazione sul viso del comandante, per sapere se c’era da preoccuparsi. Il comandante se ne accorse e mi guardò con furbizia:«Matt, vai a prendere fucili e coltelli!»

Laggiù, sulla riva, a 300 metri dalla nave, due uomini gesticolavano. Altri tre uscirono da ca panne di terra. Un gruppo di cani iniziò a ululare.

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I due uomini scavalcarono il parapetto. Vestiti di pellicce, erano piuttosto bassi e tarchiati, ave vano lunghi capelli neri, la pelle scura e gli occhi a mandorla.Inunbatter

d’occhio uno di loro si precipitò verso di me gridando: «Miy! Miy maripalook!» Sotto lo sguardo sbalordito di Borup, l’uomo mi strinse tra le braccia. L’altro ballava intorno a Peary e «Pearycantava:aksoah!… Peary aksoah!» “Peary aksoah” in inuit voleva dire “il grande Peary”, per via della sua stazza. Miy era il mio soprannome e maripalook significava “il gentile”. Borup si rese conto che gli avevamo fatto uno scherzo: gli inuit non erano cattivi, ma soltanto entusiasti di rivederci. Chiesi come stavano i miei vecchi amici: che aveva combinato il caro Ootah dal nostro ulti mo viaggio, due anni prima? Aveva avuto un altro figlio? Ma che splendida notizia! E suo fratello Egingwah, come stava? Tutto bene? Meglio così! E il giovane Ooqueah? Innamorato di Anaddoo, la figlia di Ikwah? Ecco, quella notizia mi faceva sentire vecchio! All’epoca del mio primo viaggio

Dopo i calorosi saluti Peary si rivolse a Seegloo in lingua «Seegloo,inuit.noi venire da New York per provare di nuovo a raggiungere Polo Nord… Come ultima volta, viaggio durerà un anno. Andremo pri ma verso Nord con la nave. Poi passeremo inver no nella nave. E in primavera andremo con slitta su ghiaccio, verso Polo». Era divertente sentire Peary parlare quella lingua. Non si era mai sforzato di impararlo per bene. Sembrava pidgin, ma un pidgin molto par ticolare formato da un misto di inglese e inuit. «Abbiamo bisogno di cani per trainare slitte. E di uomini per guidarle. E di donne per realizzare vestiti di pelliccia. Volete venire?»

Il viso di Seegloo, fino a quel momento sorri dente, s’incupì di colpo. L’inuit aveva preso parte all’ultimo tentativo di conquista del Polo, nel 1906, e dovevano essergli tornate in mente im magini terribili: la fame e l’angoscia della morte.

in16 Groenlandia, Ooqueah aveva due anni e pronunciava le prime parole. Durante le spedizioni successive stava imparando a pescare e a costrui re igloo con la neve. Ed eccolo qua, adulto, pron to a mettere su famiglia…

Mentre eravamo in mezzo alla banchisa, lontano da tutto, le pessime condizioni del ghiaccio ci avevano rallentato di molto. A meno di 320 chilometri dal Polo Nord – un record, nessuno ci era mai andato così vicino – eravamo stati costretti a fare marcia indietro per mancanza di ci bo. Il ritorno era stato spaventoso: affamatissimi, allo stremo, per sopravvivere avevamo mangiato i nostri stessi cani. Altrimenti, ci avremmo lasciato la pelle.Peary provò a rassicurare Seegloo: «Niente paura! Sono due anni che preparo il viaggio. Io capito perché ultima spedizione fallita e ho piano molto dettagliato per questa nuova spedizione. Ho comprato tutte le provviste neces sarie. Nelle stive 8 tonnellate farina, 500 chili caf fè, 400 chili tè, 5 tonnellate zucchero, 3 tonnellate e mezzo lardo affumicato, 5 tonnellate biscotti, 100 casse latte condensato e 15 tonnellate pâté di grasso e carne… Così sicuro non moriremo di fame.SeeglooPromesso!»milanciò uno sguardo perplesso: tutte quelle cifre non volevano dire niente per lui. An nuii con decisione per fargli capire che il coman dante sapeva cosa stava facendo. Per convincer17

Gli inuit della Groenlandia vivono di caccia e pesca. Tradizionalmente realizzano ami, punte di freccia e coltelli in osso o in avorio, e accendono il fuoco sfregando due pietre. Non hanno bisogno dei nostri oggetti moderni per sopravvivere. Ma i fucili e i fiammiferi renderebbero la loro vita di gran lunga più semplice, ecco perché ne vanno matti.«D’accordo» rispose allora Seegloo «vengo con voi. E vado a vedere se ci sono altre famiglie interessate. Quando partite?»

lo18 definitivamente, Peary prese un fucile e glielo diede:«In cambio del vostro aiuto, vi daremo fucili, coltelli, aghi da cucito in acciaio, fiammiferi…» Seegloo ispezionò l’arma molto attentamente.

Il«Domani».giornodopo intere famiglie con i cani presero posto a bordo della Roosevelt. Dopo altre soste più a Nord l’equipaggio fu finalmente al comple to: a quel punto eravamo 20 americani, 49 inuit di cui 22 uomini, 17 donne e 10 bambini, e 246 cani.

Poi la nave riprese il lungo viaggio verso Nord. Di tanto in tanto, sulla costa, cumuli di pietre ci ricordavano l’estrema difficoltà di quello che

ci attendeva. Qui la tomba di due uomini della nave North Star morti nel 1850. Poi la sepoltura di Hall, capo della spedizione americana Polaris.

Più a Nord l’ultima dimora di tre marinai di una spedizione inglese del 1876. Prima di noi tanti uomini avevano provato a raggiungere il Polo Nord in nave, in slitta e persi no in Nessunomongolfiera!cierariuscito.

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Estate 1908. Una spedizione americana tenta un’impresa straordinaria: sbarcare sulla banchisa e raggiungere in slitta la cima del mondo. Obiet tivo: piantare per primi la bandiera sul Polo Nord. Il comandante Peary e il fidato Matthew Henson, un americano di umi li origini, nell’arco di 17 anni sono già al loro settimo tentativo, ma la distesa di ghiaccio a perdita d’occhio sembra un ostacolo insuperabile. Questo è il racconto, scritto in prima persona con la voce di Henson, di come il nipote di uno schiavo, con l’aiuto di 49 inuit, 246 cani e un comandante leggendario, conquistò l’Artico.

L’IMPRESA DI MATTHEW HENSON, L’ESPLORATORE AFROAMERICANO COMPAGNO DI R. E. PEARY NELLE SPEDIZIONI ARTICHE, CHE RAGGIUNSE PER PRIMO IL POLO NORD.

dagliConsigliato11ai99anni

Gli inuit non conoscono né la scrittura, né il denaro, né il raz zismo. A loro non interessava che fossi nero, povero e senza di ploma: ero comunque una brava persona. Ma negli Stati Uniti, agli occhi dei miei compatrioti, non valevo granché, anzi non valevo proprio un bel niente.

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