Brancaleone

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universale Gallucci


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Age & Scarpelli Mario Monicelli Brancaleone Il disegno in copertina è di Emanuele Luzzati

ISBN 978-88-6145-399-9 Prima edizione giugno 2012 ristampa 7 6 5

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anno 2012 2013 2014 2015 2016

© 2012 Carlo Gallucci editore srl Roma Pubblicato per la prima volta nel 1984 con il titolo Il romanzo di Brancaleone © eredi Agenore Incrocci © eredi Mario Monicelli © eredi Furio Scarpelli

galluccieditore.com

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Age & Scarpelli Mario Monicelli

Brancaleone il romanzo


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1 Il sacco

predoni si avventarono sul villaggio come lupi su un abbacchio incustodito. Dei lupi avevano la fame vecchia, la ferocia e gli ululii incomprensibili. Erano una ventina tra alemanni e italioti imbastarditi, disertori di qualche armata di passaggio, che avevano deciso di mettersi in proprio. Avevano barbe e zazzere sudicie sotto i cimieri ammaccati, mantelli sbrindellati, spadoni rugginosi, anche qualche forcone. Alcuni montavano cavalli macilenti, altri no, erano appiedati; uno era senza una gamba e arrancava appoggiandosi a una gruccia. Il villaggio era di poche capanne di legno, di fango e di canne, addossato a una collinetta, ai limiti di un bosco e lambito da un torrente. I predatori lo colsero ancora immerso nel sonno. Abbatterono recinti, sfondarono porte. Due uomini a cavallo irruppero nella catapecchia piĂš grande dove i contadini dormivano sulla paglia, li calpestarono sciabolandoli finchĂŠ i cavalli, ravvisata la paglia, si fermarono per mangiarsela, incuranti delle tallonate dei cavalieri.

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Altri gettarono in una capanna una fascina in fiamme e richiusero la porta. Dentro, la gente gridava nel fumo. Fecero in tempo a scappar fuori dall’abituro un uomo e una donna, e due predoni li inseguirono. L’uomo si fermò e levò le braccia, arreso; la donna invece afferrò la pertica per bacchiare le noci e prese a menare stangate. Uno dei due ceffi con un fendente mozzò la pertica mentre l’altro trapassava l’uomo da parte a parte. Poi il primo acchiappò la donna, se la caricò sulle spalle e scappò. Il compare gli corse dietro pretendendo un’equa spartizione. Un contadino, inseguito da un predatore che aveva sulla testa un elmo con due corna, acchiappò un orcio e glielo tirò. L’uomo parò la botta col braccio, ma perse la daga che impugnava. Gonfio di furore, si buttò a testa bassa e con le corna dell’elmo trafisse il villano, inchiodandolo al tronco di un fico. Due altri entrarono in un pollaio e in un grande starnazzio arraffarono i polli e li accoppavano sbatacchiandoli contro il tavolato. Uno dei predoni colse al volo un pulcino e se lo mangiò, vivo e piumato. Un villico che tentava la fuga si buttò nel pozzo. Tre o quattro lo videro, e con grande sforzo sollevarono un tronco di colonna romana, lo portarono fino alla bocca del pozzo e lo mollarono: la colonna sgusciò giù, si udì un tonfo e l’ultima voce del villico schiacciato. E anche la donna che i due masnadieri si disputavano gridava, tirata di qua e di là. Le donne erano i trofei più ambiti. Ne inseguiva una, seminuda, persino il mercenario con una sola gamba. La donna

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Il sacco

confidò nelle sue due, raggiunse il torrente ai margini del villaggio, lo traversò sguazzando, cadde e si rialzò. Toccata la riva, grondando acqua, si accorse che il cionco la incalzava e cercò rifugio nella casupola in cui i contadini tenevano deposito di farina di frumento. Ma non riuscì a richiudere la porta: il lanzo aveva infilato la stampella tra battente e stipite e con quella faceva leva. La donna cedette, lo zoppo entrò e fu su di lei che cadde e si dibatté in una nuvola bianca, impastata di farina come un pesce da frittura. Ma non tutti i villani erano stati colti nel sonno. Uno di essi, chiamato Taccone, scappò girando dietro una capanna. Era assai giovane, magro e svelto e con un balzo si inerpicò su una grande botte sopra la quale ronzava un nuvolo di mosche, e vi si tuffò. La botte era colma per metà di liquido scuro e denso e per metà di un altro scampato, immerso fino al mento, che emise un raglio di protesta per l’invasione. Costui si chiamava Pecoro, era grosso, di pelo nero, con sopracciglia folte e occhietti tondi e vicini, come di animale. Taccone, sistemato in quel guazzetto, disse piano: «La gran puzza!» «È morchia di concime», gli spiegò Pecoro. Dagli spiragli tra le doghe, Taccone e Pecoro, immobili nel fetore e tra le mosche, sbirciavano fuori. Videro i razziatori far di tutto, scannare uomini e violentare donne. Videro un contadino ginocchioni, con il capo su un ceppo e uno dei saccheggiatori che lo teneva per i capelli e un altro che levava

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alto lo spadone per tagliargli la testa. Il contadino cercava di tirarsi indietro facendo tiremmolla con quello che lo teneva per i capelli. Il boia menò la botta ma troncò netto il polso del suo compare che rimase per un attimo immobile e incredulo, poi cacciò un urlo, afferrò con la mano superstite una lancia e corse dietro al complice maldestro che fuggiva. Videro anche quello che aveva salvato la testa darsela a gambe a sua volta, con la mano tronca del predone appesa ai capelli. Videro uscire da una baracca un soldato con un piccolo fagotto bianco tra le braccia: era un poppante. L’uomo gli sorrideva e lo sbaciucchiava, e si allontanò correndo con la preda. Il soldato col pupo raggiunse lo spiazzo al centro del villaggio dove veniva deposto ciò che era stato razziato: una dozzina di galline morte, qualche forma di cacio, pagnotte e sacchi di frumento, due orci di vino, brache rattoppate e la donna infarinata. Il poppante, però, il soldato se lo tenne in braccio. Un suo compare tentò di solleticare il labbruzzo della creatura con un dito sudicio, ma l’altro lo respinse con una manata. Il capo sollecitava i suoi ad ammucchiare, urlando: «Arrob! Arrob! Skeinze!» Il sole era già alto. Qualche brigante si stravaccò, stanco sfinito, qualcuno si addormentò subito. Altri orinavano o si leccavano le ferite che poi fasciavano con tele di ragno. Uno di loro, occhi al cielo, intonò con una voce melodiosa una canzone dolce: «Aufider mamà, aufider mei bona mamà…»

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Il sacco

In mezzo a quella frotta che risonava di ferri e di voci gutturali arrivò un carretto sbilenco, spinto da due malandri, per caricarvi quel raccattaticcio. Vi salì su, guardingo, anche quello col poppante stretto al petto. Il carretto si mosse, a spinta, seguito da alcuni della brigata, a piedi e a cavallo, e s’allontanò. Ma quelli che stavano sdraiati, lì rimasero, chi russando, chi ascoltando il cantore o facendogli coro. Poi, a poco a poco, tacquero tutti. Nel silenzio appena nato un ceffo drizzò improvvisamente la testa e le orecchie. S’udiva un lontano fischiettare. Il ceffo allungò un calcio a un compare che subito si mosse e scrutò attorno. Sul sentiero appena segnato di qua dal bosco, si avvicinavano due uomini. Uno era a cavallo, l’altro, appiedato, menava a mano una mula. Quale dei due fischiettasse, data la distanza, non era dato capire. Anche quel Taccone e quel Pecoro videro, immersi nella loro botte di concio. E videro i briganti rimasti sciogliere silenziosamente il loro gruppo e sparpagliarsi, ognuno in cerca di un riparo. Videro che il cavaliere, che montava un rabicano massiccio, aveva spada, lancia, scudo e mazza ferrata, una splendida armatura a piastre con fiancali, cosciali e schinieri. Appese alla sella aveva due bisacce di bel cuoio grasso, gonfie certo di buona roba, e l’elmo; così la testa nuda si rivelava gagliarda e un po’ sinistra.

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Non era il cavaliere a fischiettare, ma il servo che lo seguiva a piedi, con elmetto, spada corta e un piccolo gonfalone con i colori del suo signore: verde, nero e rosso. La mula era carica di sacchi e di borsotti. Dai loro ripari i predoni guatavano, armi in pugno. E quando il cavaliere si fermò perplesso di fronte alle rovine fumiganti, si avventarono. Il cavallo, vedendosi piombare addosso da ogni parte quegli energumeni ululanti, si spaventò e fece una corvetta; il servo si prese un colpo di picca tra le scapole e si afflosciò morto. Ma il cavaliere padroneggiò la bestia, trasse la spada e mulinandola si scagliò. Presto i predoni capirono di aver commesso il più grande errore della loro sconclusionata esistenza. Il cavaliere era una macchina da guerra, menava fendenti e puntate a tutto andare digrignando i denti con orribile furore. Il primo a pagare fu l’uccisore del servo, che cercava riparo dietro l’unica asse rimasta ritta di una palizzata; il cavaliere calò una gran botta che divise in due tavola e uomo. Ma la spada restò infissa e un brigante la ritenne un’occasione da non perdere per colpire il cavaliere; ma questo aveva già impugnato la mazza ferrata e la botta fu tale che calcò l’elmetto del ribaldo fino al mento. L’uomo rimase un attimo in piedi, rigido e già morto, poi crollò sconciamente. Nello stesso momento al cavaliere mancò sotto il cavallo, tranciati i garretti da un’ascia; ma il guerriero cadde in piedi e con la mazza abbatté un altro predone prima che una freccia gli si conficcasse in un braccio e un’altra lo colpisse alla fronte. Con un

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Il sacco

occhio chiuso per il sangue che colava, si fece sotto ruotando la mazza, insensibile ad altre frecce che lo colpivano. I superstiti cercarono di salvarsi scappando verso il bosco, inseguiti dal guerriero. Uno cadde, e un altro e un altro. Un altro ancora, vistosi ormai raggiunto, si buttò in ginocchio e giunse le mani implorando misericordia. Inutilmente. Così il guerriero restò solo in mezzo a quella ecatombe, col fiato tanto grosso che lo faceva ondeggiare avanti e indietro sui talloni. Con tutte quelle frecce conficcate sembrava un istrice. Se le strappò dal corpo una a una, poi si mosse. Raccattò la spada, e con quella finì il cavallo che nitriva da far pena; prese le bisacce da sella, raccolse il gonfalone. Il giovane Taccone, che dal letame aveva seguito con occhi accesi e ammirati le gesta del guerriero, pensò giunto il momento di saltar fuori, ma Pecoro lo trattenne e ammiccò. E videro che un predone, che s’era dato finto morto, si muoveva. Aveva aperto gli occhi e seguiva le mosse del cavaliere che intanto, raggiunta la riva del torrente, s’inginocchiava per bagnarsi la testa e lavare le ferite. Quella alla fronte la bendò, coprendosi così anche un occhio, con una pezza nera tratta dalla bisaccia. Egli non poteva vedere l’avvicinarsi furtivo alle sue spalle del predatore, che aveva capelli ispidi e rossi, gambe lunghe e secche e un viso tanto scarno che sembrava intagliato in fretta nell’osso. Costui teneva sollevata sul capo una gran pietra e chiara era la sua intenzione. Quando giunse a un passo dal cavaliere, quello d’istinto si volse. Troppo tardi. La pietra gli piombò sulla testa, annien-

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tandolo. Cadde sul dorso e il bandito gli fu sopra, grufolò nelle sue bisacce e nel suo corpo. Di botto si fermò, alzò la testa e annusò l’aria dilatando le narici come un cane insospettito. Sentì un rumore di mulinello e volse il capo di scatto. A pochi passi vide i due uomini gocciolanti letame e il più giovane che roteava lestamente una frombola. Il predatore non ebbe il tempo d’alzarsi, Taccone fu più lesto e il sasso lo colpì al mento, che era la parte più spaziosa del suo muso. Cascò come un birillo. Il fromboliere e Pecoro si precipitarono sul cavaliere inerte. Taccone gli tenne su il capo per agevolare Pecoro che gli sfilò il corsetto prima, e poi i calzari. Taccone gli tolse i cosciali. Intanto il brigante, che si chiamava Mangoldo, ripresosi, si era tirato su: visto come stavano le cose si avventò anche lui sul caduto per aver la sua parte. Come tre gatti sulla trippa, disputavano e soffiavano. S’azzuffarono per il contenuto delle bisacce da sella dove c’era anche un rotolo di cartapecora che bistrattarono, contendendoselo senza una ragione. D’un tratto si fermarono spaventati. Il corpo del cavaliere, ormai denudato, ché gli avevano lasciato soltanto la benda sull’occhio, aveva avuto un sussulto… Quindi il caduto aprì l’occhio buono e sprigionò su Pecoro, Taccone e il brigante uno sguardo terribile. Un istante infinito; poi il cavaliere arrotò i denti e richiuse l’occhio infernale. I tre rapaci, come obbedendo a un ordine, rotolarono insieme il corpo del guerriero, e lo spinsero nel torrente gelido che se lo portò via.

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