Gli arcani di nebbia 2. L'oracolo maledetto

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traduzione di Marina Karam

YOUNG ADULT

Fanny Caldin

Gli Arcani di nebbia. L’Oracolo maledetto traduzione dal francese di Marina Karam

della stessa serie:

Gli Arcani di nebbia. La cartomante

ISBN 979-12-221-0654-0

Prima edizione italiana novembre 2024 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2028 2027 2026 2025 2024

© 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Titolo dell’edizione originale francese:

Les Arcanes de Brume 2. L’Oracle maudit © 2024 Éditions Robert Laffont, S.A.S. - Paris, France

Pubblicato in accordo con Grandi & Associati

Disegni di copertina e interni © Tiffanie Uldry

Gallucci e il logo sono marchi registrati

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traduzione dal francese di Marina Karam

Tu apprendras tous les noms de fleurs

Ça t’aidera à soigner ton coeur

Ne te perds pas en chemin

Il y a des choix qu’on ne fait pas bien

Pomme

Morire, dormire – dormire, forse sognare. Ah, qui è l’ostacolo. Perché in quel sonno di morte quali sogni possano assalirci quando ci siamo liberati di questo groviglio mortale, è cosa che deve farci meditare.

William Shakespeare, Amleto

Il romanzo si muove liberamente – con alcune licenze – all’interno della mitologia norrena e delle lingue scandinave. Alcune nozioni sono state adattate ai fini della narrazione e sono frutto della fantasia dell’autrice.

Nel castello di pietre fredde, qualcosa si risveglia.

Non è umano, né animale, né vegetale, né minerale.

È qualcos’altro.

Un ricordo. Un fuoco.

Un odio.

Nel castello di pietre fredde, la cosa si risveglia. 

13 marzo 1851 – aurora

Nel cuore della foresta bretone, il Vento fischiava tra i tronchi scompigliando le giovani foglie delle querce, dei castagni e dei faggi. Con le sue dita eteree, graffiava il muschio che si arrampicava sugli alberi centenari, facendo tintinnare le ragnatele argentate di rugiada, e danzando calpestava il tappeto di humus. Dalle chiome alle radici, dalla terra alle nuvole, crepitava con sospiri impazienti.

Voleva risvegliare il sottobosco.

All’orizzonte, lontano, al di là degli alberi, i primi fremiti bianchi dell’aurora tingevano il cielo di riflessi viola. Per qualche minuto ancora, la luna gibbosa dava spettacolo di sé. Gli animali notturni non erano rientrati tutti nei nidi o nelle tane; quelli diurni non avevano abbandonato il torpore del sonno. Era un momento intermedio, tra la notte e il giorno, tra l’ombra e la luce, tra la realtà e il sogno.

In quella foresta, una radura in particolare era nota a visitatori d’ogni genere. Ricca di fiori precoci, colma di innumerevoli varietà di erbe medicinali e allestita come un orto verdeggiante, ospitava anche un pollaio, una sorta di stalla dal soffitto basso e, soprattutto, una casa molto strana.

In passato, non era stata altro che un minuscolo assemblaggio di assi traballanti. Poi la capanna era stata ampliata con una baracca di pietra e paglia, una rimessa in legno duro, un mezzanino, un piano superiore; era stata costruita anno dopo anno, ogni stanza era sovrapposta alla precedente su tre o quattro livelli, sfidando le leggi della gravità. Senza finestre allineate e senza pareti dritte, era difficile farsi un’idea precisa della sua pianta. Non era né quadrata né rotonda, neppure esagonale, sembrava più larga in alto che in basso ed era pericolosamente asimmetrica. Alcune facciate erano in pietra, altre in legno, in calce bianca o rivestite di intonaco colorato, e in alcuni angoli c’erano persino travi a vista dalle tinte sbiadite, mai abbinate alle rare persiane. Abbaini, pezzi di tetti di tegole, paglia o ardesia e comignoli eretti un po’ ovunque dimostravano che non aveva mai smesso di evolversi, come un essere vivente dalla crescita incontrollabile. Da qualunque angolazione si guardasse, sembrava inclinata da una parte o dall’altra. Era fuor di dubbio che l’edificio fosse di gran lunga la costruzione più ampia e strana dell’intera foresta e dei dintorni.

D’istinto, tutti diffidavano di quel varco in mezzo ai boschi e ai rovi, eppure tutti ne erano irresistibilmente attratti. Impronte di animali selvatici correvano davanti ai muri, circondavano le colture senza mai calpestarle e raggiungevano l’altare di pietra su cui si deponevano le offerte alla

Natura. E quando le bestie si nascondevano, gli esseri umani si delineavano nelle ombre del bosco: oppure era il contrario? In ogni caso, uomini e donne si avventuravano nella radura per necessità o per curiosità, per disperazione o per abitudine.

Colei che vi abitava partecipava a tutte le tradizioni dei villaggi circostanti; ne conosceva la vita e i segreti meglio dei componenti delle famiglie; aveva fatto nascere, aiutato a crescere e accompagnato nella morte. I suoi soprannomi venivano sussurrati solo se il fuoco crepitava nel focolare o il Vento cantava abbastanza forte da coprire la voce: “la guaritrice del bosco”, “la levatrice dei rimedi”, “l’avvelenatrice”, “l’erborista”, “la buona signora”, “la discepola del Maligno”… La sua impressionante bellezza ammaliava. Per quanto possibile, si evitava di incrociare i suoi occhi di tenebra che sondavano l’anima e di soffermarsi sui tre nei che le ballavano sullo zigomo una danza del sabbat; il suo turbante e le sue gonne stravaganti in tutte le tonalità dell’arancio suscitavano disapprovazione quanto ammirazione. I più superstiziosi si sforzavano di non pensare affatto a lei nelle notti di luna piena o nei giorni sacri. Da poco ospitava una cartomante per preparare chissà quale rituale dietro le pareti proibite del loro focolare. Quella seconda giovane donna sembrava ancora più diabolica, con i capelli di fuoco e le iridi cangianti, a volte chiare come il ghiaccio, a volte scure come gli abissi. Eppure tutti, curiosi e scettici, si erano ugualmente lasciati sedurre dalla sua voce ammaliante e dalle sue infallibili predizioni.

Non si andava più a consultare la strega, ma, semplicemente, si andava a trovarle.

Quella mattina regnava un’insolita calma. I comignoli sparpagliati sul tetto non sputavano il loro solito fumo bianco, grigio, azzurro o verde, e in lontananza si avvertiva appena un effluvio di brace fredda. Le finestre prive di persiane erano nascoste da grandi assi di legno. Non si udiva alcun rumore, né i passi né le risate che spesso correvano da un piano all’altro. Era come se la casa fosse stata abbandonata.

La foresta era in attesa, in agguato.

La porta d’ingresso verde abete si schiuse e dalla casa uscirono due figure, i cui mantelli avevano i colori dell’alba, dal turchese all’ambra. I grandi cappucci ne nascondevano i volti e lasciavano sfuggire nuvolette di vapore e il cinguettio di un uccello. I due corpi si gonfiavano di incongrue deformità, soprattutto sulla schiena e sui fianchi, e ogni loro passo era accompagnato da un concerto di ticchettii. Sembravano creature grottesche e tremanti.

La prima si allontanò, svegliò la capra assopita nella stalla e le mise in groppa un doppio fagotto, tenuto da una corda di cui si avvolse l’estremità attorno al polso. Nel frattempo, la seconda aveva chiuso a chiave i pesanti lucchetti di ferro e sbarrato la porta d’ingresso. Rimasero l’una di fronte all’altra per il tempo di uno sguardo sospeso. Il Vento fremette per l’eccitazione.

Era giunta l’ora di partire.

La speziale e la chiaroveggente stavano camminando nella foresta da diverse ore, piegate sotto il peso dei loro bagagli tintinnanti. Proprio quando nulla sembrava poter interrom-

pere la loro avanzata silenziosa, una di loro si bloccò e si accovacciò. La capra, che le trotterellava accanto docilmente, approfittò per assaggiare l’erba che costeggiava il sentiero, ma la donna la fermò con il dorso della mano.

«Fiorellino, vieni a vedere».

Il timbro della sua voce era intenso e caldo, vellutato come un petalo di tulipano, colorato da un accento che veniva da lontano. Le sue parole si levarono nell’aria frusciante con un ronzio sordo, ma l’interpellata, persa nelle sue riflessioni, non le sentì. Era troppo preoccupata: da quando avevano lasciato il loro territorio, a poco a poco era stata colta da un presentimento trasformatosi poi in una sensazione di minaccia che non poteva più ignorare, senza tuttavia sapere a cosa attribuirla.

Pytha avrebbe dovuto essere felice di intraprendere quel viaggio, di cui conosceva lo scopo ma non la destinazione: in quel luogo sconosciuto verso cui si stavano incamminando, dopo procedure che poteva solo immaginare, la sua legittimità e il suo dono sarebbero stati valutati e, se avesse superato quel misterioso esame, sarebbe diventata ufficialmente una strega. Avrebbe allora finalmente cominciato il suo apprendistato. Di fronte a tale prospettiva avrebbe dovuto fremere di impazienza: lei, la mendicante marsigliese, partita dal nulla, sarebbe presto e ufficialmente diventata una cartomante. Avrebbe dovuto galoppare con la spensieratezza e la fantasia che la caratterizzavano, impregnarsi del petricore e della freschezza dell’aria circostante. Invece, procedeva lenta e pensierosa.

Non aveva affatto dimenticato i grandi momenti di disperazione vissuti da quando le carte avevano incrociato la sua

strada, e per nulla al mondo lo avrebbe desiderato. La tristezza, il terrore, la follia e l’odio, tutto questo aveva forgiato la chiaroveggente che era oggi. Ed ecco che, dopo una tregua così breve, già si trovava di fronte a un nuovo pericolo. Di che genere? Non lo sapeva ancora. Forse quel brutto presentimento era legato solo alla pressione di superare l’esame che stava per sostenere e all’angoscia di non sapere di cosa si trattasse. Oppure al timore di lasciare la sua nuova casa e di rimettersi in viaggio. Forse era soltanto…?

«Pytha!»

Il grido di Dama Calluna fece scoppiare la sua nuvoletta e disperse tutti i suoi pensieri. Py sbatté le palpebre, si tirò sul mento lo scialle nero nel quale la strega l’aveva avvolta prima di partire e si voltò, esalando un sospiro stanco. Mentre a Marsiglia il tempo doveva essere piacevolmente caldo, lì il freddo dell’inverno seppelliva ancora i primi segni della primavera.

«Pensavi di ignorarmi ancora per molto?»

Py aggrottò le sopracciglia:

«In che senso?»

«Non parlarmi con quel tono indignato. Ti ho chiamato tre volte…» brontolò la strega dopo aver schioccato la lingua con impazienza. «Vieni qui. Riconosci quest’erba?»

La ragazza, pronta a scattare alla minima occasione, rimase tranquilla: gli occhi calmi di Calluna continuavano a fissarla e, da quando l’erborista l’aveva presa sotto la sua ala, Py aveva imparato la temperanza. Scavalcò le radici a vista e, accucciandosi a sua volta, notò che la sua mentore teneva la capra in disparte. Cercò di ricordarsi le sue lezioni. Durante i sei mesi trascorsi nella grande casa nella radura aveva studia-

to molte piante medicinali, come pure il modo di raccoglierle, essiccarle, conservarle e miscelarle in tisane. Ma quella che aveva davanti agli occhi non l’aveva mai usata.

I fiori erano bianchi come la neve, e il loro cuore era costellato di puntini gialli. Si riunivano in grappoli, spuntando qua e là da corone di foglie verde scuro. Py si avvicinò senza toccarla; non sentì alcun odore particolare emanato dal fiore né trovò alcun indizio per identificarlo… finché non scorse degli steli sbucare appena dal terreno, pieni di materiale in decomposizione. Radici nere. La giovane maga sorrise. Quel dettaglio era abbastanza raro da farglielo ricordare.

«Attenzione all’elleboro dalle radici nere…» recitò.

«Helleborus niger, esattamente. Che cosa sai?»

«Non molto, a parte il fatto che è altamente tossico e non bisogna mai toccarlo senza guanti».

L’erborista annuì, si rialzò e si rimise in cammino senza guardare se la sua allieva la seguisse. Quando ne sentì i passi proprio dietro di sé, riprese la parola:

«L’elleboro deve essere raccolto soltanto da streghe esperte, secondo un rituale molto preciso, e solo nelle sere di luna. Può paralizzare il corpo e fermare il cuore, causare follia, convulsioni fatali o avvelenare il sangue. I neofiti che volessero provarci correrebbero un grave pericolo e, per evitare ciò, abbiamo diffuso molte voci, terrificanti e più o meno vere».

Py annuì, cercando di concentrarsi sulle parole della sua maestra. Sebbene quella disciplina non avesse nulla a che fare con il suo potere, l’erboristeria le piaceva, forse solo perché Dama Calluna la rendeva appassionante. Non vedeva l’ora di passare a un apprendimento più avanzato della chia-

roveggenza non appena fosse stata accettata come apprendista, ma nel frattempo lo studio delle piante teneva piacevolmente occupate le sue giornate.

«Non lasciarti trarre in inganno» continuò la strega. «Come sempre, sono la quantità e la preparazione a determinare la tossicità di una pozione. Ciò che una pianta può fare, può anche disfarlo. L’elleboro provoca la follia ma, se usato nelle giuste dosi, la cura. Avvelena il sangue oppure lo regola, ripristina i cicli lunari, lenisce le ulcere. È un potente purgante che provoca attacchi mortali solo se infuso in modo scorretto. Detto questo, non ti chiederò mai di servirtene: le principali vittime dell’elleboro sono i guaritori imprudenti».

Un silenzio sottolineò le sue parole. Alcune settimane prima avevano già menzionato quella duplicità nella mandragola, anch’essa velenosa o virtuosa, a seconda dell’intenzione. L’indovina si guardò alle spalle, ma non rilevò alcuna presenza. Si sentivano solo i loro passi scricchiolare sul letto di foglie e ramoscelli morti, e mescolarsi alla dolce melodia selvaggia. Gli uccelli cantavano tra le fronde, e i tronchi a volte lasciavano sfuggire sibili, cigolii o crepitii. Il Vento pigro le accompagnava e si lasciava trasportare da correnti impercettibili. La foresta le guardava passare, imperturbabile.

«L’hai mai usato nelle tue preparazioni?» chiese la ragazza dopo un attimo.

«Sì».

Dall’inflessione della voce, più profonda del solito, orlata da un sorriso malizioso, Py capì che non si trattava di una ricetta qualsiasi.

«Ma non in erboristeria» azzardò.

«In effetti».

Proprio come quelle piante dalle duplici virtù, Dama Calluna deteneva due saperi: quello dell’erborista e quello della strega. Ma mentre il primo lo condivideva volentieri con la sua allieva, il secondo era sempre avvolto nella massima segretezza, praticato nel chiuso del laboratorio. Ciò che la ragazza aveva scoperto aggirando abilmente i suoi divieti e osservandola attraverso una fessura del soffitto, non poteva ancora confessarglielo.

«Per fare cosa?» non poté non chiedere. «Incantesimi? Pozioni? Filtri?»

Ma, come si aspettava, non ottenne alcuna risposta alle sue domande. Invece di insistere in una battaglia che sapeva già persa in partenza, Py preferì cambiare argomento. C’erano molte zone d’ombra che la sua maestra non voleva chiarire e, tra queste, una in particolare l’aveva tenuta con il fiato sospeso per settimane.

«Per favore, dimmi di più sul mio esame da apprendista. Dove stiamo andando? Non puoi nemmeno rivelarmi il luogo? Capisco che tu abbia voluto mantenere il mistero prima di partire, ma che diamine! Non è più il momento di fare la misteriosa. Cosa dovrò fare laggiù? Mi chiederanno di leggere le carte?»

L’erborista, che le camminava davanti, non si scompose di un millimetro. Py fremeva di un’impazienza quasi dolorosa. Superare quel passaggio avrebbe significato un salto di qualità nella sua pratica divinatoria. Se fosse stata accettata, avrebbe viaggiato senza limiti per incontrare molti indovini esperti, uomini e donne, che avrebbero condiviso con lei i loro segreti. Avrebbe anche potuto vedere alchimisti o stregoni, i cui diversi campi di saperi le avrebbero fornito cono-

scenze inimmaginabili. Dama Calluna le aveva spiegato il motivo per cui un maestro non aveva necessariamente la stessa specialità della sua allieva: aprire nuovi orizzonti. La sua mentore era stata una negromante.

Pytha, pervasa di una tensione febbrile, volteggiò alla bell’e meglio attorno all’imperturbabile strega, impigliata nelle sue sacche e nei pesanti abiti da viaggio, impacciata dal terreno accidentato del sottobosco.

«Mi getteranno in acqua per vedere se galleggio? O mi pungeranno con un ago? Ho letto che un tempo cercavano le streghe in questo modo»

«Durante l’Inquisizione, sì» sbuffò Calluna sprezzante.

«Se non mi spieghi almeno un po’ in cosa consisterà il mio esame, non potrò prepararmi e quindi sarò respinta di sicuro! Oh, non ce la faccio più a non sapere. Solo un piccolo…»

Inciampò su una radice e per poco non cadde lunga distesa; riuscì a riprendersi solo grazie a un movimento poco aggraziato. Nel balzo, il cappuccio era scivolato lasciando scorgere, appollaiata sulla spalla e nascosta sotto i corti riccioli rossi, nell’incavo del suo scialle nero, una piccola civetta addormentata. La palla di piume marrone e beige si scrollò adorabilmente, emise un sospiro, ma non aprì gli occhi. Subito dopo, fu di nuovo avvolta dall’ombra del cappuccio.

«Sta’ calma e non fare la bambina. Se la scuoti troppo, Zéphyr verrà a posarsi su di me. In attesa di arrivare a destinazione, impregnati del sentiero».

La ragazza fece un respiro profondo per cercare di stemperare la sua frustrazione. Non aveva nemmeno il diritto di chiedere alle carte di svelare quel mistero, lo aveva promesso a Dama Calluna. Mentre cercava di dimenticare quelle sensa-

zioni negative e di impregnarsi della foresta di fine inverno, la guaritrice continuava a rendergliela un po’ meno estranea. “Cosa ne pensi di quest’albero?” le chiedeva, e Py osservava il merletto delle nuove foglie, il colore della corteccia o la forma del germoglio. “Chi ha lasciato queste impronte?”, e lei, per terra a quattro zampe, che cercava di distinguerne i contorni. “In che direzione stiamo andando, secondo te?” Ogni elemento di quel labirinto selvaggio diventava oggetto di studio. La sete di conoscenza di Py era soddisfatta. Anche la sua fantasia, lei che nella vegetazione vedeva soprattutto un mondo di simboli cabalistici: falci di luna scolpite nelle rocce dall’erosione, rune camuffate nella corteccia degli alberi, tracce nel fango che dovevano avere un significato… e creature oniriche nascoste nella flora.

I raggi di un pallido sole costellarono le fronde verticali e le due donne sospesero quell’esercitazione e si concessero una pausa, per la grande gioia della capra esausta. Ma era soltanto l’inizio del viaggio, non avevano tempo da perdere e si rimisero in cammino subito dopo aver ingoiato l’ultimo boccone del loro pasto, con il pretesto di non dover prendere troppo freddo. Pytha, soprattutto, oscillava tra l’eccitazione e l’ansia: temeva e, allo stesso tempo, era impaziente di arrivare a destinazione.

Quando l’erborista si alzò, la ragazza scorse sotto la sua gonna la cavigliera: una treccia arancione. Simile a quella indossata dalla vecchia pazza che, prima di morire, le aveva lasciato in eredità le carte a Marsiglia, con la differenza che la sua era rosso scuro. Calluna le aveva spiegato, parecchi mesi prima, che quei fili indicavano l’appartenenza alla comunità delle streghe, e il colore, le sfumature delle loro anime. Se

fosse riuscita a essere ammessa, Py avrebbe guadagnato il suo primissimo filo. Se fosse riuscita. Quel dubbio la teneva sveglia da giorni. Non ne poteva più di aspettare.

«Forza, Djali, adesso alzati» sussurrò alla capra, grattandole la testa. «Pare che abbiamo ancora molta strada da fare prima di sera».

L’animale si lasciò trascinare senza problemi.

«Ti adora da quando le hai trovato questo nome»

«Ogni creatura ne merita uno».

Dama Calluna poté solo annuire, per poi rimettersi in cammino.

Nei raggi di luce che filtravano dalle cime degli alberi, Pytha seguiva con gli occhi la lenta discesa dei fiocchi di polvere vegetale. Sentiva accumularsi sulle spalle un peso ben più greve.

Prima del tramonto si accamparono in cima a una collinetta di erba grigia, e cominciarono con l’accendere un bel fuoco per scaldarsi mani e piedi bagnati. Per quanto avesse cercato di non pensarci, facilmente distratta da tutti i tesori della natura che l’erborista svelava ai suoi occhi estasiati, adesso che la notte la isolava dal mondo e la lasciava sola con i suoi pensieri Py non poteva più negare il suo presentimento. Non era la notte a preoccuparla, anche se il bosco cominciava ad ammantarsi di ombre ostili. Con Dama Calluna al suo fianco, sapeva di non avere nulla da temere. Al suo risveglio, non si sarebbe stupita di trovare animali selvatici intenti a leccare le guance dell’erborista, di sorprendere il piccolo

popolo a giocare tra le sue gonne o di vedere i suoi capelli trasformarsi in radici e affondare nella terra.

Anche se non le aveva detto una parola, la maestra si accorse di come cercasse avidamente la luna nel cielo notturno e, quando l’astro finalmente sorse, vi si aggrappasse con lo sguardo come a un’ancora di salvezza. Colse la sua smorfia di rammarico quando la civetta volò via. Si rese conto che Py continuava ad avvicinarsi al fuoco, quasi fino a bruciarsi, pur imbacuccata sotto il mantello, lo scialle e la pelle di animale che doveva servirle da coperta per il viaggio. Sapeva anche che le sue mani, nascoste nella sacca, stavano armeggiando con i due oggetti magici che aveva portato con sé dal suo doloroso viaggio da Marsiglia e che aveva rubato nella villa del principe italiano quando era andata a recuperare il suo Oracolo: la piccola scatola verniciata di nero chiusa da un enigma scritto in alfabeto runico e il sacchetto rosso contenente i rubini dall’aura oscura. Non se ne separava mai, e passava ore e ore ogni giorno a cercare di scoprirne i segreti. Tanto che a volte Calluna temeva che per lei fosse diventata un’ossessione.

Per placare l’apprensione di Pytha riguardo alle difficoltà da affrontare, Calluna le preparò un infuso nero e opaco: passiflora, biancospino, melissa, fiori d’arancio amaro e rosmarino. Che la sua giovane allieva fosse preoccupata per il viaggio se lo aspettava, ma c’era poco da scegliere: Py doveva passarci per forza. Tutte le novizie ricevevano lo stesso trattamento. Per quanto morisse dalla voglia, Calluna non poteva rivelarle nulla sul corso degli eventi. Era una delle tradizioni più sacre.

Per le cinque mattine successive, dopo aver lottato tutta la notte contro la pioggerellina che le penetrava nelle ossa, in-

capace di ricordare altro se non la paura viscerale che permeava i suoi sogni, Py cercò di convincersi che la tensione alle spalle era solo un indolenzimento dovuto al suo letto di terra sconnessa. Non osava ricordare ad alta voce le sue sensazioni, per paura di invocarle di nuovo, e ignorava coscienziosamente i brividi che le attraversavano la pelle. Di certo erano provocati soltanto dalla rugiada invernale.

Spinta da Dama Calluna, trascinata da Djali che le faceva da apripista nella boscaglia, incoraggiata da Zéphyr che le cinguettava nell’incavo del collo, Py cercava di ignorare i suoi tormenti. Era brava nell’autoconvincimento, aveva la testa piena di utili distrazioni e l’eccitazione all’idea di avvicinarsi alla meta finiva sempre per avere la meglio. Fin dai primi passi, ripeteva lo stesso ritornello: «Dove stiamo andando? Cosa mi aspetta laggiù? Chi ci accoglierà?»

Tra tutte le domande, ce n’era una che non osava porre: “Che cosa succederà se vengo respinta”?

Celebrarono la luna piena come piaceva a Calluna, in silenzio e nell’intimità, ognuna sola al mondo di fronte all’astro argentato. Con il pensiero, la ringraziarono per aver realizzato i loro desideri e la pregarono di esaudirne di nuovi, lodarono la sua luce e la sua guida, la sua forza e la sua costanza, scelsero delle offerte e danzarono sotto i suoi raggi. Chiunque avesse scorto, anche solo per un istante, quelle donne mute, perfettamente in sintonia in un inspiegabile balletto di gesti e immobilità, immerse nella luce bianca della luna, sarebbe tornato a casa segnato per sempre da quello spettacolo soprannaturale. Ninfe, avrebbe pensato, fate o forse spiriti.

Una sera, il sole stava calando lentamente nel crepuscolo purpureo, mentre i boschi si diradavano. L’ora solita del pasto era passata, ma le due donne non avevano avuto il tempo di fermarsi. La civetta svolazzava sopra di loro, tra i rami. Impegnata a osservare l’orizzonte, Py non notò il mazzo di fiori che Dama Calluna stava raccogliendo. La foresta lasciò il posto ai campi marroni su cui non cresceva ancora nulla, i semi erano in quiescenza nella terra. Le prime case si intravidero nel tramonto.

«Non ci accampiamo al riparo degli alberi?» chiese la ragazza, soffiando una nuvola di vapore.

Calluna sorrise.

«Ti piace la notte»

«Be’… mi piace tanto vedere la luna tra le cime quando mi sveglio. Fa fresco, certo, ma con il fuoco è sopportabile. E credo che Zéphyr sia felice di condividere il Vento con noi»

«Sei libera di rimanere nell’accampamento, se preferisci, ma stasera ci aspettano un pagliericcio caldo e un buon pasto»

«Davvero?» si entusiasmò Py. «Siamo già arrivate? Accipicchia! È questo il posto?»

«No, Fiorellino, questa è soltanto una tappa»

«Ah… povera me».

A Py, già pronta a correre nonostante la fatica della giornata, l’energia calò come un soufflé. La ragazza si rivolse alla speziale per confidarle un’idea, che dimenticò subito notando il suo sguardo vago rivolto al mazzo di fiori che teneva tra le mani, e le labbra, quasi immobili, che mormoravano incantesimi. Pytha continuò a osservarla di nascosto, avendo raramente l’occasione di vederla all’opera: Calluna era tanto riservata quanto prudente, e ciò che sapeva del suo dono lo

aveva scoperto grazie a un’osservazione rigorosa. Py suppose che stesse incantando le eriche, ma le sfuggiva il come e il perché. Arrivata alla fattoria che le aveva indicato, la sua mentore bussò alla porta e sollevò davanti al viso i grappoli di piccoli fiori rosa pallido che emanavano un dolce profumo di miele. I cardini sullo stipite cigolarono.

«I miei cari fiori d’erica!» disse in estasi una voce da anziana, aprendo la porta. «Entra, entra, mettiti comoda. Oh, ma non sei sola questa volta, me ne ero dimenticata! Ecco cosa vuol dire invecchiare… Non te lo auguro. Buongiorno, figliola».

Py rimase affascinata dall’immenso sorriso di quella minuscola vecchietta e le ricambiò il saluto. Era così curva che le si vedeva allo stesso tempo la schiena e il viso, quest’ultimo solcato da rughe profonde, illuminato di benevolenza e incorniciato da corti capelli grigio chiaro. Scosse a lungo la testa, senza che l’apprendista sapesse se si trattava di un segno della sua età avanzata o di un pensoso cenno di assenso.

«Vado a legare Djali»

«Non ce n’è bisogno»

«Ma…»

Seguendo la padrona di casa, Dama Calluna era già entrata in un’enorme stanza con spesse travi di legno e Py la tallonò passo passo, non sapendo cosa fare dell’animale. Profondamente incuriosita, esplorò ogni angolo di quel luogo sconosciuto, ampio come un fienile e quasi completamente vuoto. Come nell’erboristeria, il pavimento era di terra nera e compatta, con la differenza che qui era ricoperto da un sottile strato di paglia fresca. Subito attratta dal tepore rinvigorente del fuoco nel camino, Py scoprì che un piccolissimo an-

golo di quello spazio era arredato con un tavolo e delle sedie, un pagliericcio rivestito di lenzuola bianche e una cucina rudimentale. La vecchietta pose il mazzo di fiori in una brocca sul tavolo, al posto di un mazzo del tutto identico, solo un po’ meno profumato.

«Ancora qualche giorno e i fiori della tua ultima visita sarebbero appassiti. Come al solito, hai calcolato il tuo incantesimo alla perfezione».

Pytha non ebbe il tempo di riflettere sul significato di quelle parole, che la padrona di casa già si voltava verso di lei per sussurrarle con aria maliziosa:

«Non sapevo esattamente quando sareste arrivate, quindi non ho osato assentarmi per portare dentro gli animali. Ora mettetevi comode e aspettatemi, ci metterò un minuto».

Le fece l’occhiolino e la ragazza si sentì piacevolmente arrossire. Imitando Dama Calluna, si tolse il mantello e lo appese a una patera traballante, posò le sacche in un angolo e si accasciò su una delle sedie, con molta meno dignità della sua mentore, che rimase con la schiena ben dritta e lo sguardo attento. Pytha non poté trattenere un profondo sospiro di sollievo. Nella stanza regnava un dolce calore ovattato. Djali si sdraiò non lontano da lei e cominciò a brucare la paglia. Aveva il permesso di mangiare dal pavimento? Un brivido di incertezza contrasse le costole di Py, che si affrettò a distogliere lo sguardo, come se non avesse assistito a quel presunto reato. I suoi occhi spalancati come quelli della civetta, appollaiata nella cavità di una trave del soffitto, fecero ridere la strega.

«Rilassati, Fiorellino, va tutto bene. Siamo qui per riposarci. Non stupirti, quando la signorina Soizig tornerà…»

Ma la sua spiegazione fu interrotta da un fragoroso belato che fece schizzare Pytha dalla sedia. Voltandosi, la ragazza osservò inebetita una, due, tre, dieci e poi una ventina di capre entrare ruminando dalla porticina e occupare tutto lo spazio.

Solo lei sembrava sconvolta da quella marea pelosa e cornuta, mugghiante e puzzolente; l’erborista aveva lo sguardo perso nel vuoto e un vago sorriso sulle labbra, Zéphyr si lisciava le piume senza preoccuparsi del rumore e Djali non sembrava nemmeno essersi accorta dell’arrivo di una folla di sue simili.

«Ecco fatto, ci sono tutti» esclamò la contadina ingobbita chiudendosi la porta alle spalle.

Durante il pasto, le due donne spiegarono alla più giovane che, nelle giornate fredde, umani e animali condividevano lo stesso tetto, e questo da secoli: non solo i pastori beneficiavano del calore delle bestie, ma le proteggevano anche dai predatori notturni. L’aroma sciropposo dell’erica dell’Ovest posata tra loro sul tavolo, il calore del fuoco scoppiettante nel camino, la sensazione di pancia piena e di comodità lanuginosa, tutto ciò creava un’atmosfera favorevole alle confidenze. Quando Calluna si alzò per preparare una tisana, l’anziana donna si chinò verso Py:

«Non è facile per una donna vivere da sola in questo mondo di uomini… e la sola presenza della tua maestra mi aiuta a stare lontana dai guai. Mi sono assicurata di dir loro che, in caso di qualche brutto scherzo, Dama Strega non avrebbe tardato a perlustrare la zona alla ricerca del colpevole e lo avrebbe maledetto per venti generazioni»

«Non posso certo ringraziarti; è per questo motivo che nessuno osa rivolgermi la parola fino al porto» ribatté Dama Calluna in tono divertito.

«Perché dovrebbero volerti male? Devono soltanto lasciarti vivere nel tuo angolo: sei anziana, sola e innocua» disse Py.

Lungi dal farsi saltare la mosca al naso, la signorina Soizig rispose:

«Ma è proprio questo il motivo. Nella vita imparerai che gli uomini, nonostante la loro maschera di imperturbabile superiorità, temono tutto ciò che non controllano, anche il minimo dettaglio. Per loro è proibito che una donna nubile si goda la sua libertà: non ho bisogno di loro, non possono esercitare alcun potere su di me. Ebbene, ciò che temono lo distruggono: è questa l’unica risposta per controllare l’incontrollabile. Se non fosse stato per Calluna, già da tempo avrebbero trovato un modo per scacciarmi e spartirsi le mie terre».

L’erborista annuì in silenzio e riprese il suo posto, dopo aver posato davanti a ciascuna di loro una tazza di terracotta piena di un liquido fumante dal profumo speziato. Questa volta, alla passiflora si erano aggiunti valeriana, menta e ribes nero. Py si versò un cucchiaio abbondante di miele di grano saraceno e, pensierosa, mescolò la bevanda scura. Non poteva accontentarsi di una simile generalizzazione. Sul suo cammino aveva incontrato uomini molto diversi tra loro, e se alcuni corrispondevano a quella definizione, non valeva lo stesso per tutti. Guibert l’aveva accettata e aveva riconosciuto il suo potere e la sua indipendenza, Edmond non aveva mai cercato di dominarla o di sminuirla.

«Non è sempre così. Alcuni sono curiosi di conoscere l’ignoto e possono dimostrare gentilezza quando…»

«Se stai pensando al tuo maledetto prete» la interruppe furiosamente Dama Calluna «ti sconsiglio di finire la frase».

I suoi occhi neri si erano aggrappati a quelli della sua allieva come gli artigli di un rapace alla sua preda. Ma, nonostante il travolgente carisma di Calluna, Py non aveva intenzione di cedere.

«Guibert non è stato l’unico ad avermi aiutata!» si difese.

«Non pronunciare il suo nome!»

«Perché? Non è questo che gli impedisce di esistere!»

Py sapeva che era inutile combattere l’odio tenace che Calluna nutriva per gli uomini di Chiesa e in particolare per il vescovo di Viviers, anche senza averlo mai incontrato. Tuttavia, per nessuna ragione al mondo si sarebbe trattenuta dall’affermare forte e chiaro ciò che pensava. Sostenne il suo sguardo tenebroso con una tale determinazione e aria di sfida che, se la signorina Soizig non si fosse schiarita la voce, quel duello invisibile sarebbe durato tutta la notte.

Colta alla sprovvista, Calluna si sentì obbligata a giustificarsi:

«Mostrale la mano».

Pytha sospirò, alzò gli occhi verso il soffitto coperto di ragnatele e acconsentì controvoglia. Nell’incavo del palmo, appena sotto la linea della saggezza, una sottile cicatrice rosa le attraversava la pelle. Quella linea non chiariva il suo futuro, bensì il suo passato: era un ricordo dell’esorcismo cui il vescovo Guibert l’aveva sottoposta, con l’intento di liberarla dalle influenze demoniache che credeva di avere individuato nel suo dono di chiaroveggenza. Ma per la ragazza era una vecchia storia e, non appena la signorina Soizig lanciò un’occhiata alla mano, lei chiuse il pugno.

«È soltanto la più piccola delle ferite che le ha inferto… e l’ha sequestrata in casa sua per diversi mesi»

«Sì, era un po’ matto» tentò di difendersi Py cercando allo stesso tempo di coprirle la voce «ma mi ha insegnato tutto quello che so sulle scienze occulte»

«Questo non giustifica le sue azioni!»

«Suvvia, Calluna» intervenne l’anziana «la tua veemenza mi sorprende… Sai bene che la verità ci sfugge sempre, per quanto ci sforziamo di coglierla. Nessuna di voi ci si avvicina, e anche se mi raccontaste tutta la storia non sarebbe più accessibile a me di quanto lo sia a voi».

Solo il Vento poteva scoprire la verità, lui che aveva visto tutto, sentito tutto, imparato tutto. Ascoltava distrattamente le argomentazioni delle varie parti, a volte per difendere, a volte per accusare. Sapeva che la relazione che era sbocciata tra la cartomante e il vescovo era molto simile all’elleboro: un veleno, un rimedio, e tutte le potenzialità, dannose o benefiche, contenute tra i due. I risultati dipendevano sempre dalle intenzioni.

«Le carte avevano predetto che l’avrei incontrato. Non puoi contrastare il mio Destino»

«Ah» mormorò Calluna beffarda «Fiorellino, il tuo Destino stai per conoscerlo, e ti assicuro che non avrà le sembianze di un prete».

Pytha si bloccò.

«Non guardarmi con quegli occhi, per il momento non posso dirti nulla»

«Oh, soltanto un indizio! Per favore…»

Il sorriso provocatore sfoderato dalla strega lasciava intendere che quel segreto la divertiva tantissimo, come pure lo stato in cui aveva gettato la sua discepola. La strega esitò, rise e schiuse le labbra vermiglie.

Una speranza tesa, avida.

Un sussurro flebile come una brezza estiva.

«Ti immergerai nella nebbia… ancora più profondamente…»

Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Elcograf spa (Bergamo) nel mese di ottobre 2024

La nebbia è una prerogativa delle streghe: nasconde agli occhi l’evidenza, rivela l’invisibile e dà libero sfogo all’immaginazione. Non è un caso che avvolga le tue visioni, e anche quest’isola.

Si può lottare contro il proprio Destino?

Pytha è certa di poter realizzare il proprio destino di Cartomante, anche grazie all’insegnamento di Dama Calluna.

Ma le streghe del Coven la mettono in guardia: c’è troppa oscurità in lei, e se la ragazza si piega al servizio del Male le verrà strappato il dono della divinazione.

Nel cuore della lontana Svezia, immersa nei segreti delle rune vichinghe, Py deve lottare contro le misteriose tenebre che la avvolgono sempre più.

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