L’amante cinese

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Fuorivia

serie curata da Paola Farinetti

L’amante cinese

ISBN 978-88-3624-929-9

Prima edizione marzo 2023

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2027 2026 2025 2024 2023

© 2023 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Copyright © 2023 Antonio Armano

Pubblicato in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)

Questa è un’opera di finzione. Nomi, personaggi, luoghi, eventi e circostanze sono frutto dell’immaginazione dell’autore e dell’espressione della sua libertà artistica e narrativa. Ogni eventuale similitudine con persone e circostanze reali è da ritenersi casuale e assolutamente non intenzionale.

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Antonio Armano L’amante cinese

ROMANZO

«Se un tempo mi chiedevo qual è il costo della verità, ora mi chiedo soltanto: qual è il costo della menzogna?»

Ultime parole della serie Černobyl’

All’inizio del 2015 sono andato a vedere Mr. Turner di Mike Leigh. La storia dello scontroso pittore inglese che vaga come un’anima in pena per dipingere paesaggi e sputa sul quadro alla Royal Academy per sfumare il colore, scandalizzando i benpensanti, mi ha fatto pensare a Julia. C’eravamo lasciati nel 2005 e per dieci anni non l’avevo nemmeno più incrociata per sbaglio. Vivevo a Milano, mentre lei oltre il Po. Sapevo che si era messa con un gallerista, cambiando città e tranquillizzandosi molto.

Qualche giorno dopo avere visto Mr. Turner, Greta mi ha chiamato. Diceva solo: «Julia… Eh, Julia…» Non riusciva quasi a parlare. Mi è venuta a prendere al ristorante L’Angolo, a Lambrate, dove stavo per cenare. Era sempre bellissima e ho ceduto alla vanità di credere che i miei compagni di tavola mi abbiano visto andare via provando un po’ d’invidia. Non era

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Prologo

però aria di pensare a questo genere di cose, e non c’era purtroppo molto da aggiungere a quello che Greta mi aveva detto al telefono quasi senza parlare.

L’indomani ho mandato un messaggio a Julia. Ci siamo dati appuntamento una domenica a casa di Greta. Quando ci siamo rivisti mi ha chiesto scusa per tutto quello che mi aveva fatto. Io ho cercato di minimizzare, ma lei mi ha detto che mi aveva fatto «tanto male», «molte cose brutte». Avrebbe voluto in tutti quegli anni trovare un lungo pomeriggio vuoto e tranquillo per parlare con me, non ci era mai riuscita però, o forse non ci aveva neanche provato. Ero meravigliato dalle scuse, mi sembravano superflue, collocate in quell’orizzonte così funesto… Che cos’era la mia lontana sofferenza sentimentale di fronte all’ombra che era scesa sui suoi occhi?

Essere lasciati è un esito da mettere nel conto, anche se prima di lei non mi era mai capitato e avevo sofferto come un cane per come era successo. Lei pensava che quello fosse l’unico modo possibile: troncare di netto sbattendomi in faccia la mia inadeguatezza e il fatto che stesse cercando un altro uomo; io non potevo ammettere che si liberasse di me così brutalmente senza provare almeno un minimo di pena e senza cercare di lenire la mia. Non potevo tollerare quel taglio così irrevocabile al nostro legame. Le ho detto

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del film su Turner e della scena dello sputo sulla tela alla Royal Academy. Mi ha detto che purtroppo non poteva andare al cinema perché stava male e dunque non lo avrebbe visto mai più. Mi sono sentito in colpa per avergliene parlato, finché mi ha raccontato che anche lei, quando dipingeva da sola in mezzo alla natura, aveva sputato su un quadro molte volte, «non sai quante volte» ha detto con un sorriso che stemperava il mio senso di colpa. Poi mi ha detto che aveva smesso di dipingere negli ultimi tempi. Si era dedicata ad altre cose.

Non abbiamo parlato del cinese, della vicenda di catfishing come si sarebbe definita più tardi, con un’immagine fluviale che era in tema con lo sfondo di molti suoi dipinti e di alcune nostre giornate. Il tempo che mi ha dedicato, mentre diceva addio a tutti gli amici, uno per uno, disposti a cerchio, guardando in faccia la vita e la morte, quello che le stava davanti e soprattutto quello che le stava alle spalle, è stato troppo breve perché potessimo affrontare la storia della falsa identità digitale con la quale mi ero riavvicinato a lei. In quei giorni ho pensato ancora a Turner, alla scena del film in cui si fa legare sull’albero di una nave per guardare negli occhi una tempesta di neve in mezzo al mare. Anche Julia stava affrontando la tempesta allo stesso modo, con lo stesso coraggio, senza na-

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scondersi sottocoperta, e non solo perché era ormai invasa dall’acqua. Ho pensato alla nostra relazione, e ho pensato a quel mattino che poteva essere un nuovo inizio e invece è stato l’inizio della fine, al mattino in cui l’ho accompagnata a dipingere in riva al Po.

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Tao sul Po

A Julia piaceva dipingere all’aperto anche d’inverno. Ogni volta che il cielo si apriva, caricava tele e pennelli in macchina, una vecchia Peugeot 406 familiare da tassista del Cairo, e spariva. La ritrovavo alla sera nella vasca da bagno, mentre si scrostava i grumi di acrilico dalla pelle, colorando l’acqua di una tinta indefinita, ed era serena, almeno in quel momento, per avere lavorato lontano dal pezzo di cortile che si era ritagliata vicino allo studio del geometra, con il cesso che esalava certi giorni note acide di carta e inchiostro, un misto di spurgo e catasto.

Se la guardavi mentre dipingeva in casa o dentro al “pozzo condominiale” – come tecnicamente si chiamerebbe quel pezzo di cortile – Julia perdeva subito la pazienza, si strappava le cuffie del walkman e ti chiedeva di cosa minchia avevi bisogno. All’aperto

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no. Aveva tutto lo spazio intorno per decomprimere la mente. Come quella mattina in cui mi ha chiesto di andare con lei, ed è partita superando con fastidio l’ingorgo davanti alla scuola elementare, tra vigili isterici e auto in coda. Dopo il sottopassaggio ferroviario e il cavalcavia sull’autostrada Torino-Piacenza, finalmente si è aperta la distesa della pianura semideserta e ci siamo presi in faccia il primo sole di marzo. L’inverno stava finendo. Le giunture del ponte sul Po, spesse cicatrici della strada, facevano sobbalzare la macchina. Una casa cantoniera, con le assi di legno inchiodate alle finestre, segnava il termine del ponte e l’inizio della Lomellina.

Il Po, azzurro freddo, scorreva tra isole di sabbia dove erano incagliati copertoni di camion e alberi strappati dall’ultima piena che puntavano un groviglio di radici al cielo. Alle nostre spalle il profilo delle colline era ormai lontano, ma ancora visibile e chiazzato di neve. Julia ha preso uno sterrato, dove una cappa d’aria fluviale impregnava pioppi spogli, rozze barche arrugginite in secca e la capanna-ristorante abbandonata di un vecchio oste leggendario, che chiamavano il Lupo. Secondo la leggenda, una volta si era sbronzato dimenticandosi di ormeggiare la chiatta dove dormiva e si era risvegliato verso Piacenza.

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«Bloody hell! Si può essere più sfigati!» ha detto Julia inchiodando e mi ha fatto vedere la macchina fotografica facendo scorrere le immagini in memoria. Sullo schermo digitale, steli sopravvissuti al gelo spuntavano da un terreno scuro. Davanti a noi, invece, c’era un campo nero arato di fresco. Julia è ripartita rabbiosamente facendo schizzare i sassi, come se i contadini le avessero fatto uno sgarro ad arare il campo, come se il ciclo del lavoro rurale dovesse rispettare i suoi ritmi creativi, e dopo qualche minuto s’è fermata di nuovo. Un paio di chilometri prima di un paesino il cui nome rappresentava una timida speranza, Scaldasole.

«Non conviene andare ancora un po’ avanti?» ho detto. Ma stava già aprendo il baule della Peugeot, la “Piùgot” come chiamava la macchina, anglicizzando per scherzo la pronuncia. Ha tirato fuori tre tele bianche trascinandole via sulla terra scura. Quando ho aperto il libro sul Tao l’ho vista dall’altra parte del campo che piazzava le tele una accanto all’altra. Ha appoggiato i pennelli, ed è tornata indietro a prendere anche la tavolozza. La tavolozza! Sarebbe a dire un’asse di legno scuro, piena di macchie spesse di pittura, che aveva schiodato da un mobile Anni Settanta, comprato dal vicino di casa. In mezzo alla campagna sembrava un pezzo di pollaio con sopra merda di gal-

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lina variopinta. La tengo vicino al tavolo dove ora sto scrivendo, come il relitto di un naufragio fluviale. Ho attraversato il campo e mi sono isolato su una striscia di terra erbosa, sotto una fila di gelsi così nudi da sembrare impossibile che nel giro di qualche settimana si sarebbero ricoperti di foglie.

Ho letto le avvertenze del libro sul Tao. Simili a quelle di un farmaco: “Le persone affette da malattie dell’apparato genitale prima di mettere in pratica i metodi suggeriti debbono consultare il medico”. Saltando le varie introduzioni che glorificavano Mantak Chia, l’autore, sono andato al punto dove si rivelava che le tecniche taoiste venivano divulgate qui per la prima volta. Venivano divulgate perché la situazione dell’umanità era ai limiti dell’annientamento, la gente passava le giornate davanti alla tivù. Abbondavano maestri di qualsiasi cosa, mancavano maestri di vita. Nessuno era più in grado di immergersi nel fiume d’energia che ci scorre dentro. Ma tutto questo deve finire, diceva Chia, perché ogni eccesso genera il suo opposto. Sapevo a grandi linee cos’era il Tao. Julia aveva provato a spiegarmelo. La donna e l’uomo, uniti a lungo nell’atto sessuale, ricompongono l’armonia dell’universo, lo yin e lo yang. L’uomo, per campare a lungo ed essere felice e sereno, deve fare molto sesso, ma sempre senza venire. La donna può venire tutte

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le volte che vuole, l’uomo no. Mai. Julia s’interessava al Tao non per campare un secolo, prospettiva troppo lontana dai suoi trent’anni, ma perché la intrigava qualsiasi cosa sapesse d’Oriente e voleva che imparassi a prolungare la penetrazione in modo da farle raggiungere l’orgasmo. Per questo mi aveva dato il libro e anche questo insegna il Tao, a controllare l’orgasmo. Ultimamente più i giornali allungavano i tempi di pagamento più si accorciavano quelli delle mie prestazioni. Se i due fattori fossero stati direttamente proporzionali, sarei stato un Maestro di Tao. E avrei cercato di lavorare più spesso per quell’editore che pagava a dodici mesi dall’uscita: un anno dalla pubblicazione. Ma anche senza lavorare per lui, con i pagamenti ero messo male e il resto veniva da sé, e pure Julia veniva forse da sé – o con qualcun altro – perché non la facevo più venire io. Certo, esisteva la direttiva comunitaria UE 35/2000, per tutelare i tempi di pagamento – quindi indirettamente e involontariamente le prestazioni sessuali dei collaboratori –, ma in Italia nessuno la rispettava.

Campa cavallo che l’erba cresce, come diceva mia nonna. Alcuni titoli dei paragrafi del libro: L’arte di colpire, Il potente chi dell’erezione mattutina, Dominio mentale dell’eiaculazione, Eliminazione delle polluzioni notturne, Il segreto metodo taoista per urinare cor-

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rettamente, Ingrossamento e allungamento del pene, Kung fu delle cinque dita, Kung fu sessuale (seminale e ovarico). Non si poteva negare l’efficacia di formule potenti come “Kung fu sessuale”… Dall’espressione “martellamento testicolare” scaturivano immagini mentali dolorose. Le mandavo via guardando Julia che tracciava nell’aria con il pennello delle linee diritte, davanti alla tela ma senza toccarla, per prendere le misure al paesaggio, come uno spadaccino che si prepara al combattimento.

Non mancava un capitolo dedicato all’omosessualità. Ogni cosa ha un’essenza yin o yang, femminile o maschile. Il sole yang e la luna yin, il giorno yang e la notte yin, il cielo yang e la terra yin, la chiarezza yang e la confusione yin, il divino yang e il demoniaco yin. Nulla è però completamente yang o yin, tutto è interdipendente dal proprio elemento opposto o per meglio dire completare. Per questo gli omosessuali, non avendo rapporti con le donne, vanno incontro a scompensi per ovviare i quali: “L’uomo che vuole assorbire energia yin dalla terra deve evitare di pensare al sesso, allungarsi prono con una gamba estesa e l’altra flessa in corrispondenza del ginocchio e con gli organi sessuali vicini alla terra, ma non in contatto con essa. Mentre inspira ed espira attraverso il naso deve rilassarsi e concentrarsi: deve far penetrare l’e-

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nergia della terra nel pene con la forza del pensiero”. La faccenda mi ha ricordato un amico che aveva lavorato al Castello di Rivoli aiutando, tra l’altro, un artista a procurarsi un vibratore per realizzare una installazione che rappresentava «un vichingo che scopa la terra».

L’occhio mi è caduto su un dialogo, dove l’allievo dice al Maestro: “Ho constatato che la respirazione testicolare è veramente utile, mi mantiene desto e in forma. Prima, quando facevo un lungo viaggio, mentre guidavo la macchina praticavo il training autogeno, adesso applico la respirazione testicolare, funziona a meraviglia”. Mi sono chiesto quanta gente mentre era in coda nel traffico facesse la respirazione testicolare.

Cercavo di prendere seriamente il libro e di non fare il dissacrante come sempre, come diceva Julia. Ogni cosa, alla fine della fiera, si basava sulla ritenzione dello sperma. “Trattieni lo sperma!” era lo slogan preferito di Julia, pronunciato dall’alto al basso, da superiore a sottoposto, quale ero nella mia posizione sessuale preferita. Eiaculo: dovevo dimenticare questa parola, una delle parole panvocaliche della lingua italiana, cioè che contengono tutte le vocali – quella che ci insegnano a scuola è “aiuole”. E la ritenzione dello sperma può basarsi solo sul potere della mente.

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Ma le tecniche mi sembravano cervellotiche: terzi occhi, la Non-Mano.

Il metodo delle tre dita mi sembrava molto più abbordabile. Praticato in Cina da “oltre cinque millenni”, era venduto come “semplice e alla portata di tutti”. In parole povere, a prova di scemo. Sarebbe lo stesso principio che si mette in atto “quando si interrompe il flusso dell’acqua in un tubo di gomma schiacciandolo col piede”. Alcuni secondi prima che il bisogno di eiaculare diventi impellente, bisogna premere con le dita il punto che si trova fra l’ano e lo scroto. Premere con le dita della mano, ovviamente; non del piede. Be’, ammesso che funzionasse davvero e che riuscissi a metterla in pratica, potevo forse accontentarmi della tecnica delle tre dita? Dovevo dare a Julia qualcosa in più. Pagina 126: L’arte di colpire.

Secondo Mantak Chia, il Kamasutra, tra i metodi per penetrare la donna, ne insegna uno valido, quello del numero nove: “Il principio consiste nel praticare nove colpi piatti (superficiali) e uno profondo. Quest’ultimo colpo profondo, oltre a modificare la stimolazione, costringe l’aria a uscire dalla vagina, per cui i nove colpi piatti che seguono hanno modo di produrre il vuoto in essa”.

La faccenda dell’aria e della vagina sottovuoto m’inquietava. “Questo ritmo di nove colpi piatti e uno

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profondo delizierà la vostra partner. Il vuoto così prodotto ha effetti prodigiosi: la donna si sentirà alternativamente vuota e piena, vuota e piena”. E ancora: “Continuate a sferrare nove colpi corti e uno lungo fino a raggiungere complessivamente nove cicli. Il numero dei colpi ammonterà allora a ottantuno – un numero anch’esso potentissimo. Se all’inizio avete difficoltà a praticare nove cicli, cominciate da tre, poi passate a sei e infine a nove. La forza aumenta se ogni volta nella breve pausa che precede il colpo profondo inghiottite la saliva della vostra partner”. C’era anche un metodo più semplice: “Penetrate lentamente nella donna e ritirate rapidissimamente”.

Tutto questo mi suonava ridicolo e complicato: nove colpi piatti, poi succhi e deglutisci la saliva di lei e quindi la penetri con un colpo profondo, quindi altri nove colpi piatti e poi di nuovo uno profondo… Nove volte, fino a raggiungere quota ottantuno… I colpi complessivi non dovrebbero essere novanta? Per non parlare della faccenda di tirarlo fuori rapidissimamente: qualsiasi donna si sarebbe terrorizzata, pensando che avevi combinato qualche casino. Una volta in un ambulatorio ho incontrato una casalinga calabrese sui settanta, male in arnese, la bocca storta per un ictus. Appena il marito, un montanaro di queste parti, si è infilato dal medico per la visita, si

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è messa a raccontare ad alta voce: «Oh non si sa mai come si è combinati quando ci si mette insieme. Io ho l’utero basso, mio marito veniva subito, e così restavo sempre incinta. Allora gli ho detto: ma che la retromarcia la sai fare solo col camion?» La moglie di un camionista lombardo si sarebbe accontentata della retro, a Julia, che era figlia di un camionista inglese, serviva qualcosa di più sofisticato.

Mentre andava giù il sole tra i campi, stava ancora facendo la base sul trittico. Non bisogna farsi impressionare da questa parola che evoca periodi aurei della pittura. La faccenda aveva a che fare con la carta di credito. Un trittico, cioè una tela divisa in tre, lo carichi su qualsiasi macchina. A parità di dimensioni per una sola tela ci vuole il furgone e non costa neanche poi tanto noleggiarlo, ma se non hai la carta di credito ti chiedono una cauzione assurda, cinquecento euro in contanti o qualcosa del genere.

Torniamo al libro. Mantak Chia svelava tra l’altro che per dieci anni non aveva mai eiaculato. Poi aveva eiaculato una volta per spurgarsi. E chissà cos’era uscito. Poi una seconda volta, per concepire. E quel figlio dell’armonia cosmica ristabilita era, manco a dirlo, un concentrato di bellezza, vigoria, intelligenza. A quel punto ho deciso che ne avevo abbastanza del libro e sono andato a vedere che combinava Julia

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attraversando il campo. Il terreno era pieno di buche, arbusti aguzzi, induriti dal freddo; ci si graffiava, si affondava.

Sono saltato dentro a un fossato, attratto da una cosa lucida. L’ho girata con il piede. Una rivista di scambisti, mi sembrava. C’erano donne grasse e avanti con gli anni e uomini messi non molto meglio, ripresi in inquadrature impietose e squallide. Cercavo vanamente di sfogliare con il piede le pagine appiccicate, non per il motivo per cui di solito sono appiccicate le pagine di simili riviste, ma per l’umidità del fosso della Lomellina.

«Che-stai-facendo?»

Ho alzato la testa. Le nuvole, tra i campi scuri, avevano il colore rosa freddo del tramonto invernale, la tonalità di un sorbetto alla fragola industriale, e gli argini del fossato erano coperti di erba smorta, ma gli occhi di Julia erano più verdi di qualsiasi cosa lì intorno.

«Fammi vedere quella porcheria!» Si è rimessa il cappello, ed è saltata nel fosso anche lei. Dopo un bacio che sapeva di aria aspra e pungente, di campagna di sera, di contadina al ritorno dal lavoro nei campi, si è messa con le spalle contro di me. Ha sollevato la pancia dalla parete fangosa del fosso. Tutto intorno era silenzio. Poi è passata una macchina. I miei piedi

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affondavano lentamente nel terreno. Quando è svanito il rumore dell’auto, ho sentito quello della cerniera che si abbassava. I miei piedi affondavano lentamente nel terreno. Nella semioscurità che si addensava intorno a noi dentro al fosso, distinguevo il filo nero del tanga che non era stato cambiato da tempo ragionevole: facciamo ieri o l’altro ieri? E ho sentito lei che mi tirava giù i calzoni anche se era girata di schiena. Chia. Il Maestro. Nove colpi piatti e uno profondo. Nove colpi piatti e uno profondo. Dovevo ricordarmelo. Le ho tolto quello stupido berretto da baseball che si era messa, l’ho presa per la lunga coda nera e sopra la nuca nuda è apparsa la sua business-card incisa sulla pelle, in ideogrammi cinesi: Artista, Pittrice, Decoratrice. Nove colpi piatti e uno profondo. Forse Julia conosceva questa tecnica numerologica. Forse sapeva contare meglio con il corpo che con la mente. Per esempio ricordava il codice del bancomat come sequenza visiva e se trovava una tastiera con un’altra disposizione dei numeri non poteva ritirare i soldi o pagare. Aveva grandi talenti e strane carenze. Nove colpi piatti e uno profondo… Quella burocrazia aritmetica mi stava togliendo l’entusiasmo. Ho cercato di cancellare la suggestione negativa alternando colpi brevi e profondi in modo istintivo, e alla fine ho perso il conto. Julia non sembrava nota-

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re differenza. Non mi pareva di avere creato effetti di vuoto e pieno, iniezioni di yang. O era lo yin? Qual era il principio maschile e quale il femminile?

Me n’ero già dimenticato. O forse lei si concentrava sul momento in cui dovevo fermare l’eiaculazione?

Un’onda che vedi arrivare mentre stai in spiaggia e sai che non puoi sfuggirle. La tecnica delle tre dita: bisognava trovare il centro tra l’ano e lo scroto, quindi premere forte come con la canna dell’acqua. Da bambino mi piaceva bere dalla canna d’estate dopo avere giocato a pallone in cortile, ma mi sembrava di ricordare che quando la schiacciavo l’acqua veniva fuori più forte. Ma soprattutto per usare la tecnica delle tre dita dovevo smettere di spingere e questo, naturalmente, bloccava l’orgasmo, che scoperta: il mio, ma pure il suo. Ho ricominciato a “colpire”, l’onda era vicina, sempre più vicina. Riuscivo a bloccarla tirandolo di nuovo fuori e premendo le tre dita, ma era il tirarlo fuori, non la pressione. Perché appena riprendevo… Ho guardato verso sud. La raffineria di Sannazzaro de’ Burgondi mandava una fiamma nel cielo grigio-viola, e l’ho usata come squallido sfondo per distrarmi, per deviare i pensieri. Il petroliere Enrico Mattei era precipitato mentre volava qui per l’inaugurazione dell’impianto. Il pensiero come ritardante funzionava. Morte, rottami… Forse die-

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tro all’incidente aereo c’era un complotto delle Sette Sorelle, le grandi società petrolifere multinazionali. Sette Sorelle… No, non andava bene, l’espressione mi eccitava. Ho tirato fuori un classico ritardante: il vecchio morto nella bara. Chissà se lo avesse saputo Julia. Un conto è pensare che l’uomo con cui stai facendo l’amore usa un’antica tecnica orientale, un trucco segreto millenario, un altro è pensare che si concentra sul cadavere di un ottuagenario. Ma in fondo eravamo stufi tutt’e due, l’avevamo fatto spesso negli ultimi giorni e ci siamo staccati, uscendo dal fosso come da una situazione obbligata. Quando si è rimessa a dipingere non c’era più luce e così siamo andati via. La prima macchina che abbiamo incrociato lampeggiava, per segnalarci un posto di blocco o farci accendere i fari. Siamo passati accanto all’impianto petrolchimico, le cui torri di raffinazione illuminate nel buio sembravano una skyline americana, e al nightclub Il Dollaro, con quel nome così sguaiato e divertente nella sua spudoratezza mercantile assoluta e ingenua. Forse lo avevano chiuso.

Appena prima del ponte sul fiume ci doveva essere la trattoria Amici del Po. Quella, sì, era rimasta, di fronte alla casa cantoniera chiusa e con le assi alle finestre. Le ho detto se si voleva fermare. Cedeva sem-

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pre alla proposta di una cenetta. Era vuoto il ristorante. Ho chiesto se avevano le rane. Cinesi, scherzavo. Mi hanno assicurato che no, le prendevano in un allevamento italiano, non più nelle risaie della zona, dove erano scomparse a causa dei pesticidi, come le mondine, ma neanche in Cina. Julia non aveva mai mangiato rane. Le ho sconsigliato quelle in umido, molli e acquitrinose, meglio fritte: croccanti e secche, emancipate dalla loro natura anfibia. Il vino rosso, che era già arrivato a metà bottiglia quando ci hanno portato le rane fritte, ha tolto a Julia ogni inibizione verso quel cibo che doveva sembrarle qualcosa di etnico, barbaro. «Si mangiano anche le ossa?» mi ha chiesto. Non sembrava molto convinta di fronte a quei mostri dorati su un vassoio di metallo, ma poi ha pulito il piatto lasciando solo qualche briciola di impanatura, l’ha raccolta con la mano sporca di colore… Mangiava sempre con le mani, Julia.

Ho pagato con il bancomat, gravando su una fonte già sfinita. La carta di credito non ce l’avevo più. Ma tra poco, avvolti nella capsula del silenzio notturno della macchina, saremmo stati a casa, e più o meno in pace con noi stessi. Julia per avere dipinto all’aria aperta certi campi, malinconici e invernali, dove spuntavano pochi steli stinti, io per la fiducia nelle possibilità del metodo Mantak Chia. Ero incline,

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quasi quanto lei, a credere in qualsiasi rimedio alternativo, non ufficiale e orientale, e pronto a chiudere tutt’e due gli occhi pur di aprire il terzo. Ci voleva solo tempo, un gioco da bambini, come la canna dell’acqua.

A casa lei ha fatto scorrere l’acqua nella vasca, io mi sono messo a cercare qualcosa sui Google, pensando a quello che avevo visto nel campo mentre leggevo.

I ricci si chiamano tra loro emettendo dei fischi. Durante il rituale del corteggiamento, il maschio mordicchia gli aculei della femmina. Quando si ritiene soddisfatta, questa li abbassa e inarca la schiena consentendo la penetrazione sul dorso. Il rapporto sessuale dura pochi secondi, ma è focoso. Nella foga della copula capita che i due corpi, uniti in una specie di palla di spine (oltre diecimila tra maschio e femmina), perdano l’equilibrio e finiscano per rotolare. Perché non possono separarsi finché il pene non torna alle dimensioni normali. Per questo aspetto rocambolesco, in Toscana è entrato nell’uso il divertente modo di dire “scopare come ricci”.

Be’, oltre che divertente, era confortante apprendere che un animale godesse della fama di grande amatore pur durando pochi secondi. Restava la questione del pene… Come cavolo doveva essere fatto per im-

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pedire alla femmina di sottrarsi all’amplesso? In effetti era molto lungo: quasi come il corpo del maschio. Un metro e mezzo tradotto in termini umani. Ho cercato una foto e sembrava un lombrico lungo e rosa.

Julia sapeva fischiare benissimo e per avvicinarsi a lei in certi momenti bisognava essere sicuri che avesse abbassato gli aculei. Mentre si distendeva, rilassata, nella vasca, mi ha detto che aveva venduto un quadro e la riparazione della macchina, la macchina che mi aveva fuso quando ero a New York, la pagava lei. Ma appena ci siamo infilati a letto mi ha dato la schiena, tacendo e rialzando gli aculei.

Alla mattina si è alzata prima di me, ha tirato giù con violenza la vecchia corda polverosa e sfilacciata della tapparella, facendo entrare rumorosamente la luce, come per scacciare qualsiasi traccia di ombra e intimità tra noi, e ha aperto la finestra sulla strada.

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