Leo Lionni
La botanica parallela
“Vi sono piante che appaiono chiaramente in immagini fotografiche, ma che l’occhio umano non può percepire. Ve ne sono che rifiutano le comuni norme della prospettiva mantenendo inalterata la loro grandezza, nonostante la distanza che le separa da noi. Altre, incolori, che in determinate condizioni rivelano un gioco cromatico di rara bellezza…”
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Leo Lionni
La botanica parallela illustrazioni dell’autore
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Leo Lionni La botanica parallela illustrazioni dell’autore
© 1977 by Leo Lionni © Renewed 2005 by Nora Lionni and Louis Mannie Lionni
fotografie di Enzo Regazzini
ISBN 978-88-6145-299-2 Prima edizione in questa collana febbraio 2012 © 2012 Carlo Gallucci editore srl - Roma ristampa 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 anno 2021 2020 2019 2018 2017 2016
galluccieditore.com
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Indice
PREMESSE ORIGINI E MORFOLOGIA Le origini Morfologia DESCRIZIONE DELLE PIANTE PARALLELE 1. Il tirillo Tirillus oniricus Tirillus mimeticus Tirillus parassitus Tirillus odorosus Tirillus silvador 2. Le mollette di bosco 3. La tubolara 4. La camporana 5. La Protorbis Nandi e la Notte 6. La labirintiana 7. Le artisie
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Indice
8. Le germoglianti 9. Gli strangolatori 10. Il giraluna Il Fiore dai Semi d’Oro La Sposa di Pwa’ko Il Sole e la Luna 11. La solea Il Tchavo dalle Foglie d’Argento La Creazione delle Parole La Lancia d’oro di Tschwama 12. La sigurya
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IL DONO DI THAUMA
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ELENCO DELLE TAVOLE
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“Imaginary gardens with real toads in them� MARIANNE MOORE
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Premesse
ell’antichità la botanica faceva parte di un’unica scienza, che includeva la medicina e le scienze agrarie ed era praticata da filosofi e barbieri. Alla famosa scuola medica di Coo (V secolo a.C.) Ippocrate, e più tardi Aristotele, scrissero i primi abbozzi di una metodologia scientifica. Ma fu Teofrasto, allievo di Aristotele, il primo a sviluppare un rudimentale metodo di osservazione del mondo vegetale. I suoi Historia plantarum e De plantarum causis si ritroveranno poi, tramandati da Dioscoride, fra le frasi e le frasche degli erbari medievali che monaci scrivani componevano nei chiostri fioriti delle badie, ritraendo le piante più umili, ognuna sul suo altarino di zolla, ferme, perfette come i santi, in una solitudine che sfidava il tempo e le stagioni. Dopo Gutenberg anche le piante avranno una nuova iconografia. Alle delicate velature dell’essenza di petali, applicata con amorevole pazienza, si sostituisce la brutalità del taglio nel legno e l’opaca indifferenza degli inchiostri. Nel 1539 Hieronymus Bock pubblica un’opera, illustrata da tavole xilografiche, in cui l’autore descrive 567 delle seimila specie di piante allora conosciute nel mondo occidentale, includendovi per la prima volta tuberi e funghi. «Questi» scrive «non sono né erbe, né radici, né fiori, né semi, ma soltanto un umidore eccessivo della terra, degli alberi, dei legni marci e di altre cose putrescenti. Da tale umidità si originano tutti i tuberi e i fun-
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ghi. Questo si può constatare dal fatto che tutti i funghi sopraddetti (in ispecial modo quelli adoperati nelle cucine) crescono principalmente quando il tempo è piovoso o temporalesco. Da questi fatti furono già colpiti in particolar modo gli antichi i quali pensavano che i tuberi, poiché non nascono da alcun seme, fossero in qualche modo collegati col cielo. In tal senso si esprime anche Porfirio quando dice: “Le creature degli dèi si chiamano funghi e tuberi perché non si sviluppano da semi come gli altri viventi”». Meno di un secolo dopo l’avvento della stampa i Conquistadores e i capitani delle Compagnie delle Indie vuoteranno su un’Europa sbalordita la cornucopia profumata dei giardini e delle giungle che dormivano di là dagli oceani. Migliaia e migliaia di nuove piante dovranno essere frettolosamente nominate e collocate in un sistema di classificazione primitivo e inefficiente. Finalmente, nei primi decenni del XVIII secolo lo scienziato svedese Carlo Linneo redige una tassonomia botanica che sembra essere definitiva; un’anagrafe vegetale dove tutte le piante della Terra, presenti e future, potranno avere un nome, un rango, una descrizione sommaria. Nel 1735 Linneo pubblica il suo Systema Naturae e nel 1753 introduce la nomenclatura binomia che assegna a ogni pianta due nomi latineggianti, uno per il genere e uno per la specie. Oggi 300mila nomi di piante formano un lungo involontario poema che commemora, ricorda, descrive, esalta, celebra le intricate vicende della storia umana. Tutto sembra pronto per la nuova scienza. Liberati dall’ossessione della tipologia, i botanici si chiedono ora il come e il perché dei comportamenti vegetali. La chimica, la fisica e la genetica provvedono nuovi strumenti di ricerca. La tipologia cede il posto all’etiologia. La botanica, chiamata a stabilire un rapporto logico e causale fra l’organizzazione morfologica e le funzioni vitali delle piante,
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servendosi di metodi sperimentali, è ora una scienza moderna. Il futuro sembra sicuramente tracciato – s’insegue il piccolo con un piccolo sempre più piccolo, fino all’infinito. Là, paradossalmente, si pensa, dovrà avvenire l’incontro e la spiegazione di tutto quello che esiste nell’universo. Ma la prospettiva, al tempo stesso esaltante e confortevole, di un programma di ricerca faticosamente delineatosi attraverso i secoli, e che pareva fissato per sempre nel tempo, sarà profondamente scossa dalle notizie del ritrovamento delle prime piante parallele – un regno sconosciuto le cui caratteristiche di arbitrarietà e di imprevedibilità sembrano sfidare non solo le conoscenze biologiche recentemente acquisite, ma anche le strutture tradizionali della logica. «Tali organismi» scrive Franco Russoli «la cui corporea esistenza è ora molle ora porosa, ora invece ossea ma fragile, slabbrati a mostrare colonie di semi, bulbi che crescono e lievitano nella cieca ostinazione di una metamorfosi vitale, e sembran lottare contro la resistenza di un mallo soffice ma vischiosamente insuperabile – tali abnormi creature che sfoderano aculei e cornee protuberanze, o si fan corpetto e gonna e frange di fibrilli e pistilli e articolazioni ora di mucosa ora di cartilagine, potrebbero ben appartenere vagamente alle grandi famiglie di una flora di giungla, ambigua, feroce e mostruosamente affascinante. Ma non appartengono ad alcuna specie in natura, né alcun sapientissimo innesto di laboratorio arriverebbe a farle esistere»1. Quando si pensi che nel 1330 fra Odorico da Pordenone aveva descritto, con serafico impegno, una pianta che genera niente di meno che un agnello, e che, ancora nel Seicento, agli albori delle prime autentiche esperienze scientifiche, un 1
Franco Russoli, Una botanica inquietante, Il Milione, Milano, 1972.
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Claude Duret parla di alberi che partoriscono animali2, non c’è da meravigliarsi se la scoperta di una botanica le cui leggi sembrano estranee a tutte le leggi naturali conosciute abbia indotto a descrizioni che non sempre riflettono con fedeltà obiettiva la realtà delle nuove piante. «Che dire» osserva Romeo Tassinelli «di piante che affondano le proprie radici anziché nelle zolle familiari della nostra terra, in un humus onirico, lontanissimo, traendone per la propria esistenzialità succhi eterei immisurabili? Le piante di questo regno sembrano essere estranee al gioco ordinato della selezione naturale e della sopravvivenza della specie. Sfuggono alle tecniche più provate e sicure della metodologia sperimentale e rifiutano i più elementari sistemi di osservazione diretta. La loro etiologia, la loro stessa esistenzialità non sono normalmente collocabili sul nostro pianeta. In fondo» conclude «non si dovrebbe parlare di un regno ma di un’anarchia vegetale»3. Era chiaro che l’inserimento nella classificazione linneana di piante probabili, tutt’al più possibili, ma comunque estranee alla
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Un agnello vegetale illustra un capitolo del Voiage and Travayle of Sir Mandeville Knight, pubblicato a Londra nel 1568. Questo animale vegetale fu descritto anche da Parkinson nel suo Theatrum Botanicum nel 1640, e un secolo dopo Erasmus Darwin lo nomina nel suo Loves of the Plants. È conosciuto come Tartariano, Scito o Agnello vegetale, ma soprattutto col nome tartaro di Barometz. Originario del Talmud, appare in Europa durante il Medioevo negli scritti di Odorico di Pordenone, nel 1330, come un agnello fissato a un tronco che si nutriva chinandosi sull’erba che cresceva intorno alla pianta. Claude Duret in Histoire admirable des plantes et des herbes (Parigi, 1605) descrive Barometz come un agnello la cui lana, per bellezza e morbidezza, sorpassa quella delle pecore comuni. 3 Romeo Tassinelli in Scienze al traguardo, autori vari, Laguna, Venezia, 1972, pp. 105-122.
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nostra conosciuta realtà, avrebbe presentato difficoltà insormontabili. Fu Franco Russoli a coniare l’espressione “botanica parallela”, allo stesso tempo nominando e definendo non si sa bene se una scienza o l’insieme degli organismi che ne sono l’oggetto. Ma a volte le parole hanno una saggezza che eccede la loro densità semantica. Per le sue implicazioni di irrimediabile estraneità, la parola
Figura 1. Il Barometz, l’Agnello vegetale.
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Premesse
“parallela” liberò gli scienziati dall’incubo di veder sconvolta la tassonomia tradizionale e con essa le fondamenta stesse di tutta la metodologia scientifica moderna. Per quanto abbia ragione il Wolotow quando osserva che, se di due scienze una è parallela, lo è per definizione anche l’altra, pensiamo che la vaporosa ambiguità della parola non può riferirsi che a un regno che esiste fuori dai confini certi della nostra conoscenza. «Avvertiti del suo parallelismo» dice Remo Gavazzi «non ci resta che spostare l’angolo della nostra visione, provocando così nuove direzioni d’indagine e, forse, nuovi strumenti per vedere, comprendere e far nostra una realtà che fino a ieri ci poteva sembrare ostile»4. Ogni scoperta, anche minore, comporta una ridefinizione di tutto quello che fino a ieri avevamo comodamente accettato come l’unica possibile misura del reale. E così anche la scoperta di questa botanica desueta e inquietante era destinata a sconvolgere l’illusoria integrità delle nostre previe nozioni di realtà e di irrealtà. «Tanto più» dice Dulieu «che è proprio da queste nozioni che le sue piante, misteriosamente estraniate dalle vicende di crescita e di decadimento che si contendono il dominio della biosfera, sembrano trarre i loro succhi vitali per emergere – perennemente immuni, di là dalle normali percezioni e dagli abituali accostamenti mnemonici – in una razionalità autre, ambigua, perversa, da noi inafferrabile. Inafferrabile per la consacrata nozione di realtà che con tanta ostinazione si tiene avvinghiata, come un’edera velenosa, alla nostra logica». Jacques Dulieu, direttore del Centro di Studi Biologici di Bovences, e redattore della rivista “La Pensée”, deve la sua repu4
Remo Gavazzi, Una rivoluzione vegetale, “Corriere di Verona”, 12 aprile 1970.
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tazione internazionale tanto ai suoi famosi esperimenti sul linguaggio vibratorio ed echeggiante degli organismi che vivono nei fondali marini quanto alla sua attenta e originalissima analisi critica di Descartes. Forse fu questa sua duplice vocazione di biologo e di filosofo che lo indusse a occuparsi seriamente e intensamente della nuova botanica. Contestando le nozioni, ritenute sicure e fondamentali, che dall’Illuminismo in poi erano state le premesse di tutto il nostro operato scientifico, Dulieu raccontò, in una storica intervista per France-Inter, le strane vicende che condussero alla sua crisi intellettuale, alla sua polemica rivalutazione di tutti gli antichi significati e alla formulazione di una nuova metodologia di ricerca per lo studio di fenomeni che la scienza ufficiale rifiutava di riconoscere come realmente esistenti. La sua drammatica testimonianza volle essere la risposta a quanti negli ambienti intellettuali francesi si domandavano come mai un biologo della sua statura si fosse azzardato, con tanta dichiarata ostinazione, a esplorare nuove traiettorie apparentemente esoteriche, piene d’insidie e dalle mete inevitabilmente precarie, quando la sua reputazione di ricercatore estroso ma prudente sembrava presagirgli un posto sicuro e luminoso nel firmamento delle scienze. Nella sua intervista alla radio francese Dulieu ricordò che nei primi anni del dopoguerra egli aveva lavorato nel Laboratorio di Biologia Botanica all’Università di Hananpur, nel Bengala, dove aveva avuto occasione di conoscere Hamished Baribhai, noto studioso, oltre che di botanica medicinale, di letteratura sanscrita e in particolar modo dei testi vedici. Quando Dulieu lo conobbe, Baribhai si vantava di aver compiuto da pochi giorni i novant’anni; ma la sua agilità mentale e fisica non aveva nulla da invidiare a quella del giovane ricercatore francese, allora uno dei più promet-
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Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Print on Web a Isola del Liri (Fr) nel mese di aprile 2016
Leo Lionni (Amsterdam 1910 - Rad-
da in Chianti 1999) è stato un artista multiforme di statura mondiale. Nato in Olanda, a 14 anni si trasferì in Italia e vi rimase finché le leggi razziali non lo costrinsero a fuggire negli Stati Uniti. Si stabilì a Philadelphia, dove divenne un grafico pubblicitario di grande successo. Nel 1948 fu nominato art director di “Fortune”. In quegli anni venne in contatto con i più grandi artisti dell’epoca, dal giovanissimo Andy Warhol a Saul Steinberg, da Willem de Kooning ad Alexander Calder. Nel 1960 rientrò in Italia e cominciò a dedicarsi alle opere per bambini. Ha pubblicato più di 40 libri per i più piccoli, conquistando per ben quattro volte la menzione al Caldecott, il più prestigioso premio americano del genere. Cinque di questi sono poi stati trasformati nelle animazioni dirette da Giulio Gianini: I cinque Lionni (volumetto + Dvd, Gallucci). Negli ultimi tempi Leo tornò con passione alla pittura e alla scultura, oltre che alla cura del suo giardino toscano e alla scrittura di questo eccentrico trattato.