UAO Universale d’Avventure e d’Osservazioni
Sarah Cohen-Scali La quarta scimmietta traduzione dal francese di Silvia Mercurio della stessa serie: La casa senza sonno La bambola maledetta ISBN 978-88-3624-668-7 Prima edizione italiana luglio 2022 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2026 2025 2024 2023 2022 © 2022 Carlo Gallucci editore srl - Roma Titolo dell’edizione originale francese: Le dernier petit singe © 2020 Éditions Casterman, Bruxelles - Belgio Gallucci e il logo
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Sarah Cohen-Scali
traduzione di Silvia Mercurio
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«Il bambino sorride nella foto. Non deve sorridere, è vietato!» Il tono era fermo, deciso, venato da una punta di rabbia. La donna sembrava pronta ad accompagnare quelle parole con una chiamata alla polizia, come se le persone che aveva davanti – una madre con il figlio, venuti in Comune per richiedere un passaporto – rappresentassero un pericolo imminente. Aveva particolarmente insistito sulle parole “sorridere” e “vietato”. Quanto al termine “bambino” – che Karim a dodici anni trovò offensivo –, l’aveva pronunciato con un evidente disgusto. Con un ribrezzo altrettanto marcato, spinse le foto sul bordo della scrivania. Sembrava che si stesse sbarazzando di un ragno morto e rimasto
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lì, tra le penne e i moduli amministrativi. Dopodiché rimase in silenzio, immobile, con lo sguardo fisso su un punto visibile solo da lei, come se i suoi interlocutori fossero d’un tratto diventati trasparenti. Era una donna alta, magra e smilza, con la carnagione pallida e il viso ossuto piantato su un collo fine come uno spago. Indossava una gonna lunga il cui orlo, quando si muoveva, raccoglieva la polvere accumulata sul pavimento, e una camicia striminzita con il colletto alto che faceva pensare a un bustino utile a sostenerle le ossa. Il tutto, di un nero sbiadito, sembrava uscito direttamente da una bancarella dell’usato del secolo scorso. Emanava un vago odore, molto lieve, quasi impercettibile, che Karim fece fatica a definire. Come una puzza di uovo marcio, la muffa proveniente da un’acqua stagnante. O forse era l’odore del tabacco freddo? Sulla scrivania c’era un posacenere straripante di mozziconi. Era evidente che la donna non si preoccupava minimamente del divieto di fumare nei luoghi pubblici e aveva quella voce rauca tipica dei fumatori incalliti. «Eppure» azzardò la madre di Karim dopo un silenzio imbarazzato «le foto che abbiamo porta-
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to sono identiche a quelle della carta d’identità di mio figlio. L’abbiamo fatta proprio qui, poco tempo fa, senza alcun problema». In tutta risposta la donna agitò la testa da destra a sinistra, più volte, con ritmo regolare e una lentezza esasperante, fissando Karim come se l’affermazione provenisse da lui. Il ragazzo incrociò per un istante il suo sguardo, ma non lo sostenne a lungo. La donna aveva gli occhi piccoli, tondi, incavati nelle orbite; sembravano bottoni cuciti lì, direttamente sulla pelle, sotto due sopracciglia così fini che si riducevano a una sottile linea pallida interrotta solo in alcuni punti. Karim sentì un brivido percorrergli la schiena. Quanto a sua madre, non insistette oltre, cosa piuttosto insolita per lei. In circostanze normali Emma avrebbe protestato, inveendo aspramente contro quell’impiegata troppo pedante e certamente in malafede, i toni si sarebbero accesi e avrebbe chiesto di parlare con un responsabile. Non adesso. Emma non disse niente. Proprio come suo figlio, desiderava soltanto una cosa, lasciare il prima possibile quell’ufficio e la sua atmosfera soffocante. «D’accordo, va bene, rifaremo le foto e torneremo un’altra volta»
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«Fatele qui, le foto. Da altre parti, è solo tempo sprecato». La donna prese un pezzo di carta, ci scarabocchiò sopra un indirizzo e lo diede a Karim, posandogli di nuovo addosso il suo sguardo senza vita. Il ragazzo lo afferrò subito, badando bene a non sfiorarle la mano ossuta e così pallida che lasciava trasparire la rete di venuzze che scorrevano sotto la pelle. Le dita, fini come steli, di una lunghezza sproporzionata, terminavano con delle unghie eccessivamente appuntite e dall’igiene dubbia. Sembravano artigli. Una volta fuori, Karim e sua madre si guardarono per qualche istante, perplessi, incapaci di dare voce ai propri pensieri. Poi, insieme, scoppiarono a ridere. Da dov’è uscita questa tizia? Chi diavolo è questa vecchia arpia?
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L’indirizzo non era quello di un fotografo professionista come aveva immaginato Karim, ma di un centro commerciale situato a una trentina di chilometri a nord di Parigi. «Ma non ha nessun senso fare trenta chilometri in macchina quando c’è una cabina per le fototessere nella Posta in fondo alla strada, e un’altra al supermercato a cinque minuti a piedi!» obiettò Karim. «Perché vuoi seguire alla lettera le istruzioni della vecchia? Quella tizia è fuori di testa, si vede!» «Non hai tutti i torti» rispose Emma dopo qualche secondo di riflessione. «Ma con la burocrazia, conviene non correre rischi. Meglio liberarsi il prima possibile di queste formalità. Stando al GPS, il tragitto non dovrebbe durare più di
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mezz’ora e, a quanto pare, in quel centro commerciale ci sono un sacco di negozi. Prendiamo due piccioni con una fava: le foto e lo shopping, dopotutto a te servono dei jeans nuovi. E visto che c’è anche un cinema, potremmo approfittarne per andare a vedere un film, no?» I jeans, Karim poteva comprarseli con un semplice clic dalla sua camera da letto. (Che follia andare in un negozio per provarne un paio!) Invece, non andava al cinema da solo con sua madre da quando aveva quanto… sei, sette anni? Non si ricordava nemmeno del film che avevano visto all’epoca, probabilmente un cartone animato. Ma sua madre aveva voglia di passare un po’ di tempo con lui, quindi… Karim protestò pacatamente, per salvare le apparenze, e fissarono la gita il pomeriggio seguente, mercoledì. Non c’era tempo da perdere se voleva avere il passaporto prima del viaggio scolastico negli Stati Uniti, tra un mese e mezzo. A causa del traffico, tipico dei giorni di pioggia, per uscire dalla capitale impiegarono un’ora. Le indicazioni del GPS, che Emma aveva seguito scrupolosamente, li condussero su una stradina provinciale, sinuosa e accidentata, che,
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a giudicare dalle condizioni dissestate, sembrava essere stata definitivamente abbandonata dalla manutenzione stradale. Dovette rallentare, poiché si trovò ad affrontare una serie di buche che rischiavano di danneggiare l’automobile, per poi procedere a passo d’uomo finché una coltre di nebbia le tolse all’improvviso ogni visibilità. L’auto rimase imprigionata in un ammasso di nubi dense, compatte, come emigrate dal cielo per abbattersi sulla terra. Nell’abitacolo, Karim, taciturno, trattenne il fiato, preferendo non distrarre la madre per chiederle se fosse sicura di avere preso la strada giusta e soprattutto perché non stessero incontrando anima viva. Niente, nessun faro che annunciasse la presenza di un altro veicolo. D’un tratto la voce del GPS, una voce artificiale maschile, di solito armoniosa, cominciò a balbettare, ripetendo le stesse istruzioni per qualche minuto, poi si interruppe e riprese a cantilenare prima di guastarsi del tutto. Il timbro era diverso, notò Karim, la tonalità era più acuta, più umana, e quei balbettamenti tradivano un panico evidente. Nonostante i tentativi di Emma per riavviare il GPS, non ci fu niente da fare e dovettero quindi proseguire alla cieca, affidandosi
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alla luce degli abbaglianti per avanzare in quell’oceano brumoso. Quando la nebbia si dissipò – con la stessa repentinità con cui era calata sulla strada – l’automobile entrò in una zona industriale, una di quelle che inquinano ormai le nostre campagne con la loro sfilza di marchi tutti uguali: l’Outlet della calzatura, quello dell’abbigliamento, un megastore di arredamento... Dopo aver percorso una strada deserta che non sembrava portare da nessuna parte, ebbero l’impressione di trovarsi davanti alla scenografia di un film. Tuttavia il GPS, riassumendo le proprie funzioni, confermò l’arrivo a destinazione. Non restava che setacciare le corsie del parcheggio affollato per trovare un posto. Da dove venivano tutte quelle macchine? Si chiese Karim. E i rispettivi proprietari si erano dati tutti appuntamento lì? Durata totale del tragitto: tre ore. Tre ore per andare a fare quattro misere fototessere! «Ormai lo spettacolo delle tre è andato» commentò Karim che, come il GPS, aveva ritrovato la voce. In realtà non sapeva se la prospettiva di perdersi il film gli dispiacesse o al contrario lo ralle-
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grasse. Il titolo che aveva scelto sua madre non lo attirava granché e aveva solo voglia di tornare a casa il prima possibile. «Non importa, andremo a quello successivo» disse Emma, che non sembrava particolarmente turbata da quello che era appena successo.
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La galleria commerciale era immensa e brulicante come un alveare in piena attività. Una tale affluenza, insolita, degna di una banchina della metropolitana in un giorno di sciopero, era piuttosto opprimente. Da qualche parte doveva sicuramente esserci una promozione speciale, si disse Karim, temendo che sua madre, una volta fatte le foto, gli avrebbe imposto un insopportabile pomeriggio di shopping. Dovettero consultare una mappa per sapere dove si trovava la cabina per le fototessere. Terzo piano, di fronte all’ipermercato. Prima scala mobile a destra. Fortunatamente, dentro non c’era nessuno. Karim prese i cinque euro che gli diede sua madre, si infilò dietro la tendina e la richiuse.
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Si sedette sul sedile e diede una rapida occhiata alle foto definite “conformi” esposte sulla sinistra, davanti a lui. Erano accompagnate da una serie di istruzioni: “Stare dritti”, “Non sorridere”… Tutta una sfilza di obblighi. Perché era proibito sorridere in un passaporto o in una carta d’identità? si domandò Karim. Come se fosse un delitto, come se la cosa equivalesse a barare o a truccarsi il viso! Lesse le indicazioni sullo schermo e selezionò la propria scelta con i pulsanti del tastierino che si trovava alla sua destra: “fototessera per documento d’identità”. Inserì le monete ma… la macchinetta gliele restituì. Ottimo inizio! Era forse una di quelle giornate in cui la tecnologia decideva di fare le bizze? C’era già stato il GPS per strada… Karim reintrodusse i soldi, più lentamente – forse la prima volta l’aveva fatto troppo in fretta? La macchinetta glieli restituì di nuovo, questa volta accompagnati da una serie di banconote da cinque euro che caddero a terra sotto i suoi occhi increduli. Quante ce n’erano? Karim si affrettò a raccoglierle prima che qualcuno all’esterno le notasse, sua madre per prima, dato che la tenda arrivava solo a metà della cabina. Contò con foga
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il gruzzoletto che aveva tra le mani: venti banconote, vale a dire cento euro! Rifletté per una frazione di secondo, poi rinunciò ad avvertire sua madre di quell’anomalia. Gliel’avrebbe detto più tardi. O forse no… Si infilò i soldi in tasca, con un pensiero commosso per la vecchia arpia del Comune. Grazie. Gli aveva fatto un vero regalo dandogli quell’indirizzo. Grazie a lei, contrariamente a quanto aveva pensato Karim, alla fine non era stata una giornata sprecata. Stava per premere sul pulsante “OK” per far partire gli scatti ma ci ripensò… E se ci avesse provato un’altra volta? Dopotutto cosa rischiava? Sua madre, all’esterno, non sembrava essersi spazientita, Karim lanciò una rapida occhiata per controllare se vedeva ancora le sue gambe, probabilmente si era allontanata per andare a curiosare davanti alla vetrina del negozio vicino, oppure era entrata nell’ipermercato per qualche rapido acquisto. E a quanto pareva nessuno stava aspettando che si liberasse la cabina. Prelevare dal gruzzoletto una banconota da cinque euro per guadagnarne potenzialmente di più, valeva la pena tentare, no? In realtà non era neanche obbligato a toccare quella vincita, gli sarebbe bastato
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reinserire le monete, gli avrebbero di nuovo portato fortuna, avevano sicuramente qualcosa di… magico! Karim passò all’azione e… Bingo! La macchinetta risputò un’altra decina di banconote. Per il terzo tentativo, il ragazzo decise di usarne una. Forse la vincita sarebbe stata più sostanziosa? Il suo desiderio si esaudì. La macchinetta sputò delle banconote da cinquanta euro. Quella piccola fessura, così insignificante, tanto banale, di norma destinata a dare il resto agli utenti, somigliava a una bocca che rigurgitava un eccesso di cibo. Senza pensarci due volte, Karim proseguì su quella strada, ancora e ancora. Guadagno totale: almeno duemila euro, forse molto, molto di più, il ragazzo non aveva tempo di contare, ci avrebbe messo troppo, gli sarebbe servita una calcolatrice. Un guadagno astronomico in soli pochi minuti! Quella cabina era fantastica! Degna di una slot machine in un casinò di Los Angeles! Karim avrebbe potuto ancora raddoppiare, triplicare la vincita, se lo sentiva, ma una ragione tanto semplice quanto sciocca glielo impedì: non sapeva più dove mettere i soldi. Non aveva preso lo zaino e le quattro tasche dei jeans erano piene, così come quelle della felpa. Ne aveva infilati persino
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nelle mutande! Nasconderne altri avrebbe sicuramente attirato l’attenzione di un addetto alla sicurezza quando avrebbe lasciato la cabina o all’uscita del centro commerciale. Per non parlare di sua madre che avrebbe subito notato l’eccessivo rigonfiamento delle tasche. D’un tratto si domandò se lo spazio non fosse videosorvegliato, se ora, in quel preciso momento, non gli sarebbe spuntata davanti una guardia, tirando la tenda e cogliendolo in flagrante. Karim aspettò qualche secondo, sulle spine, poi scacciò quell’idea. Tuttavia, la paura che quel pensiero suscitò in lui, per quanto breve – un violento tonfo al cuore, l’improvvisa sensazione di avere le gambe molli, l’immagine di se stesso con le manette ai polsi, circondato da due poliziotti e seguito da sua madre, travolta dalla vergogna, a qualche passo di distanza –, gli confermò che fermarsi era la decisione giusta. Ora, le foto. Karim si raddrizzò in modo da avere il viso all’interno del cerchio sullo schermo, come suggeriva l’assistente vocale – non l’aveva sollecitato lui, ma era evidente che quella cabina si prendeva qualche libertà e Karim non se ne sarebbe certo lamentato –, e gli occhi, all’altezza della linea cen-
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trale. Stava per premere sul pulsante verde, quando si rese conto che stava sorridendo. Un sorriso a trentadue denti. Niente di più logico. Come non sorridere dal momento che si era appena intascato un piccolo patrimonio? Va bene, d’accordo, con calma. Karim espirò profondamente, distese i muscoli e aspettò che il suo respiro tornasse regolare dopo una simile scarica di adrenalina e che il rosso che gli infiammava le guance si attenuasse, poi premette il pulsante. Il flash si attivò e le foto apparvero sullo schermo, in attesa di essere approvate. Erano venute abbastanza bene, ma c’era sempre una pieghetta, lì, all’angolo delle labbra, come se il sorriso non fosse del tutto svanito, rafforzato da un luccichio nello sguardo; le pupille del ragazzo brillavano. Tutti dettagli che non sarebbero sfuggiti alla vecchia megera del Comune. Le avrebbe senza dubbio rifiutate. Karim non convalidò quel primo tentativo e ne fece un altro, altrettanto infruttuoso. Il sorriso, appiccicato alle labbra, stava prendendo le sembianze di un ghigno. Il ragazzo fece allora un terzo tentativo, dicendosi che sarebbe stato l’ultimo, pazienza se le foto non erano conformi. Il flash scattò e per una frazione di secon-
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do Karim ebbe l’impressione di vedere, sul vetro che aveva di fronte, non il suo viso, ma quello della vecchia del Comune. Durò pochissimo, appena un istante, uno scherzo dell’immaginazione, non poteva che essere altrimenti. Tuttavia l’intrusione sullo schermo di quel viso dal colorito cadaverico, di quegli occhi neri senza la minima scintilla di vita, di quelle guance rugose color cartapesta, di quelle labbra livide, tese in un sorriso che lasciava apparire una fila di denti guasti, conficcati nelle gengive rosso sangue, sortì il suo effetto: nelle foto Karim aveva un’espressione così seria che dimostrava cinque anni di più. Quanto al sorriso, era del tutto scomparso, l’apparizione della vecchia aveva avuto il potere di rubarglielo. Fiu! Era finita. Karim ne fu sollevato. D’istinto si toccò le tasche per controllare che i soldi non si fossero volatilizzati, scomparendo insieme al sorriso – dopotutto, le due cose non erano forse legate? No, le banconote erano ancora lì. Karim premette sul pulsante di conferma per avviare la stampa e si accinse a uscire dalla cabina. Ma non ci riuscì. La tendina era scomparsa. Una porta di ferro senza maniglia, né serratura apparente, l’aveva
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sostituita. La cabina era chiusa anche dall’alto, come se una sorta di tapparella vi si fosse srotolata sopra. È uno scherzo, vero? D’un tratto il ragazzo si rese conto che non sentiva più niente: il brusio della galleria, la musica, gli annunci pubblicitari, il bip degli articoli che venivano scansionati in cassa, i frammenti di conversazione dei gruppi che gli passavano accanto, all’improvviso tutto taceva. Nessun suono. Niente. Karim era dentro un cubo ermetico.
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