A cavallo dell’asina

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E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul piú bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando di colore, disse all’amico: — Aiuto, aiuto, Pinocchio! — Che cos’hai? — Ohimè! non mi riesce piú di star ritto sulle gambe. — Non mi riesce piú neanche a me — gridò Pinocchio, piangendo e traballando. E mentre dicevano cosí, si piegarono tutti e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi, e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro brizzolato di nero. Ma il momento piú brutto per que’ due sciagurati sapete quando fu? Il momento piú brutto e piú umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino. Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini; e ragliando sonoramente, facevano tutti e due in coro: j-a, j-a, j-a.

A CAVALLO L’asina DELL’ ASINA Carlo ColloDi, le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Firenze 1881

Assessorato alla Cultura e alla Convivenza Assessorat für Kultur und aktives Zusammenleben

La collezione d’arte medievale del Museo Civico, di cui si espone una piccola ma significativa selezione, comprende affreschi staccati, dipinti, stucchi, sculture in pietra e legno policromo, altari, oggetti liturgici e devozionali, provenienti da Bolzano e da tutto l’Alto Adige. Il termine “medioevo” nell’arte locale copre un arco cronologico molto lungo che parte dalle testimonianze carolingie dell’VIII secolo, comprende il periodo romanico fino al XIII secolo, il gotico in tutte le sue varianti dagli inizi del Trecento fino agli inizi del Cinquecento, compresi pertanto i primi influssi del rinascimento. La maggior parte degli oggetti proviene dalle chiese, fulcro della produzione artistica in questi secoli. Gli oggetti e gli arredi d’arte sacra, avendo funzione liturgica e devozionale, quando cambia il gusto artistico vengono sostituiti ma non automaticamente distrutti: le statue possono venire modificate e adattate, gli altari spostati in una collocazione meno prestigiosa o in una chiesa secondaria. In questo modo la loro sopravvivenza è maggiore rispetto agli arredi profani: le opere d’arte che decoravano castelli e residenze nobiliari, infatti, seguono da vicino le sorti delle casate e vengono disperse con più facilità. Attraverso molte opere del Museo Civico si segue l’evoluzione dell’arte medievale locale. La monumentalità e il rigore dell’arte romanica, perfettamente espressi, ad esempio, nella Madonna lignea di Gais (XIII secolo), lasciano il posto alla

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maggiore naturalezza e umanità delle prime testimonianze gotiche, come l’Uomo del dolore proveniente da Bronzolo e risalente alla metà del Trecento. La grande stagione della pittura murale nella città di Bolzano inizia alla fine del Duecento con dipinti in stile gotico-lineare, opera di artisti nordici giunti probabilmente dalla zona del lago di Costanza. Ne sono esempio quelli della chiesa di Santa Maddalena, da cui proviene la Crocifissione fra i dolenti esposta in questa sala. Prosegue quindi con l’avvento delle botteghe giottesche attive al duomo, ai Francescani e, soprattutto, ai Domenicani (cappella di San Giovanni). Verso la metà del Trecento la presenza del padovano Guariento lascia un’impronta indelebile nel successivo sviluppo della pittura locale, soprattutto per la sensibilità nel rendere lo spazio, per l’ambientazione ricca di dettagli e per l’abilità narrativa. Ne sono testimonianza i dipinti in San Giovanni in Villa e in San Vigilio al Virgolo, così come l’ampio ciclo che decora Santa Maddalena, di cui si vede qui la lunetta con l’Incoronazione della Vergine. Negli ultimi decenni del secolo è documentata anche la presenza di artisti veronesi, mentre agli inizi del Quattrocento, dall’incontro tra arte italiana e arte tedesca, nasce uno stile autonomo e originale, la cosidetta Scuola di Bolzano. Di ciò il Museo conserva interessanti testimonianze, non esposte in questa occasione.

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a cavallo dell’asina … … per riscoprire il museo civico di bolzano © 2011 museo civico di bolzano testi: Silvia Spada Pintarelli traduzioni: Stefan Demetz foto: Museo Civico di Bolzano design: ganeshGraphics in collaborazione con la Società del Museo di Bolzano


← quando le chiese non erano bianche

← uno sguardo dal passato

Frammenti di marmo e stucco Provenienza: Malles, chiesa di San Benedetto Inizio IX secolo

Frammento di affresco Provenienza: Bolzano, duomo IX secolo

I frammenti appartengono all’originaria decorazione della parete orientale della chiesa di San Benedetto a Malles Venosta, piccolo edificio di età carolingia posto in un luogo strategico per le comunicazioni tra i territori del Sacro Romano Impero. Le parti in marmo di Lasa, con decorazioni geometriche, provengono dall’iconostasi, cioè dalla transenna che divideva la zona riservata ai sacerdoti da quella dei laici. Gli stucchi erano invece applicati intorno alle tre nicchie che contenevano gli altari. La decorazione era molto ricca: colonne ad intreccio terminavano con capitelli con figure umane o elementi vegetali che sorreggevano animali mostruosi su cui si appoggiavano gli archi sommitali. Tutta la chiesa era affrescata: ora si conservano i dipinti delle pareti est e nord. Gli stucchi di San Benedetto sono tra i pochi stucchi carolingi che conservano ancora ampie tracce dei colori originari che li ricoprivano. Diversamente da quanto si credeva fino a pochi decenni fa e dall’impressione che se ne ha oggi, infatti, gli interni delle chiese altomedievali erano ricchi di colore e di vivaci contrasti.

I bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale colpirono duramente la città di Bolzano, causando anche ingenti danni al suo patrimonio artistico. Il duomo fu colpito più volte e subì notevoli danni; i successivi lavori di ricostruzione e restauro furono però l’occasione per effettuare scavi archeologici che portarono alla luce le chiese antecedenti all’edificio gotico attuale: una grande basilica paleocristiana, del IV–V secolo, e una più piccola chiesa altomedievale (VIII–IX secolo), da cui proviene il frammento qui esposto, raffigurante un volto. La presenza di queste chiese testimonia come la conca di Bolzano venisse abitata con insediamenti sparsi pre-urbani dalla tarda antichità all’alto medioevo, compreso il periodo turbolento delle cosiddette invasioni barbariche.

← solo il celeste nutrimento Frescante locale Assunzione di santa Maria Maddalena Affresco staccato, 72,5x150 cm Provenienza: Vadena, chiesa di Santa Maddalena 1290–1310 ca.

Il frammento, testimonianza della più antica decorazione della chiesa di Santa Maddalena a Vadena, dopo la demolizione dell’edificio nel 1796 era rimasto sulla parte inferiore all’esterno del campanile, occultato da due strati pittorici successivi, rispettivamente del 1360 circa e del 1410–1420 ca. I tre strati vennero staccati in blocco nel 1931 e quindi separati tra loro nel 1983–1984. In stile tardo-romanico, raffigura un episodio importante della vita di santa Maddalena, mistica anoressica, narrato nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine, redatta nella seconda metà del Duecento. Sulla destra si vede, infatti, un angelo che sospinge la santa in cielo, coperta solo dai lunghissimi capelli, per ricevere, dalla contemplazione di Dio, l’unico nutrimento nei 30 anni di volontaria vita eremitica.

Intagliatore bolzanino Madonna che allatta (Unsere Liebe Frau im Moos) Legno intagliato e dipinto, 67x32x26 cm Provenienza: ignota Prima metà XIV secolo Intagliatore bolzanino Madonna che allatta (Unsere Liebe Frau im Moos) Legno intagliato e dipinto, 61,5x38,5x21 cm Provenienza: ignota Prima metà XVIII secolo Intagliatore bolzanino Madonna che allatta (Unsere Liebe Frau im Moos) Legno intagliato, dipinto e dorato, entro teca 67x32x26 cm Provenienza: collezione Wohlgemuth XVIII secolo

← un dipinto e il suo doppio Pittore nordico (Renania superiore o lago di Costanza) Crocifissione tra Maria e san Giovanni dolenti Affresco strappato, 144x315 cm Provenienza: Bolzano, chiesa di Santa Maddalena 1300–1310 ca.

Il dipinto è un ottimo esempio di stile gotico lineare, nato in Inghilterra nella prima metà del Duecento e giunto in Tirolo sul finire del secolo. Predilige l’uso della linea di contorno per creare figure di grande eleganza, dalla gestualità espressiva, ma ancora completamente bidimensionali. L’ambientazione delle scene rimane astratta. La Crocifissione non è dipinta ad affresco, ma “a secco” su muro, tecnica che non permette una buona adesione del colore. Così quando, nel 1960, venne “strappato” dalla chiesa lo strato più tardo, del 1370–1380 ca. che copriva i dipinti gotici lineari, parte del colore di questi rimase attaccato sul retro dei dipinti strappati e venne quindi, a sua volta, distaccato creando così un “doppione” della stessa immagine. La stessa Crocifissione si può quindi tuttora ammirare anche nell’abside della chiesa della Maddalena.

← vir dolorum ← nella palude Secondo la leggenda, tramandata da Ferdinand Troyer nella sua Chronica von Botzen del 1649, il duomo di Bolzano fu fondato in seguito ad un evento miracoloso. Un carrettiere sentì una voce, proveniente da una palude, che chiamava soccorso. Trovò così una statua della Madonna, in cui onore fu eretta una chiesa proprio sul luogo del ritrovamento. La bellissima statua romanica in marmo, raffigurante la Madonna che allatta (Madonna delle Grazie), opera veronese del XIII secolo, è ora conservata nella cappella delle Grazie, appositamente costruita nel XVIII secolo dietro l’altare maggiore del duomo di Bolzano. È conosciuta con il nome di Unsere Liebe Frau im Moos, la Madonna della palude, a ricordo del suo miracoloso ritrovamento. Le tre statue qui esposte, che ne riprendono le fattezze, appartengono a stili ed epoche differenti, testimoniando così il perdurare di una devozione molto sentita a livello popolare.

Scultore svevo (?) Uomo del dolore Arenaria con policromia parzialmente rinnovata 79x38x24 cm Provenienza: Bronzolo, chiesa di San Leonardo Metà XIV secolo

La statua, che ha subito successivi rimaneggiamenti (come l’aggiunta, in un impasto di cemento grossolano, dei boccoli che cadono sulle spalle), conserva ancora parte della policromia originale, identificabile nelle zone di colore rosa tenue. In seguito fu ridipinta con un tono più acceso e resa più drammatica dall’aggiunta delle gocce di sangue. L’Uomo del dolore è un’iconografia di origine orientale che trova larga diffusione in Occidente soprattutto a partire dal Trecento: rappresenta Cristo in un non meglio specificato momento successivo alla Crocifissione, recante le tracce cruenti della Passione subita, la ferita al costato e le stimmate. A Bolzano l’immagine è molto diffusa e strettamente legata alla sensibilità religiosa degli Ordini mendicanti. Un altorilievo si trova, infatti, nel chiostro dei Francescani, mentre nella chiesa e nel chiostro dei Domenicani è ripetuta in tre distinti affreschi. Un’ulteriore immagine, a figura intera, fa parte dell’apparato decorativo della “Porticina del vino” del duomo (lato nord).

← regina del cielo e della terra Bottega del Secondo Maestro di San Giovanni in Villa Incoronazione della Vergine Affresco strappato, 132x315 cm Provenienza: Bolzano, chiesa di Santa Maddalena 1370–1380 ca.

La seconda campagna decorativa che interessa la chiesa di Santa Maddalena, occultando i dipinti gotico-lineari dell’abside (cfr. Un dipinto e il suo doppio) e ricoprendo tutte le pareti e la volta della navata, riflette il grande cambiamento stilistico che si verifica a Bolzano a partire dal 1330 ca. con l’arrivo dei primi pittori giotteschi e si rafforza con la presenza del pittore padovano Guariento che, verso il 1360 ca., aveva dipinto la cappella di San Nicolò ai Domenicani, demolita nel 1820. La “rivoluzione” della pittura italiana del Trecento si esemplifica nella ricerca della resa tridimensionale delle figure, ambientate in spazi reali, e nella loro umanizzazione. In questa scena la Madonna viene incoronata da Cristo quale Regina e Signora di tutto il creato, ma la posa umile ne sottolinea, appunto, gli aspetti di umana fragilità.

← dalla corte di praga alla città di bolzano Hans von Judenburg (doc. 1411-1424) (?) Madonna col bambino Legno policromo, 47x28x20 cm Provenienza: ignota, 1425 ca. Bottega di Hans von Judenburg Madonna col bambino Legno policromo, 104x45x30 cm Provenienza: Terlano, chiesa parrocchiale, 1425 ca.

Negli ultimi decenni del Trecento e agli inizi del Quattrocento, in tutta Europa si diffonde il cosiddetto “dolce stile” o gotico internazionale. I volti delle figure hanno espressioni tenere e malinconiche, i corpi sono sinuosi, racchiusi in panneggi morbidi e con pieghe abbondanti. Uno dei principali centri di diffusione di tale stile fu la corte di Praga, dove Carlo IV fece giungere artisti da tutto il continente dando loro importanti incarichi, primo fra tutti la costruzione della cattedrale. Sul finire del secolo il cantiere della cattedrale subì un rallentamento e le commissioni si ridussero. Molto artisti lasciarono la città cercando lavoro altrove, contribuendo in questo modo alla diffusione del “dolce stile”. Probabilmente fu così che Hans von Judenburg giunse a Bolzano dove, il 26 dicembre 1421, firmò il contratto per la costruzione dell’altare maggiore della parrocchiale. L’imponente altare a portelle, ora smembrato e solo parzialmente conservato in varie chiese e musei, influenzò profondamente l’arte locale. Le due Madonne qui esposte ne sono testimonianza.

← contro i mali della gola Maestro delle storie di San Vigilio Testa femminile, Cacciatore e cani Affreschi frammentari, 33x34,5 cm; 83x66 cm Provenienza: Bolzano, chiesa di San Nicolò 1390 ca.

I frammenti vennero alla luce durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale che distrussero completamente l’antica chiesa di San Nicolò, posta accanto al lato sud del duomo di Bolzano. Facevano parte di un ciclo con Storie di san Biagio, santo protettore delle malattie della gola, il cui patronato si accordava bene con il luogo umido e malsano in cui sorgeva allora l’edificio. Nel Medioevo, infatti, l’Isarco, privo di argini, scorreva più a nord rispetto al corso attuale, e si impaludava. L’artista viene identificato con l’autore delle Storie di san Vigilio dipinte sulla parete settentrionale dell’omonima chiesa sul Virgolo. Pur risentendo degli influssi della pittura trecentesca italiana e, in particolare, del Secondo Maestro di San Giovanni in Villa, il suo stile grafico ne rivela il gusto e, forse, l’origine nordica.

…con la luna sotto ai suoi piedi

← imago lignea

← gesù diventa bambino

Intagliatore pusterese Madonna in trono con bambino Legno intagliato e dipinto, policromia rinnovata 73x36x24,5 cm Provenienza: Gais (Pusteria) Inizio XIII secolo

Intagliatore pusterese Madonna in trono con bambino Legno intagliato e dipinto, policromia rinnovata e parzialmente rimossa, 62x22x18,5 cm Provenienza: Villabassa, già collezione Wassermann Fine XIII secolo

La Madonna incoronata, seduta in trono, tiene in grembo il bambino benedicente. Le figure guardano davanti a sé, con espressione seria e assorta. La statua è massiccia, monumentale, racchiusa in se stessa: i dettagli dei corpi sono ottenuti tramite le fitte pieghe delle vesti che percorrono, solo in superficie, il blocco di legno. Sono queste le caratteristiche proprie dello stile romanico che enfatizza gli aspetti di maestà e divinità delle sacre figure. Il fitto pieghettare è tipico delle statue lignee di origine pusterese. Tra i molti esempi che si conservano (Bressanone, Museo Diocesano), la Madonna di Gais è uno dei più antichi.

Rispetto alla Madonna di Gais (cfr. Imago lignea), quest’opera appare più lieve e naturale: il bambino è posto in obliquo, incrocia con disinvoltura le gambe e assume fattezze infantili; il manto della Vergine si apre lasciando intravvedere la veste e le forme del corpo, il suo capo non è incoronato, ma coperto da un velo trasparente sotto al quale si distinguono i lunghi capelli. In questa statua devozionale la severità dello stile romanico si attenua: nella ricerca di movimento e di leggerezza si fa strada una nuova sensibilità verso l’uomo e la realtà quotidiana, tipica dello stile gotico.

← la danza dei sette veli

Intagliatore sudtirolese Madonna in trono col bambino Legno policromo, 81x65x34 cm Provenienza: ignota 1460 ca.

Intagliatore svevo Testa di san Giovanni Battista Legno policromo, 25x21,5x10,5 cm Provenienza: mercato antiquario 1480–1490 ca.

Verso il 1430 la stagione del “dolce stile” volge al termine. In Italia nasce e si sviluppa il primo rinascimento che affronta soprattutto problemi legati alla rappresentazione dello spazio; in Germania il “realismo drammatico” si concentra sull’espressività, anche cruda ed esasperata. In entrambi i casi il cambiamento stilistico riflette un forte mutamento sociale: la borghesia ha ormai sostituito la nobiltà nella gestione del potere, e si autorappresenta attraverso un’arte concreta. Così si spiega come gli abitanti di Vipiteno, cittadina arricchitasi attraverso le sue miniere, incarichino nel 1456 Hans Multscher di costruire il grandioso altare per la loro parrocchiale. Attraverso di lui il “realismo drammatico”, di cui la Madonna qui esposta è un esempio, si diffonde in tutta la regione. La falce di luna figurata, posta sotto ai piedi della statua, si riferisce ad un verso della Apocalisse di Giovanni (12,1): Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle.

San Giovanni Battista aveva condannato pubblicamente lo scandaloso rapporto di Erodiade con il cognato Erode Antipa e per tale motivo era stato arrestato. Erodiade insisteva affinchè venisse ucciso ma re Erode non acconsentiva, per timore e anche per stima nei confronti del santo. Durante un banchetto Salomè, figlia di Erodiade, eseguì la danza dei sette veli, ammaliando il re che le promise come ricompensa qualunque cosa essa avesse voluto. Istigata dalla madre, Salomè chiese e ottenne la testa di Giovanni su di un vassoio. Questa narrazione evangelica è alla base dell’iconografia della Johannesschüssel, ossia la testa del santo posta su di un vassoio, iconografia diffusissima in periodo gotico, in particolare nei paesi di lingua tedesca. Nell’esempio quì esposto manca il vassoio che accoglieva la testa e le corde tinte di rosso che uscivano dal collo a simulare le vene recise con la decapitazione.

← a cavallo dell’asina per un ingresso trionfale Hans Klocker (doc. 1482-1500) Cristo sull’asina Legno intagliato e dipinto, policromia rinnovata 195x147x65 cm Provenienza: Caldaro, chiesa parrocchiale 1498 ca.

La grande statua rappresenta Cristo benedicente che a cavallo di un’asina entra trionfalmente a Gerusalemme, dove viene accolto dalla folla festante. L’episodio è narrato nei Vangeli e, in particolare, in Matteo 21,1-9 “Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma”. Fin dal medioevo, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, si diffonde l’uso di portare in processione la Domenica delle Palme una statua di questo tipo, spesso dotata di ruote per facilitarne il trasporto. Il Cristo sull’asina qui esposto proviene dalla parrocchiale di Caldaro ed è opera di Hans Klocker che verso il 1498 esegue anche l’altare maggiore della stessa chiesa, ora smembrato. Klocker, titolare di una fiorente bottega a Bressanone, è uno dei più importanti artisti tirolesi della seconda metà del Quattrocento: crea opere molto realistiche e curate nei dettagli, caratterizzate da tratti e panneggi spigolosi.


Fatto questo, a un dato segnale incominciarono tutti insieme il loro concerto: l’asino ragliava, il cane abbaiava, il gatto miagolava e il gallo cantava; poi dalla finestra piombarono nella stanza facendo andare in pezzi i vetri. I briganti, spaventati da quell’orrendo schiamazzo, credettero che fosse entrato uno spettro e fuggirono atterriti nel bosco. I quattro compagni sedettero a tavola, si accontentarono di quello che era rimasto e mangiarono come se dovessero patir la fame per un mese. …E a chi per ultimo l’ha raccontata ancor la bocca non s’è freddata.

A CAVALLO L’asina DELL’ ASINA Fratelli GriMM, i musicanti di Brema, 1819

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L’arte del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento in Alto Adige e, in generale, nei paesi di lingua tedesca è caratterizzata dall’altare a portelle (Flügelaltar). Si tratta di una struttura formata da uno scrigno, due o più portelle mobili, un coronamento (cimasa) nella parte superiore e una predella che funge da base. Nello scrigno, nella predella e nella cimasa sono contenute statue a tutto tondo di diverse dimensioni; il retro dello scrigno e le portelle sono generalmente dipinti con figure di santi o scene narrative; in alternativa l’interno delle portelle può essere decorato con bassorilievi. A partire da questa forma standard, l’evoluzione dello stile porta a creazioni più complesse e variate. Gli altari diventano monumentali (quello di Michael Pacher a Salisburgo, ora distrutto, era alto 17 metri, mentre quello di St. Wolfgang nel Salzkammergut, dello stesso artista, comprende 71 figure scolpite e 24 dipinti singoli), mentre le sagome degli scrigni si fanno più articolate.

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Alla realizzazione di un altare a portelle collaborano artigiani e artisti con competenze diverse, che formano una vera e propria bottega. Al carpentiere viene affidato il compito, poco appariscente ma essenziale, di costruire la struttura in modo solido e, soprattutto, bilanciato, in modo che il peso delle portelle non faccia ribaltare l’altare. L’intagliatore scolpisce le figure lignee, su cui poi viene stesa la preparazione in gesso, necessaria per permettere la corretta applicazione del colore.

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Preparazione e colori vengono anche essi predisposti all’interno della bottega. Il pittore dipinge quindi le statue, ma anche le scene narrative e i dettagli decorativi dell’altare. Una parte importante dell’effetto finale è affidata all’utilizzo dell’oro per i panneggi delle figure e, soprattutto, per gli sfondi, decorati con una tecnica particolare che imita le stoffe (il Pressbrokat). Anche per questo è necessaria l’opera di uno specialista. Nelle collezioni del Museo si conservano alcuni altari a portelle completi, molte statue e portelle dipinte, che in origine ne facevano parte. Attraverso questo prezioso materiale si può anche seguire l’evoluzione dello stile: dal “dolce stile” di inizi Quattrocento, splendidamente rappresentato dalle Madonne di Hans von Judenburg e della sua cerchia, al passaggio verso rappresentazioni di maggior realismo dovute all’influsso dello svevo Hans Multscher, alle opere di Michael Pacher – la portella con san Floriano e sant’Antonio abate – e degli artisti che a lui fanno riferimento, come Marx Reichlich. Pacher e i suoi si confrontano con la rappresentazione dello spazio tridimensionale su di una superficie bidimensionale, tema/fulcro della pittura italiana del primo rinascimento. Tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, infine, le opere di artisti di origine o di influsso svevo (Jörg Arzt, Ivo Strigel) si distinguono per l’eleganza, la delicatezza e il fluire dinamico di forme e panneggi.

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a cavallo dell’asina … … per riscoprire il museo civico di bolzano © 2011 museo civico di bolzano testi: Silvia Spada Pintarelli traduzioni: Wolftraud de Concini foto: Museo Civico di Bolzano design: ganeshGraphics in collaborazione con la Società del Museo di Bolzano


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← ad maiorem dei gloriam

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La vetrina raccoglie oggetti liturgici di varie epoche. La croce astile è una croce che si fissa su di un asta e che accompagna le processioni; il turibolo è un contenitore entro il quale viene bruciato l’incenso durante le funzioni più solenni; la pisside serve a conservare le ostie consacrate ed è sempre dotata di coperchio; il reliquiario, che può avere le forme più disparate, contiene la reliquia del corpo o della veste di un santo.

1 Croce astile con Cristo crocefisso Bronzo fuso, sbalzato e dorato con smalto 16,3x13,5x1,5 cm XIII secolo 2 Pisside Rame fuso e dorato, 17x10,5x10,5 cm XIII secolo

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3 Reliquiario di san Lorenzo Bronzo fuso e inciso con cristallo, 8x3x3 cm XIII secolo 6

4 Croce astile con Cristo crocefisso, Maria e Giovanni, Pietro e Paolo Legno con rame sbalzato e dorato, 63,5x39,5x3 cm Prima metà XIV secolo 5 Croce astile con Cristo crocefisso, Maria e Giovanni, due angeli Legno con rame sbalzato e dorato, 39x33x5 cm Prima metà XIV secolo 6 Turibolo Bronzo fuso e traforato 15x11,5x11,5 cm XIV secolo 7 Croce da tavolo/ reliquiario a croce su piedistallo Argento dorato e legno intarsiato 55,5x23,5x5 cm XV–XIX secolo 8 Pisside Rame fuso e dorato 17x10,5x10,5 cm XV secolo 9 Pisside Rame sbalzato e dorato 26,5x11,5x11,5 cm 1523

← meglio riutilizzare Intagliatore veronese Pittore sudtirolese (ambito di Hans Klocker?) Padri della chiesa/Profeti Quattro bassorilievi su due tavole separate, con dipinti sul retro Legno intagliato e dipinto, tempera su tavola 75x51 cm Provenienza: Gries (Bolzano), antica parrocchiale 1440 ca. 1490 ca.

La parte più antica è quella lavorata a bassorilievo con i Padri della chiesa accompagnati dai Simboli degli evangelisti, ma non è chiaro come venisse utilizzata: si trattava, forse, delle formelle decorative di un pulpito. Successivamente venne dipinto anche il retro con figure di Profeti accompagnati da grandi cartigli con scritte, e l’insieme fu probabilmente utilizzato come portelle di un altare. Nell’Ottocento, infine, le tavole vennero inserite nell’altare di Michael Pacher nella chiesa di Gries con funzione di antependio, cioè come rivestimento della parte anteriore dell’altare stesso. La collocazione stilistica di intagli e pitture necessita di ulteriori approfondimenti.

← egli, uomo di confine, è di tutti e di nessuno Michael Pacher (1430–1498 ca.) (?) San Floriano, Sant’Antonio abate Tempera su tavola, 53x31 cm Provenienza: Selva dei Molini 1475–1480 ca.

Si tratta della portella di un altare, divisa in due parti che vennero riutilizzate come fondo di cassetto di un armadio. L’opera è stata attribuita a Michael Pacher, il più importante artista sudtirolese della seconda metà del Quattrocento, anche se alcuni studiosi la considerano eseguita dalla bottega. Gli elementi dello stile di Pacher sono in ogni caso evidenti. Questo eccelso pittore e intagliatore si esprime utilizzando un linguaggio tardo-gotico, tipicamente tedesco, che armonizza con la sensibilità verso la rappresentazione dello spazio, propria del primo rinascimento italiano. La figura di san Floriano, ad esempio, è descritta con minuzioso realismo e acuta attenzione al dettaglio; l’aureola che circonda il capo è dotata di spessore ed è ottenuta tramite il chiaroscuro che conferisce profondità all’immagine.

← il mal occhio Marx Reichlich (1460–1520 ca.) (?) Martirio di san Giorgio Tempera su tavola, 80,5x60 cm Provenienza: Kals (Tirolo orientale) 1490 ca.

La tavola, dipinta sui due lati, era in origine una portella d’altare. Rappresenta il Martirio di san Giorgio, prima appeso e straziato con ferri acuminati, quindi decapitato. L’ordine di morte, reso esplicito dall’indice teso della mano, viene dato da Diocleziano, raffigurato sulla sinistra della scena e identificabile dalla veste rossa, simbolo dei poteri temporali dell’imperatore. Tutti i volti degli sgherri sono rovinati: ciò non è dovuto al caso, ma si basa sulla diffusa e radicata superstizione che le persone malvagie potessero nuocere attraverso lo sguardo. Molti dipinti e affreschi vengono così appositamente sfregiati. Marx Reichlich è uno dei migliori seguaci di Friedrich e Michael Pacher, con i quali collaborò direttamente. La tavoletta di Kals è una sua opera giovanile.

← aperto per la festa Jörg Arzt (doc. 1494–1520 ca.) Altare a portelle Scrigno: Sant’Anna Metterza tra santa Giuliana e san Gregorio Portella interna destra: Santa Barbara Portella interna sinistra: Messa di san Gregorio Portelle esterne: Annunciazione Legno intagliato, dipinto e dorato; mancano la cimasa e le statue della predella Tempera su tavola, 114x168 cm Provenienza: Appiano, cappella di sant’Anna (?), quindi collezione von Hellberg

L’altare a portelle (Flügelaltar) si compone generalmente di uno scrigno, di due o più portelle mobili, di una cimasa (parte superiore di coronamento) e di una predella (parte inferiore di base). Lo scrigno e la predella (a volte anche la cimasa) contengono statue lignee lavorate a tutto tondo; le portelle possono essere dipinte o decorate con bassorilievi, in legno policromo. Questa tipologia, molto gradita ai fedeli, si diffonde nei paesi di lingua tedesca a partire dalla fine del Trecento e perdura fino alla metà del Cinquecento. Le portelle mobili assolvevano ad una doppia funzione: chiuse durante i giorni feriali, proteggevano le statue dallo sporco e dalla luce che danneggia i colori; aperte alla domenica e nelle solennità religiose suscitavano l’ammirazione per la sontuosità e la preziosità dell’insieme. In questo altare, raffinata opera di Jörg Arzt di influsso svevo, la statua centrale raffigura Sant’Anna Metterza, cioè sant’ Anna con accanto la Madonna fanciulla il piccolo Gesù in grembo, rispettivamente figlia e nipote. L’aggettivo metterza proviene dalla lingua toscana due-trecentesca (“mi è terza”) e indica che sant’Anna è terza rispetto alla sua discendenza.

← a peste, fame et bello, libera nos, domine Ivo Strigel (Memmingen 1430–1516) Santa Barbara e santa Caterina San Giorgio e san Sebastiano Legno intagliato, dipinto e dorato Tempera su tavola, 151x84 cm Provenienza: acquisto da privato 1510 ca.

Le due portelle d’altare, purtroppo molto rovinate sulla parte esterna, sono uno splendido esempio di arte sveva, opera di Ivo Strigel. L’artista, titolare di una fiorente bottega, è molto attivo in Svizzera e in val Venosta (Tarces, altare di San Vito). Le pose fluide, le vesti eleganti, le capigliature mosse e la cura del dettaglio sono gli elementi distintivi della sua arte. I santi raffigurati sono tra i più amati dalla devozione popolare. Santa Barbara è la protettrice contro i fulmini, il fuoco e la morte improvvisa; santa Caterina è invocata soprattutto dalle donne; san Giorgio è il paladino della lotta contro il male, incarnato dal drago che uccide per liberare la principessa; san Sebastiano, infine, protegge contro la peste, le cui epidemie si susseguono in Europa fino al XIX secolo.


Per cocer capponi, fasani et altri volatili Cicerone, over cigno, ocha, anetra, grua, ocha salvatica, airone et cicogna vogliono essere arrosto piene de aglio o cepolle et altre bone chose. Pavoni, fasani, coturnici, starne, galline salvatiche, pedarelli, quaglie, turdi, merule et tutti li altri boni ucelli vogliono esser arrosto.

A CAVALLO L’oca DELL’ ASINA MaeStro Martino, libro de arte coquinaria, XV secolo

Assessorato alla Cultura e alla Convivenza Assessorat für Kultur und aktives Zusammenleben

A partire dal 1524 in larghe zone della Germania meridionale hanno luogo violente rivolte dei contadini in cui rivendicazioni di carattere sociale ed economico si mescolano a questioni di tipo religioso, collegate con la riforma protestante. Nel 1525 la rivolta, capeggiata da Michael Gaismair, interessa tutto il Tirolo e il Trentino e l’anno successivo viene duramente repressa. Ne segue un periodo di profonda crisi sociale ed economica che si riflette negativamente sulla produzione artistica che, per tutto il Cinquecento, è molto ridotta. Per tale motivo il rinascimento non ha localmente grande diffusione. La ripresa incomincia verso la fine del XVI secolo, ma per la città di Bolzano è di fondamentale importanza l’istituzione nel 1635 del Magistrato Mercantile, voluto dall’arciduchessa del Tirolo Claudia de’ Medici. Il Magistrato rilancia il ruolo commerciale della città dando regole certe e facilitando gli scambi delle merci durante le quattro fiere annuali. Ben presto l’economia cittadina si consolida e si espande; contestualmente riprende anche la produzione artistica, per la quale lo stesso Magistrato riveste un importante ruolo di committente. Sarà proprio il Magistrato, infatti, a incaricare Guercino dell’esecuzione della pala con il Miracolo di Soriano per la chiesa dei Domenicani. Nonostante questa ed altre presenze illustri, nel Seicento a Bolzano la produzione artistica rimane ancora discontinua: Stephan Kessler, uno dei principali pittori tirolesi del tempo di cui è esposta la tela con la Crocifissione, lavora soprattutto nella zona di Bressanone e Giuseppe Alberti, autore di una pala per il duomo, è attivo in Trentino. Verso la fine del secolo Ulrich Glantschnigg porta in città

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alcune novità apprese a Venezia, soprattutto nella pittura di genere. Il bozzetto per la pala dei Francescani non rende purtroppo merito alle sue indubbie qualità pittoriche. Nel Settecento Carl Henrici, giunto verso la metà del secolo a Bolzano dalla Slesia, ottiene la residenza in città e la possibilità di esercitare l’attività artistica, avendo sposato la figlia di Mathias Twinger, titolare di una bottega di pittura. Henrici è pittore capace e prolifico; la sua pittura è elegante e piacevole. Lo stile rococò, di cui è ottimo interprete, rispecchia pienamente la società del tempo: svago, spensieratezza, lievità aiutano a non riflettere sul radicale cambiamento sociale in atto che culminerà nella Rivoluzione Francese del 1789. Molto diversa dall’Henrici è la figura di Martin Knoller: nato a Steinach in Tirol, si forma inizialmente con Paul Troger, massimo esponente del tardo barocco sudtirolese, ma i successivi soggiorni in Italia e la scelta di vivere stabilmente a Milano lo fanno avvicinare al neoclassicismo, di cui diviene valido interprete. Lo stile neoclassico, con il suo evidente richiamo all’antichità classica e pagana, non è però apprezzato nel Sudtirolo cattolico. Nelle sue opere per Bolzano, Knoller utilizzerà pertanto un duplice registro stilistico: tardo barocco per la pittura religiosa, di cui è esempio la pala dell’altarolo qui esposto, oltre che gli affreschi e le pale per la chiesa abbaziale di Gries, neoclassico per la committenza privata di cui è splendido esempio il ciclo della residenza Gerstburg.

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a cavallo dell’asina … … per riscoprire il museo civico di bolzano © 2011 museo civico di bolzano testi: Silvia Spada Pintarelli traduzioni: Wolftraud de Concini foto: Museo Civico di Bolzano design: ganeshGraphics in collaborazione con la Società del Museo di Bolzano


← l’oca

← il signor pock

Francesco Unterperger (Cavalese 1706–Cavalese 1776) San Martino vescovo Olio su tela, 51,5x43 cm Provenienza: val Pusteria 1750–1760 ca.

← apprendere per insegnare Giuseppe Alberti (Tesero 1640–Cavalese 1716) I quattro Padri della Chiesa Olio su tela, 70x144,5 cm Provenienza: Bolzano, duomo 1687 ca.

Il dipinto è quanto rimane della pala che ornava l’altare di San Girolamo nel duomo di Bolzano, fatto rimuovere nel 1786 in quanto ritenuto “non molto adatto”. Per motivi legati al variare del gusto artistico, il ricco arredo barocco della chiesa è quasi del tutto perduto, se si eccettua l’altare maggiore, capolavoro di Jacopo Antonio Pozzo (1716). Alberti si forma artisticamente a Venezia e a Roma; tornato in val di Fiemme apre una scuola di pittura a Cavalese dove avranno la loro prima formazione artisti molto importanti per la pittura barocca trentina e tirolese, quali Paul Troger, Johann Georg Dominikus Grasmair e Michelangelo Unterperger.

← dalla testa di giove

← nel segno di rubens Stephan Kessler (Donauwörth 1622–Bressanone 1700) Crocifissione Olio su tela, 139,5x108 cm Provenienza: mercato antiquario Seconda metà XVII secolo

Stephan Kessler ottiene la residenza a Bressanone nel 1644, dove è titolare di una bottega molto attiva e prolifica. Per creare le sue opere utilizza stampe che riproducono dipinti di artisti famosi, secondo una prassi molto diffusa già a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Predilige in particolare le opere di Rubens, uno dei più importanti pittori europei del Seicento, contribuendo così a diffonderne la conoscenza in ambito locale. I suoi tre figli, Gabriel, Raphael e Michael, furono anch’essi pittori. A Gabriel si devono gli affreschi nella chiesa del Calvario sul Virgolo presso Bolzano (1685).

← 0culo uno pingebat

Carl Henrici (Schweidnitz 1737–Bolzano 1823) Minerva Olio su tela, 90x127,5 cm Provenienza: ignota Ultimo quarto XVIII secolo

Carl Henrici (Schweidnitz 1737–Bolzano 1823) Ritratto femminile Olio su tela, 53x39,5 cm Provenienza: mercato antiquario 1799

Minerva armata, dea romana della guerra, della saggezza e protettrice delle attività intellettuali, è la protagonista di questa bella tela che Henrici ambienta in un paesaggio classico (la colonna) ed esotico (la sfinge nello sfondo), secondo il gusto del tempo. Era nata in un modo alquanto bizzarro: Vulcano aveva aperto la testa di Giove, che lamentava una terribile emicrania, estraendone Minerva già dotata di scudo e armatura.

Carl Henrici è artista versatile e poliedrico; dipinge temi sacri e profani, scene mitologiche e di storia antica, ritratti, turcherie e cineserie. Fino alla metà degli anni Ottanta del XVIII secolo si dedica prevalentemente a grandi cicli ad affresco, su pareti e volte di chiese e ville, nel Tirolo del nord e del sud e in Trentino. Proprio la necessità di dipingere sulle volte degli edifici, con il viso rivolto verso l’alto, e di sopportare pertanto la caduta negli occhi di minuscoli frammenti di intonaco, sono la probabile causa dei progressivi problemi alla vista che lo colpiscono e che, sul finire del secolo, lo rendono completamente cieco. Il Ritratto femminile qui esposto, che ancora mostra la delicatezza e la lievità della sua pennellata, porta sul retro la tragica scritta C. Henrici Ano 62 oculo uno pingebat. È la sua ultima opera. Vivrà altri 23 anni, cieco, povero e da tutti dimenticato.

← nel segno del santo Ulrich Glantschnigg (Hall 1661–Bolzano 1722) San Francesco riceve le stimmate Olio su tela, 60x34 cm 1712

Si tratta del bozzetto della pala dell’altare maggiore dei Francescani di Bolzano, distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Rappresenta il momento in cui san Francesco, in estasi mistica, riceve le stimmate, cioè le ferite alle mani, ai piedi e al costato, segno della sua diretta partecipazione al dolore fisico del Cristo crocifisso. Ulrich Glantschnigg è un pittore molto interessante: attivo tra Sei- e Settecento, in un momento di grande sviluppo economico per la città, è uno dei fautori della ripresa della produzione artistica a Bolzano, dopo la profonda crisi verificatasi a seguito della cosiddetta “guerra dei contadini” del 1525.

La tela, inserita in una bella cornice rococò, rappresenta san Martino, vescovo di Tours. L’oca che lo accompagna ha diverse spiegazioni. Si narra che Martino, acclamato vescovo a furor di popolo, sentendosi inadeguato al compito, fuggì nascondendosi in una stalla. Le oche che vi si trovavano, starnazzando, svelarono il suo nascondiglio e lo segnalarono ai seguaci. Ma l’oca è anche legata in altri modi all’11 novembre, data in cui venne fissata la festa del santo sovrapponendola alla data di inizio simbolico dell’inverno nel mondo precristiano. Intorno a quella data, infatti, era uso uccidere le oche e portarle come decima ai feudatari; a quella data scadevano tradizionalmente i contratti agrari. Per quanto meno famoso del fratello Michelangelo, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Vienna, Francesco Unterperger è un ottimo pittore, stilisticamente influenzato dalla pittura veneta del tempo, da cui deriva il raffinato uso del colore.

← tra le mura della propria dimora Martin Knoller (Steinach am Brenner 1725–Milano 1804) Altarolo domestico Pala con Madonna in gloria e i Quattordici santi ausiliatori Materiali diversi; olio su lamiera 86,5x56,5x30 cm Provenienza: ignota 1785–1790 ca.

Entro una cassa con ricca cornice ad intaglio, è conservato un altare barocco in miniatura. La struttura ha due colonne affiancate da due statue di santi, termina superiormente con un ricco fastigio raffigurante Cristo in gloria tra gli angeli, è preceduta dal tabernacolo. Al centro, la pala d’altare con i santi ausiliatori, cioè quelli più comunemente invocati in caso di malattia o disgrazia, conferma che l’altarolo era destinato ad una devozione privata. La pala è di fattura molto raffinata. Per la composizione e lo stile ricorda le pale tardo barocche dipinte da Martin Knoller per i sei altari laterali della chiesa della abbazia di Gries.

Carl Henrici (Schweidnitz 1737–Bolzano 1823) Ritratto di Franz Anton Pock Olio su tela, 96,5x76 cm Provenienza: ignota 1779

Franz Anton Pock è un mercante bolzanino di stoffe, velocemente arricchitosi, divenuto quindi nobile. Nel 1758 acquista alcuni edifici fatiscenti in piazza della Mostra a Bolzano e li fa trasformare in un grande palazzo-albergo, palazzo Pock quindi Kaiserkrone. Nella struttura soggiorneranno ospiti illustri di passaggio in città, primo fra tutti, nel 1765, il futuro imperatore d’Austria Giuseppe II. Pock cura molto la rappresentazione della propria immagine che appare più volte in diversi contesti: in questo ritratto mostra orgoglioso la medaglia, appesa ad una vistosa catena d’oro, raffigurante un imperatore coronato d’alloro, con ogni probabilità proprio lo stesso Giuseppe II.

← aetatis suae Martin Knoller (Steinach am Brenner 1725–Milano 1804) Autoritratto Olio su tela, 73x59 cm Provenienza: acquisto da privato 1795

Knoller si autorappresenta, all’età di 70 anni, non come artista in atto di dipingere ma come un uomo intento a scrivere, che fissa l’interlocutore con sguardo riflessivo e pensoso. Sei anni più tardi, in un altro autoritratto che si conserva murato nella sacrestia della chiesa di Sant’Agostino a Gries per la quale l’artista aveva affrescato la volta e la cupola e creato le grandi pale d’altare, Knoller, pur mantenendo lo stesso taglio e modificando solo di poco l’impostazione, ci rende di sé un’immagine ben diversa: è ormai uomo provato dalle fatiche e dalle vicende dell’esistenza.

← le stagioni di carnevale: la musica, le danze, le mascherate e il gioco eterno dell’amore Carl Henrici (Schweidnitz 1737–Bolzano 1823) Festa in maschera con minuetto Festa in maschera con suonatore di liuto Olio su tela, 66x89 cm Provenienza: acquisto da privato 1784 ca.

Nel 1784 Anton Melchior von Menz (1757–1801), esponente di spicco di una delle più facoltose e influenti famiglie mercantili di Bolzano, organizza a palazzo Menz la prima delle dodici stagioni di carnevale che proporranno in città la rappresentazione delle migliori opere italiane del tempo, con libretto tedesco. Il salone d’onore del palazzo era stato, per l’occasione, completamente affrescato da Carl Henrici con scene raffiguranti, appunto, una festa in maschera con musica e danze, ambientata in un parco sontuoso, adorno di statue e fontane. Henrici, pittore molto amato dalla società bene di Bolzano, trae ispirazione da opere dei Tiepolo e di Watteau, utilizzando riproduzioni a stampa di cui possedeva una vasta collezione. Le due tele ad olio riproducono la parete orientale e parte della parete occidentale del palazzo e testimoniano del successo ottenuto dai leggiadri affreschi in stile rococò.

← due costole Pittore bolzanino Veduta di Bolzano e il beato Enrico in gloria Olio su tela, 105x152 cm Provenienza: ignota Post 1759

La veduta di Bolzano, ripresa da una stampa di Benedikt Auer il vecchio realizzata intorno al 1750 ca., offre una visuale precisa e dettagliata della città inquadrata da nord-est. Nello sfondo, con eguale minuzia, sono rappresentati anche il nucleo di Gries e la zona di Appiano. Al centro, in alto tra le nuvole, Unsere Liebe Frau im Moos, l’immagine miracolosa della Madonna che allatta, conservata nel duomo cittadino. Alla sua sinistra il beato Enrico da Bolzano. Poiché, erroneamente, il beato era considerato nativo della città, nel 1759, dopo una lunga trattativa con la cattedrale di Treviso che ne conservava le reliquie, Bolzano ottenne due sue costole che furono traslate nel duomo con una solenne cerimonia. A ricordo di tale evento furono realizzati molti dipinti celebrativi. Le reliquie del beato Enrico sono tuttora conservate in duomo, accanto all’altar maggiore, entro un reliquiario d’argento.

A CAVALLO


Un'esistenza come quella di Tullia Socin, capace di trasmettere – attraverso la sua arte – un messaggio tanto importante nel contesto delle vicende della cosiddetta "grande Storia" del secolo appena concluso, non può essere dimenticata e neppure consumarsi nel privato. Essa appartiene al mondo e perciò sono decisa a consegnarla – come merita – alla storia del Novecento italiano con le sue luci e le sue ombre, le sue sterili esaltazioni di ogni provenienza ideologica e le sue tragedie ovunque consumate. Nessuno più di un artista può esserne, infatti, testimone credibile e informatore profetico per le nuove generazioni.

A CAVALLO Il levriero DELL’ ASINA Maria Pia SoCin Bolzano, giugno 2008

La Fondazione Socin nasce a Bolzano il 19 luglio 2010 per volontà e desiderio di Maria Pia Socin (Bolzano 1923–2009), esponente eclettico e appassionato della scena politica, culturale e artistica della Provincia di Bolzano nel trascorso secolo, rispettivamente sorella della pittrice Tullia Socin (Bolzano 1907-1995) e cognata dello scultore, grafico e ceramista Enrico Carmassi (La Spezia 1897–Torino 1975) artisti dei quali aveva, nel corso degli anni, preservato e con dedizione catalogato il loro vasto lascito artistico, costituito da centinaia di quadri, realizzati nelle più diverse tecniche pittoriche, sculture e bassorilievi, opere tutte conservate, con geloso affetto, negli appartamenti del Palazzo Socin di via Cassa di Risparmio.

Assessorato alla Cultura e alla Convivenza Assessorat für Kultur und aktives Zusammenleben

La Fondazione è stata riconosciuta, con Decreto del Presidente della Provincia di Bolzano n. 300/1.1 del 9 settembre 2010, quale persona giuridica di diritto privato. Scopi principali della Fondazione Socin sono la promozione e l’informazione diffusa delle opere pittoriche e scultoree degli artisti Tullia Socin ed Enrico Carmassi a fini conoscitivi, di loro valorizzazione e di loro conservazione e tutela.

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La Fondazione si propone, altresì, di allestire spazi museali pubblici, di promuovere studi relativi alla storia e alla critica della pittura e della scultura del Novecento, di organizzare dibattiti e convegni, di pubblicare riviste o libri nel campo della cultura, dell’arte e della critica artistica, di istituire premi e borse di studio.

La proficua collaborazione con l’istituzione del Museo Civico di Bolzano, ove parte delle opere ha trovato oggi nuova dimora, consente alla Fondazione di poter fruire di una sede espositiva pubblica e, allo stesso tempo, permette alla città di Bolzano di approfondire e saldare la propria relazione con i due artisti che, ora per nascita ora per elezione, avevano terminato la loro esperienza umana ed artistica a brevissima distanza da queste stesse sale che oggi accolgono le loro opere. roBerto ManGoGna, presidente della Fondazione Socin www.fondazionesocin.it

a cavallo dell’asina … … per riscoprire il museo civico di bolzano © 2011 museo civico di bolzano testi: roberto Mangogna, Giovanna tamassia, anna Zinelli traduzioni: Stefan Demetz foto: Fondazione Socin di Bolzano design: ganeshGraphics in collaborazione con la Fondazione Socin di Bolzano

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← bugie della luce e delle ombre Tullia Socin Donna che legge Olio su tela, 90x71,5 cm 1932

La prima opera che ci resta del soggiorno parigino della Socin è Donna che legge, premiata già nell’anno della realizzazione con i primi premi di pittura alla VI Biennale d’Arte di Bolzano e alla III Mostra Sindacale d’Arte Triveneta di Padova. Ci troviamo di fronte ad una figura femminile seduta su una poltrona in un interno, intenta alla lettura. È una scena semplice, intima, quotidiana, che l’artista rende però viva e palpitante attraverso un sapiente uso della luce che invade la stanza da destra. E proprio la luce conduce lo sguardo sulla figura della donna e la lega al libro, lasciando invece enigmaticamente poco leggibile il piccolo ritratto maschile posto alle spalle della donna, unico elemento che potrebbe raccontarci qualcosa di più di lei e della sua vita.

← le metafore della vita

← senza parole

Tullia Socin Uomo alla finestra Olio su tavola, 100x61 cm 1953

Tullia Socin Le mani Tecnica mista su tela, 222x41 cm 1958–1959

Uomo alla finestra appartiene allo stesso felice periodo de Le cicliste e presenta un analogo uso di toni accesi e ampie campiture cromatiche giustapposte, con prevalenza di toni giallo-arancione, in cui le forme tendono a perdere la loro fisicità. Il tema è uno di quelli privilegiati dalla pittrice fin dagli anni dell’accademia, quello del ritratto, reso in modo schematico e semplificato a pochi tratti essenziali. L’opera viene presentata alla Mostra Internazionale di Bolzano del 1957.

Dalla fine degli anni ’50 Tullia Socin propone nuovamente un rinnovamento del proprio linguaggio espressivo che mostra ancora una volta l’attenzione e la ricettività verso le ricerche contemporanee, ma anche una coerenza di fondo del proprio percorso. Le mani sperimenta procedimenti ancora inediti, come l’utilizzo del collage, che diventeranno poi consueti nel linguaggio espressivo del decennio seguente. È un’interessante opera di transizione da un approccio figurativo di descrizione del reale alle forme più immateriali e astratte degli anni ’60.

← la conquista dello spazio Tullia Socin Roteazione solare Tecnica mista su tela, 100x125 cm 1969–1970

Roteazione Solare, premiata con la medaglia d’oro nel 1970 alla mostra della “Società Promotrice di Belle Arti” di Torino, si inserisce nell’ampia serie di lavori dedicati da Tullia Socin alle visioni cosmologiche e rappresenta uno dei massimi punti d’arrivo della ricerca che caratterizza la sua produzione del periodo. Vicina a un diffuso interesse collettivo verso i mondi siderali (sono gli anni delle missioni spaziali), non è propriamente un’opera astratta, quanto una trasfigurazione del reale reso attraverso un approccio del tutto personale. Per gli inserti metallici l’artista riutilizza parti degli strumenti musicali della fabbrica paterna. L’opera non si pone dunque come cesura rispetto alla sua produzione precedente, quanto come culmine di un percorso eterogeneo e complesso.

← parigi, o cara

← le indifferenti

← lirica del paesaggio

Tullia Socin Conversazione Olio su tela, 109x93,5 cm 1934

Tullia Socin Le modelle Olio su tavola, 120x87 cm 1937

Tullia Socin Mattino a Portovenere Olio su tavola, 93x108 cm 1940

Anche quest’opera risale al periodo parigino di Tullia Socin. Siamo qui di fronte a due donne sedute al tavolino di un caffè: la scena evoca immediatamente un contesto borghese ed elegante. Le figure sono monumentali e, complice anche lo stretto angolo che fa da quinta alla scena, l’attenzione dello spettatore converge totalmente su di esse. Il tavolo su cui sono poggiate le tazzine fa da raccordo fra le due donne che, a dispetto del titolo dell’opera, sono ognuna chiusa nei propri pensieri, in una non-comunicazione verbale e fisica esaltata invece che mitigata dalla loro contiguità.

Il regime fascista aveva ideato il sistema delle esposizioni Sindacali d’Arte territorialmente e gerarchicamente organizzate. Esistevano pertanto le Esposizioni Provinciali, le Esposizioni Interprovinciali (o Regionali), quelle Interregionali e, al livello più alto, le Nazionali. Un artista invitato o accettato ad una Sindacale provinciale poteva via via esporre a quelle di maggior rilevanza se considerato meritevole. Già diverse opere realizzate da Tullia Socin a Parigi erano state esposte in Italia all’interno del sistema espositivo del regime, ma è soprattutto in seguito al definitivo rientro dell’artista in patria che si va consolidando un’aderenza formale alle tendenze nazionali prevalenti in quegli anni. L’opera Le modelle ben si inscrive nel clima culturale dell’epoca, al punto d’aver vinto il primo premio di pittura alla II Mostra Nazionale tenutasi a Napoli nel 1937. In un atelier sono ritratte due donne: una è vestita semplicemente e, in piedi, appoggia un braccio ad un cavalletto. L’altra le siede accanto, ma è completamente nuda. Nonostante le differenze e la mancanza di comunicazione evidente fra le due, Tullia Socin riesce, attraverso la monumentalità delle figure e l’unitarietà dell’ambientazione, a rendere un’atmosfera di vicinanza e raccoglimento. La cornice è originale.

Il tema del paesaggio costituisce, assieme a quello del ritratto, il nucleo fondamentale della produzione prebellica di Tullia Socin. Fin dagli anni ’30 la pittrice realizza vedute veneziane, altoatesine, liguri trattando la superficie pittorica in modo differente rispetto alla ritrattistica e concentrandosi essenzialmente sugli effetti della luce, memore della lezione del maestro degli anni veneziani Virgilio Guidi ma anche delle ricerche impressioniste e post-impressioniste. Mattino a Portovenere ne è un esempio cardine, in cui viene proposta una visione del paese delle Cinque Terre da una prospettiva lievemente rialzata che conferisce monumentalità all’abitato calandolo al contempo in una dimensione lirica. L’opera è esposta nel 1940 alla IX Sindacale d’Arte di Bolzano, nel 1941 alla III Esposizione Nazionale d’Arte di Milano e alla X Mostra Sindacale d’Arte di Trento, nel 1942 alla VI Mostra Sindacale d’Arte di La Spezia.

← lavorare insieme Enrico Carmassi e Tullia Socin Levriero Gesso dipinto, 78x75x25 cm 1953

Le opere scultoree nate all’interno del sodalizio fra Enrico Carmassi e Tullia Socin costituiscono la perfetta sintesi fra i loro diversi linguaggi espressivi. I pezzi sono infatti ideati e modellati dallo scultore, mentre la moglie esegue successivamente le patine che vanno a completarli curando quindi la veste cromatica e le relative modalità tecniche di realizzazione. Il Levriero è un esempio emblematico di questa intensa collaborazione. La figura è resa in modo realistico, ma al contempo presenta un aspetto idealizzato, quasi ieratico nella sua estrema eleganza formale, valorizzata dalla patina color bronzo che lascia scivolare la luce sulla superficie.

← per me nasceranno le umane città Tullia Socin Le cicliste Olio su tela, 119x85 cm 1952–1953

Dopo la notevole riduzione della produzione artistica dovuta ai drammatici eventi bellici, alla fine degli anni ’40 Tullia Socin inizia ad elaborare un nuovo linguaggio espressivo che conoscerà i suoi esiti più felici nella prima metà del decennio successivo. Ne è un esempio Le cicliste, in cui, attraverso colori accesi stesi in grandi campiture, la realtà non è più resa attraverso il concentrato e sospeso realismo che aveva contraddistinto le precedenti opere dell’artista, bensì attraverso accostamenti cromatici dalla più prorompente immediatezza formale ed emotiva. Nell’opera la pittrice riprende un soggetto tipico del futurismo, quello appunto della bicicletta, elemento simbolico fondamentale del dinamismo e della vita cittadina, qui declinato in chiave femminile.

← volume, linea, superficie Enrico Carmassi e Tullia Socin Torso femminile Terracotta patinata, 40x100x18 cm Anni Cinquanta del XX secolo

Torso femminile è un’opera realizzata dai due artisti nel corso degli anni Cinquanta. La figura femminile acefala si presenta come una massa compatta dai tratti fortemente stilizzati con incisioni a graffito che ne movimentano la superficie.

← il volto dell’artista Enrico Carmassi e Tullia Socin Ritratto di Tullia Socin Terracotta patinata, 41x28x30 cm 1962

Enrico Carmassi ritrae qui la moglie Tullia Socin stilizzandone i lineamenti resi attraverso incisioni essenziali che accompagnano la massa plastica dalle forme morbide e sinuose. All’interno del patrimonio della Fondazione Socin si trovano, oltre ad un altro ritratto, diverse opere che Carmassi ha dedicato nel corso del tempo alla moglie, a testimonianza del profondo legame che univa i due artisti.

A CAVALLO DELL’ASINA


Il Drago

Giorgio allora salì sul cavallo e fattosi il segno della croce si gettò sul drago, vibrò con forza la lancia e, raccomandandosi a Dio, gravemente lo ferì. Il drago cadde a terra e disse alla giovinetta: “Non avere più timore e avvolgi la tua cintura al collo del drago”. Così ella fece e il drago cominciò a seguirla mansueto come un cagnolino. JaCoPo Da VaraGine, leggenda aurea, Xiii secolo

A CAVALLO DELL’ ASINA La storia del Museo Civico di Bolzano è lo specchio della politica culturale sudtirolese negli ultimi 130 anni.

Il Museo Civico come museo di un’associazione: gli anni della fondazione e la costruzione dell’edificio

Assessorato alla Cultura e alla Convivenza Assessorat für Kultur und aktives Zusammenleben

La Società del Museo di Bolzano fu fondata nel 1882 quale derivazione del Christlichen Kunstverein: obiettivo primario della nuova associazione era quello di gettare le basi per la creazione di collezioni, nonché di trovare i mezzi per dare vita ad un nuovo Museo Civico al fine di contrastare la dispersione di opere d’arte, soprattutto ecclesiastiche, molto frequente in quel periodo. Il reverendo don Karl Atz, titolare del beneficio della parrocchia di Terlano e primo soprintendente ufficiale ai beni culturali in Tirolo, fu il personaggio chiave e la personalità trainante in questi primi anni di attività. Il Museo deve a lui anche alcuni degli oggetti esposti. Già pochi anni dopo la sua fondazione, la Società del Museo era in grado di offrire al pubblico bolzanino un’esposizione permanente nella Casa degli apprendisti (l’odierna Casa Kolping). Nel 1900 il Comune di Bolzano decide di costruire una sede apposita per il Museo. Per contribuire al reperimento della parte mancante dei fondi necessari, il barone Georg Eyrl, presidente della Società del Museo, promosse, insieme con il presidente della Camera di Commercio Paul Welponer e con il sindaco Julius Perathoner, una grande sottoscrizione.

Nel 1905 fu possibile aprire il Museo Civico nell’attuale struttura. Nel momento in cui anche a Bolzano venne accolta l’idea di un museo per le arti e l’artigianato e si recepì così l’ideale formativo diffuso all’epoca dell’unione fra gradevolezza estetica e utilità pratica, nell’ala meridionale del nuovo Museo vennero accolti aule e laboratori della scuola statale di arti applicate (Kunstgewerbeschule), cui si accedeva attraverso un’entrata e scale autonome. Direttore del Museo e curatore del percorso espositivo era il pittore accademico Tony Grubhofer, attivo anche come insegnante di disegno presso la scuola stessa. Le collezioni di scienze naturali del bolzanino Georg Gasser – anch’esse in origine esposte al Museo Civico e che costituiscono oggi, dopo varie vicende, il nucleo fondamentale del Museo di Scienze Naturali in via Bottai – incrementarono la consistenza delle collezioni, creando un piccolo museo a carattere “universale”.

Le vicende del Museo sotto il regime fascista Con la fine della Prima Guerra Mondiale e soprattutto con l’ascesa al potere del fascismo, iniziò una nuova fase per la storia del Museo. Alla fine del 1932 la Società del Museo fu obbligata, per ordine del prefetto, a cedere la direzione all’amministrazione cittadina, ottenendo in cambio solo il diritto di intervento nel curatorio. Fra il 1935 e il 1937, sotto la guida del nuovo direttore Wart Arslan,

notevole esponente culturale fatto venire appositamente da Milano, l’edificio venne completamente ristrutturato e le collezioni esposte secondo nuovi criteri: fu ideato un percorso museale che estrapolava le opere d’arte e gli oggetti dal loro contesto storico e culturale, presentandoli piuttosto in funzione della loro valenza estetica e secondo criteri cronologici, seguendo quindi i dettami formali razionalisti e lo spirito della politica culturale fascista. Contemporaneamente vennero fatti giungere oggetti da altri musei dell’Italia settentrionale, totalmente estranei al contesto culturale locale, e si sostituì la statua di Cristo sull’asina di Hans Klocker che si trovava, in grande evidenza, nel foyer dell’edificio con la pietra miliare romana proveniente da Rablà, al fine di porre l’accento sull’italianità dell’Alto Adige. Per rendere visibile anche esternamente questo rinnovamento nel corso del quale il Museo Civico venne “promosso” a “Museo per l’Alto Adige” (1938), gli elementi architettonici più rappresentativi dello stile eclettico-storicista locale vennero attenuati o rimossi: tutte le torrette angolari ad Erker furono modificate, la nicchia contenente la statua di Oswald von Wolkenstein sparì e la torre venne ribassata e ridotta ad un moncone piatto. Le collezioni del Museo superarono relativamente integre i difficili anni della Seconda Guerra Mondiale e delle Opzioni. Nell’ambito della tacita collaborazione messa in atto da alcuni membri della Società del Museo che non avevano optato per l’espatrio nelle terre del Terzo Reich, da Josef Ringler, membro della Kulturkommission, e da Nicolò Rasmo, nominato direttore del Museo nel 1939, si fece in modo di rallentare al massimo i lavori di divisione delle opere e degli oggetti del Museo tra “appartenenti alla cultura italiana” (non esportabili) e “appartenenti alla cultura tedesca”, esportabili e quindi destinati ad essere trasferiti nella Germania di Hitler. Si evitò così la dispersione delle collezioni. Il Museo Civico nel dopoguerra e la direzione di Nicolò Rasmo All’indomani della Seconda Guerra Mondiale l’amministrazione cittadina concentrò i propri sforzi finanziari soprattutto sulla ricostruzione della struttura. Trascorsero perciò alcuni anni prima che Nicolò Rasmo potesse risanare l’edificio e rendere di nuovo gradualmente accessibili le collezioni.

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Nel 1948 venne organizzata una grande esposizione sull’arte medievale dell’Alto Adige. Nel 1952 si potè aprire il terzo piano con le collezioni di arte popolare. Per quel che riguarda la concezione del percorso espositivo all’interno del museo, Nicolò Rasmo mantenne quello risalente agli anni 1937-38. Tale scelta fu dettata anche da ristrettezze economiche, dato che riutilizzò le vetrine e le basi rivestite con stoffa risalenti all’esposizione ideata da Arslan, integrandole quando necessario. Nuova era invece la grande vetrina realizzata per esporre i costumi tradizionali, montati su manichini. Nicolò Rasmo, grande studioso e storico dell’arte, non era solo a capo del Museo Civico di Bolzano, ma anche funzionario e, successivamente, soprintendente presso la Soprintendenza statale alle Belle Arti di Trento, dove diresse anche l’importante museo del Castello del Buonconsiglio. La concentrazione di più incarichi nella persona del suo direttore per ben quattro decenni giocò un ruolo cruciale negli esiti delle vicende del Museo Civico. Rasmo, che ricoprendo il ruolo di Soprintendente conosceva benissimo l’Alto Adige, mantenne la concezione del Museo Civico come “Museo per l’Alto Adige”, anche in considerazione del fatto che sul territorio praticamente non esistevano altre strutture museali. Più volte gli riuscì di concludere importanti acquisti da tutto il territorio, come per esempio nel caso del reliquiario fiorentino proveniente da Castel Coira. Nel periodo dei diffusi furti nelle chiese (dagli anni Cinquanta agli anni Settanta) riuscì a trasformare l’emergenza in una fortuna per il Museo depositandovi, nella sua qualità di soprintendente, molte opere per motivi di sicurezza. Il quasi costante incremento della collezione permanente attraverso le nuove acquisizioni e depositi portò naturalmente al considerevole aumento della concentrazione di oggetti nelle sale e cambiò nel corso degli anni l’equilibrio dell’esposizione originaria. Non può quindi stupire se già circa 25 anni fa si alzarono le prime voci a favore di una ristrutturazione e di un ampliamento del Museo Civico: necessità oggi unanimamente riconosciuta, considerate le esigenze di un’attività museale che si possa considerare in linea con i tempi.

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a cavallo dell’asina … … per riscoprire il museo civico di bolzano © 2011 museo civico di bolzano testi: Stefan Demetz traduzioni: Giovanna tamassia foto: Museo Civico di Bolzano design: ganeshGraphics in collaborazione con la Società del Museo di Bolzano


← tutto ciò che è rimasto di un antico orgoglio cittadino Pittore veronese Ritratto virile Frammento di affresco, 38x29x17 cm Provenienza: cappella di Santo Spirito presso l’ospedale civico di Bolzano, 1380–1390 ca.

Anche a Bolzano a partire dal XIII secolo era in funzione un ospedale gestito direttamente dalla cittadinanza: la struttura si trovava fra il duomo e la chiesa dei Domenicani. Per secoli nell’ospedale furono curati anziani e malati. I mezzi economici necessari al suo funzionamento provenivano sostanzialmente da offerte in denaro, da benefici e da rendite derivanti da beni immobiliari ricevuti in donazione o acquistati. Già nel XIV secolo infatti l’ospedale dello Spirito Santo divenne uno dei principali possidenti fondiari e uno dei massimi produttori di vino del Tirolo: l’amministratore e il curatore erano personaggi in vista tanto quanto il sindaco. Nel 1859 il nosocomio venne trasferito in un nuovo edificio nell’attuale piazza Sernesi, dove si trova ora l’università, e gli squadrati edifici del vecchio ospedale non vennero più regolarmente utilizzati.

← non è una spada per combattere Spada a manico pieno, “Hauensteiner Schwert” Bronzo, lunghezza 59 cm Luogo di ritrovamento: selva di Hauenstein presso Siusi, comune di Castelrotto XIV sec. a. C.

L’arma, nota con il nome di “Hauensteiner Schwert”, può essere annoverata fra i più importanti ritrovamenti archeologici in Alto Adige. Fu rinvenuta nel 1919 da alcuni lavoratori nello scosceso bosco a sud delle rovine di Castel Hauenstein, ai piedi del Piccolo Sciliar. Appartiene a un tipo di spade particolarmente diffuse a nord delle Alpi, nel bacino del Danubio. L’alta qualità del manufatto e l’eccezionale stato conservativo – non sono infatti presenti significative tracce di uso – sottolineano la funzione di rappresentanza e la valenza di oggetto cerimoniale dell’arma. Si può affermare che l’oggetto venne deposto ai piedi delle pareti dello Sciliar per motivi rituali. Il 23 ottobre 1919 la spada fu depositata dal barone Peter von Giovanelli al museo a titolo di prestito, e venne donata alla Società del Museo nel 1965 da Josef Giovanelli von Dürfeld.

← conservare e salvare anche gli oggetti più modesti Nel 1886 l’amministrazione imperiale delle Poste acquistò l’area dal Comune di Bolzano, e le vecchie strutture vennero completamente demolite per consentire la costruzione della nuova sede delle Poste. Se si escludono l’imponente cantina per il vino, un ricco fondo archivistico e una collezione di impronte di sigilli conservata al Museo Civico – cui è stata donata da Franz von Zallinger –, dell’ospedale dello Spirito Santo non rimane nulla – a parte alcuni frammenti di affreschi, fra cui quello qui esposto. Esso proviene dalla cappella dell’ospedale demolita nel 1867 o poco dopo; attraverso Karl Atz, entrò a far parte del patrimonio del Christlicher Kunstverein, fondato nel 1857, e nel 1882 passò, insieme con tutti gli altri oggetti appartenuti a quella associazione, nelle collezioni della Società del Museo. La figura maschile di profilo a grisaille denota un alto livello qualitativo e testimonia del profondo influsso della pittura veronese a Bolzano intorno al 1380.

← collezionare per passione Karl Wohlgemuth (Bolzano 1867–1933) Registro della collezione etnologica tirolese Inchiostro di china su carta, 32x14 cm (chiuso) 1909 ca.

L’insegnante bolzanino Karl Wohlgemuth è il collezionista che più di ogni altro ha plasmato l’immagine del Museo Civico nelle prime fasi della sua esistenza. Il registro “Tirolo, collezione etnologica del maestro Karl Wohlgemuth di Bolzano” dal lui redatto, elenca gli oggetti che cedette al Museo nel 1909. Si tratta di uno strumento insostituibile per tutti coloro che si occupano dello studio degli oggetti di uso quotidiano nel Tirolo meridionale: Wohlgemuth infatti annotò non solo la provenienza dei singoli pezzi che costituivano la sua collezione, ma anche la loro funzione così come gliel’avevano spiegata gli ultimi proprietari. Pertanto oggi conosciamo il reale significato di diversi oggetti all’apparenza poco importanti, significato che, essendo spesso collegato a sistemi simbolici o radicato in credenze ormai dimenticate, non sempre sarebbe altrimenti individuabile.

Pittore bolzanino Visitazione, san Giorgio, san Bartolomeo 4 tavole di un altare a portelle Tempera su legno, 44x21,8/22,5 cm Inizio XVI secolo, parzialmente ridipinte nel XIX secolo

Queste quattro tavole facevano parte del nucleo originario delle collezioni del Museo Civico. Nel 1882 fu fondata la Società del Museo come “subentrante ed erede del Christlichen Kunstverein” allo scopo di evitare “la sempre crescente dispersione delle opere d’arte locali e della memoria”, così come viene riportato nell’aprile del 1892 nel notiziario del Museo in occasione del festeggiamento per il primo decennale dell’istituzione. Presidente della Società era il reverendo Karl Atz (Caldaro 1832–Terlano 1913), già presidente del Christlichen Kunstverein e conservatore per l’arte e i monumenti storici a partire dal 1875, nonché personalità di spicco nella tutela del patrimonio artistico tirolese tra il 1870 e il 1910, studioso e storico dell’arte. Pochi anni prima di morire Atz donò alla Società del Museo non solo il proprio lascito storico-artistico ma anche, già al momento della fondazione o negli

← l’incoronazione celeste

anni immediatamente successivi, una serie di arredi e di opere d’arte tra le quali si annoverano anche le quattro piccole tavole qui esposte. Nel cosiddetto “Antico catalogo” che registra il patrimonio del Museo Civico negli anni compresi tra il 1885 e il 1905, sono così descritte: “Nr. 3, 4, 5, 6” Antichi dipinti tedeschi donati dal rev. C. Atz”. Nell’annuario del 1888/1889 sono menzionate tra le proprietà della Società del Museo. Le quattro tavole erano in origine parte della predella di un altare a portelle tardogotico, risalente agli inizi del Cinquecento, probabilmente eseguito ed esposto nella zona di Bolzano. Non si conosce però con precisione la chiesa o la collezione da cui provengono. I quattro dipinti vennero “restaurati” nell’Ottocento, cioè in parte ridipinti, ma difficilmente si può pensare che ciò accadde per volontà di Atz.

← la “bella” risoluta Johann Georg Plazer (Appiano 1704–1761) Susanna e i vecchioni Olio su rame, 33x25,5 cm Ante 1723

La rappresentazione di questo tema biblico consentiva agli artisti di misurarsi liberamente con la raffigurazione del nudo: due anziani giudici tentano di sedurre e ricattare Susanna, la giovane moglie del loro ospite Gioacchino. Nel processo che ne segue la donna, accusata ingiustamente di adulterio, viene salvata grazie all’intervento divino che si manifesta per mezzo del profeta Daniele. Johann Georg Plazer è il più rappresentativo interprete tirolese del Rococò di gusto cortese. L’opera risale al periodo giovanile dell’artista ed è stata realizzata prima del 1723, anno in cui Plazer si trasferì a Passau per motivi di studio. L’immagine entrò in possesso della Società del Museo ancora ai tempi in cui aveva a disposizione solo i piccoli locali espositivi nella Casa degli apprendisti – l’odierna casa Kolping. Nel catalogo del 1885–1905 non è indicata l’esatta provenienza.

← deposito e vetrina per la tutela dei beni culturali

Caspar Blabmirer (?) Incoronazione della Vergine Tempera su legno, 144x108,5 cm Provenienza: Morter, cappella di Santo Stefano presso Castel Obermontani

Pittore locale Architettura dipinta Affresco strappato, 47x185 cm Provenienza: Tesimo, chiesa di San Giacomo a Grissiano Inizio XIII secolo

La tavola dall’insolito formato ovale ornava il soffitto ligneo piano della cappella di Santo Stefano presso Castel Obermontani. L’opera venne restaurata a Venezia nel 1927 e dopo fu depositata per motivi di sicurezza al Museo Civico: attraverso questo ed altri simili provvedimenti il Museo Civico assunse un ruolo di primo piano nella politica statale della tutela dei beni culturali in Alto Adige. La raffigurazione dell’Incoronazione della Vergine si caratterizza per uno spirito narrativo vivo e popolare, che riecheggia il linguaggio espressivo del gotico boemo. Nicolò Rasmo attribuisce l’opera a Caspar Blabmirer (Blattmirer), artista documentato fra il 1438 e il 1450 a Merano, dove aveva rilevato la bottega dei defunti maestri Venceslao e Peter.

La chiesa di San Giacomo a Grissiano – istituita e consacrata nel 1142 – conserva tuttora nell’abside e sull’arco santo affreschi tardoromanici fra i quali la famosa rappresentazione di un paesaggio alpino. Il frammento presenta al centro il bordo dell’arco della finestra absidale destra, mentre ai lati è visibile la parte superiore della raffigurazione della serie degli apostoli. Delle colonne separano le figure dei cinque apostoli, i cui nomi sono indicati superiormente su una fascia rossa: chiaramente leggibile è il nome di Matteo (secondo da destra). L’affresco è stato realizzato poco dopo il 1200 da un artista locale influenzato dal linguaggio bizantino-veneziano. Nicolò Rasmo non solo è stato per più di quaranta anni direttore del Museo Civico di Bolzano ma, dal 1939, fu anche funzionario della Soprintendenza alle Belle Arti della Regione Trentino – Alto Adige, di cui ricoprì la carica di soprintendente dal 1960 al 1973. Rasmo diresse il restauro della piccola

chiesa e fece staccare dalla parete absidale questa parte della decorazione per poter riportare completamente alla luce e rendere leggibile la sottostante iscrizione in lettere maiuscole – già parzialmente scoperta nel 1927 – che riporta la dedicazione della chiesa. Il frammento, restaurato nei laboratori di Trento, rimase nei depositi della Soprintendenza fino al 1953. Fu quindi portato al Museo Civico in quanto in quegli anni e soprattutto nel decennio successivo, Rasmo promosse il ritorno in Alto Adige di tutti gli oggetti pertinenti a questa zona che erano stati precedentemente portati a Trento. In questo modo il Museo Civico svolse anche il ruolo di piattaforma e di base per l’attività di tutela dei beni culturali. Nel 1981 il Museo ha fatto accuratamente restaurare il frammento di affresco per poterlo esporre.

← di là e di qua del sella: veneti antichi e reti Stele con due iscrizioni venetiche Pietra arenaria fine di colore grigio/bruno 37,5x12x11,2 cm Luogo di ritrovamento: Monte Pore, Livinallongo V–I sec. a. C.

Diversi sono i reperti archeologici che appartengono al nucleo originario delle collezioni del Museo. La stele fu rinvenuta nel 1866 nel Livinallongo (Belluno) e portata poco tempo dopo a Bolzano. Conservata presso il ginnasio statale, giunse al Museo intorno al 1888. La stele, una lapide funeraria, fu ritrovata alle falde del Monte Pore, in una zona di una antica via che conduceva alle miniere di ferro di Colle Santa Lucia. Su due lati vi compaiono iscrizioni in un alfabeto paleovenetico non ricollegabile con le iscrizioni retiche rinvenute nel bacino dell’Adige. Questo documento linguistico importante per il territorio dolomitico testimonia dell’avanzata dei Veneti antichi nella parte sudorientale della regione nella seconda età del Ferro, mentre a occidente e a settentrione del gruppo del Sella dominavano i Reti.

← un museo che non cresce è destinato a morire — acquisizioni Habsburger Meister (attr.) Sant’Anna Metterza tra i santi Giuseppe e Giovacchino Olio e tempera su tavola, 81,5x65,5 cm Inizi0 XVI secolo

Nicolò Rasmo acquistò il dipinto nel 1957 per 300.000 Lire, messe a disposizione dal Comune di Bolzano. Lo fece quindi restaurare a Trento. Per motivi stilistici lo attribuisce al cosiddetto “Habsburger Meister”, un pittore formatosi in ambiente tirolese e attivo nell’ambito della corte di Innsbruck. Rasmo, come direttore del Museo Civico, si impegnò molto per accrescere le collezioni con acquisizioni importanti di opere non pertinenti al solo territorio bolzanino, rispecchiando in questo modo una tendenza del tempo. Effettivamente il Museo di Bolzano fu per molti decenni l’unico museo con collezioni storico-artistiche di un certo rilievo tra Innsbruck e Trento, insieme al Diocesano di Bressanone e al Civico di Merano, e, del resto, già nel 1938 l’allora direttore Wart Arslan lo aveva fatto “promuovere” a “Museo dell’Alto Adige”.

← sotto l’ala protettrice degli asburgo Gottfried Hofer (Bolzano 1858–Berlino 1932) Ritratto dell’arciduca Enrico d’Austria Olio su tela in cornice dorata, 132x112,5 cm (con cornice) 1891–1892

Similmente a quanto facevano istituzioni analoghe in altre località dell’impero, anche la Società del Museo di Bolzano cercò di stabilire un legame con la famiglia imperiale. Così già al tempo della sua fondazione, avvenuta nel 1882, trovò un “protettore” nella persona dell’arciduca Enrico d’Austria: nel corso della sua vita questi non solo sostenne i progetti della Società, ma contribuì, più in generale, allo sviluppo di Bolzano e di Gries. Da generale in pensione, l’arciduca Enrico (Milano 1828 –Vienna 1891) visse dal 1872 fino a poco tempo prima della morte a Bolzano, in un palazzo di sua proprietà in via della Mostra nel quale, a partire dal 1848, era vissuto anche suo padre, l’arciduca Ranieri (1783–1853), fratello minore dell’imperatore Francesco I e vicerè della Lombardia. Nonostante il parere contrario dell’imperatore Francesco Giuseppe, Enrico sposò la cantante Leopoldine Hofmann (1842–1891): dal matrimonio – riconosciuto

solo in seguito – nacque una figlia che andò in sposa ad un principe Campofranco. Così come i suoi genitori, anche l’arciduca Enrico è sepolto nella cripta sotto il coro del Duomo di Bolzano. Come testimonia un’iscrizione sul retro, il ritratto postumo è opera del pittore bolzanino Gottfried Hofer, artista tenuto in gran conto dalla buona società cittadina; si potrebbe trattare di una diretta commissione della Società del Museo. Allo stesso Hofer si deve anche la successiva decorazione della sala del Consiglio nel nuovo Comune, realizzata nel 1907.

← del monaco e del comandante Lorenzo di Bicci (pittore, Firenze 1350–1427 ca.) e bottega degli Embriachi (Firenze–Venezia, 1380 ca.–1430) Reliquiario, 26x83x30,5 cm Provenienza: Sluderno, Castel Coira Seconda metà XIV secolo

Il reliquiario con intarsi in avorio e legno realizzato – come dimostra lo stile – in Toscana e acquistato nel 1957 da Nicolò Rasmo da Castel Coira, racconta una storia sorprendente. “Di formato notevolmente maggiore rispetto alle cassette nuziali prodotte dalla bottega degli Embriachi, assolveva in origine la funzione di reliquiario o di cofanetto per una confraternita, come indicato dalla decorazione dipinta sulla parte interna del coperchio. Antonio Abate vestito di una tonaca e con una benda intorno alla fronte vince, armato della croce ‘comissa’, un drago e regge in direzione di quattro Francescani inginocchiati e di un gruppo di ammalati un cartiglio con l’iscrizione “lascete i vizi e le virtu prendete vostro/ avochato so(n) secio farete” (Abbandonate i vizi, perseguite le virtù, io sono il vostro intercessore se ciò farete)… Sul retro del coperchio è dipinto su fondo rosso lo stemma dei Fernberger (…) nonché un’iscrizione circolare in lettere capitali:

HANS. FERNBERGER. VORI. AVR …” (cit. Leo Andergassen). Come è arrivato il reliquiario toscano a Castel Coira? Johann Fernberger von Au(e)r (Ora 1511– Vienna 1584) era un soldato al servizio dell’imperatore, attivo soprattutto sui campi di battaglia dell’Italia settentrionale, elevato al rango nobiliare dall’imperatore Carlo V nel 1545. A partire dal 1566 si distinse nella difesa della Slovenia e della Stiria dalla minaccia turca. A Graz, dove Fernberger fece ampliare la fortezza sul Burgberg, ottenne il dominio e Castel Eggenberg. Anche la famiglia Trapp, signori di Castel Coira dal 1537, è originaria della Stiria: il reliquiario del valoroso comandante è forse giunto in Alto Adige dall’Austria attraverso vincoli familiari?


…Capricornus, 6, habet praegrandis cornua; rupicapra, 7, minuta: quibus se ad ruprem suspendit. …Lo stambecco, 6, ha enormi corna; il camoscio, 7, ne ha piccole: con queste sta appeso alla rupe.

A CAVALLO IlCamoscio DELL’ ASINA JoHanneS aMoS CoMeniuS, orbis sensalium pictus (Mondo illustrato), ed. 1682 (= primo libro scolastico illustrato)

Una processione al Museo Civico? Idee e concetti per l’allestimento di un nuovo Museo Civico

giorni festivi che la Società del Museo ha raccolto, con notevole sforzo economico, soprattutto fra il 1884 e il 1895.

I musei espongono oggi i loro oggetti secondo criteri tematici, ossia si collegano i pezzi in mostra secondo un fil rouge anche quando questi sono di natura alquanto diversa fra loro.

L’altare è uno dei quattro “Altari dei Vangeli” della storica processione bolzanina del Corpus Domini. Non più utilizzato dal 1969, venne acquistato nel 1981 dalla Società del Museo per il Museo Civico. Viene ora esposto per la prima volta in modo permanente.

L’installazione che occupa l’intera sala vuole riproporre una processione festiva per la quale Bolzano era famosa nei secoli scorsi. Una serie di manichini a grandezza naturale nei costumi dei dintorni della città sembra camminare verso un altare da processione riccamente decorato. Le figure ed i loro vestiti fanno parte dell’importante collezione storica di abiti contadini dei

Assessorato alla Cultura e alla Convivenza Assessorat für Kultur und aktives Zusammenleben

Con questa installazione – presentata per la prima volta nel 2009–2010 in occasione della mostra “Conflitti e contrasti (1790–1830)” al pianoterra del Museo – la direzione ha dato la possibilità ai progettisti del nuovo Museo Civico, gli architetti Stefan Hitthaler di Brunico e Christian Schwienbacher di Bressanone, di sperimentare diverse modalità di esposizione di oggetti di non facile presentazione ancor prima che fossero concretamente avviati i piani dettagliati per un rinnovato museo. Già dal 2006 il Museo Civico ha proposto con successo al pubblico questo genere di “mostre di cantiere”: si ricorda, per esempio, l’esposizione di fotografie storiche “Obiettivo su Bolzano” che in pochi mesi è stata visitata da 11.000 persone. Mostra “Obiettivo su Bolzano. 100 anni di fotografia“ (novembre 2006–febbraio 2007) al Museo Civico

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a cavallo dell’asina … … per riscoprire il museo civico di bolzano © 2011 museo civico di bolzano testi: Stefan Demetz, Paola Hübler traduzioni: Silvia Spada Pintarelli, Giovanna tamassia, Stefan Demetz Foto: Museo Civico di Bolzano design: ganeshGraphics in collaborazione con la Società del Museo di Bolzano

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← rifulgere d’oro e d’argento per la gloria di dio — e per quella della famiglia Immagini e apparato decorativo di un altare da processione Tecniche e materiali misti Provenienza: Bolzano, famiglia Mumelter di via Portici Metà XVIII–inizio XX sec.

L’altare veniva in origine allestito annualmente dalla famiglia di commercianti bolzanini Mumelter davanti alla loro abitazione, situata in via Portici 22. Davanti al cosiddetto “altare Mumelter” sostavano le processioni, veniva cantato in latino l’inizio di uno dei Vangeli e si facevano le rogazioni. Nel 1968 entrambe le processioni del Corpus Domini che si tenevano a Bolzano furono completamente riformate e, di conseguenza, non si raggiungeva più via Portici passando da via Bottai: il sontuoso altare aveva così perso la sua funzione originaria e, nel 1981, venne ceduto alla Società del Museo per entrare a far parte delle collezioni del Museo Civico. Fonte diretta per il presente allestimento museale dell’altare Mumelter è una fotografia a colori della fine degli anni Cinquanta conservata al Museo Civico (Fondo fotografico, scatola 5, nr. 719). Allestito all’aperto davanti alla casa Mumelter, l’altare era all’epoca alto 5–6 metri: la minore altezza della sala in cui viene ora esposto (circa 3,50 m) ha impedito la ricostruzione del coronamento con l’immagine dell’Ultima cena. Non si è conservata nessuna parte del baldacchino originario, costituito da stoffa rossa tesa su una struttura metallica.

Il tema centrale dell’altare Mumelter è l’adorazione del Sacro Cuore di Gesù, particolarmente diffusa in Tirolo a partire dall’età barocca. L’immagine centrale di forma ovale in cui è raffigurato Cristo che mostra le stigmate e il cuore non è una copia della nota immagine devozionale del Duomo di Bolzano, bensì appartiene, con la veste blu, il mantello rosso e le braccia allargate, ad un altro tipo di raffigurazione. Al centro di due dei quattro grandi reliquiari è rappresentato, inoltre, un piccolo cuore rosso. L’insieme oggi visibile, composto da almeno 35 pezzi fra immagini, reliquiari, candelabri e vasi (senza paramenti e stoffe), è frutto anche di successive aggiunte apportate fra il 1800 e il 1900. Le parti più antiche e di maggior pregio risalgono ancora alla metà del XVIII secolo. Fra queste si segnala la parte inferiore con le Nozze di Cana, la cui preziosa cornice presenta il motivo decorativo a rosette tipico dell’arte orafa intorno al 1730–1750. Probabilmente si tratta di un pezzo tardobarocco proveniente dal patrimonio di una chiesa e messo in vendita dallo Stato in seguito alle soppressioni attuate sotto l’imperatore Giuseppe II fra il 1785 e il 1786 o durante l’età napoleonica (1806–1813). Secondo la tradizione, alcune parti dell’altare proverrebbero dall’antica cappella privata della famiglia Knoll e sarebbero giunte alla famiglia Mumelter in seguito al matrimonio di Elisabeth Knoll.

a) Sacro Cuore di Gesù Olio su tela, in una cornice metallica “giuseppina” (rame argentato e dorato, ante 1790) 41x34 cm, 1770–1780 ca.

c) Ultima Cena Olio su tela, 101x77 cm 1800 ca. (non esposta a causa dell’insufficiente altezza del soffitto della sala) d) 6 grandi Candelabri Rame argentato (?), altezza 80 cm Stile Impero, 1800 ca.

Costume femminile di Meltina

← l’identità e la tradizione

La collezione di costumi tradizionali

Costume femminile di Bolzano

Costume femminile di Guncina

Le feste religiose e i riti legati soprattutto al volgere delle stagioni, rappresentano un momento di aggregazione, di socializzazione e di proclamazione di valori collettivi, e costituiscono al contempo un’occasione di affermazione dei bisogni individuali attraverso la comunità. L’abito esibito riflette quindi sia i cambiamenti storico-culturali ed economici di un determinato luogo nel tempo, sia le aspirazioni sociali dell’individuo che variano secondo il ceto, il censo e l’età. Il momento di massima diffusione di quello che chiamiamo abito popolare o costume tradizionale si colloca tra il XVII e il XVIII secolo. Alla sua definizione concorrono fattori diversi quali l’evoluzione della moda nobile e borghese o la migrazione stagionale di alcune categorie di persone verso altre regioni. Vengono così favorite, in città e in alcune vallate, la penetrazione e l’assunzione di modelli nuovi.

Costume maschile della val Sarentino

Anche il fattore individuale poteva determinare un effetto emulatorio sulla comunità: come, ad esempio, la personalità in vista che introduce un accessorio alla moda, la sarta sensibile alle nuove tendenze che propone cambiamenti nella confezione dei vestiti o l’atteggiamento dell’autorità religiosa del luogo, ostile allo sfarzo eccessivo del costume. In questo modo vari fattori, anche casuali, vengono ad incidere sull’evoluzione dell’abito da festa e nel corso del tempo determinano una differenziazione geografica di cui la raccolta dei costumi del Museo è preziosa testimonianza. Essa fotografa un momento specifico: la prima metà del XIX secolo, quando indossare il costume nelle occasioni importanti della vita quotidiana era una cosa naturale. Pur nel ricco dispiego di colori e di tessuti, i costumi qui esposti presentano comunque molti elementi comuni.

e) 4 piccoli Candelabri Rame argentato (?), altezza 52 cm Stile Impero, 1800 ca. f) 4 grandi Reliquiari Legno con foglia d’argento parzialmente dorata Altezza 83 cm Stile tardo barocco, seconda metà XVIII sec. g) 4 Reliquiari Legno con foglia d’argento parzialmente dorata Altezza 59 cm Stile tardo barocco (successivamente modificati), seconda metà XVIII sec.–inizio XIX sec.

h) Ostensorio Argento, parzialmente dorato Altezza 47 cm Terzo quarto XVIII sec. i) 4 Vasi Argilla bianca smaltata in marrone Altezza 49 cm 1900 ca. (?) j) 4 Vasi Argilla bianca smaltata in marrone Altezza 40 cm 1900 ca. (?) k) 4 Vasi Argilla bianca smaltata in marrone Altezza 35 cm 1900 ca. (?) l) Piccola croce d’altare in metallo XIX sec. (non esposta per motivi di sicurezza)

DELL’ASINA Costume maschile di Meltina

b) Nozze di Cana Olio su rame, montato su foglia d’argento sbalzata 31x62 cm Pittura: metà/terzo quarto XVIII sec. (cornice 1730–1750 ca., probabilmente adattata successivamente)

Costume femminile della val Sarentino

Costume femminile del Renon

Solitamente il costume femminile si compone di camicia bianca di tela di lino con maniche arricciate sul girospalla e volant di merletto ai polsi. La gonna con una fitta pieghettatura intorno alla vita e un grosso cordolo sottostante è cucita al corpetto. Il corpetto con ampio scollo a “V” è allacciato sul davanti con nastri o cordelle e trattiene la pettorina di forma triangolare o rettangolare in tessuto solitamente pregiato. La giacca corta sagomata ha uno scollo quadrato sul quale risalta il fazzoletto da collo o il colletto in lino con merletto. Il grembiule è arricciato alla cintura, le calze bianche sagomate di cotone o lana sono lavorate a maglia rasata traforata, le scarpe basse in cuoio sono ravvivate da nastri. Completa il costume il cappello a tesa larga in feltro e fodera pieghettata. L’abito maschile si compone, come quello femminile, di cappello, giacca, camicia bianca, calze e scarpe. Sopra la camicia si

Costume femminile di Barbiano

Costume maschile della val d’Ega

porta il panciotto in lana o cotone o il gilet a chiusura anteriore in stoffa pregiata. I pantaloni corti al ginocchio di pelle scamosciata sono trattenuti in vita da larghe bretelle verdi. Già nella seconda metà dell’Ottocento si assiste ad un declino dell’uso del costume, soprattutto di quei costumi che non erano riusciti ad evolversi, ad adattarsi alla nuova moda. Pertanto indossare l’abito tradizionale diventa anacronistico, “fuori moda” come osserva, già nel 1884, la Società del Museo di Bolzano. Verso la fine del secolo cresce dunque la volontà di documentare un uso che stava lentamente ma inesorabilmente scomparendo. L’élite culturale di Bolzano, riunita nella Società del Museo, cercò pertanto di acquisire sul territorio i vecchi costumi tirolesi “die alten Tiroler Trachten”. Raccogliere i costumi appartenenti alle valli della regione fu, a partire dal 1884, il compito principale che la Società del

Costume femminile della val d’Ega

Museo si prefissò, concentrando molti dei suoi sforzi proprio nel reperimento di fondi per l’acquisto, cercando nel contempo di persuadere la popolazione a donare l’abito non più utilizzato prima che questo finisse dimenticato in qualche armadio e andasse quindi distrutto. Fintanto che il vestito da festa si è evoluto, è stato indossato, era vivo; nel momento il cui l’evoluzione si è fermata il vestito ha cessato di vivere e al posto suo si è canonizzato il costume popolare. I costumi del Museo Civico non sono quindi icone o a modelli statici e immutabili del vestire nelle vallate tirolesi, ma testimoniano un momento storico di una società in continuo cambiamento.

← il camoscio sulla cintura Cintura alta dell’abito tradizionale maschile Pelle con rachidi di penna di pavone, fibbia in metallo giallo, 103x11 cm Provenienza ignota Prima metà XIX sec.

L’alta cintura è un elemento fondamentale dell’abito tipico tirolese maschile. Fino al XVIII secolo le cinture erano decorate con fili o borchie in stagno o in metallo giallo ma, dal 1800, il ricamo con rachidi di penne va a sostituire i precedenti lavori in metallo. Incorniciati da ornamenti geometrici si trovano nomi, monogrammi e date, come anche motivi decorativi vegetali e animali, fra i quali leoni rampanti e, appunto, il camoscio, che simboleggiano o comunque evocano la forza e l’abilità venatoria di colui che indossava la cintura: notoriamente riemerge infatti nella storia della cultura la credenza secondo la quale questo accessorio sarebbe dotato di poteri magici.


Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”.

A CAVALLO DELL’ ASINA Vangelo di Matteo, 19,23-26

IlCammello La sala con le stufe Se la sala precedente doveva esplorare le possibilità di allestimento di oggetti di natura diversa da presentarsi secondo un criterio tematico attraverso il concetto ideato dagli architetti incaricati del progetto, questo ambiente è invece fondamentalmente rimasto, per quel che riguarda il tema, il contenuto e le modalità di esposizione (tranne che per il nuovo impianto di illuminazione), così come era stato concepito e allestito da Nicolò Rasmo in occasione dell’apertura del Museo Civico nell’autunno del 1952: lungo le pareti laterali si trovano sei antiche stufe di maiolica; nella vetrina centrale e nelle due vetrine addossate alle pareti è esposta la collezione di formelle da stufa che la Società del Museo ha iniziato a raccogliere dal 1900 e che viene da allora costantemente incrementata.

Assessorato alla Cultura e alla Convivenza Assessorat für Kultur und aktives Zusammenleben

Già nel percorso museale del 1905, ideato dall’allora direttore e pittore accademico Tony Grubhofer su incarico della Società del Museo, le antiche stufe giocavano un ruolo molto importante: ognuna delle quattro Stuben contadine ricostruite all’interno del museo prevedeva infatti la presenza di una stufa parzialmente o totalmente rivestita di formelle. Poiché in quell’allestimento grande importanza era data alle diverse epoche e alle diverse espressioni della tradizione abitativa in Alto Adige – e anche l’aspetto esterno del museo doveva rispecchiare la cultura edilizia storica del territorio – in molte delle sale pensate per riproporre gli antichi ambienti attraverso l’esposizione di pezzi originali così come di riproduzioni, si trovavano delle stufe: stufe originali, ma anche riprodotte nello stile più adatto.

sala_01 |

l’asina

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l’oca

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levriero

La luminosa sala al primo piano si trova nella parte centrale dell’edificio costruito fra il 1902 e il 1905. Originariamente questa non era stata concepita solamente come spazio espositivo, bensì vi si tenevano anche conferenze e concerti di musica da camera. Fino alla grande ristrutturazione degli anni Trenta era suddivisa in due piani, con una galleria sorretta da colonne a formare il secondo piano e un alto lucernario che giungeva fino al tetto. Le grandi colonne dipinte si trovano oggi a Castel Vanga – Bellermont.

sala_04 | il

drago

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il camoscio

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cammello

a cavallo dell’asina … … per riscoprire il museo civico di bolzano © 2011 museo civico di bolzano testi: Stefan Demetz traduzioni: Silvia Spada Pintarelli, Giovanna tamassia foto: Museo Civico di Bolzano design: ganeshGraphics in collaborazione con la Società del Museo di Bolzano


← vivere al caldo e senza fumo: stufe con formelle e formelle da stufa.

Già anticamente gli uomini erano riusciti a costruire, per gli ambienti di abitazione, focolari aperti dotati di canna fumaria, ma solo a partire dall’antichità classica si riuscì a metter a punto l’arte di riscaldare tali ambienti senza far fumo, inserendo negli edifici il riscaldamento ad aria calda, il cosiddetto ipocausto. Le stufe in muratura, coperte in tutto o in parte, da formelle (olle) invetriate, sono conosciute nell’Europa centrale e nelle Alpi solo a partire dal Medioevo, mentre non si trovano in Pianura Padana e nelle restanti zone d’Italia, dove invece era diffuso il camino aperto. Rispetto a quest’ultimo, però, le stufe presentano il grande vantaggio di poter essere caricate anche dall’esterno della stanza in cui si trovano. In questo modo l’ambiente riscaldato rimane completamente privo di fumo anche in caso di cattivo tempo. Una stufa correttamente funzionante è strutturata all’interno in modo complesso: ha una camera di combustione, serpentine per i bollenti giri di fumo e materiale refrattario che permette la conservazione del calore per molte ore dopo il caricamento. Anche le formelle in ceramica invetriata

del rivestimento esterno permettono la conservazione e l’irraggiamento del calore nell’ambiente. In Alto Adige, che, con il Trentino, è la zona di diffusione più a sud per stufe di questo tipo, questo artigianato è documentato già dal Medioevo attraverso ritrovamenti archeologici avvenuti in corso di scavo in città e nei castelli. Chi produceva vasellame, stoviglie per la tavola e per la cucina, creava parimenti le olle per le stufe, cosa ben documentata, a partire dal Cinquecento, soprattutto in città come Bolzano, Merano e Bressanone dove lo smercio del prodotto era assicurato. A Bolzano è documentato già nel 1242 un vasaio Ulricus Vogelus e, in altro contesto, è ricordata una “casa con stufa”. A Bressanone è ancora oggi attestato il toponimo “Kachlerau” (da Ofen-Kachel = olla da stufa) mentre nel Castello principesco di Merano si può ammirare la più antica stufa ad olle a torretta, totalmente originale e risalente al 1466 circa. È raro che le stufe storiche a formelle si siano conservate nella loro interezza. Il più delle volte, infatti, venivano regolarmente smontate e sostituite: nel caso, ad esempio,

che scaldassero troppo o male – potevano anche esplodere – oppure dopo qualche decennio di uso intensivo, si bruciavano all’interno, divenendo così inutilizzabili. Nello smontarle era facile che le formelle si crepassero e non potessero essere riutilizzate. Così si spiega perchè le stufe esposte in questa sala sono in parte integrate oppure alcune formelle recano decori differenti. Le stufe del Museo Civico non sono più funzionanti, infatti non hanno la parte interna in quanto esposte per fini puramente museali; manca anche lo sportello di caricamento. Come omaggio per la grande importanza che la stufa aveva rivestito un tempo nella cultura abitativa locale, la Società del Museo, oltre alle stufe, raccolse anche un’importante collezione di formelle singole, in gran parte precedenti alla Prima Guerra Mondiale quando le stufe in ghisa di produzione industriale e, successivamente, il riscaldamento centrale a carbone e ad olio, portarono alla rimozione delle antiche stufe a formelle dai salotti e dalle camere da letto.

A CAVALLO DELL’ASINA Stufa a formelle Maiolica (e stucco?) invetriata 350x143x130 cm Provenienza: ambito bolzanino Secondo quarto/metà XVIII secolo

Stufa a formelle Maiolica dipinta 280x125x110 cm Provenienza: ambito bolzanino Terzo quarto XVIII secolo

Stufa a formelle Maiolica invetriata 275 x135x115 cm Provenienza: ambito bolzanino 1775

Stufa a formelle Maiolica invetriata 235x140x115 cm Provenienza: ambito bolzanino 1773

Stufa a formelle Maiolica invetriata 170x 110x95 cm Provenienza: ambito val di Non Seconda metà XVIII secolo

Grande stufa bianca a formelle con ornamenti rococò. Gli ornamenti venivano spesso eseguiti da stuccatori. Una stufa di forma assai simile si trova tuttora alla residenza Weggenstein, un’altra, ma con alcune parti dorate, si trova nel Palazzo Mercantile di Bolzano (Sala del cancelliere).

Importante stufa con dipinti blu di grande qualità, raffiguranti scene del Nuovo Testamento. La formella con motivo a graticcio di rose (1730–1750), situata sul retro nella parte destra, proviene da un’altra stufa.

Stufa rococò con molte vedute di fantasia, di ispirazione fiamminga. Lo stemma di alleanza delle famiglie Graf(f) e Menz e la data 1775 si riferiscono, con ogni probabilità, al fatto che la stufa fu commissionata ed eseguita in occasione delle nozze tra due membri di queste importanti famiglie mercantili di Bolzano.

La stufa è caratterizzata da grandi formelle, vivacemente dipinte con paesaggi fantastici. La forma è tipicamente tardobarocca; la pittura, invece, non è così accurata come ci si aspetterebbe per un oggetto di lusso.

Piccola stufa a formelle con grande copertura semicircolare. Le formelle ad ornamenti floreali blu su bianco sono tipiche della produzione ceramica di Sfruz nella val di Non, della seconda metà del Settecento. Le stufe di Sfruz avevano costi contenuti e pertanto, nel Settecento e agli inizi dell’Ottocento, trovano ampia ed incontrastata diffusione in val d’Adige, da Merano fino a Salorno.

Stufa a formelle Maiolica invetriata 175x124x95 cm Provenienza: ignota 1780–1800 ca.

Questa stufa, a grandi formelle, reca uno stemma non identificato ed è in stile “giuseppino”, così chiamato dell’imperatore Giuseppe II che regnò dal 1780 al 1790. Sia la colorazione che il tipo di decoro sono inusuali in ambiente bolzanino.


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