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Incursioni

CENTOVENTICINQUE. IL NUMERO DELLA FELICITÀ

Anche chi non ama in modo particolare la moto, grazie a questo ricordo dell’autore, proverà la passione, la voglia di vivere e il senso di onnipotenza di un sedicenne che raggiunge il suo sogno

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Di Marco Vittorio Ranzoni – giornalista

Tema complicato, la felicità. Credo non basti una vita per capire davvero che cosa sia e se, quando e per quanto tempo ci abbia mai davvero raggiunto.

Di certo nessuno ha stabilito che siamo al mondo per essere felici e le immagini che da sempre ci raggiungono da ogni angolo del pianeta ce lo ricordano ogni giorno. Del resto, la felicità di qualcuno non fa notizia, non interessa. Quindi è meglio che ciascuno si concentri e provi a pensare a quel qualcosa che gli ha fatto provare quella sensazione impagabile tanto da scavare un ricordo che si fissa in un angolino del cervello. Sono tanti? Pochi? Ognuno ne farà un bilancio personalissimo: dipende anche da come si affrontano e si vedono le cose della vita, piccole o grandi che siano.

Tra i miei tanti ce n’è uno nascosto , insignificante di fronte a fatti ben più rilevanti, ma dato che mi è venuto in mente subito, lo scarico senza indugi.

Sarà un racconto terra-terra, niente filosofia, solo semplicità e animo del fanciullo. Qualcuno che condivide certe passioni magari lo apprezzerà, molti altri probabilmente no.

Allora non la condivisi con nessuno questa emozione, me ne accorgo solo adesso. Ripeto, è una sciocchezza, eppure è un ricordo così vivo, a distanza di cinquant’anni, di una felicità solo mia , mai raccontata ad anima viva. Chissà perché.

A sedici anni, un ragazzo come me, senza particolari grilli né problemi, aveva un chiodo fisso. No, no, quello è venuto dopo, ora voglio dire la moto.

Le regole di ingaggio, inserite nella routine casa-scuola erano quasi banali: a quattordici anni il cinquantino da cross, botta di vita, iniezione di autostima, prima responsabilità e primo vero strattone al cordone ombelicale; un passaporto indispensabile per far parte del gruppo e libertà di muoversi quasi a piacimento. Ma - i ragazzi sono sempre stati ingordi - se appena se ne intravedeva la possibilità, si stava tesi come belve ad aspettare quel compleanno delle sedici primavere perché lì c’era lo strappo definitivo. Il prima e il dopo. E quindi avevo appunto sedici anni, la patente A che mi bruciava in tasca e mio padre che non so come, non avevo successi scolastici da esibire e non ero neanche troppo petulante, acconsentì a farmi sostituire il motorino con una moto vera. La centoventicinque . E’ solo un numero, ma cambia tutta la prospettiva: va a più di cento all’ora, ha la targa e puoi portare un passeggero. Vai in capo al mondo, se vuoi .

Beh, la farò breve, perché non voglio parlare del lungo periodo di felice tensione iniziato col sì di mio papà e culminato col mio sedere sul sellino, ma concentrarmi su un momento preciso, solo due ore, per la precisione.

La moto in questione la vendeva Giorgio, un amico di famiglia e si trovava in un box a Lanzo d’Intelvi. Era primavera inoltrata e un mattino andammo a prenderla.

Sollevata la saracinesca la vidi: mi sembrò enorme. L’amico armeggiò e scalciò sulla pedivella finché si accese. E quel rumore sordo, possente, così diverso dal suono argentino del mio motorino mi diede il capogiro . Vabbè, lo so che fa ridere, era una Gilera 125 5V del 1968, mica una moto da gran premio, ma allora è inutile che ve lo racconti, se fate così.

Torniamo alla felicità, che è meglio: no, non era esplosa, non ancora, adesso era un misto di eccitazione e di paura e poi c’era lì mio padre, l’amico…dovevo fingere dignità; parlavano, ma io non li ascoltavo.

La moto era sul cavalletto, borbottava al minimo: ci salii come si scala una montagna amica, ma si sa pericolosa. Era tutto diverso, più grande, più morbido, più non lo so. La pedivella del cambio sulla destra e l’innesto della prima verso l’alto (al contrario del 90% delle moto, ma la scuola italiana allora voleva così) furono scogli superati all’istante; a sedici anni si è molto svegli

Ricordo poi la fretta, la frenesia quasi al limite della scortesia: padre, ti saluto, non starmi dietro che mi metti l’ansia, né davanti, che vai fuori strada tu sui tornanti della Sighignola.

Breve battibecco, ma ci accordiamo: lasciami, ci vediamo a Milano. Vai piano.

Ed è qui che inizia la famosa parentesi di due ore di felicità . Dieci minuti guardinghi, la strada è brutta, sono in seconda in discesa e va già più forte del mio motorino. Ha cinque marce, se tanto mi dà tanto mi strapperà le braccia, in rettilineo. Finalmente un falsopiano: terza, quarta. No, non è possibile, non finisce mai, va come un treno e lo sto guidando io, il treno.

La strada vola sotto di me, c’è poco traffico, azzardo un sorpasso, uno di quelli che col vecchio motorino sarebbe stato una lunghissima sequenza di speriamo-non-arrivi-nessuno-di-fronte-che-mi-pareva-andasse-più-piano e invece ora è solo un piccolo angolo di polso sulla manopola e sfilo via in un attimo. E i freni, i freni sono incredibili (adesso, con quei due minuscoli freni a tamburo mi verrebbe l’infarto ogni secondo, abituato a quelli moderni a doppio disco), sono in sella da mezz’ora e già la sento fatta su misura. Un guizzo di lucidità mi riporta alle ultime parole sentite a Lanzo: “Fai benzina, che è quasi a secco”. Ecco un distributore. Mi fermo lentamente, con mestiere, come Steve Mc Queen; tolgo i guanti adagio, ma resto sulla moto perché ho paura di non riuscire a metterla sul cavalletto e oggi di figuracce non se ne possono fare. Il pieno. Pago come paga un uomo, saluto e via.

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